ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo primo
Alle origini della sicurezza

Giulia Fabini, 2011

Ci si abitua velocemente al modo in cui vanno le cose. Oggi, più che un tempo, è facile vivere nell'immediatezza del presente e perdere il senso globale dei processi storici dai quali sono emersi i nostri dispositivi contemporanei. (D. Garland, 2001, p.57)

Introduzione

Ciò che oggi è reato potrebbe non esserlo domani e magari non lo era ieri. Ciò che nell'opinione pubblica desta preoccupazione oggi, magari ieri non era un problema. La definizione di cosa sia reato, ovvero di quali atti piuttosto che altri siano punibili perché contrari alle leggi, è strettamente legato al contesto storico e politico entro il quale tale definizione prende vita. I reati sono quindi storicamente e politicamente situati, come del resto lo sono le persone considerate criminali - lo sapeva bene già Durkheim.

Questo è forse il potere maggiore dello stato sovrano: la possibilità di definire di volta in volta chi siano i criminali entro il proprio territorio, e rendere tale enunciazione immediatamente legittima e legale. Scriveva in maniera audace e lucida David Matza nel 1969:

nel suo avido interesse per l'ordine pubblico e la sicurezza, attuati con le forze di polizia e con il sistema penale, il Leviatano è giustificato. [...] Protetto da una rappresentazione collettiva in cui il furto e la violenza risiedono in una classe pericolosa, moralmente elevato dalla sua crociata correzionale, lo Stato consegue la legittimità delle sue intenzioni pacifiche e l'apparenza della legalità, anche se entra in guerra e compie su larga scala azioni che ha asserito di bandire dal mondo. (Matza, 1969 [1976], p.302 in Melossi, 2003, p.183).

Matza scriveva nel 1969, nel contesto degli Stati Uniti della guerra in Vietnam, ma credo che tale analisi possa essere trasposta ai giorni nostri: lo stato, in quanto stato sovrano, detiene il potere di dichiarare guerra all'interno dei propri confini territoriali, e di combatterla - più o meno silenziosamente - sotto l'ombra del diritto penale.

Ritengo si possa affermare che nella contemporaneità, in occidente (ma voglio dirigere la mia attenzione in particolare verso l'Italia), si stia combattendo una "guerra alle migrazioni" (Palidda, 2008) che ci vede partecipare dal lato di chi l'ha dichiarata; è una guerra, questa, in cui siamo immersi a tal punto da non renderci davvero conto che la stiamo combattendo. Essa si nutre di azioni repressive messe in atto dalle agenzie istituzionali, ma anche dai privati cittadini, nei confronti di soggetti privi di cittadinanza o di permesso di soggiorno, i migranti, e colpevoli di aver fatto valere il loro diritto di fuga (Mezzadra, 2006) nonché il loro diritto di restare (Sciurba, 2009). In questo conflitto la detenzione in appositi campi (i centri di identificazione e di espulsione) di soggetti in ragione di ciò che essi sono e non di ciò che hanno fatto è, secondo le leggi vigenti, un atto legittimo e legale, come legittima e legale finisce per essere il mettere in atto la deprivazione dei diritti di quegli stessi soggetti tramite l'istituzione di uno status giuridico differenziato.

Ciò che in particolare mi interessa sottolineare è che questo conflitto interno (ed esterno (1)) può essere combattuto poiché si nutre di tutta una serie di concetti, ragionamenti, modi di pensare, parole d'ordine che oggi ci sembrano assolutamente ovvi ed eterni ma che non lo sono affatto. Il contrasto alle migrazioni, che in maniera forse un po' provocatoria sto continuando a chiamare guerra, è un "fatto politico totale" che pervade l'intera società attraverso discorsi, retoriche e pratiche, e delineare la storia di questi concetti si rivela essenziale per comprenderne a fondo la natura.

Come correttamente sottolinea Palidda, "la storia dell'attuale guerra alle migrazioni si confonde con quella dello sviluppo della criminalizzazione, che comincia con la rivoluzione neoconservatrice negli Stati Uniti e in Inghilterra (la Thatcher va al potere nel 1979, Reagan nel 1981)" (Palidda, 2008, p.7). E' in questo contesto cronotopico che per la prima volta dilagano preoccupazioni su "legge e ordine", "sicurezza", "tolleranza zero".

L'attenzione va dunque puntata su un passaggio fondamentale avvenuto a partire dagli anni Settanta negli Stati Uniti, e poco dopo in Inghilterra, e diffusosi poi anche in Europa e in Italia: si tratta del superamento del fordismo, quel lasso di storia che qualcuno chiama "passaggio al post-fordismo" (vedi De Giorgi, 2002), durante il quale si assiste alla flessibilizzazione del lavoro e alla crescita dell'importanza dell'impresa. Di fronte a questi cambiamenti lo stato diviene doppiamente dannoso in quanto da un lato incatena l'impresa - sulla quale si basa lo sviluppo economico - e dall'altro, comunque, non garantisce più la sicurezza sociale (Castel, 2003). Queste trasformazioni epocali del mercato del lavoro e dell'economia in generale (De Giorgi, 2002), o cicliche, che dir si voglia (Melossi, 2002), hanno portato alla nascita di un nuovo modello statale: lo stato sicuritario che, se da una parte si rivela lassista verso l'economia liberale che alimenta l'insicurezza sociale, dall'altro si mostra gendarme nei confronti dell'insicurezza civile (Castel, 2003). Lo stato sicuritario, caratterizzato da una forte ideologia neoconservatrice, si è poi diffuso arrivando fino a noi, sotto forma di una guerra combattuta contro l'estraneo, il diverso, caratterizzata da pratiche di potere che mescolano proibizionismo, protezionismo e autoritarismo.

1. Tra anni Settanta e Ottanta in Usa: libertà economica e controllo sociale

Le retoriche del "contrasto all'immigrazione clandestina" situano le proprie radici negli Stati Uniti della metà degli anni Settanta, paese scosso da una rivoluzione neoliberista (in ambito economico) e neoconservatrice (in ambito politico) senza precedenti.

I segnali di una riscossa conservatrice arrivarono con il discorso d'insediamento alla Casa Bianca di Ronald Reagan, nel gennaio-febbraio del 1981, anticipati però già a tratti dalla presidenza Nixon (Melossi, 2002). Si trattò di una vera e propria rivincita conservatrice a cui corrispose, o conseguì, una trasformazione profonda delle istituzioni preposte al controllo della criminalità - trasformazione che Jonathan Simon (2008) descrive come passaggio dal New Deal al Crime Deal. E' a quell'epoca, secondo l'autore, che bisogna far risalire l'inizio di un "governo attraverso la criminalità", concetto che andremo ad indagare tra qualche pagina, caratterizzato da una "incessante proliferazione di discorsi, pratiche e saperi incentrati sulla criminalità e sulla pena" (Simon, 2007, p.22).

Tuttavia, è innanzitutto osservando ciò che accade al di fuori delle istituzioni, volgendo cioè lo sguardo ai cambiamenti che hanno complessivamente luogo negli Stati Uniti e in Inghilterra nel periodo di transizione, che si possono tentare di comprendere le metamorfosi che le investono (Garland, 2001).

1.1. Il piano criminologico

Dalla fine della seconda guerra mondiale e per tutti gli anni Sessanta la gestione della criminalità si era basata sulla convinzione che la criminalità non fosse altro che il risultato delle disuguaglianze sociali, e allo stato si chiedeva di intervenire per il loro risanamento. Sull'onda di questa nuova percezione del fenomeno, nel contesto del sistema penale si abbandona il criterio retributivo della pena per abbracciare l'ideale della correzione del criminale in vista di un suo reinserimento all'interno della società.

Nell'analisi criminologica, a partire dagli anni Settanta, si registra invece un rifiuto anche dell'ideale della correzione. Si sviluppa infatti una vera e propria "simpatia per il diavolo" (Melossi, 2002), ovvero una sorta di "apprezzamento" della devianza, una certa vicinanza tra gli studiosi e l'oggetto dello studio. E' il periodo delle teorie dell'etichettamento, in base alle quali non è più la devianza, ma i processi di controllo sociale a costituire oggetto di studio. Secondo i teorici dell'etichettamento, si deve anche prendere in considerazione l'ipotesi che dietro la volontà di punire non ci sia solo la legge, ma anche ragioni di natura economica, politica, culturale (ibidem).

Poi, dalla seconda metà degli anni settanta, si assiste ad un capovolgimento quasi "isterico", citando Garland, anche dell'opinione dei cittadini americani e inglesi rispetto alla modalità di gestione della criminalità che aveva avuto luogo fino a quel momento. Una svolta improvvisa e per questo tanto più sorprendente.

Garland cerca di andare a fondo a questo capovolgimento isterico, e spiega che le trasformazioni nel controllo della criminalità avvenute nella tarda modernità furono innescate da un lato da riflessioni di carattere criminologico e dall'altro da forze storiche che hanno inciso sulla vita sociale ed economica del paese.

Nel corso degli anni settanta si verifica un violento attacco alle premesse teoriche e alle pratiche sulle quali il sistema della giustizia penale si fondava, attacco iniziato da quegli studiosi progressisti, tra cui anche i teorici dell'etichettamento, che riconoscevano in nuce all'ideale del correzionismo un mal celato autoritarismo: le pratiche correzionaliste avrebbero messo in pericolo il sistema della giustizia tutto, minando valori fondamentali come "l'autonomia morale, i diritti dell'individuo, le regole del giusto processo e i principi di legalità" (Garland, 2001, p.152). Secondo le critiche progressiste le politiche riabilitative avrebbero messo in pericolo i valori democratici liberali.

Tali critiche però aprirono a ben altri ideali, di segno completamente opposto, ovvero alle idee più reazionarie che del correzionalismo criticavano l'inutilità e la perversione, la prima intesa come dispendiosa impossibilità a cambiare le persone o attuare un miglioramento, la seconda come produzione di effetti indesiderati, tra cui peggioramento dei detenuti e aumento dei tassi di criminalità. Le parole che più spesso iniziarono a risuonare nel dibattito pubblico furono "Nothing works", (s)fortunata espressione coniata da Martinson in tutt'altro contesto (Garland, 2001, p.135). Dunque, come scrive Garland, "l'inizio del declino si è verificato nei primi anni Settanta, ed è stato il risultato della convergenza delle forze messe in campo sia dai movimenti radicali che da quelli reazionari, con i primi in una posizione dominante" (ibidem, p.156).

Quello che venne dopo fu un ribaltamento del ragionamento criminologico: il campo venne abbandonato dagli scienziati e assunse toni più populisti, si registrò una rinnovata presa di distanza dall'oggetto di studio, il criminale. Il criminale tornò ad essere mostro, altro da noi, un individuo che fa paura, contrassegnato da una scarsa levatura morale. Il reato divenne un atto immorale: saremmo di fronte a quelle che Garland a nominato "criminologie dell'altro" (Garland, 2001). Su di esse si poggiava il discorso "politico" sulla criminalità, ovvero il punto di vista al riguardo assunto dai politici e condiviso dall'elettorato, un discorso conservatore nel quale a prevalere è un ideale retributivo della pena.

Tutto questo accadeva al livello della politica, mentre al livello amministrativo, nel tentativo di dare risposta all'indirizzo politico conservatore e di contenere allo stesso tempo i costi, secondo un'ottica di stampo neoliberista, si ragionava sulla base delle criminologie del sé. Queste - ideate come le criminologie dell'altro da Garland, e a quelle opposte - pongono l'accento sul processo di vittimizzazione mentre perdono interesse nei confronti del criminale, il quale viene ridotto ad attore razionale che agisce in base ad un calcolo utilitaristico rispetto alle situazioni nel quale si trova. Questa diversa ottica sulla criminalità portò gli amministratori a prediligere politiche di prevenzione e gestione del rischio (politiche di incapacitazione selettiva, di prevenzione situazionale, di giustizia attuariale (Harcourt, 2008)) che meglio delle altre (three strikes and you are out, zero tolerance, ecc.) rispondevano - o si riteneva rispondessero - alle esigenze di contenimento dei costi dettato delle politiche neoliberiste.

1.2. Le forze storiche in gioco

Fermarsi all'ambito criminologico non è sufficiente a spiegare ciò che succede in quegli anni negli Stati Uniti. Infatti, come spiega Garland:

I processi che hanno minato la credibilità dell'assistenzialismo penale non sono gli stessi che, in epoca successiva, lo hanno fatto tracollare [...] L'ulteriore attacco al sistema, condotto negli anni ottanta e novanta, è avvenuto in un contesto pubblico caratterizzato da stati d'animo più regressivi, che aveva sullo sfondo una mutata percezione del problema e una narrazione sociale nuova e meno inclusiva. [...] i nuovi programmi e le nuove strategie del controllo della criminalità sono stati una risposta al presunto fallimento della giustizia penale statuale, nella sua forma penale assistenziale, e sono entrati nello spazio istituzionale creato dall'attacco al correzionalismo. Ma essi si sono adattati anche alle nuove circostanze sociali, politiche e culturali della società tardomoderna, e alle nuove relazione di classe e di razza che esse hanno inaugurato" (Garland, 2001, p.155-6).

Negli anni Settanta la critica al correzionalismo e la conseguente presa di distanza dagli ideali riabilitativi, che coinvolge prima gli accademici poi si estende anche agli operatori, si è imposta perché è coincisa con l'apice di una transizione sociale che ha visto convergere processi di cambiamento nella sfera economica, politica, culturale.

Per comprendere a fondo il processo in esame, si ripropone la differenziazione pensata da Garland, che ha distinto in due nuclei le forze storiche sulle quali la rivoluzione neoconservatrice e neoliberista ha potuto svilupparsi: da un lato si tratta delle "trasformazioni sociali, economiche e culturali caratteristiche della tarda modernità, esperite in misura più o meno marcata da tutte le democrazie avanzate del mondo occidentale dopo la seconda guerra mondiale, e in forma più accentuata dagli anni sessanta in poi" (Garland, 2001, p.157), dall'altro lato invece si fa riferimento ai riassetti e alle iniziative politiche avvenuti negli Stati Uniti, ed anche nel Regno Unito, a partire dalla fine degli anni settanta: è chiaro che queste ultime hanno avuto bisogno delle prime per svilupparsi.

Per quanto concerne il primo nucleo di queste forze storiche, il neoconservatorismo prende piede in una società americana che come molte altre era profondamente mutata rispetto ai decenni precedenti: in quegli anni, in molti paesi occidentali, la struttura della famiglia e della vita domestica cambia profondamente, con le donne che entrano in massa nel mondo del lavoro e con il conseguente aumento esponenziale del numero dei divorzi; l'ecologia urbana si trasforma influenzando i tempi e gli spazi della vita quotidiana che causano a loro volta "declino del senso di appartenenza ad una comunità locale e dei rapporti personali e diretti" e che conducono verso un "carattere sempre più privato della vita individuale e familiare"; iniziano a diffondersi i media elettronici che incidono non solo nel modo in cui le notizie vengono date e recepite, ma anche nella natura delle stesse: grazie al senso di immediatezza e di intimità che le notizie trasmesse dalla televisione comunicano, l'attenzione dei telespettatori e dell'opinione pubblica si è sempre più spostata sugli aspetti emotivi ed intimi degli eventi; la democratizzazione della vita sociale e della cultura ha portato i cittadini a credere che "tutto fosse possibile" aprendo ad un clima che ha anche alimentato le critiche progressiste sollevate contro il correzionalismo (ibidem, p.263 e ss.).

Per quanto concerne invece il secondo nucleo, le trasformazioni nella politica sociale ed economica hanno riguardato gli Stati Uniti nel periodo in cui sono stati presidenti Ronald Reagan e George Bush (1981-1992) e la Gran Bretagna durante il governo della Tatcher (1979-92). Poniamo ora l'attenzione su queste in particolare.

1.3. Politiche neoliberiste e neoconservatrici

Le politiche proposte da Thatcher e Reagan e le loro ideologie furono spiccatamente reazionarie: non solo si sono contrapposte alle politiche welfariste e alla cultura della tarda modernità, ma si preoccupavano anche di proclamare l'impegno a ridurre lo stato mentre, con le politiche che mettevano in atto, affermavano un apparato più forte e autoritario di prima. Il modello keynesiamo smise di essere la soluzione e divenne il problema, la causa della scarsa produttività, delle tasse troppo elevate e dell'inflazione. Il welfare state secondo l'opinione pubblica dominante non faceva altro che alimentare la cultura della dipendenza (Wacquant, 2006), conduceva al declino dell'autorità e alla crisi della famiglia.

Da un lato Reagan e Thatcher hanno potuto sfruttare, per ottenere il successo elettorale, l'insoddisfazione di un ceto medio che, ormai arricchito, preferiva rivolgesi ai servizi privati piuttosto che quelli statali, molto più costosi dei secondi ma anche caratterizzati da una maggiore qualità. La classe media iniziò quindi a smettere di usufruire dei servizi offerti dallo stato e iniziò a percepire la tassazione come un'imposizione odiosa: pagare per dei servizi di cui non si usufruiva in prima persona. In questo clima prese facilmente piede l'idea che il welfare servisse solo una parte della popolazione, quella più povera. Da ciò si sviluppa una vera e propria ostilità nei confronti dello stato assistenziale, alimentata e giustificata inoltre dall'idea della responsabilità individuale, idea veicolata dalla rivoluzione neoconservatrice, secondo la quale il povero sarebbe il solo e unico responsabile della propria condizione di povertà. La povertà era conseguenza di una scarsa levatura morale (2), di una sorta di pigrizia e di un'indisponibilità a lavorare dovuta alla mancanza di spirito di sacrificio, onde per cui, nell'ottica del neoconservatorismo, l'assistenzialismo non poteva che peggiorare la situazione creando dipendenza dall'aiuto statale.

La conseguenza più forte delle politiche neoliberiste, (intese come le politiche che adottarono un'ottica di libertà economica, smantellamento del welfare, impoverimento dei diritti dei lavoratori e di flessibilizzazione del lavoro) e delle politiche neoconservatrici fu la progressiva differenziazione sociale interna alla società inglese e americana. Si assistette in altre parole ad una progressiva differenziazione tra classi sociali, che ad esempio negli Stati Uniti, forse più che in Inghilterra, ricalcò palesemente le divisioni razziali all'interno della società: vi era una classe di afroamericani, poveri, minacciosi, di scarsa levatura morale, pigri, contrapposta ad una classe media di bianchi impauriti, moralmente integerrimi e lavoratori instancabili. Come scrive Garland:

per quanto dichiarassero di rivolgersi a tutti, le posizioni politiche delineatesi hanno ben presto messo in luce che il bisogno di un maggior controllo sociale non era generalizzato, ma un'istanza molto più focalizzata e molto più specifica che riguardava gruppi e comportamenti particolari, dimostrando in tal modo di voler fare piazza pulita delle conquiste tardomoderne. I benestanti potevano continuare a godere delle libertà personali e a professare l'individualismo morale, anzi, a goderne in misura maggiore grazie all'allargamento del mercato. Al contrario, i poveri dovevano diventare più disciplinati. Detto altrimenti, il neoconservatorismo esortava tutti a un ritorno ai valori della famiglia, del lavoro, dell'astinenza, dell'autocontrollo, ma di fatto i suoi imperativi morali si indirizzavano solo ai disoccupati, alle madri indigenti, agli immigrati, ai delinquenti e ai tossicodipendenti. (Garland, 2001, p.191)

Di fronte alla percezione di una dissoluzione della morale in atto, il neoconservatorismo ha trovato terreno fertile per reintrodurre nella politica i temi della tradizione, dell'ordine, della gerarchia e dell'autorità, rendendoli il proprio cavallo di battaglia. Ciò che si reclamava era un ritorno ad una società più ordinata, più disciplinata e più controllata.

1.4. Nascita della questione Sicurezza e governo attraverso la criminalità

I costi sociali delle politiche neoliberiste sono stati enormi: a fronte di un aumento della disoccupazione cronica, si è scatenato un clima di incertezza, che ha coinvolto sia le classi meno abbienti che quelle appartenenti al ceto medio; sentimento di incertezza accompagnato dall'approfondimento della divisione di classe e razziale. E' esattamente questo il contesto in cui Garland situa la trasformazione nel controllo della criminalità: al clima di incertezza fece da contraccolpo l'emergere di un clima culturale ipervigilante, ambivalente e insicuro, clima nel quale la criminalità ha iniziato ad essere percepita come un problema di indisciplina, di mancanza di autocontrollo e controllo sociale. Il crimine diviene una scelta individuale di fronte ad un sistema di controllo blando e come tale merita di essere punita.

Sulla spinta di questo nuovo sistema di pensiero condiviso dall'opinione pubblica, la questione criminale, sradicata dalla complessità dei rapporti sociali, viene ridefinita come problema di edificazione morale (Melossi, 2002). Il problema a cui i politici sono chiamati è quello di costruire "l'egemonia di una nuova moralità" (ibidem, p.225). Come già accennato, in questo clima culturale la criminologia torna a distanziarsi dal proprio oggetto di studio e a considerare il criminale come mostro, la più grande minaccia per la società, poiché in grado di separarla, frammentarla, minarne il tessuto alle fondamenta.

La crisi economica, l'aumento dell'insicurezza e della conflittualità sociale, la crescita dei tassi di criminalità degli anni Sessanta, hanno scatenato una sorta di panico morale che la destra conservatrice è riuscita ad egemonizzare attraverso le politiche di law and order e tolleranza zero. Argomenta Garland che:

alla fine degli anni sessanta, immagini televisive di scontri interraziali nelle città, di lotte violente per la rivendicazione dei diritti civili, di dimostrazioni antimilitariste, di omicidi politici, insieme ad un aumento della criminalità di strada, hanno mutato l'orientamento dell'americano medio, proprio quando le storie di rapine a mano armata e di microcriminalità, il sindacalismo militante, i conflitti cronici tra imprenditori e operai e le lunghe file di disoccupati finivano con il convincere molti elettori britannici che la politica socialdemocratica moderata aveva fatto il suo tempo. Insieme all'impatto economico devastante causato dalla recessione verificatasi alla metà degli anni settanta, questi fattori hanno innescato la crisi dell'assetto politico del dopoguerra. (Garland, 2001, p.187-8)

La cultura politica conservatrice ha spostato il dibattito pubblico attorno alle problematicità sociali e individuali sul piano del vocabolario punitivo (Campesi, 2007). Perno del discorso conservatore era il continuo rimando alla minacciosa immagine di un'ondata di disordine e criminalità alimentata dalla presenza di una vera e propria classe pericolosa. Prese piede in quegli anni e in quei luoghi l'ossessione sicuritaria, base sulla quale venne ideato un nuovo sistema di controllo, nonché di governo, che faceva della Sicurezza il criterio primo di legittimazione di qualsiasi azione di governo intrapresa in suo nome. E questo è il clima su cui teorie quali quella dell'incapacitazione selettiva o delle "finestre rotte", da un noto articolo di Wilson e Kelling (1982), hanno potuto prendere così tanto spazio, tanto da elaborare soluzioni di sapore repressivo e criminalizzante che finirono per costituire un vero e proprio modello di governo.

Negli ambienti della politica ci si rese conto che "la criminalità come problema rappresentava in un certo senso una soluzione" (Simon, 2007, p.33), e che poteva costituire la via per il rinnovamento del governo. I politici e gli amministratori compresero ben presto quanto essa rappresentasse una questione strategica di grande rilievo, dal momento che "in tutti i contesti istituzionali si ritiene che chiunque si mobiliti per prevenire reati o altri comportamenti problematici assimilabili a questi ultimi agisca con piena legittimità" (ibidem, p.5); in questo senso allora la categoria di criminalità è in grado di legittimare forme di intervento che presentano altre motivazioni, e come tale offre sempre nuove opportunità di governance. E' proprio in questo che consiste il governo attraverso la criminalità di cui parla Simon nel suo "il governo della paura":

quando governiamo attraverso la criminalità, rendiamo il crimine e le forme di sapere a esso storicamente associate -diritto penale, letteratura popolare sulla criminalità, criminologia- disponibili al di là del loro ambito di origine, facendone uno strumento efficace con il quale interpretare ed inquadrare tutte le forme di azione sociale come questione di governance. (Simon, 2007, p.22).

Come sottolinea Simon, la questione criminale è divenuta a tal punto centrale per l'esercizio dell'autorità in America, che per rimuoverla sarà necessario uno sforzo collettivo da parte degli americani. Pervade infatti gran parte dei flussi di informazioni, discorsi e dibattiti. La guerra alla criminalità ha deformato la democrazia americana in quanto ha modificato il sistema di priorità. Spiega Simon: "nel sillogismo tradizionale, la criminalità (insieme alla violenza che essa autorizza) costituisce, in genere, l'estrema ratio, il momento conclusivo di un percorso di resistenza all'autorità legittima. A essere visibilmente diverso, nel modo in cui governiamo a partire dagli anni Sessanta, è il livello in cui la criminalità costituisce oggi la prima ratio" (Simon, 2007, p.19).

Il governo attraverso la criminalità, così per come lo intende Simon, non si limita a governare gli appartenenti alle classi più povere, ma "riconfigura attivamente il modo in cui si esercita il potere lungo le gerarchie di classe, razza, etnia e genere" (ibidem, p.24). In questo senso, saremmo di fronte ad un carattere performativo della criminalità.

Ciò che ha fatto sì che la criminalità divenisse un eccelso strumento performativo di governo è il processo di politicizzazione che il discorso sulla criminalità ha subito nel corso del tempo. Come spiega Garland, il ricorso alle politiche non adattive, espressione con cui l'autore fa riferimento proprio a quelle politiche di stampo neoconservatore che aprirono poi al governo attraverso la criminalità di cui parla Simon, si è accentuato con il mutare dei presupposti del discorso politico:

Negli anni ottanta e novanta, i processi decisionali in quest'area sono divenuti più politicizzati, più rischiosi e più soggetti all'attenzione della stampa e dell'opinione pubblica. Nel momento in cui la questione criminale diveniva un tema caldo sul quale potevano giocarsi le campagne elettorali, i partiti politici entravano in competizione per dimostrare chi fosse più intransigente nella lotta contro la criminalità, chi fosse più interessato alla sicurezza pubblica e capace di ripristinare moralità, ordine e disciplina, contrastando la degenerazione sociale dell'epoca tardomoderna. E mentre l'agenda neoliberista favorevole alla privatizzazione, alla competizione del mercato e alla riduzione della spesa pubblica ispirava gran parte della riforma delle agenzie preposte all'amministrazione della giustizia penale - collocate dietro le quinte - è stata invece l'agenda neoconservatrice a dettare i principi più visibili della politica penale. Invece di riconoscere il limiti della sovranità statale e adattarvisi, questo programma mirava a riguadagnare la fiducia pubblica nella giustizia penale, affermando i valori della disciplina morale, della responsabilità individuale e del rispetto dell'autorità. Tanto nella politica penale che in quella assistenziale, l'imperativo era quello di ristabilire il controllo attraverso il ricorso a strumenti punitivi. In entrambi i casi, la popolazione che risultava più bisognosa di controllo era quella composta dai poveri, dai neri e dai giovani emarginati provenienti dalla classe operaia. (Garland, 2001, p.233-4)

Insomma negli Stati Uniti della tarda modernità si assiste all'elaborazione di un modello di governo che è stato successivamente adottate da altri paesi, nel momento in cui si sono trovati ad affrontare periodi simili di crisi e di vuoto di legittimazione (come ad esempio l'Italia negli anni Novanta): si tratta del gioco neoliberale-neoconservatore, in base al quale esigenze di tipo economico ed esigenze di tipo politico si incastrano perfettamente per andare a creare una rete che cattura la parte della popolazione che si elegge a nemico. In Italia, oggigiorno, questa popolazione è rappresentata dai migranti. Come scrive Palidda:

la combinazione fra impossibilità quasi totale di immigrazione regolare e di mantenimento della regolarità e la stretta repressiva nei confronti degli immigrati" conduce a "da un lato la riproduzione dei clandestini, ossia di manodopera schiavizzabile perché priva di ogni diritto e di ogni possibilità di accedervi [...], dall'altro lato [al]la facile designazione del nemico di turno a cui attribuire la responsabilità di tutte le paure, le insicurezze, i malesseri e i problemi economici e sociali provocati dallo sviluppo neoliberale stesso. (Palidda, 2008, p.9-10)

2. Gli anni Novanta: le politiche di sicurezza arrivano in Italia

Al fine di comprendere alcuni paradossi della società italiana odierna e della modalità attraverso la quale si seguita ad affrontare la questione dell'immigrazione in questo paese, o anche per comprendere più a fondo certe modificazioni del diritto, non si può a mio parere prescindere da certe peculiarità della storia italiana. In particolare non si può prescindere da ciò che è avvenuto in Italia nel corso degli anni Novanta.

Credo sia fondamentale ragionare sul come si collochi, alla radice di quella che è la situazione oggi, la crisi che ha investito l'Italia in quegli anni. Essa ha infatti influito sulla formazione di un certo senso di insicurezza che è poi sfociato in un sentimento anti-immigrato, divenuto negli anni, e per il concorso di vari altri fattori (il veloce divenire dell'Italia paese d'immigrazione, senza che la popolazione se ne rendesse conto, la svolta a destra della compagine governativa e la crescita costante della Lega Nord, l'influenza dei discorsi di legge e ordine provenienti da oltre oceano...), progressivamente più forte.

Nel corso di questo paragrafo proverò quindi a delineare i tratti più importanti di questo pezzo di storia, la cui portata viene a mio parere spesso erroneamente sottovalutata; e nel farlo mi avvarrò principalmente di un bel testo di Roberto Cornelli, dal titolo "Paura e ordine nella modernità" (3).

2.1. Il falso allarme degli anni Settanta

Un'improvvisa attenzione alla questione della criminalità esplose per la prima volta in Italia a metà degli anni '70, e ad essa seguì il tentativo di reprimere il fenomeno tramite misure di diritto penale e tramite la compressione delle garanzie individuali (4).

L'allarme sicurezza che si ebbe negli anni Settanta fu l'esito di un momento di grave crisi interno alla società italiana (vedi la crisi petrolifera del '73) e servì principalmente a fini politici: in quel preciso momento storico "l'induzione di allarme sociale [servì], da un lato, alle classi dirigenti per deviare l'attenzione dai reali problemi economici e dalle difficoltà di governarli politicamente, dall'altro [consentì] al ceto politico - non solo al governo - di recuperare il deficit di consenso sociale, presentandosi come difensori della società contro il pericolo criminale" (Cornelli, 2008, p.15). Non che queste motivazioni non siano le stesse che ricorsero negli anni Novanta. Solo che negli anni Settanta, l'allarme criminalità rispose ad un'esigenza transitoria, mentre negli anni Novanta lo stesso tipo di allarme si può dire portò a cambiamenti strutturali in seno alla struttura societaria, al sentimento d'insicurezza, e all'immaginario condiviso dalla popolazione.

Dunque, quella degli anni Settanta fu in Italia nulla più che un'attenzione momentanea: il richiamo alla "law and order" attecchì, infatti, solo a partire dagli anni Novanta, secondo lo stesso iter che aveva seguito negli Stati Uniti.

2.2. Fear of crime

Conviene, prima di proseguire con la trattazione in specifico del caso italiano, soffermarsi su di un punto non adeguatamente approfondito nel paragrafo precedente. Negli Stati Uniti, a metà degli anni Sessanta iniziavano a comparire le prime inchieste di vittimizzazione e lungo il solco di queste prime indagini nasceva un nuovo filone di ricerca che indagava la "fear of crime". Ciò accadeva contestualmente al programma della "guerra al crimine" del presidente in carica, Lyndon Jonhson. Critici sostengono che pilotare l'attenzione dell'opinione pubblica sulla fear of crime fosse, in quei luoghi e in quel preciso momento storico, un modo come un altro per sviare l'attenzione dalla guerra in Vietnam, dal momento che si stava rivelando una scelta di politica estera piuttosto impopolare.

Come si sia arrivati ad attribuire una tale importanza e così tanta risonanza alla "paura della criminalità" è una questione piuttosto complessa. Cornelli la ricostruisce basandosi su di un articolo di Murray Lee (2001) (5), il quale denomina "fear of crime feedback loop" il processo circolare attraverso cui la paura della criminalità è venuta intensificandosi. Lee spiega che negli anni Sessanta, negli Stati Uniti,

la ricerca sulla vittime produsse e sostenne il concetto criminologico di paura della criminalità quantitativamente e discorsivamente; questa produzione scientifica, veicolata anche attraverso i mass-media, identificò la paura come un oggetto specifico di intervento da parte della politica governativa; le tecniche di regolazione governativa, sostenute dalle indagini statistiche, si rivolsero a particolari tipi di cittadini, la "popolazione che teme"; questi tentativi di governo della paura resero la cittadinanza consapevole del suo stato di allarme per il fenomeno criminale, sensibilizzandola alla paura della criminalità; i gruppi di interesse e il sistema politico presero a riferimento la categoria della popolazione che teme per giustificare politiche criminali più repressive, contribuendo ad aumentare l'allarme dei cittadini; queste dinamiche stimolarono ulteriormente l'interesse scientifico e la ricerca sulla paura della criminalità e così via. (Cornelli, 2008, p.23)

Come si diceva sopra, il concetto di paura della criminalità inizia a diffondersi in Italia a partire dagli anni Novanta e seguirà lo stesso schema appena proposto per gli Stati Uniti. Infatti, in questo periodo iniziavano a comparire le prime indagini di vittimizzazione nonché i primi sondaggi sulla sicurezza realizzati da enti privati: i risultati parlavano di un allarme criminalità e l'allarme criminalità iniziò a riempire le prime pagine dei giornali. Da qui in poi "aumento della paura e incremento dei tassi di criminalità divennero due realtà auto-evidenti che si sostenevano reciprocamente" (Cornelli, 2008, p.25).

2.3. La crisi degli anni Novanta

Gli anni di Craxi e dell'inchiesta mani-pulite, degli sbarchi dall'Albania e della crisi economica. Gli anni Novanta sono stati in Italia un periodo di crisi "drammatica e profonda" (Ginsborg, 1998) (6); non una crisi localizzata, ma diffusa a più livelli nella società: si assiste in questi anni alla crescita di sfiducia della popolazione italiana nei confronti delle istituzioni, mentre domina un senso collettivo di disorientamento, indignazione e insicurezza, che si rese palese, in prima istanza, nel trionfo della Lega Nord alle elezioni del 1992 (il partito passò dallo 0,5 per cento all'8,7 per cento, arrivando a punte del 25,5 per cento in alcune regioni, ad esempio la Lombardia).

Quando si cerca di ricostruire le cause che portarono a questa crisi, che sfociò poi in quella che viene da più parti riconosciuta come la crisi della prima Repubblica, sono molti i fattori presi in considerazione: la perdita progressiva della memoria collettiva del fascismo e della Guerra; la perdita del senso di appartenenza ai partiti tradizionali (a causa della progressiva scomparsa del ruolo anti-comunista della DC e del venir meno della polarizzazione del conflitto politico); l'inchiesta "Mani Pulite" e il suo impatto delegittimante sulla classe politica; la crisi economica; il mutamento della legge elettorale per le elezioni parlamentari con il referendum del '93.

In effetti, l'evento che meglio rappresenta la crisi che l'Italia stava attraversando in quegli anni fu il generale crollo dei partiti alle elezioni del '93.

Se anche il crollo del regime comunista degli anni '89-'90, e la conseguente fine del bipolarismo est-ovest, gioca un ruolo importante nella disaffezione rispetto ai partiti, poiché in Italia la fine del bipolarismo si traduce in primo luogo nella fine della contrapposizione tra PCI e DC, all'origine della crisi vi fu comunque un'opinione radicata e diffusa riguardo alla degradazione del sistema dei partiti, alle consuete pratiche di corruzione e all'incapacità da parte del governo di affrontare le emergenze con misure efficaci sul breve periodo.

Quella che attraversa l'Italia negli anni Novanta insomma è una vera e propria crisi del sistema politico nel suo complesso, accompagnata da una profonda crisi della fiducia degli italiani nella classe politica e forse nella politica tout court. Credo che ciò che in quel periodo è venuto meno sia la fiducia nel fatto che la politica rappresenti il luogo nel quale le battaglie determinanti possono venire combattute e nel quale la posta in gioco è il bene comune.

Un ottimo modo per descrivere la situazione di quel periodo è riportare integralmente un'illuminante citazione di Paul Ginsborg, riproposta a sua volta da Cornelli:

Vista dal palazzo di giustizia di Milano [la crisi] assunse l'aspetto di una battaglia contro la corruzione e per la restaurazione dell'autorità e della legge. Dall'osservatorio della Banca d'Italia, prese la forma di una crisi d'indebitamento, che avrebbe causato la sfiducia europea e internazionale nei confronti dell'economia italiana. Vista dalla Lombardia e dal Veneto, fu una rivolta contro Roma in nome del neolocalismo e della laboriosità virtuosa del Nord. A Montecitorio, il centro focale della crisi sembrò consistere nella dissoluzione delle vecchie élites e nel bisogno impellente di definire nuove regole e nuove modalità di funzionamento del sistema politico. Nella fragile società civile di Palermo, assunse l'aspetto di una lotta disperata contro il potere mafioso. (Ginsborg, 1998, p.471-2)

Anche le stragi mafiose di quegli anni concorsero ad aumentare il caos politico-istituzionale e a destabilizzare la società italiana: il 23 maggio 1992 veniva ucciso Falcone e il 19 luglio dello stesso anno era la volta di Borsellino. Cresceva lo sconcerto e la rabbia, e il fatto che emergessero rapporti tra la mafia e le più alte cariche dello stato non faceva che aumentare l'indignazione.

L'episodio simbolo della fine di una classe politica e di una crisi profonda risale all'aprile di quell'anno, quando una folla furibonda, all'indomani del voto alla camera dei deputati che negò l'autorizzazione a procedere nei suoi confronti, contestò pesantemente Craxi all'uscita dall'albergo in cui stava alloggiando, con lancio di monete e cori indimenticabili (7). Craxi riuscì a salire in auto, ma la folla di manifestanti sfondò il cordone di sicurezza della polizia e iniziò a prendere a calci l'auto esprimendo tutta la rabbia di una popolazione che aveva dovuto sopportare anni di scandali (8).

Il sistema dei mass-media che "concorse all'affermazione e alla cristallizzazione dell'insoddisfazione, dell'indignazione, della preoccupazione e della sfiducia ormai dilaganti" (Cornelli, 2008, p.35). Infatti, il circuito mass-mediatico ebbe un ruolo centrale nel compilare un catalogo di discorsi di senso comune, chiacchiere da bar che si piantarono nella testa della gente e che diffusero e alimentarono una serie di credenze di senso comune, più o meno attinenti alla realtà: dalle lamentele per il fatto che "le istituzioni sono lontane corrotte e inefficienti" a quelle contro la magistratura che si occupa solo dei grandi processi, quelle eterne su "la polizia che arresta ma il giorno dopo i criminali sono liberi", le grandi verità come "la mafia controlla i territori e s'infiltra nelle istituzioni locali", fino alle ineliminabili menzogne come "gli immigrati occupano le strade e le piazze e fanno quello che vogliono" e "gli immigrati delinquono più degli italiani". Infatti, il senso di crisi sociale e istituzionale italiana di quegli anni fu segnato oltre che dall'inchiesta "Mani Pulite" e l'indignazione per la corruzione politica diffusa (che fin qui abbiamo analizzato), anche dal fenomeno migratorio e il sentimento d'intolleranza per gli "extra-comunitari".

2.4. Il fenomeno migratorio

Le migrazioni verso l'Italia iniziarono negli anni Settanta, ma il fenomeno era ancora poco diffuso (la presenza di migranti è stimata in quel periodo per un numero inferiore alle 100.000 unità), tanto che i primi interventi legislativi in materia di immigrazione risalgono solo agli anni Ottanta (9).

Un fattore degno d'interesse è che nel corso degli anni Novanta trova avvio un processo di progressivo inasprimento delle politiche migratorie: col decreto Dini, del 1995, si trasferì alla polizia la soluzione dei problemi posti dall'immigrazione, "ampliando la casistica delle espulsioni preventive e sottraendo al giudice naturale lo straniero sospettato di turbare l'ordine pubblico o condannato per reati minori" (Cornelli, 2008, p.30), circostanza che rappresentò una svolta nella cultura politica e giuridica italiana. Il 1998 fu invece la volta della Turco-Napolitano, che cercò, senza grande successo, di uscire dalla modalità di gestione del fenomeno migratorio come fosse una perenne emergenza: ribadì la politica delle espulsioni preventive, e applicò una logica binaria alle migrazioni, che da una parte puntava a misure volte all'integrazione degli stranieri regolari, dall'altra a misure volte alla repressione degli stranieri irregolari (10). Ciò avviene contestualmente al formarsi della percezione diffusa dell'esistenza di un'"emergenza immigrazione", che poi non abbandonerà più l'immaginario collettivo di questo paese.

Sembra infatti che l'opinione pubblica, dopo lo scossone della fine della prima Repubblica, pose al centro di tutti gli eventi critici di quegli anni proprio il fenomeno migratorio. Scrive Cornelli che "l'emergenza immigrazione, sostenuta e legittimata da dati, opinioni e pubblicazioni di giornalisti, esperti e politici, invase la vita degli italiani, intersecando le altre emergenze nazionali" (ibidem, p.31).

Non credo che si possa ridurre ciò ad una ricerca del capro espiatorio da incolpare per il proprio malessere. Credo piuttosto che in quegli anni in Italia, ad uscire disgregato da un momento di totale smarrimento, causato in primis dalla sfiducia verso le istituzioni, fu lo stesso tessuto sociale. Immagino che in un momento del genere sia emerso con particolare forza un senso di atomizzazione tra i "cittadini autoctoni" rimasti senza punti di riferimento. Personalmente ipotizzo che questo sentimento anti-immigrato sia emerso con tanta forza in questo periodo come reazione al bisogno della comunità di ritrovare se stessa, ovvero al suo bisogno di ritrovare coesione nell'unione delle forze contro un nemico comune, dopo un periodo di grande smarrimento quale quello appena passato. E non mi sorprende che proprio nel migrante venga riconosciuto tale nemico.

Ciò che venne fuori da questa esperienza di crisi fu la percezione diffusa "di una stretta relazione tra immigrazione, crisi economica, inadeguatezza della politica, violenza diffusa e degrado urbano" e la contiguità dei sentimenti di "intolleranza nei confronti degli stranieri con sentimenti di precarietà economica, di sfiducia nella politica, di preoccupazione per la propria incolumità e di sdegno per le condizioni di vita nei quartieri periferici" (ivi).

Gli stranieri divennero il principale bersaglio del sentimento di paura che si stava rapidamente diffondendo, sentimento completamente irrazionale poiché alimentato dalla facile comunicabilità del dato statistico costruito sul binomio criminalità-immigrazione. Inoltre, mentre nella "narrazione scientifica" la paura della criminalità viene considerata un epifenomeno rispetto ad altri elementi su cui gli studiosi preferiscono concentrare la propria attenzione, essa è costantemente al centro delle "narrazioni quotidiane" ovverosia è al centro dei discorsi dei politici, dei mass-media, nei bar e nelle strade. Ciò significa che nel momento in cui si tratta del problema della paura della criminalità, l'argomento potrà difficilmente essere analizzato scientificamente, poiché esso non è mai stato oggetto di analisi scientifica; i pensieri di senso comune rispetto alla paura della criminalità continueranno dunque a riprodursi incontrastati, e quindi è facile che si riproduca e che diventi "vero" il discorso che parla della maggiore propensione a delinquere, e della consequenziale pericolosità, dei migranti (Dal Lago, 1998).

2.5. Nascita della questione sicurezza

Ricapitolando, possiamo collocare l'emergere della questione sicurezza in Italia negli anni Novanta, anni in cui si diffonde una vera e propria invasione della paura della criminalità, che in un terreno segnato da logorate relazioni tra cittadini e tra cittadini e istituzioni è riuscita ad attecchire in profondità.

Gli anni Novanta in Italia sono stati, come abbiamo visto, un periodo di crisi, segnato da il crollo di un sistema politico, dovuto all'avidità e alla corruzione dei suoi esponenti, dalla crisi economica, dall'"invasione degli immigrati", rappresentata dall'arrivo dei barconi e dalla presenza dei lavavetri ai semafori, dalla forza delle mafie e la loro infiltrazione nel sistema politico ed economico.

La "domanda di sicurezza" fu la modalità di espressione che trovarono i sentimenti di rabbia, indignazione, sfiducia che da tempo serpeggiavano all'interno della società italiana. Se negli anni Settanta l'insicurezza era stata dotata di senso e riformulata in chiave di una richiesta di maggiore welfare, negli anni Novanta, quegli stessi sentimenti, questa insicurezza diffusa, viene dotata di un senso diverso e trasformata nella richiesta di maggiore penalità.

Bisogna aprire una breve parentesi in proposito; infatti, questa richiesta di maggiore penalità trova la propria ragion d'essere in una caratteristica propria dell'ordinamento italiano: il diritto penale, come sostiene Sbriccoli (1998), rappresenta in Italia lo strumento primario della risposta che a livello statale viene data nei momenti di maggiore difficoltà del paese. Ne deriva da ciò, oltre al fatto che il dibattito sul problema penale trova posto tra le questioni al centro della vita politica italiana, che finisce per essere estremamente facile che i malumori della gente, anche momentanei, si traducano in interventi legislativi di tipo penale. Inoltre, il fatto che il settore penale si trovi al centro del dibattito ha delle importanti ripercussioni sulle finalità stesse del diritto: nella produzione normativa, accanto al momento giuridico, che continua ad essere quello prioritario in quanto fornisce la logica e la lingua del diritto, vi sarebbe un momento politico, nel corso del quale la politica riesce ad imprimere la propria scala di priorità nel diritto. La penalistica italiana sarebbe in altre parole caratterizzata da una vera e propria "vocazione all'apertura culturale, alla permeabilità politica ed alla sensibilità civile"(Sbriccoli, 1998, p.496). Ne deriva che nel diritto italiano "contenuti, ragioni e fini si rapportano a opzioni politiche, a programmi di riforma, a obiettivi sociali attinti in ambiti che giuridici non sono" (ivi). E questa rappresenta sicuramente una probabile via, tra le altre, attraverso cui spiegare come la domanda di sicurezza si fece largo nella politica italiana in quel periodo storico.

La domanda di sicurezza iniziò a trovare un posto in campagna elettorale, e nei programmi dei partiti politici a partire dalle elezioni del 1996. Già assunta da alcuni partiti marginali quali An, o emergenti, quali la Lega Nord, essa entrò anche tra le priorità degli schieramenti maggioritari, seppur con toni più propagandistici nel centro-destra e con toni più tecnici nello schieramento del centro-sinistra. Scive Cornelli che dal 1996 la domanda di sicurezza "trovò definitivamente legittimità nella Politica e, da quel momento in poi, avrebbe costituito un perno fondamentale per la costruzione del consenso a livello nazionale e locale" (Cornelli, 2008, p.39).

3. Il ruolo della paura

Nei momenti di crisi prevale la sensazione di essere al capolinea della storia (De Martino, 1977 cit. in Cornelli, 2008, p.253) che porta a sua volta le persone a percepirsi in solitudine ad affrontare una vita sempre più complessa e ricca d'insidie. In periodi di crisi "lo stato di guerra di tutti contro tutti riemerge nell'immaginario collettivo e, con esso, il tema della violenza e della paura della paura" (ibidem, p.254). Succede che in occasione delle crisi socio-economiche e politico-istituzionali

le esperienze quotidiane e i discorsi pubblici si popolano di situazioni che evocano un regresso della civiltà a forme di barbarie economiche, sociali e civili, in cui ciascuno torna ad essere nemico di ogni altro, e suscitano il timore di un ritorno ad una condizione in cui ciascuno deve temere la violenza degli altri e difendersi da essa. (Cornelli, 2008, p.255).

E' questo il caso dell'Italia nella crisi degli anni Novanta, con il crollo del sistema politico della cosiddetta Prima Repubblica, con la crisi economica di quegli anni, con la percezione di un'"invasione" dei migranti, con la debolezza mostrata dallo stato in occasione della guerra contro le mafie: tutto ciò ha probabilmente portato gli italiani a sentirsi soli di fronte ad una situazione di caos difficilmente governabile: riemerge la paura, che difficilmente può venire imbrigliata da istituzioni che hanno perso la fiducia da parte della popolazione.

In situazioni del genere, con la popolazione in preda al disagio, all'insicurezza, e alla paura rispetto ad un contesto difficilmente governabile, in cui sentirsi insicuri diviene facile, la criminalità viene investita di nuova luce; come scrive Cornelli:

[la criminalità] non emerge più come problema sociale da affrontare nell'ambito di un progetto politico-culturale che investe la società nel suo insieme (com'era il progetto della modernità), bensì come problema individuale, che pone l'individuo solo di fronte alla propria incertezza del vivere quotidiano. Il giudizio penale, così come le istituzioni in generale, perde la sua valenza simbolica di contenimento della violenza e del disordine; e lascia sul campo delusione, sfiducia e insicurezza. Priva di un apparato ideale che le restituisca un senso politico, la criminalità emerge, nella percezione diffusa, in tutta la sua potenzialità distruttiva per l'individuo. (Cornelli, 2008, p.255)

Una volta che l'immagine della criminalità dilagante e incontenibile si è sedimentata a tal punto da divenire argomento dibattuto nei telegiornali, nelle sedi politiche e nei bar, tale immaginario condiviso ha un duplice effetto; da una parte esso rimanda alla debolezza delle istituzioni che non sono in grado di regolarizzare la situazione, dall'altro "il timore della violenza che minaccia l'ordine viene riscoperto come esperienza affettiva fondamentale nella relazione tra i cittadini e le istituzioni: questa emozione costituisce il terreno simbolico su cui le istituzioni moderne, affette da una sorta di paura sacra di perdere la propria capacità di creare ordine, tentano di legittimarsi e su cui, in ogni caso, si vanno costruendo nuove forme di cittadinanza" (Cornelli, 2008, p.255-6).

E' un allarme criminalità quello che si è fatto strada negli anni Novanta, conseguente ad un aumento molto netto nel tasso di criminalità registrata. Il fatto curioso, a cui accennavo all'inizio, è che, come fa notare Melossi nel suo libro "Stato, controllo sociale, devianza", sono due gli aumenti molto netti nei tassi di criminalità registrata che si sono verificati in Italia dopo la Seconda Guerra mondiale, uno negli anni Sessanta e l'altro durante i Novanta. In entrambi i casi si è verificato un aumento della paura e dell'allarme sociale, ma tale allarme ha assunto due forme diverse nei differenti contesti storici. Infatti, la risposta che l'élite politica diede alla paura e l'insicurezza determinati dall'aumento dei tassi di criminalità, arrivò in chiave di una lotta combattuta contro il terrorismo politico, a colpi di diritto penale, negli anni Settanta, e contro la criminalità organizzata negli anni Ottanta. Ciò non significa che in quegli anni non si siano sviluppati per nulla fenomeni di paura e di "panico morale" in relazione alla criminalità "ordinaria" ma che questi "non hanno giocato un ruolo rilevante nella sfera pubblica e nell'agenda politica" (Melossi, 2002, p.260). Al contrario, negli anni Novanta, complice una diminuzione della partecipazione sociale e politica, le cui dinamiche e cause mi sono fermata a spiegare nel corso di questo paragrafo, l'allarme criminalità si legò anche a fenomeni di criminalità minore, generando un sentimento diffuso di insicurezza.

Lo stesso fenomeno che Simon riconosce nell'analizzare la situazione degli Stati Uniti, ovvero che non si tratta più di governare la criminalità, ma di governare attraverso la criminalità (Simon, 2007), credo lo si possa riconoscere nella gestione della cosa pubblica a cui da tempo stiamo assistendo nel nostro paese.

In definitiva, "la paura della criminalità costituisce la principale risorsa simbolica per la legittimazione di istituzioni in crisi"(Cornelli, 2008, p.255): essa "rappresenta a pieno la solitudine e l'insicurezza tardo moderna nei confronti di fatti percepiti come sempre meno controllabili" (ivi) e ha tanta forza da riuscire a chiamare a raccolta intere popolazioni attorno ad uno stato che, nel presentarsi come "stato protettore", ritrova qui la fonte di legittimazione perduta.

Note

1. Le politiche in ambito di immigrazione decise entro i confini europei hanno forti ripercussioni anche all'esterno di quegli stessi confini: basti pensare agli accordi Italia-Libia che impediscono la partenza di molti dalle coste Libiche, si pensi alla costruzione di centri di permanenza temporanea al di fuori dell'Unione Europea, o anche alle richieste fatte ai "paesi terzi sicuri" che impediscano ai propri cittadini di emigrare: su questi punti si veda Sciurba, 2008.

2. Si veda la trattazione della ragazza madre di origine afroamericana in Wacquant, 2006.

3. R. Cornelli (2008), Paura e ordine nella modernità, Giuffré, Milano.

4. risale infatti di questo periodo la legge Reale (1975).

5. M. Lee (2001), "The genesis of fear of crime", in Theoretical Criminology, vol.5(4), pp.467-485.

6. P. Ginsborg (1998), L'Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato, Einaudi, Torino.

7. Ci tengo a citarne uno in particolare che, sulle note di Guantanamera, recitava "vuoi pure queste, Bettino vuoi pure queste?", mentre venivano sventolate banconote da 50 o da 100 mila lire.

8. Viene da chiedersi che fine abbia fatto quell'indignazione oggi come oggi...

9. Una legge del 1986, la n.943, disciplinò le condizioni di lavoro e avviò la prima sanatoria, ma soggiorno ed espulsioni venivano ancora regolate da un decreto del 1931, relativo alle norme di pubblica sicurezza. Nel 1990 è la volta della Legge Martelli, il primo intervento a disciplinare in maniera organica la materia, affrontando però la questione dell'immigrazione come un problema di ordine pubblico.

10. Venne aggiunta l'espulsione amministrativa all'espulsione come misura di sicurezza o in via sostitutiva alla pena detentiva e vengono istituiti i CPT.