ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo quattro
Il diritto speciale dello straniero

Giulia Fabini, 2011

Rispetto all'irrazionale paura collettiva, nulla ha maggiore capacità di aggregazione (a buon mercato; e con il rischio di un populismo a sua volta aggregante) della minaccia di repressione penale: una risposta esemplare (tolleranza zero e risposte forti); simbolica (le leggi manifesto anche prescindendo dalla verifica dell'esistente normativo, magari mai attuato); emotiva (la repressione proclamata al di là e indipendentemente da ogni effettività di tutela). Fino ad arrivare ad elaborare un «diritto penale del nemico» che sostituisce il suo oggetto; quest'ultimo, in realtà, non è più il nemico, ma è l'emarginato sociale, l'escluso, lo straniero, il non cittadino in quanto tale, secondo categorie antropologiche che - eccentriche rispetto alla finalità (il "nemico", appunto) - risultano assai utili per esportare il conflitto sociale, individuando un soggetto esterno e così sublimando paura ed insicurezza sociale. (G.M. Flick, 2008, p. 263)

Introduzione

In questo capitolo riproporrò il concetto di diritto penale del nemico, chiedendomi se possa essere utilizzato come chiave di lettura della legislazione sull'immigrazione attualmente vigente in Italia. Stando a quanto ne scrivono Ferrajoli e Dal Lago, e come già avevo scritto nel secondo capitolo, il diritto penale del nemico avrebbe la capacità di corrompere facilmente l'immaginario del sistema penale, in quanto detiene un'estrema agilità nell'abbandonare le speculazioni accademiche per infiltrarsi di fatto nelle legislazioni reali degli stati esistenti. Sono alcuni i tratti di questa particolare concettualizzazione teorica che si possono rintracciare nella legislazione italiana dell'immigrazione: proprio come il diritto penale del nemico, tale legislazione costituisce a mio parere, ma anche secondo l'opinione di alcuni autorevoli giuristi quali Pepino e Caputo (i cui articoli tratto nel corso del capitolo), un binario parallelo al diritto ordinario, un binario innanzitutto rivolto ad una specifica categoria di soggetti - i nemici - e caratterizzato da una certa deprivazione dei diritti. Un binario che, in secondo luogo, viene da sempre presentato e percepito in Italia come una sorta di eccezione al diritto ordinario emanato in una situazione d'emergenza. Quest'eccezione però, proprio come il diritto penale del nemico, è comunque diritto. In terzo luogo, la legislazione sull'immigrazione, almeno in alcune sue parti (a mio parere in quelle più afflittive rispetto alla vita del migrante), si presta benissimo, proprio come il diritto penale del nemico, ad un utilizzo simbolico, inteso come strumento estremamente utile ad ottenere consenso elettorale e ad attuare politiche che poi si rivelano altamente lesive dei diritti di tutti, in nome della prerogativa di una indefinita sicurezza.

Che la legislazione sull'immigrazione in Italia assuma molti tratti caratteristici del diritto penale del nemico è reso possibile anche da certe caratteristiche insite nel diritto penale italiano, pre-esistenti all'elaborazione della legislazione sull'immigrazione. In esso infatti da un lato si rintracciano già da tempo, già nell'ordinamento del regno sabaudo, istituti di diritto differenziato previsto per certe categorie di persone, quali vagabondi, mendicanti, poveri e zingari, dall'altro, a partire dal fenomeno del brigantaggio si riscontra la tendenza del sistema penale a rispondere con leggi eccezionali (che poi con il tempo diventano ordinarie) a fenomeni considerati emergenze. Inoltre, il sistema penale italiano prevede un'altra peculiarità, ovvero l'utilizzo accanto al diritto penale di un diritto "penal-poliziesco", ideato in periodo liberale e pensato come metodo per superare un certo garantismo presente in costituzione e al livello del diritto. La legislazione sull'immigrazione ha trovato in queste peculiarità del diritto italiano un terreno fertile per esprimersi come diritto penale del nemico. Il modo in cui in Italia dunque si decide di affrontare il fenomeno dell'immigrazione trova una solida base nella storia di questo paese.

In questo capitolo quindi tracceremo innanzitutto una storia di queste peculiarità del diritto penale italiano, che ci permetta di contestualizzare il nostro ragionamento con sempre maggiore precisione nel contesto di questo paese.. Dopodiché passeremo ad analizzare il pensiero di due autori in particolare, Pepino e Caputo, che parlano di diritto speciale dello straniero in relazione al diritto dell'immigrazione oggi vigente.

1. Ieri ...

1.1. Le misure preventive in Italia all'origine: il Regno Sabaudo

La storia del sistema di prevenzione in Italia parte da lontano. In un bell'articolo (1) Davide Petrini rintraccia l'antica presenza, nell'ordinamento della penisola, di provvedimenti contro gli zingari (ma anche gli oziosi e i vagabondi) nel regno Sabaudo che fornirebbero una solida base al successivo sviluppo di un sistema preventivo personale, tutt'oggi presente nelle logiche del sistema penale. La legislazione dello stato sabaudo è particolarmente interessante perché, come scrive Petrini, costituisce "l'ossatura sulla quale si modellerà il primo codice penale esteso a tutto il regno d'Italia dopo l'Unità" ed in esso è facile individuare "il tratto iniziale del processo di incubazione del sistema preventivo liberale" (Petrini, 1997, p.897).

Un'analisi approfondita della legislazione nel regno sabaudo ci è fornita da un articolo di Massimo Pastore, pubblicato nel 1988 (2), in cui l'autore ripercorre le disposizioni emanate nei territori sabaudi dal 1567 fino al 1770 concernente le categorie di oziosi, vagabondi e "zingari". Spiega Petrini che esse sono conseguenza del mutato atteggiamento della Chiesa nei confronti del pauperismo e dell'elemosina: proprio come è avvenuto in Inghilterra a cavallo tra il XII e il XIV secolo, tali condizioni iniziano a venire severamente punite.

La prima disposizione, risalente al 1567, istituisce la vigilanza sugli stranieri e sui vagabondi e prevede "l'espulsione di quanti non si [trovino] nei territori per legittima cagione". In disposizioni successive, rispettivamente nel 1586, nel 1596 e nel 1597, viene riproposta l'espulsione di "tutti i vagabondi", poi delle "persone oziose e sospette di furto", infine degli "abitanti e forestieri che non hanno reddito o professioni certe, salvo che si arruolino". La pena si è nel frattempo fatta più severa, passando dalla pena corporale alla galera (galera perpetua a partire dal 1586).

Le disposizioni emanate tra il 1601 e il 1667 sono per lo più rivolte alla categoria degli "Zingari". Vagabondi e zingari sembrano essere tipologie di autori interscambiabili nel Regno Sabaudo (3). L'indefinitezza della descrizione tipologica della figura del vagabondo, dell'ozioso, o dello zingaro, non è un particolare irrilevante poiché consente l'applicazione dei provvedimenti ad un maggior numero di soggetti, secondo le decisioni assolutamente discrezionali degli operatori del diritto.

In ogni caso, che si rivolgano più precisamente alla categoria degli Zingari, o più generalmente a quella dei vagabondi e degli oziosi, sta di fatto che dal 1567 al 1770, nello Stato Sabaudo è un fiorire di provvedimenti atti a perseguire tutti quei personaggi che si teme possano mettere in pericolo l'ordine dello Stato poiché, a causa del loro stato di indigenza, vengono percepiti come soggetti pericolosi e portatori di disordine.

Secondo l'analisi che Petrini fa di questi stessi provvedimenti, in essi si rintraccerebbe il tratto iniziale del processo di incubazione del sistema preventivo personale. In tutti gli atti legislativi sabaudi, emanati dal 1567 al 1720, oziosità, vagabondaggio e mendicità sono delitti costruiti come status soggettivi sanzionati con le misure preventive personali, ovvero il bando o l'espulsione. Nel 1723, invece, le Disposizioni delle Reali Costituzioni di Vittorio Amedeo trasformano tali delitti in circostanza aggravante nel caso di commissione di altri delitti.

Da qui in poi, spiega Petrini, i successivi provvedimenti non fanno che aumentare la severità delle pene ed estendere le tipologie di sospetti (non più solo oziosi, vagabondi e zingari, ma anche frequentatori di giochi, osterie e bettole). Ecco allora che:

quelle che per due secoli sono state ipotesi di pericolosità soggettiva, affrontate con strumenti preventivi personali o patrimoniali, divengono fattispecie incriminatrici; compaiono le prime pene detentive per i «nuovi» delitti che continuano a trovare in uno status personale o addirittura razziale la propria ragion d'essere. (Petrini, 1998, p.897)

Questa svolta è dovuta ad un'altra ragione messa ben in risalto da Massimo Pastore: il cambiamento della legislazione sarebbe infatti semplicemente la risposta alle esigenze dell'epoca. Nei secoli precedenti, infatti, Zingari, oziosi e vagabondi vengono espulsi per impedir loro di nuocere al consolidamento del nuovo ordine. Tra il XVIII e il XIX secolo invece, le esigenze mutano, e con queste mutano anche le politiche e le immagini che lo stato sabaudo propone di quelle categorie di soggetti. In questo periodo si afferma, infatti, la struttura socio-economica del capitalismo e diventa fondamentale che ognuno sia disciplinato al lavoro - ecco allora l'internamento nelle case di lavoro, negli ospedali e nelle prigioni (4). Allo stesso tempo si fa necessario limitare gli spostamenti e sorvegliare delle precise categorie di soggetti, ragion per cui vengono istituite nuove misure amministrative, quali l'obbligo di fissarsi su un territorio con documenti di domicilio e di residenza o l'imposizione di permessi per lasciare il proprio Comune.

Ciò a cui si assiste, in questa prima fase dell'instaurazione del sistema capitalistico è, citando Pastore, il "passaggio dall'Esclusione alla Reclusione" (Pastore, 1988b): non si vuole più cacciare il vagabondo o escluderlo, lo si vuole piuttosto disciplinare. E se non si riesce a disciplinarlo attraverso la coazione al lavoro nelle case di lavoro, lo si vuole punire per il suo modo di vivere, considerato di per sé criminale.

Di questo parere sembra essere anche Giuseppe Campesi (5). Campesi ritiene che gli atteggiamenti verso il mondo della povertà e dell'emarginazione inizino a mutare, in Italia, a partire dalla fine del XVIII secolo, quando si comincia ad accettare che il pauperismo sia divenuto oramai un fenomeno che non si può debellare completamente e disciplinare attraverso la reclusione nelle case di lavoro e la coazione al lavoro, ma che si può tuttavia tentare di controllare e mantenere entro certi limiti. Alla coazione al lavoro si inizia a preferire la punizione dello stato d'indigenza. Tale scivolamento si deve anche ad un cambiamento culturale, ad un mutamento della lettura dell'indigenza: esso è, ora, il risultato ultimo di un certo grado di dissoluzione morale, di cui il soggetto povero è l'unico responsabile.

Con l'unità d'Italia le cose non cambiano. Nel codice del 1859, ovvero il codice sardo-piemontese che verrà poi esteso allo stato unitario (6), rimanendo in vigore fino all'emanazione, nel 1889, del codice Zanardelli, le norme in materia di oziosi e vagabondi sono ancora costituite come fattispecie di reato.

La creazione di status giuridici differenziati compare per la prima volta in Inghilterra, con l'emanazione, alla fine del XIV secolo, della "Vagrant law" (7), una legislazione rivolta in via esclusiva alle categorie di oziosi e vagabondi, la quale legittimava il fatto di perseguire penalmente delle persone in ragione, appunto, di uno status soggettivo. Lo stesso fenomeno non mancò di farsi spazio anche in Italia, presente a partire da alcuni provvedimenti del regno Sabaudo contro "oziosi, vagabondi e Zingari": è per certi versi sorprendente accorgersi di quanto il sistema di prevenzione personale sia radicata nella nostra legislazione, all'interno della quale tuttora sopravvive in una forma del tutto peculiare. Proprio questo è ciò che si proverà a comprendere e ricostruire attraverso degli articoli che trattano l'argomento da più prospettive.

Tutti gli autori presi in analisi rintracciano "la presenza costante, nel sistema giuridico italiano, di misure personali praeter delictum, basate sulla pericolosità del soggetto e applicate (spesso dall'autorità di polizia) sulla base del mero sospetto" (D. Petrini, 1988, p.892), circostanza che consente di mettere in evidenza "una sorta di continuità nell'ordinamento giuridico italiano, che attraversa senza grossi cambiamenti l'Italia preunitaria, lo stato liberale, la degenerazione autoritaria e la democrazia" (Pavarini, 1975). Che il sistema di prevenzione personale si sia da tempo infiltrato nella cultura giuridica italiana, andando a costituirne uno dei "caratteri originari e tratti permanenti" (Sbriccoli, 1998), è l'opinione condivisa. Come condivisa è anche l'idea che sia necessario condurre un'analisi storica delle modalità attraverso le quali si è venuta sviluppando la "repressione-prevenzione del tipo dell'ozioso e vagabondo" (Pavarini, 1975), dal momento che tale categoria soggettiva rappresenterebbe la prima tipizzazione riscontrabile tra le misure di prevenzione, mentre tutte le tipizzazioni successive non sarebbero nient'altro che specificazioni successive di "una nota comportamentale originariamente attribuita all'ozioso e vagabondo, ed assunta poi come nota tipicizzante una autonoma figura" (Pavarini, 1975, p.403).

In definitiva, appare a tutti evidente che l'ordinamento giuridico italiano contenga al suo interno un sistema di prevenzione personale che "talora rimane quiescente per anni, pronto a ritornare in auge, sotto la spinta di emergenze criminali o politiche (spesso più presunte che reali), offrendo un utilissimo strumento di emarginazione delle forme di devianza più temute o di repressione mascherata e meno garantita del dissenso o dell'opposizione politica" (D. Petrini, 1998). Da sempre dunque sarebbe in corso una lotta contro il socialmente pericoloso, ovverosia il nemico di classe: la finalità reale di questa lotta, condotta al riparo del diritto (Foucault, 1998) sarebbe, in definitiva, allora e sempre, la difesa sociale dei privilegi di classe.

1.2. La legge Pica e la legislazione d'emergenza

Al fine di comprendere a fondo la persistenza, all'interno del nostro sistema penale, della legittimità accordata a politiche criminali che si basano su l'eccezionalità di certe situazioni, non si può non prendere in considerazione la Legge Pica del 1863. Per intendersi, con "legge Pica" si fa riferimento ai provvedimenti eccezionali emanati in risposta all'emergere, nelle province meridionali, all'indomani dell'unità, della rivolta sociale a cui venne dato il nome di "brigantaggio".

Il brigantaggio rappresenta la prima emergenza che l'Italia unita si trova ad affrontare e che, con le torsioni del diritto che la caratterizzano, segna in maniera pesante l'ordinamento italiano successivo. Scrive Campesi che "il contorno di leggi eccezionali" che la Legge Pica ha recato con sé "avrebbe caratterizzato in maniera indelebile il nostro ordinamento, inaugurando quella deleteria tradizione che vede il nostro sistema penale trarre i suoi caratteri più peculiari da eccezionali esperienze istituzionali" (Campesi (8), p.5). Ad esempio con la legge Pica viene introdotto il domicilio coatto per i soli sospetti di brigantaggio, istituto che ha resistito per lungo tempo all'interno del nostro ordinamento, seppur sotto la veste del confino di polizia o del soggiorno obbligato. A dimostrazione del fatto che alcuni istituti eccezionali pensati in relazione a situazioni d'emergenza poi siano diventati parte del nostro ordinamento, si guardi al domicilio coatto: questo si rivela a tal punto efficace, durante "l'emergenza brigantaggio", da venire introdotto, con il provvedimento in materia di pubblica sicurezza del 1865, tra le misure ordinarie di polizia e riproposto in seguito per reagire ad altre "emergenze" e a categorie di persone diverse dai briganti.

Un articolo di Mario Sbriccoli, "Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano (1860-1900)", si rivela interessante per approfondire la tematica.

Sbriccoli svolge un'analisi volta ad individuare i tratti di continuità interni al sistema penale italiano ed individua la presenza, sin dalle origini dello stato unitario, di una legislazione eccezionale caratterizzata da "prassi e principi che si installarono permanentemente nell'ordinamento penale, con il fine di prevenire l'ordinario e fronteggiare l'emergente" (Sbriccoli, 1998, p.488).

Anch'egli considera la Legge Pica del 1863 la prima manifestazione di questa legislazione eccezionale, poiché è stata, a suo parere, la prima ad introdurre alcuni istituti e diversi principi che sono poi entrati strutturalmente a far parte del sistema penale italiano. Per reagire alla rivolta, infatti, la legge Pica dispone l'attribuzione ai tribunali di guerra del compito di applicare le norme penali straordinarie, tra le quali la morte per i "briganti" colti con le armi in pugno, oppure sancisce l'attribuzione, per non più di un anno, del domicilio coatto agli oziosi, vagabondi, sospetti, camorristi e manutengoli. Questi provvedimenti, quindi, legittimano "le forze dell'ordine" a reprimere persone che reputano essere possibili briganti sulla base di un mero sospetto. Anche allora, il diritto alla sicurezza veniva preferito alla sicurezza dei diritti.

La legislazione d'emergenza introduce dei principi nuovi nell'ordinamento, tra cui:

il principio stesso della legge d'eccezione che, in ragione di un sopraggiunto stato di necessità e di pericolo - poco importa che sia reale o creduto, e sia pure per un tempo determinato, consente di stravolgere scale penali, aggravare procedure, sospendere o comprimere garanzie, varcando i limiti della legalità costituzionale. (Petrini, 1998, p.489)

Questo paradossalmente accade anche come conseguenza del fenomeno tutto italiano per cui le leggi eccezionali, magari introdotte in via provvisoria, poiché solo nel loro essere provvisorie trovano l'iniziale giustificazione alla propria esistenza, vengono prorogate finché non risolvono il problema per cui erano state ideate. Si tratta, secondo Sbriccoli, del "paradosso del fallimento della legislazione d'emergenza", in base al quale lo scacco delle leggi d'eccezione fungerebbe da giustificazione della loro conferma; poco importa che esse non costituiscono un'efficace soluzione al problema per cui vengono pensate: le si mantiene comunque in vigore aspettando che inizino a funzionare.

Le radici del sistema repressivo e preventivo affondano in un passato quanto mai vicino, fatto di giurisdizione militare, domicilio coatto, proclamazione dello stato d'assedio: misure che sono divenute pilastri in virtù della loro prontezza ad uniformarsi alle esigenze del governo, e per l'efficacia dovuta alla velocità della loro applicazione (Petrini, 1998). In effetti, gli strumenti preventivi introdotto nell'ordinamento con la legge Pica, sono stati ben presto riutilizzati per reagire ad altre emergenze. Ad esempio nel 1866, quando poteri eccezionali sono stati attribuiti al governo in vista della guerra contro l'Austria, e nel 1894, per la repressione dei Fasci siciliani, e anche nella legislazione contro gli anarchici. Scrive Petrini:

in prospettiva storica si è venuto a creare una sorta di sistema a fisarmonica che, mantenendo ferma la possibilità di ricorrere al domicilio coatto per oziosi e vagabondi, si allarga a seconda delle emergenze politiche e sociali (...) In altre parole, quando le emergenze sociali e politiche lo hanno richiesto, si è messa in opera una inquietante identificazione tra pregiudicati, delinquenti comuni e sovversivi, che ha potuto sfruttare la permanenza, nell'ordinamento giuridico, di un complesso sistema di prevenzione personale. (Petrini, 1998, p.904-5)

Ed è esattamente questo il senso dell'importanza della Legge Pica all'interno del sistema a fisarmonica caratteristico del complesso delle misure di politica criminale adottate in Italia, dall'unità ad oggi.

Chiamare in causa la legge Pica è fondamentale perché, come si è detto, introduce all'interno della legislazione unitaria nuovi principi e nuovi istituti che non hanno fatto altro che rafforzare la già pre-esistente tendenza al controllo preventivo attuato su particolari categorie di persone, arricchendolo di nuove fonti di legittimazione e nuovi strumenti.

1.3. Oziosi e vagabondi: ci pensa la Normativa di Pubblica Sicurezza

Significativo è ciò che succede con l'entrata in vigore del codice Zanardelli.

Le figure dell'ozioso e del vagabondo, intese quali tipologie di reato, compaiono ancore nel codice del 1859, per poi venire eliminate nella codificazione liberale, cioè nel codice Zanardelli del 1889. Questo infatti è espressione della scuola Classica e in esso la disciplina che regola la condizione dei mendicanti verrà affinata per non entrare in contrasto con il principio di legalità, che della Scuola Classica sarebbe principio centrale. Dunque, mentre il codice Zanardelli modifica il precedente in senso garantista (la pena di morte è abolita, viene sancito il principio di stretta legalità, espugnata dal codice la fattispecie di sospetto, posta l'imputabilità a fondamento della punibilità), la fattispecie di sospetto e di status, benché eliminate dal codice penale, non spariscono dal sistema nel suo complesso ma vengono semplicemente relegate ai "piani bassi, dove non albergano le garanzie ordinarie ed il controllo sociale si svolge per mezzo dell'agire amministrativo" (Campesi, 2003). Esse vanno cioè ad arricchire le leggi di Pubblica Sicurezza.

Bisogna quindi parlare del sistema di controllo nei confronti di certe categorie di persone nell'Italia del XIX secolo in termini di poteri di polizia. In effetti l'ozioso e il vagabondo rappresentano la prima figura soggettiva del diritto di polizia dell'Italia moderna. Le leggi di Pubblica Sicurezza regolano "un nuovo ambito operativo - le misure di polizia - libero dalle pastoie dei principi di garanzia e di libertà del cittadino, che consentisse di controllare e di reprimere con efficacia non minore le più diffuse - e quindi temute - forme di marginalità ed esclusione sociale, nonché di opposizione politica" (ivi). E' un lungo processo quello che contraddistingue il regime di controllo delle figure dell'ozioso e del vagabondo, che ha inizio dal XVI secolo, nel corso del quale figure soggettive vengono trasformate proprie fattispecie di reato: reati di status che resisteranno al trapasso fra vecchi e nuovi ordinamenti giuridici.

Si focalizzi quindi l'attenzione sui provvedimenti di Pubblica Sicurezza durante la codificazione liberale. Già prima di allora un provvedimento provvisorio del 1852 in materia di Pubblica Sicurezza era intervenuto a limitare, in via preventivo-amministrativa, le libertà di oziosi e vagabondi in quanto soggetti non ritenuti meritevoli di riguardi garantistici. Questo perché, riportando un discorso dell'allora ministro Galgagno, "l'ozioso e il vagabondo possono considerarsi in permanente reato, frodano la società della parte che da ogni cittadino le si deve, e non si può concepire come possano, privi quali sono di mezzi, esistere senza supporre una continua sequela di truffe, di ladronecci e simili (...) se propongo una misura eccezionale è perché qui si tratta di un delitto eccezionale" (Campesi, 2003).

Ancora più importante si rivela però la legge Rattazzi del 1859, in quanto, dopo essere stata estesa a tutta l'Italia nel 1865, diverrà la prima normativa di Pubblica Sicurezza dell'Italia unita. Ciò che interessa sottolineare di questa normativa è la specificazione, in termine più spiccatamente criminali, dei destinatari delle tecnologie di sicurezza. Si guardi alla misura dell'ammonizione, un provvedimento di polizia che aveva lo scopo di prevenire il crimine: la polizia aveva il potere discrezionale di applicarlo a chi ritenesse sospetto e comportava l'obbligo di mantenere determinati comportamenti (ad esempio astenersi dal frequentare determinate persone o luoghi, o di circolare in certe ore). Con la legge Rattazzi, non più unicamente oziosi, vagabondi, sospetti ladri di campagna, mendicanti validi saranno i destinatari della misura dell'ammonizione, ma quest'ultima verrà estesa anche a soggetti sospettati di essere «grassatori, ladri, truffatori, borsaioli e ricettatori» (ibidem). Ciò significa che, complessivamente "la discrezionalità dell'Autorità di Pubblica Sicurezza nell'iniziare il processo di ammonizione risultava estesa, attraverso un sostanziale aumento delle ipotesi di sospetto" (ibidem).

Ulteriori tipologie soggettive di autori di reato vengono ad aggiungersi in questo periodo, grazie ai provvedimenti di Pubblica Sicurezza, alle originarie tipologie dell'ozioso e del vagabondo. Le nuove categorie di "autori di reato" sono più che altro persone sospettate di delitti contro la persona e la proprietà che vengono perseguiti in via preventiva (Pavarini, 1975).

Il sistema penale dell'Italia unita, complessivo del diritto penale e dell'attività di polizia, mette in campo un sistema di controllo che si basa su una duplice filiera punitiva, l'una destinata ai "galantuomini", l'altra ai "birbanti". A niente serve l'eliminazione delle fattispecie di status e di sospetto dal codice penale liberale, perché, tramite appositi stratagemmi, queste sopravvivono nei Provvedimenti di Pubblica Sicurezza, in base ai quali chiunque può continuare a venire punito alla stessa maniera e sulla base del semplice sospetto. Lo spiega bene Pavarini. I provvedimenti di pubblica sicurezza cedono alla polizia il potere di imporre a chiunque ritengano pericoloso, sulla base del solo sospetto, un complesso di prescrizioni, per lo più impossibili da rispettare. L'infrazione di tali prescrizioni è di norma perseguibile penalmente. Ne deriva che continua ad essere possibile perseguire penalmente, anche se in maniera indiretta, delle persone sulla base di un mero sospetto e applicare, su iniziativa dell'autorità di polizia, misure in chiave preventiva senza barriere poste dal rispetto del principio di legalità e della libertà personale. In questo modo si arriva ad avere unsistema di prevenzione nel quale

la polizia opera con funzioni para-giudiziarie, quando è chiamata a emanare provvedimenti che incidono direttamente sulla libertà individuale dei soggetti colpiti. E la magistratura opera con funzioni para-poliziesche, quando è chiamata a pronunzie che si fondano non sull'accertamento di un fatto di reato, bensì su un carattere peculiare del soggetto. (Campesi, 2003)

E' in epoca liberale, quindi, che si cristallizzano le misure di polizia come vero e proprio codice dei birbanti, proprio in parallelo con lo svilupparsi di un codice più attento alle libertà individuali. Il risultato è una "macchina di controllo sociale a due tempi" costituito da un sotto-sistema penale ordinario e un sotto-sistema penale di polizia. I provvedimenti di polizia incidono sugli stili di vita dei soggetti variamente marginali, nel solco di una secolare tradizione che criminalizza il disordine morale, le irregolarità nella condotta di vita e, più in generale, la povertà e la disoccupazione tout court. Il settore penal-poliziesco, infatti, "è fondato su un paradigma soggettivistico della devianza", interviene sul modo di essere stesso degli individui e "i suoi provvedimenti sanzionano l'autore, non un ipotetico fatto materialmente prodottosi".

1.4. Il concetto di pericolosità regala nuova linfa al sistema penale

Pavarini evidenzia che tutti quegli atteggiamenti tenuti dall'autorità di pubblica polizia nei confronti dei "socialmente pericolosi" e dei "vagabondi e oziosi" erano stati atteggiamenti che avevano trovato una propria ragion d'essere nelle esigenze di difesa sociale, senza necessitare di alcun tipo di ulteriore giustificazione. Questo finché al governo c'era stata la destra. Quando l'orientamento del governo, con Crispi, si sposta a sinistra, si inizia ad aver bisogno di giustificazioni che mettano a tacere l'evidente contraddizione interna tra istanze di difesa sociale e tutela della libertà personale.

La scuola positiva fornisce le giustificazioni che al governo Crispi mancavano. Tuttavia, stando a Sbriccoli, ma anche a Pavarini e a Campesi, non elabora innovazioni particolari, ma coglie elementi di novità che già sono nell'aria.

Il concetto di pericolosità, infatti, come anche puntualizza Sbriccoli, proviene dal livello delle misure di polizia, un livello più basso, o meglio sotterraneo, fatto di arbitrii e discrezionalità, mentre con la scuola positiva si installa al livello più alto, quello garantito e giurisdizionalizzato del sistema punitivo. In poche parole, con la scuola positiva di Ferri la pericolosità irrompe nel diritto e tutte quelle misure pensate per contrastare oziosi e vagabondi, relegate nel periodo precedente all'interno delle Normative di Pubblica Sicurezza, tornano a far parte del diritto. E questa è la vera novità. Il positivismo fornisce nuovi elementi di legittimazione al sistema: gli fornisce la copertura ideologica proprio quando uno dei problemi del sistema di polizia all'epoca è il vuoto di contenuti in grado di giustificare certe misure preventive.

Il positivismo inizia a parlare di finalità riabilitative-curative di ogni ambito dell'intervento penale; lavora alla creazione di fattispecie soggettive di pericolosità, ovvero di tipi criminologici che non si limitano al delinquente-tipo, ma che ricomprendono anche figure devianti e marginali; elabora l'idea del "delinquente incorreggibile", la cui esistenza legittimerebbe il ricorso a misure sempre più lesive della libertà personale.

1.4.1. Durante il regime fascista

Con l'avvento del regime fascista il sistema di prevenzione personale diviene assolutamente centrale all'interno dell'ordinamento giuridico. Mutano i meccanismi ai quali viene affidata l'opera di prevenzione: la strategia del regime diviene "estendere in via ordinaria le misure di prevenzione personali anche alla pericolosità politica e amministrativizzare la loro applicazione" (Petrini, 1998, p.909). In questo periodo storico vengono emanate due normative di Pubblica Sicurezza, uno nel 1926 e l'altro nel 1931, stesso anno dell'entrata in vigore del Codice Rocco.

Sottolinea Petrini che non ci sono in fondo grandi differenze tra queste e la legislazione speciale dell'epoca liberale. Il fascismo non fa che accentuare le finalità proprie delle misure di prevenzione (9), mostrandone più serenamente le caratteristiche repressive e le finalità politiche. La peculiarità del regime fascista sta, allora, nella "generalizzazione dell'uso politico delle misure che nel passato avevano sempre comunque rivestito carattere eccezionale e transitorio" (ibidem, p.915).

Pavarini si sofferma anche sull'ampliamento delle categorie soggettive aggiunte alla figura dell'ozioso e del vagabondo nel testo di pubblica sicurezza del 1926. Infatti, nel testo del 1926 compaiono per la prima volta "gli sfruttatori abituali delle prostitute", "gli spacciatori abituali delle sostanze stupefacenti", "i diffamati per delitti contro l'ordine pubblico", "le persone sospette per l'ordine nazionale dello Stato". Ciò che Pavarini sottolinea è l'introduzione del concetto di abitualità, che rimanda all'opinione di cui quel soggetto gode all'interno della comunità.

Il regime fascista introduce all'interno del sistema penale anche le misure di sicurezza, che secondo l'autore hanno "lo scopo di colmare le lacune esistenti negli strumenti di difesa sociale ereditati dal sistema delle pene classiche" (Pavarini, 1975, p.87). Sono nuove sanzioni codificate che possono essere applicate all'individuo in base agli indici di pericolosità e indipendentemente dall'aver commesso un reato. La pericolosità diviene una circostanza aggravante della pena, implicante l'applicazione delle misure di sicurezza. Dalla ricostruzione che ne fa Pires (2008), le misure di sicurezza risultano essere un elemento difficilmente trascurabile all'interno di questa analisi. Sono infatti una nuova tipologia di sanzione di natura amministrativa, inserita da Ferri all'interno del Codice Rocco e presentano molte caratteristiche della pena, ma, in quanto basate sul giudizio della pericolosità del reo invece che sulla valutazione della gravità del reato, prevedono una pena indeterminata. Si differenziavano dalle misure di polizia principalmente in due aspetti: le misure di polizia agiscono ante factum e sono applicate dall'autorità amministrativa, le misure di sicurezza, invece, agiscono post factum e sono applicate dall'autorità giudiziaria. Entrambe perseguono, comunque, l'ideale della prevenzione. Infatti, al momento dell'emanazione del nuovo codice, le sanzioni penali non sembravano sufficienti per intervenire contro la delinquenza. Allora, nel codice, vengono aggiunte alle pene come "forme di coercizione statale più flessibili e preventive, invece che meramente repressive" (Pires, 2008, p.92).

Con il codice Rocco, secondo Pires, si da avvio a quel sistema a doppio binario, che è una tipicità italiana, che mette insieme misure repressive e misure preventive. Nasce un codice penale, da molti definito "diritto della sicurezza", non solo perché capace di offrire allo Stato strumenti più ampi rispetto al diritto penale classico, ma anche perché contemporaneamente al codice Rocco furono emanate nuove leggi di Polizia tramite i Provvedimenti di Pubblica Sicurezza del 1926 e del 1931 in modo da coordinare tra loro, in maniera migliore, il sistema penale e l'apparato di polizia, tanto che "la combinazione sistematica del diritto penale con il diritto della sicurezza divenne una riconosciuta caratteristica italiana" (ibidem, p.85).

Quello che accadde in periodo fascista è "il risultato di un processo di ingegneria politica, giuridica e amministrativa che, sebbene sviluppatosi in Italia a partire dal 1860, raggiunse un nuovo livello di articolazione con la riforma penale fascista"(ibidem, p.100).

1.5. Lo stato democratico nel segno della continuità

Petrini denuncia il fatto che nemmeno con l'avvento del nuovo assetto repubblicano, l'ordinamento giuridico di questo paese abbia rinunciato ad "interventi limitativi della libertà personale praeter delictum" (Petrini, 1998, p.916). Tali misure, come si è visto profondamente radicate nella storia giuridica della penisola, sono state, nel corso del tempo, semplicemente modificate, magari anche rafforzate, hanno cambiato anche collocazione, passando dal piano del diritto penale a quello dei provvedimenti di Pubblica Sicurezza, ma non sono mai state abbandonate: leggi di carattere generale rivedono l'intera disciplina, cercando di adeguare il sistema preventivo ai principi della costituzione; leggi "speciali" introducono misure difficilmente legittime, ma giustificate in via eccezionale dal bisogno di attribuire maggiore efficacia all'intervento preventivo in situazioni ad hoc.

Sono tre gli interventi legislativi a cui si farà riferimento per dimostrare la "cronica incapacità del nostro sistema preventivo a fare a meno di misure praeter delictum incidenti sulla libertà personale dei cittadini, in quella che appare, a oltre cento anni dal suo inizio, una storia infinita" (ibidem, p.929).

La legge n.575 del 1965 estende le misure di prevenzione personali all'appartenenza alle associazioni mafiose. Questo intervento legislativo è interessante perché ripropone esattamente quello che era successo un secolo prima con la Legge Pica in occasione dell'emergenza del brigantaggio: si tratta del meccanismo dell'estensione "di un'arma di lotta ritenuta particolarmente efficace, proprio perché, non richiedendo la prova della commissione di un reato, può usufruire di una maggiore elasticità applicativa" (ibidem, p.919). Quello che la legislazione antimafia statuisce è la punizione del sospetto, richiedendo la presenza di elementi indizianti particolarmente significativi. Il problema è che poiché non ci sono criteri definiti che indichino quando un indizio è significativo o meno, il sospetto finisce per avere, ed ha tutt'oggi, un peso non indifferente all'interno del nostro sistema penale.

Un altro esempio è la legge Reale del 1975, che istituisce nuove ipotesi di pericolosità. Anche la legge Reale si inserisce nel filone della legislazione penale di emergenza. Essa porta alla progressiva erosione dei diritti di libertà e delle garanzie dei cittadini e al rafforzamento del potere delle forze dell'ordine, a cui regala una discrezionalità immensa in relazione alla potenziale "sospettabilità" della persona con cui si ha a che fare. Anche in questo caso, come succede da tempo immemore nella penisola, ciò che si cerca è un escamotage per aggirare delle garanzie fondamentali vissute come vincoli e lacci all'attività repressiva. Scrive Petrini:

Che ciò sia avvenuto dall'Unità d'Italia sino alla caduta del fascismo può forse essere spiegato attraverso la continuità tra autoritarismo liberale e idolatria statalista durante il ventennio; molto più inquietante è, però, che il medesimo meccanismo si sia riprodotto in epoca repubblicana, in un sistema che vede nella libertà personale dei cittadini il primo e fondamentale valore da tutelare, e che dovrebbe pertanto rifuggire da qualsiasi aggiramento delle relative garanzie. (Petrini, 1998, p.922)

In realtà, se letto nella progressione storica dell'ordinamento giuridico, che questo meccanismo continui a riproporsi non sorprende: esso fa parte del sistema giuridico italiano fin dalle origini e ne è un elemento strutturale.

Un ultimo sguardo andrebbe rivolto alla legge n.327 del 1988 che, stando a Petrini, tenta di adeguare il sistema preventivo personale, dopo gli stravolgimenti dovuti alla legislazione antimafia e alla legge Reale, ai principi costituzionali. La legge del 1988 introduce tre nuove ipotesi di pericolosità "comune" col fine "di adeguare le disposizioni preventive (di carattere generale) ai requisiti minimi di legittimità indicati man mano dalla Corte Costituzionale". Ciò che si ottiene è però solo un vero e proprio effetto-paradosso, dal momento che "le nuove fattispecie di pericolosità sono state completamente ritagliate sul sospetto della commissione di un reato, e riproducono pertanto il modello meno accettabile e più criticato di prevenzione personale" (Petrini, 1998, p.924). Quello che succede con questa legge è che si passa da un tipo di prevenzione che colpisce la futura commissione di reati, ad una prevenzione che colpisce il sospetto di commesso reato. Tale innovazione legislativa persegue l'intento di svecchiare il sistema superando l'anacronistico riferimento a oziosi, vagabondi, ecc., ma evidentemente non ci riesce: le nuove ipotesi di criminalità comune. ovvero "soggetti dediti a traffici delittuosi", "soggetti che si mantengono con i proventi dei reati", "soggetti dediti alla commissione di determinati reati", si limitano a dare nomi diversi alle stesse tipologie di sospetto, basato sulla previsione di status soggettivi attraverso la rilevanza penale dei comportamenti descritti.

Nel 1975 Pavarini si chiedeva se fosse possibile individuare nelle linee di politica criminale una tendenza verso uno sviluppo sempre più deciso delle "tipologie soggettive di pericolosità" che testimonierebbe quindi lo svilupparsi di un "diritto penale dei tipi di autore" (Pavarini, 1975, p.439). Si chiedeva anche se la presenza di tipi di autore normativi all'interno di un ordinamento penale fondamentalmente ispirato al "criterio oggettivo del fatto" possa essere ancora considerato come un fenomeno marginale ed eccezionale o se non fosse piuttosto il caso di prendere seriamente in considerazione la sua presenza all'interno del sistema come elemento strutturale che come abbiamo visto affonda le proprie radici lontano nella storia dell'ordinamento giuridico di questo paese.

Si è visto che l'autore tipo viene progressivamente ad avere un peso politico non indifferente nella politica criminale italiana, nel senso che, come spiega ancora Pavarini:

il momento tipologico tende a porsi in un rapporto di quasi sincronia necessaria con la tendenza del nostro ordinamento penale a superare quelle garanzie che si accentrano intorno al principio liberale-borghese di legalità per aprirsi a spazi ove gli operatori del controllo sociale (Magistrati e Polizia) possano agire con poteri discrezionali aumentati. (Pavarini, 1975, p.445)

Dunque sembra vi sia una realtà normativa tutta italiana costruita proprio su questo rapporto di sincronia tra momento tipologico e superamento delle garanzie che, nel corso del tempo, ha condotto allo sviluppo di "un processo di vera e propria elefantiasi" (Pavarini, 1975) del potere discrezionale degli operatori del controllo sociale. Questo ha potuto d'altro canto realizzarsi in senso normativo grazie all'utilizzo di tipologie soggettive dai contorni indeterminati ed evanescenti.

Vi sarebbe un duplice livello di legalità nell'ordinamento italiano. E' un dualismo di regole e di pratiche, che non solo si limita alla rottura delle garanzie nel momento in cui la necessità della prevenzione, giustificata da qualche emergenza di qualche tipo lo richieda: la prevenzione si avvale soprattutto del sospetto, e la libertà dei sospetti può essere limitata in ragione della loro pericolosità, attraverso abusi tollerati. Ma non si tratta solo di questo:

il duplice livello di legalità discerne i "galantuomini" dai "birbanti" destinandoli a differenti filières punitive, fa prevalere l'opportunità politica sulla regola giuridica, lo scopo sul diritto. Permette il conseguimento di obiettivi politicamente desiderabili attraverso la compressione di diritti, prerogative e garanzie, tenendo in ombra coloro che di tale compressione portano le responsabilità giuridiche e politiche. (Sbriccoli, 1998, p.491)

2. ...e oggi

Una continuità di situazioni collega la figura dell'ozioso e del vagabondo in Inghilterra nel XVI secolo, quella degli Zingari nel regno sabaudo, poi dei vagabondi imprigionati nel corso del XIX secolo nelle prigioni e nelle case di lavoro, e delle nuove tipologie di soggetti socialmente pericolosi che continuano a prendere forma ai giorni nostri. Tra di essi, trova posto il cittadino non comunitario in perenne rischio di espulsione. Nella legge Reale "gli stranieri che non dimostrano, a richiesta dell'autorità di pubblica sicurezza, la sufficienza e la liceità delle fonti del loro sostentamento in Italia" sono soggetti all'espulsione, e la stessa tipologia di autore si ritrovava già nel testo di pubblica sicurezza del '31.

Guardando alla normativa sull'immigrazione attualmente in vigore ci sembra chiaro che il sistema giuridico italiano continui ad adeguarsi alle mutate esigenze rifacendosi a vecchi schemi ed aggirando gli stessi ostacoli di sempre con soluzioni comprovate.

La figura del cittadino non comunitario e le misure di tipo giuridico e amministrativo previste per il controllo della sua persona, testimoniano della difficoltà del sistema giuridico a rinunciare alla doppia filiera punitiva del sistema penale di cui parlava Sbriccoli. Come scrive Luca Masera (2009) in un articolo in cui analizza alcuni tratti del pacchetto sicurezza, la legislazione sull'immigrazione in Italia non sarebbe altro che:

un diritto penale d'autore, che trova la sua legittimazione profonda nell'inammissibile - in quanto già dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale - ma evidente presupposto che il clandestino è in quanto tale un soggetto pericoloso, che di per sé (aldilà di quello che fa) merita di essere punito per la sensazione di insicurezza che arreca ai cittadini: un richiamo strumentale ad esigenze di sicurezza, per giustificare il valore simbolico di una disciplina intrinsecamente ed odiosamente discriminatoria su basi di provenienza geografica (per non usare il termine, forse non fuori luogo, di discriminazione a sfondo razziale). (Masera, 2009, p. 50-1)

Perché analizzare la legislazione dell'immigrazione come diritto penale del nemico? Non tanto perché ritengo che questo possa aver apportato all'interno della legislazione italiana delle torsioni in senso repressivo prima non presenti. Abbiamo visto che infatti le torsioni proprie della legislazione sull'immigrazione: diritto dei tipi d'autore, doppia filiera punitiva, deprivazioni dei diritti per certi soggetti, l'uso di leggi eccezionali giustificate da stati d'emergenza, hanno radici profonde nel nostro sistema giuridico.

Quello che ritengo faccia il diritto penale del nemico è fornire alle misure giuridiche previste nei confronti dei migranti una nuova copertura ideologica, in una maniera simile a ciò che aveva fatto la scuola positiva per il fascismo. L'incontro in questo paese tra una concettualizzazione teorica quale quella del diritto penale del nemico e la precedente presenza all'interno del sistema del diritto penale italiano di misure decisamente peculiari atte alla lotta contro il nemico, hanno dato vita ad uno strano sistema di contrasto dell'immigrazione irregolare, giocato su ambo i piani del diritto, quello amministrativo e quello penale, di modo che l'utilizzo del piano amministrativo permettesse di intervenire sulla sfera della libertà personale del migrante aldilà delle garanzie poste dal diritto penale, mentre grazie all'utilizzo del diritto penale si realizzava la sovrapposizione tra criminale e migrante irregolare, e tra migrante irregolare e nemico. Insomma, continuano ad essere almeno due le caratteristiche irrinunciabili del complesso del sistema penale italiano ovvero: "l'inadeguatezza dei tentativi di rendere compatibili le misure con i principi costituzionali" e "la previsione di nuove forme di pericolosità, in risposta ad emergenze criminali comuni o politiche" (Petrini, 1997, p.924). Queste due caratteristiche, venute da lontano, sono tuttora presenti nella legislazione dell'immigrazione attualmente vigente. Ma forse riusciamo anche ad individuare dei tratti di novità.

Oggi assistiamo ad un rinnovato uso simbolico della criminalizzazione dell'immigrazione irregolare delineata dalle norme e dalle prassi sui reati collegati all'espulsione. Le une e le altre sono infatti destinate ad inserirsi in quei "meccanismi sociali, politici e cognitivi che fanno dell'immigrato il nemico pubblico nella società contemporanea" (Caputo, 2007, p.57), così alimentando la visione del migrante come soggetto in sé pericoloso per l'ordine pubblico. Una visione che contribuisce alla costruzione della figura dell'immigrato irregolare come criminale e come nemico.

2.1. Il diritto speciale dello straniero

Angelo Caputo delinea nella normativa in ambito di immigrazione un "diritto speciale" dei migranti, che egli definisce come "sottosistema penal-amministrativo, dotato di una sua logica interna in forza della quale i principi e gli scopi dell'ordinamento penale vengono asserviti all'attività amministrativa preordinata all'allontanamento dello straniero" (Caputo, 2007, p.58). All'interno di questo sottosistema penal-amministrativo, la restrizione della libertà personale dello straniero, uno dei tratti determinanti del diritto speciale degli stranieri, diviene l'eccezione che si fa regola. Essa si caratterizza per essere una forma di segregazione sfacciatamente legata non ad un comportamento, ma ad una condizione individuale, segnatamente quella di migrante. Fattore questo che supera i limiti imposti dal lato garantista del diritto penale. In questo terreno, quello della detenzione amministrativa, sia le norme penali che quelle processuali rivestono un ruolo del tutto ancillare poiché la funzione amministrativa è preordinata all'allontanamento dello straniero. Caputo ipotizza che si cerchi di mantenere il diritto della segregazione fuori dall'ambito del diritto penale vero e proprio, perché il diritto penale potrebbe, in ragione del suo assetto garantistico, essere d'intralcio all'applicazione delle norme previste dalla normativa sulla detenzione amministrativa e sull'espulsione. Invece il diritto amministrativo permette di non dover distinguere tra innocente e colpevole quando si tratta di nemico.

Ferrajoli precisa che per parlare della legislazione italiana sull'immigrazione bisogna considerare il fatto che questa si è sviluppata su due livelli: a livello della legislazione, in contrasto con la Costituzione repubblicana, e a livello dell'amministrazione e delle prassi che è ancora ad un gradino più basso di legittimità (Ferrajoli, 2010, p.118). La disciplina dell'immigrazione gioca sull'intreccio tra i due rami del diritto, quello amministrativo e quello penale, i quali finiscono per contaminarsi a vicenda svilendo i rispettivi principi. Questo accade anche perché la materia dell'immigrazione è innanzitutto politica, o come diceva Bricola, vi è un "segreto convincimento" circa la sua politicità (Bricola, 1975).

Dire che la materia dell'immigrazione è innanzitutto politica significa dire che essa inerisce innanzitutto al potere esecutivo, che è quello che più direttamente interpreta la "volontà politica del momento". Oltretutto, la centralità del ruolo del potere esecutivo in quest'ambito porta alla centralità del ruolo dell'autorità di polizia, che significa che i diritti fondamentali del migrante incontrano un processo di amministrativizzazione. D'altro canto, il ruolo dell'autorità di polizia diventa tanto più forte quanto più le fattispecie di reato non vengono ben delineate, poiché il loro essere indefinite lascia un sempre maggiore spazio di discrezionalità nel momento della decisione. È questa la struttura dell'eccezione che abita dentro al diritto: sta agli operatori di polizia, infine, decidere in che modo applicare la sovranità.

L'amministrativizzazione dei diritti fondamentali del migrante è uno dei tratti costitutivi del diritto speciale degli stranieri il quale perciò si caratterizza per una sorta di tensione rispetto al modello costituzionale di tutela delle libertà fondamentali della persona.

Caputo sostiene che per essere compreso a fondo, questo diritto speciale deve essere analizzato dalla prospettiva del sicuritarismo (10). Infatti la condizione dei migranti è "il terreno privilegiato per il dispiegarsi del sicuritarismo" poiché in esso fenomeni complessi quali le migrazioni vengono affrontati esclusivamente in termini di questione criminale. Le politiche di sicurezza, dal canto loro, sono giocate prevalentemente sul versante poliziesco-repressivo, rivelandosi poi strutturalmente inadeguate ad affrontare un fenomeno a tal punto complesso. Eppure:

è questa la matrice culturale delle ricorrenti proposte di "pacchetti sicurezza" in cui si sovrappongono gli strumenti classici dell'armamentario repressivo: aumento di poteri per la polizia, pene esemplari, nuove fattispecie di reato, riduzione dell'ambito di applicabilità delle misure alternative alla detenzione, etc. Tale impostazione diventa addirittura scolastica nel settore del controllo dell'immigrazione, dove si va sempre più delineando un diritto penale speciale per gli stranieri fondato, oltre che sulla detenzione amministrativa, sulla semplificazione delle procedure di espulsione, sulla previsione di pene assai elevate per il rientro in Italia dopo l'espulsione, sul prelievo generalizzato delle impronte digitali: tutte misure la cui scarsa utilità...ai fini di un corretto controllo dell'immigrazione si coniuga con l'amplificazione dell'immagine dello straniero come criminale e l'incentivazione di fatto di fenomeni di xenofobia (Pepino, 2001, p.11).

Caputo rintraccia due profili essenziali delle norme: da un lato l'ordinamento, attraverso specifici meccanismi giuridici, spinge verso la criminalizzazione del migrante irregolare e delle migrazioni in generale; dall'altro, è possibile rinvenire tracce di un diritto penale del nemico nella legislazione dell'immigrazione, in particolare "nelle diverse fattispecie di favoreggiamento delle migrazioni contra ius e nella normativa penal-amministrativa degli allontanamenti" (Caputo, 2008, p.46).

2.2. Si può parlare dei migranti in termini di nemici?

"Il rinvenimento nella normativa penalistica - o meglio, penal-amministrativistica - sull'immigrazione di tracce di un vero e proprio "diritto penale del nemico" si ricollega, in questa ottica, al ruolo del migrante quale nemico della società, un ruolo antico, da sempre oggetto degli studi sociologici e criminologici, che, tuttavia, ha assunto nei nostri tempi nuove dimensioni. Il nemico, infatti, diventa nelle moderne democrazie occidentali, il criminale comune (Melossi, 2002), "meglio ancora se raffigurabili come quel misto di interno ed esterno caratteristico degli immigrati indesiderabili, irregolari, clandestini".

Il paradigma del nemico, non nuovo all'interno della legislazione italiana, viene rafforzato dalla filosofia sicuritaria post 11-settembre e si inserisce all'interno del diritto speciale dei migranti spingendolo ad una maggiore repressione, individuazione ed allontanamento.

Si badi bene: i migranti non sono nemici in senso Jackobiano per le cause che portano all'esclusione, ovvero nel senso di una persona che per un atto volontario si auto esclude dalla società, e nei confronti del quale lo stato si autolegittima all'espulsione anche dal sistema di tutela giuridica. Però lo sono negli effetti: anche se il nemico che la legislazione sull'immigrazione crea non è un soggetto che è nemico in forza di una scelta autonoma (non è sua la scelta dell'irregolarità giuridica, ma gli viene imposta), è un nemico in senso jackobiano nella misura in cui diviene una non persona in diritto. La legislazione dell'immigrazione in Italia crea cioè, come spiega Ferrajoli, la figura della "persona illegale, fuori-legge solo perché tale, priva di diritti solo perché giuridicamente invisibile e nulla, e perciò esposta a qualsiasi tipo di vessazione". E' una nuova figura sociale che non viene discriminata solo socialmente ed economicamente come i vecchi migranti, ma anche giuridicamente.

2.3. Il piano simbolico nella normativa penal-amministrativa delle espulsioni

Si parla di diritto penale del nemico non tanto per porre l'accento sull'innovazione degli strumenti (come abbiamo visto il diritto penale d'autore esigeva già, il nemico esisteva già, fattispecie di reato pensati sulla base si status personali esistevano già all'interno del diritto penale italiano) ma per porre l'accento sul nuovo utilizzo in senso simbolico di quegli stessi strumenti.

Dall'inizio la politica in materia migratoria in Italia si è caratterizzata per la criminalizzazione della condizione di irregolarità giuridica, non perché fosse una strategia efficace ai fini della gestione del fenomeno migratorio, ma perché tale criminalizzazione veniva usata come risorsa simbolica e come strumento di rassicurazione dell'opinione pubblica (Masera, 2009). Addirittura il diritto penale finisce per giocare un ruolo marginale in questo meccanismo di criminalizzazione: le misure di carattere amministrativo (11) sono infatti molto più afflittive per la vita del migrante, eppure il primo rimane più visibile dell'altro sotto il punto di vista comunicativo e simbolico. Ad esempio, il reato d'immigrazione clandestina, come argomenta Masera, è sicuramente una modifica significativa sul piano simbolico-espressivo, e tuttavia ha un impatto pressoché insignificante sulla vita del migrante, perché nella pratica non cambia niente rispetto a prima, se non che il reato passa dal piano amministrativo a quello penale (12). Con il reato d'immigrazione clandestina si conferma il trend normativo che ha caratterizzato dall'inizio la legislazione sull'immigrazione. Si tratta dell'affermarsi della logica dell'emergenza alimentata da una reazione impulsiva agli stimoli dell'attualità e da una raffigurazione dell'immigrato clandestino quale pericolo principale per la sicurezza pubblica (Varraso, 2009, p.84-5).

Perché allora avvalersi di strumenti di diritto penale, inefficaci al fine del contrasto al fenomeno migratorio? Come fa notare Tatjano Hornle, docente di diritto alla Ruhr-Universität Bochum, "generalmente si delinea la tendenza per cui il legislatore affronta soprattutto temi in relazione ai quali un "modo di procedere duro" incontra l'approvazione dei mass-media e della popolazione (Tatjano Hornle in Donini-Papa, p.113). I media sono un anello molto importante del meccanismo se vogliamo soffermarci sulla portata simbolica del diritto speciale dello straniero.

I media hanno la capacità di far convergere la questione dell'insicurezza sull'esplosione della microcriminalità e sull'invasione dei migranti (Pepino, 2007). L'insicurezza gira tutta intorno alla questione urbana, secondo un senso comune a cui Pepino fa riferimento, e che deve essere rassicurato tramite politiche sicuritarie rigorose. Ciò che crea insicurezza è soprattutto il disordine. E' la visione della condizione estrema (p.6) oppure sono comportamenti non già criminali ma proto e subcriminali a destare maggiore insicurezza.

I media hanno un ruolo fondamentale nell'alimentare l'insicurezza, soprattutto per il fatto che la logica attraverso cui riportano la realtà è quella della semplificazione: non riportano cioè la realtà di fenomeni complessi e di concetti plurali, ma solo binomi semplici e capaci di fare scalpore, tra cui quello migrazione-criminalità. Nella costruzione dell'immaginario sulla criminalità, dunque, non è affatto secondario il ruolo che rivestono i mass-media. Giuseppe Santalucia, autore di un articolo dal titolo "Processo, ordine pubblico, Sicurezza", pubblicato nella rivista Questione giustizia, n. 4 del 2006, mette bene in evidenza questa particolare abilità che i media detengono nel dare risalto ad alcuni reati piuttosto che ad altri, operando così una selezione rispetto ai reati compiuti in un dato territorio (13) (Giuseppe Santalucia, 2006). L'amplificazione ingiustificata di certa parte della criminalità ha l'effetto concreto di aumentare in maniera assolutamente sproporzionata il senso di insicurezza soggettivo, il quale a sua volta ha delle forti ripercussioni sulla produzione giuridica in ambito penale. Vi sarebbe quindi un forte potere di orientamento delle politiche penali da parte dell'opinione pubblica e dei suoi umori transeunti. Tuttavia, fatto ancor più preoccupante, non solo la collettività, continua Santalucia, ma anche il ceto politico è condizionato dalla prospettiva del "sensazionalismo mediatico" (ibidem, p. 763), tanto che spesso manca nel legislatore la razionalità della risposta. Basta che la situazione venga definita "di emergenza" e il potere politico può tranquillamente agire al di fuori del diritto.

Anche la normativa sull'immigrazione, soprattutto nella parte che concerne l'identificazione e l'espulsione dello straniero irregolare, attraverso la via dell'emergenza e del sensazionalismo mediatico, tende sempre a superare la linea che lo divide dal diritto penale del nemico e, come intuisce Pellissero,

"rischia costantemente di scivolare nel puro interventismo simbolico, capace -forse- di catalizzare consenso politico, ma del tutto inidoneo a risolvere, in termini di medio e lungo periodo, i problemi per la soluzione dei quali viene a gran voce chiamato in causa" (Pellissero, 2007, p.685).

Si rende utile allora dedicare una breve riflessione al rapporto tra diritto penale e immigrazione.

Quello tra diritto penale ed immigrazione è un rapporto complesso in relazione al quale il diritto penale svolge una funzione fondamentale di indirizzo dell'opinione pubblica: esso contribuisce a creare la figura del nemico, ad implementare la percezione dell'insicurezza ad esso connessa, a consolidare l'identità della comunità che esclude.

Il legislatore ha spesso imboccato la strada del populismo negli interventi in tema d'immigrazione degli ultimi anni (Marco Pellissero, 2007, p. 685 e ss). Ciò è dovuto alla funzione simbolica a cui la pena assolve in molti casi, la quale si accentua se l'ambito che si pretende di regolare penalmente è quello dell'immigrazione. Infatti, se è vero che, come afferma Pellissero, la pena ha in fondo soprattutto "effetto catartico e di rassicurazione collettiva", avrà molto più effetto se applicata a tematiche, quali l'immigrazione, che coinvolgono la paura e la psicologia delle persone. L'effetto catartico della pena, in questo caso, sarà più forte perché il migrante, a causa della presunta diversità culturale o morfologica che lo caratterizza, diventa rappresentante per eccellenza del rischio e quindi elemento su cui più facilmente si riversano l'ansia e le insicurezze delle popolazioni.

Eliminare lo straniero sembra avere una particolare forza di costruzione identitaria, oltre che di riaffermazione dell'ordinamento vigente.

"Il populismo penale, vera patologia della democrazia, è la forma estrema di questo rovesciamento di prospettiva... Periodicamente un'unanime richiesta di protezione contamina l'intera giustizia penale in risposta a un'emozione collettiva. Il rischio zero diviene allora tutto ciò che ci si aspetta dalla giustizia. Di fronte a individui a rischio, la sicurezza non passa più per la cura e l'educazione ma per il controllo e l'internamento" (Denis Salas, 2007, p.390).

Il rischio che stiamo forse correndo, rischio ben descritto da Salas, è quello di star vivendo in una "democrazia emozionale", dove "l'internamento è sinonimo di sicurezza, la detenzione diventa espressione di un principio di precauzione ma allo stesso modo ben può diventare liberticida" (Denis Salas, 2007).

Lo strumento penale appare spesso una facile via di soluzione anche quando si tratta di intervenire su fenomeni sociologicamente complessi quale quello dell'immigrazione. Eppure bisognerebbe porre maggiore attenzione al suo utilizzo, e questo a causa di "quel complesso di messaggi simbolici e irrazionali di cui la pena è naturalmente portatrice" (Pellissero, 2001, p.687).

Dice Ferrajoli che "esiste un'interazione profonda tra diritto e senso comune, tra integrazione ed uguaglianza giuridica e, inversamente, tra disuguaglianza nei diritti e percezione di chi non ha diritti come diseguale e inferiore" (Ferrajoli, 2010, p.124). Secondo il noto giurista, la disuguaglianza giuridica genera la percezione dell'altro come inferiore naturalmente perché inferiore giuridicamente. Ovvero, non è solo il razzismo insito nella società che produce questa legislazione, ma è anche la legislazione stessa che riproduce razzismo all'interno della società. Continua Ferrajoli dicendo che siamo dinnanzi ad un circolo vizioso perverso: "proprio perché sfornito di diritti, l'immigrato viene avvertito come antropologicamente diseguale e fonte oscura di pericoli per la sicurezza; questa percezione razzista a sua volta, vale a legittimare la sua discriminazione nei diritti; e quanto maggiore è l'emarginazione sociale prodotta dalla discriminazione giuridica, tanto maggiore è la sollecitazione di leggi razziste, prodotte quale fabbrica del consenso, non già benché razziste ma precisamente perché razziste" (Ferrajoli, 2010, p.124-5).

Conclusioni

L'ipotesi che con questo capitolo prende forma è la seguente: la legislazione sull'immigrazione ha trovato in certe peculiarità del diritto italiano un terreno fertile per esprimersi come diritto penale del nemico. Le politiche adottate in questo paese come risposta al fenomeno migratorio ripropongono vecchi schemi con i quali il sistema giuridico italiano continua ad adeguarsi a mutate esigenze aggirando gli ostacoli posti dal garantismo proprio del diritto penale. Le torsioni proprie della legislazione sull'immigrazione non sono un fenomeno affatto nuovo all'interno del nostro ordinamento, dal momento che non fanno altro che riproporre i "caratteri originari e tratti permanenti" (Sbriccoli, 1998) del nostro sistema giuridico. Così è per il diritto dei tipi d'autore: nella legislazione dell'ordinamento sabaudo comparivano le figure dell'ozioso e del vagabondo come fattispecie di reato riconducibile a status soggettivi; così per la doppia filiera punitiva per i "galantuomini" e per i "birbanti"; così per un sistema penale che gioca su una peculiare combinazione di diritto penale e di diritto amministrativo; così anche per l'uso di leggi eccezionali giustificate da stati d'emergenza, iniziato con la legge Pica e l'"emergenza brigantaggio", che apre ad un uso politico della legislazione e che fornisce allo stato uno strumento utile ad agire con i mezzi della guerra contro quei soggetti che di volta in volta riconosce come nemici. L'incontro in questo paese tra una concettualizzazione teorica quale quella di diritto penale del nemico e la precedente presenza all'interno del sistema del diritto penale italiano di misure decisamente originali atte alla lotta contro il nemico, hanno dato vita ad uno strano sistema di contrasto dell'immigrazione irregolare, giocato su ambo i piani del diritto, quello amministrativo e quello penale: l'utilizzo del piano amministrativo permette di intervenire sulla sfera della libertà personale del migrante aldilà delle garanzie poste dal diritto penale, mentre grazie all'utilizzo del diritto penale si realizza la sovrapposizione tra criminale e migrante irregolare, e tra questo e il nemico.

Note

1. D. Petrini (1997), "Il sistema di prevenzione personale tra controllo sociale ed emarginazione"in Annali della Storia d'Italia, Einaudi, 892.

2. Pastore M. (1988), Reazione normativa e zingari nello Stato Sabaudo: tentativi di esclusione, in Lacio Drom, n.3/4; Pastore M. (1988), Dall'esclusione alla reclusione: gli zingari nell'immaginario sociale, in Lacio Drom, n.3/4Titolo dell'articolo.

3. Massimo Pastore spiega questa, che a noi sembra una particolarità, cioè il destinare ad una categoria particolare, ovvero quella degli zingari, una tipologia di provvedimenti che si era soliti destinare più generalmente appunto ai vagabondi e agli oziosi, con il fatto che gli Zingari iniziano ad essere presenti un po' ovunque in Europa, Stato Sabaudo compreso, nel corso del 1400, tanto che già nel corso del XVI secolo in molti paesi europei vi sono misure analoghe a quelle che verranno adottate il secolo successivo nello Stato Sabaudo. Secondo Pastore, in realtà nei quattro editti di espulsione emanati negli ultimi trent'anni del 1500 (ufficialmente rivolti a vagabondi e persone oziose), vanno già ricercati i segni delle prime persecuzioni contro gli Zingari. Gli zingari rientrerebbero cioè in quella categoria di persone "oziose, vagabonde, inutili, e di mal esempio, che si sono introdotte [nel territorio dello stato], e che tuttavia vi si introducono, vivendo senza arte, né servitù"(editto del 1586).

4. Sull'argomento vedi: Melossi, Pavarini (1977), "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario: 16./19. secolo", il Mulino, Bologna.

5. Come dimostra uno suo lavoro intitolato "la società disciplinare e le classi pericolose nell'Italia del XIX secolo".

6. Ad eccezione della Toscana, in cui vigeva un codice da cui era stata espunta la pena di morte.

7. Vedi W. Chambliss (1964), "A sociological analysis of the law of vagrancy", in Social Problems, vol.12, n.1, pp.67-77.

8. "la società disciplinare e le classi pericolose nell'Italia del XIX secolo".

9. Ad esempio, il confino di polizia, introdotto nel 1931, si differenzia dal domicilio coatto solo perché è possibile applicarlo direttamente, senza dover prima passare attraverso l'ammonizione.

10. Che in poche parole può essere definito come risposta di segno repressivo ad una crisi epocale che sta attraversando le democrazie occidentali e non solo. Una crisi che mette in dubbio e rovescia il modello dello stato sociale.

11. L'accesso ai servizi Pubblici con il pacchetto sicurezza 2009 viene subordinato al possesso del permesso di soggiorno e prevede anche un allungamento del periodo di detenzione all'interno dei centri di identificazione e di espulsione.

12. Per una trattazione più approfondita dell'argomento si rimanda a Masera (2009), "terra bruciata attorno al clandestino", in Mazza-Viganò (a cura di), "Il pacchetto sicurezza 2009 (Commento al d.l. 23 febbraio 2009, n.11 conv. In legge 23 aprile 2009, n.38 e alla legge 15 luglio 2009, n.94), Giappichelli Editore, Torino, p.31 e ss.

13. In generale, egli spiega, l'attenzione di giornali, telegiornali e programmi televisivi tende a concentrarsi su particolari classi di crimini quali le aggressioni violente alla persona e al patrimonio, verso cui l'opinione pubblica è più attenta; mentre pochi, pochissimi, sono i riflettori puntati sulle forme delinquenziali ai danni dei beni collettivi e sui cosiddetti reati dei colletti bianchi. Si ha di conseguenza una distorsione nella percezione di come e quanto determinati reati incidono realmente sull'incolumità personale, percezione che risulta perciò niente affatto ancorata alle statistiche ufficiali sulla criminalità.