ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo terzo
La normativa italiana in tema di accesso dello straniero all'assistenza sociale: un'analisi alla luce del principio di ragionevolezza e di non discriminazione

Daniela Ranalli, 2010

Sommario: 1. Le norme costituzionali che disciplinano la condizione giuridica dello straniero. - 2. Una mappatura dei diritti sociali costituzionalmente garantiti: l'oscillazione tra diritti dell'uomo e diritti del cittadino. -3. La condizione giuridica del non cittadino tra differenziazioni ragionevoli e tutela antidiscriminatoria. -4. Il testo unico sull'immigrazione. Una tendenziale parità. -5. Le restrizioni introdotte dalla legge n. 388/2000. La tipologia del titolo di soggiorno come limite all'accesso alle prestazioni sociali. -6. Profili d'incostituzionalità della normativa italiana. La posizione illuminata della Consulta nella sentenza n. 432/2005. -6.1. A passo di gambero. La Corte costituzionale delude le attese. La sentenza n. 324/2006 -6.2. L'incerto equilibrio delle pronunce della Corte, tra l'irragionevolezza del requisito reddituale e la tacita legittimità del requisito della durata del soggiorno. Le sentenza n. 306/2008 e n. 11/2009 e l'ordinanza n. 285/2009. -7. Le soluzioni della giurisprudenza di merito in favore della parità di trattamento. -7.1. La disapplicazione dell'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000 per contrasto con il principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale affermato a livello europeo - 7.2. La disapplicazione della disciplina italiana per contrasto con le disposizioni della CEDU e con le pronunce della Corte di Strasburgo. -7.3. Il riconoscimento della parità di trattamento attraverso un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000 - 7.4. Le soluzioni giurisprudenziali in favore della parità di trattamento per determinate categorie di stranieri - 8. Sempre più lontani dalla parità e dalla ragionevolezza. Le scoraggianti prospettive delle innovazioni legislative in materia di assistenza sociale.-9. La posizione dell'INPS in seguito alle sentenze della Corte Costituzionale.

1. Le norme costituzionali che disciplinano la condizione giuridica dello straniero

Le norme costituzionali che costituiscono il fondamento dei diritti riconosciuti allo straniero sono essenzialmente due: in primo luogo l'art. 2, che pone l'obbligo per lo Stato di riconoscere e garantire i diritti fondamentali dell'uomo, cioè quei diritti inviolabili riferibili alla persona umana in quanto tale, e pertanto riconosciuti anche agli stranieri. La previsione di una disposizione di questo tipo, dalla decisa vocazione universalista, rappresenta l'eredità, raccolta dal nostro costituente, delle solenni dichiarazioni di fine '700, che attribuiscono dei diritti naturali e inalienabili all'uomo in quanto tale. La norma pone una garanzia costituzionale diretta per questa categoria di diritti dello straniero.

L'art. 10, secondo comma, invece disciplina i diritti degli stranieri di fonte legale, affidando al legislatore il compito di disciplinare la condizione giuridica dello straniero e ponendo un doppio vincolo all'esercizio della discrezionalità legislativa: un vincolo di tipo formale, imponendo che lo strumento normativo da utilizzare debba essere necessariamente la legge ordinaria, e un vincolo di tipo sostanziale, disponendo che il contenuto della disciplina debba essere conforme alle norme e ai trattati internazionali. Secondo questa disposizione, la fonte dei diritti degli stranieri sarebbe di tipo legale, coperta da una garanzia costituzionale soltanto indiretta; l'eventuale controllo di costituzionalità sarà limitato alla verifica che la discrezionalità del legislatore sia stata esercitata nei limiti dell'art. 10, secondo comma.

Dalla lettura delle due norme risulta chiaramente che il legislatore non può disciplinare arbitrariamente la condizione giuridica dello straniero, ma incontra due ordini di limitazioni: il rispetto dei diritti costituzionalmente garantiti anche allo straniero, e in particolare quel corredo di diritti intimamente inerenti alla tutela della persona, e il rispetto degli obblighi assunti a livello internazionale.

Tuttavia, le due disposizioni hanno suscitato dei dubbi interpretativi. In particolare, non è chiara la definizione del rapporto tra le due norme e quindi l'individuazione del fondamento costituzionale dei diritti riconosciuti agli stranieri. Originariamente in dottrina si sono fronteggiate due posizioni contrapposte (1). La prima di queste individua l'art. 2 della Costituzione come fondamento dello statuto giuridico del non-cittadino, pertanto è l'inerenza dei diritti inviolabili della persona umana che determina la garanzia costituzionale di questi anche nei confronti degli stranieri. I diritti invece testualmente riservati ai soli cittadini non sono coperti da una garanzia costituzionale, ma sono estensibili allo straniero a discrezionalità del legislatore e nel rispetto dei limiti posti dall'art. 10, secondo comma.

La posizione opposta riconosce invece nell'art. 10, secondo comma, il fondamento dei diritti riconosciuti allo straniero, pertanto la disciplina della condizione giuridica sarebbe rimessa esclusivamente alla legge ordinaria, in conformità delle norme e dei trattati internazionali (2). Le distanze tra queste due posizioni si sono progressivamente ridotte e si è creato lo spazio per soluzioni intermedie (3). Infine, la posizione assunta dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritaria è stata quella di riconoscere nell'art. 2 il fondamento dei diritti costituzionalmente garantiti anche nei confronti degli stranieri. L'impostazione seguita è stata quella di riconoscere il valore di norma "aperta" all'art. 2, che si è rivelato uno strumento in grado di offrire una risposta di tutela in tutte le ipotesi in cui un diritto possa essere incluso nell'ambito dei diritti fondamentali, direttamente tutelati dalla norma anche nei confronti dei non-cittadini (4).

L'incremento a livello internazionale di convenzioni e trattati volti a ridurre la differenza di trattamento tra cittadini e stranieri, che proclamano una serie di diritti che spettano a chiunque a prescindere dalla cittadinanza, e l'apertura della Costituzione alla comunità internazionale (5) fanno ritenere che gli stranieri siano titolari di una serie di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti e che l'art. 10, secondo comma, operi per quelle situazioni che non hanno già una copertura costituzionale (6).

Per quest'ultima categoria di situazioni giuridiche, che non hanno una diretta copertura costituzionale, la disciplina è rimessa al legislatore, ma la sua discrezionalità è vincolata da una serie di limiti imposti direttamente dalla Costituzione, che schematicamente possono essere ricondotti al rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali; al principio di uguaglianza e di non discriminazione.

a) Rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

L'art. 10, primo comma, Cost. stabilisce che l'ordinamento italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute e all'art. 11 Cost. si afferma che l'Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni. La portata applicativa di tali previsioni è stata meglio chiarita dall'art. 117, primo comma, Cost. (7) che stabilisce che la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni deve essere esercitata nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Ne consegue l'esistenza di un limite di tipo sostanziale all'esercizio della discrezionalità legislativa, imponendo che le disposizioni di legge siano conformi alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, alle altre norme e trattati internazionali e al diritto dell'Unione europea. Per quanto qui interessa, occorre ricordare che sono numerose le norme e i trattati internazionali, ratificati dall'Italia, che impongono un principio di parità di trattamento tra cittadini e stranieri nell'accesso alle prestazioni di assistenza sociale (8), prima tra tutte la Convenzione europea dei diritti dell'uomo, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che pone un generale divieto di discriminazioni fondate sulla nazionalità nell'accesso alla sicurezza sociale. Oltre agli strumenti previsti a livello internazionale, anche il diritto dell'Unione europea esplicitamente prevede l'operatività di un principio di parità di trattamento nell'accesso alle prestazioni sociali per gli stranieri extracomunitari titolari di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (9), per gli stranieri regolarmente soggiornanti che abbiano circolato all'interno dell'Unione (10), per i familiari extracomunitari di cittadini comunitari (11) e per gli apolidi e i rifugiati.

La Corte Costituzionale ha chiarito come le norme del diritto dell'Unione europea "debbano avere piena efficacia obbligatoria e diretta applicazione in tutti gli Stati membri, senza la necessità di atti di ricezione e di adattamento, come atti aventi valore e forza di legge in ogni Paese della Comunità, sì da entrare ovunque contemporaneamente in vigore e conseguire applicazione eguale ed uniforme nei confronti di tutti i destinatari" (12). Il fondamento costituzionale di tale efficacia diretta è stato individuato nell'art. 11 Cost., nella parte in cui consente le limitazioni della sovranità necessarie per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni (13). L'attitudine delle disposizioni del diritto dell'Unione europea a produrre effetti diretti nell'ordinamento interno legittima la possibilità che il giudice ordinario, ove ravvisi un contrasto tra la norma interna e la disposizione del diritto dell'Unione europea, possa disapplicare la norma interna contrastante.

Per quanto riguarda invece l'obbligo della legislazione interna di conformarsi agli obblighi assunti a livello internazionale, non è chiaro come la normativa internazionale s'intersechi nel sistema delle fonti e quale sia il rapporto tra la legislazione ordinaria e le norme di recepimento degli atti internazionali. In particolare non è chiaro se le norme di recepimento degli atti internazionali possano essere derogate dalla legislazione ordinaria successiva. Mancando, nel testo costituzionale, un riferimento formale sicuro, la soluzione è stata trovata in via interpretativa dalla dottrina e consolidata dalla giurisprudenza costituzionale. I giudici costituzionali hanno affermato che le disposizioni della Costituzione risultano integrate dalla normativa internazionale, che contribuisce alla ricostruzione del parametro di legittimità. In quest'ottica, le norme di recepimento degli atti internazionali andrebbero a sviluppare la tutela di diritti già costituzionalmente garantiti, e pertanto avrebbero una forza di resistenza maggiore rispetto alla legge ordinaria, non potendo essere derogate dalla legislazione successiva. Se si ammettesse la possibilità di deroga, si finirebbe per svuotare di precettività l'art. 10 Cost. e l'art. 117, primo comma, Cost. e non sarebbe garantito né l'adempimento da parte dell'Italia agli obblighi assunti a livello internazionale né l'effettiva realizzazione sul piano interno degli sforzi internazionali di promozione e tutela dei diritti dell'uomo.

La Corte costituzionale si è pronunciata in ordine all'incidenza che le norme internazionali hanno sul piano interno, con particolare riferimento alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, con le sentenze 348-349 del 2007 (14). La questione ha particolare rilevanza posto che la Convenzione, come interpretata dai giudici di Strasburgo, stabilisce un generale principio di parità di trattamento tra stranieri e cittadini nell'accesso alle prestazioni di sicurezza sociale (15). La Consulta ha affermato che le norme della Convenzione vincolano il legislatore, ma non producono effetti diretti nell'ordinamento interno, pertanto laddove ci sia un contrasto tra la norma interna e quella internazionale, il giudice di merito non potrà disapplicare la norma interna contrastante, ma potrà soltanto sollevare questione di legittimità costituzionale per eventuale violazione dell'art. 117, primo comma. La Corte costituzionale valuterà se il legislatore non abbia ecceduto nell'esercizio della propria discrezionalità, non rispettando gli obblighi derivanti dal diritto internazionale, e le norme internazionali saranno utilizzate come parametro di legittimità al fine della valutazione dell'incostituzionalità delle norme interne (16). La Consulta ha ribadito la propria posizione nella recente sentenza n. 311 del 2009 (17) in cui ha ricordato che il contrasto di una norma nazionale con una norma convenzionale, in particolare della CEDU, si traduce in violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione. Ove il giudice nazionale ravvisi un contrasto tra una norma interna e una norma della Convenzione europea deve procedere ad un'interpretazione della prima conforme a quella convenzionale, fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni a confronto e avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica. Solo ove ritiene che non sia possibile comporre il contrasto in via interpretativa, il giudice comune deve sollevare la questione di costituzionalità con riferimento al parametro dell'art. 117, primo comma, della Costituzione. La Corte Costituzionale ha precisato che "la clausola del necessario rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali, dettata dall'art. 117, primo comma, Cost., attraverso un rinvio mobile del diritto interno alle norme internazionali pattizie di volta in volta rilevanti, impone il controllo di costituzionalità, qualora il giudice comune ritenga lo strumento dell'interpretazione insufficiente ad eliminare il contrasto".

b) Principio di uguaglianza.

Il principio di uguaglianza, sancito dall'art. 3 della Costituzione, ha posto dei problemi interpretativi, essendo letteralmente riferito ai soli cittadini. Tuttavia una limitazione di questo tipo difficilmente trova giustificazione alla luce di un'interpretazione sistematica del dato costituzionale. Posto infatti che il costituente ha sicuramente recepito il principio di uguaglianza di tutti gli uomini nel godimento dei diritti, già sancito dalle dichiarazioni di fine '700 e ribadito in tutti i principali documenti internazionali, non sarebbe coerente la limitazione dell'operatività del principio nei confronti dei soli cittadini.

A chiarire i dubbi interpretativi è intervenuta la Corte costituzionale con due importanti sentenze. Nella prima pronuncia (18) la Corte ha affermato che l'art. 3 deve essere letto in connessione con l'art. 2, che riconosce a tutti, cittadini e stranieri, i diritti inviolabili dell'uomo e con l'art. 10, secondo comma, che dispone che la condizione giuridica dello straniero è disciplinata dalla legge in conformità con le norme e i trattati internazionali. La Corte ha chiarito che, se è vero che l'art. 3 si riferisce espressamente ai soli cittadini, è anche certo che il principio di uguaglianza vale anche per lo straniero quando si tratti di rispettare i diritti fondamentali. L'art. 2 della Costituzione si svuoterebbe di significato se il riconoscimento della titolarità dei diritti inviolabili dell'uomo non fosse accompagnata dall'affermazione dell'uguaglianza nel godimento di tali diritti. Inoltre, la disciplina della condizione dello straniero in conformità alle norme e trattati internazionali impone anche l'adeguamento della normativa italiana al principio di non discriminazione, sancito dall'art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

La Consulta ha ulteriormente chiarito la propria posizione sull'argomento in una successiva sentenza (19), e ha individuato un doppio binario di operatività del principio di uguaglianza nei confronti dello straniero. Ha ravvisato un'operatività piena e assoluta del principio allorché si tratti di tutelare i diritti inviolabili dell'uomo, garantiti allo straniero anche dall'ordinamento internazionale, e che rappresentano un minus rispetto alla somma dei diritti riconosciuti al cittadino (20). Una statuizione di questo tipo lascia intendere che, in riferimento a questo nucleo ristretto di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti anche nei confronti dello straniero, non sarebbero possibili neppure "deroghe" alle garanzie fissate dalle norme costituzionali adducendo una ragionevolezza della differenziazione operata dal legislatore (21).

Invece, per le situazioni non rientranti nel nucleo dei diritti inviolabili della persona umana, sono ammissibili delle differenziazioni di trattamento tra cittadino e straniero, più o meno intense a seconda del diritto preso in considerazione, purché trovino giustificazione alla luce del principio di ragionevolezza, si tratti cioè di differenziazioni non arbitrarie, che abbiano fondamento in un'effettiva diversità di situazioni. La Corte chiarisce che esistono delle oggettive differenze tra la condizione giuridica del cittadino e quella dello straniero, derivanti dal diverso tipo di rapporto che intercorre con lo Stato. Il cittadino ha un rapporto originario e permanete con lo Stato, che gli attribuisce il diritto di risiedere ovunque nel territorio della Repubblica, senza limiti di tempo, e impone che questi non possa essere allontanato per nessun motivo dal territorio dello Stato. Lo straniero ha invece un rapporto acquisito e generalmente temporaneo, il che comporta che lo Stato possa determinare le condizioni per l'ingresso dello straniero nel proprio territorio, che possa concedere un diritto di soggiorno per un periodo limitato e che possa espellere lo straniero, ove ricorrano determinate condizioni. Ne deriva che, per ciò che non attiene a quel nucleo di diritti fondamentali, riconosciuti dalla Costituzione anche nei confronti degli stranieri, il principio di uguaglianza ha un'operatività più sfumata; il requisito della cittadinanza ammette che siano possibili delle differenziazioni, purché ragionevoli.

Accanto alla solenne proclamazione della pari dignità sociale e uguaglianza davanti alla legge, si ammettono dunque delle limitazioni all'operatività del principio, configurando la possibilità che una disparità di trattamento non possa essere considerata discriminatoria, se integra i canoni della ragionevolezza (22). La differenziazione sarà ragionevole se ad essere trattate in maniera differente sono delle situazioni oggettivamente diverse, e la diversità di situazione andrà apprezzata avendo riguardo al rilievo che assume il possesso della cittadinanza italiana in relazione alla ratio della norma e al bene giuridico che essa intende tutelare.

La posizione della Corte dunque è stata quella di offrire piena tutela e la garanzia del principio di uguaglianza in tutte le situazioni in cui il diritto da tutelare può essere ricondotto nell'ambito dei diritti inviolabili, riconosciuti dall'art. 2 anche nei confronti del non cittadino. L'estensione della tutela è stata possibile grazie alla configurazione dell'art. 2 come norma "aperta", suscettibile di includere nel proprio ambito di applicazione un numero illimitato di situazioni, purché integrino gli estremi dei diritti fondamentali.

La Corte ha poi affermato che, al di là dei diritti fondamentali, non c'è una perfetta coincidenza tra i diritti dei cittadini e i diritti degli stranieri, e il legislatore può introdurre delle differenziazioni di trattamento, purché siano giustificabili alla luce del principio di ragionevolezza. Tuttavia la Corte è stata reticente nell'individuare gli elementi che giustifichino un trattamento differenziato e non è ha chiaramente spiegato se, e in che limiti, il possesso della cittadinanza possa costituire un legittimo titolo della differenziazione nell'accesso ai diritti.

Un'altra questione che rimane aperta riguarda la modalità di esercizio dei diritti fondamentali: ci si domanda, cioè, se l'esercizio di tali diritti possa essere subordinato a particolari adempimenti stabiliti dalla legislazione interna. In particolare, si pone il dubbio se sia legittimo subordinare il godimento del diritto al soddisfacimento di particolari requisiti, tra i quali il fatto che lo straniero si trovi in posizione di soggiorno regolare oppure che sia residente o che sia legalmente soggiornante da un determinato periodo di tempo. La Corte costituzionale si è, in parte, pronunciata sul punto, e ha ritenuto ammissibile una diversa operatività del principio di uguaglianza, distinguendo tra titolarità ed esercizio di tali situazioni giuridiche. La Corte ha affermato che "non può escludersi che, tra cittadino e straniero, benché uguali nella titolarità di certi diritti di libertà, esistono delle differenze di fatto che possono giustificare un loro diverso trattamento nel godimento di quegli stessi diritti" (23). Questa differenziazione tra uguaglianza nella titolarità dei diritti e ragionevoli differenziazioni nel godimento rischia di dare un eccessivo spazio alla discrezionalità del legislatore e finisce per attribuire ai giudici il compito di ricondurre a Costituzione, mediante decisioni interpretative, normative per molti versi costituzionalmente traballanti (24).

2. Una mappatura dei diritti sociali costituzionalmente garantiti. L'oscillazione tra diritti dell'uomo e diritti del cittadino

Lo statuto costituzionale del non-cittadino presenta dei confini piuttosto incerti e l'utilizzo, per così dire scontato, del termine cittadino come titolare dei diritti costituzionalmente garantiti può trarre in inganno l'interprete. Un'operazione di ricostruzione ermeneutica delle garanzie costituzionali riconosciute allo straniero non può prescindere dalla considerazione del contesto storico in cui la Costituzione repubblicana è stata elaborata: l'Italia del dopo guerra era un Paese di emigranti e non aveva ancora conosciuto un fenomeno immigratorio. Non sorprendono perciò alcune scelte lessicali del Costituente nel riferimento dei diritti al cittadino. Tuttavia, è evidente l'apertura della Costituzione verso la comunità internazionale e il recepimento di diritti e principi sanciti a livello internazionale e che hanno una valenza incontestabilmente universale. Pertanto, nell'individuazione dei diritti costituzionalmente garantiti anche allo straniero, si dovrà andare oltre una mera interpretazione letterale della norma di riferimento e si dovrà guardare alla ratio della norma e al bene giuridico che intende tutelare.

Il primo problema da risolvere è capire se e in che misura i diritti sociali possano essere considerati diritti fondamentali, coperti dalla garanzia dell'art. 2 della Costituzione. L'inclusione o esclusione dei diritti sociali dall'ambito di operatività dell'art. 2 comporta delle conseguenze sostanziali: riconoscendone l'inclusione, si ammette che si tratta di diritti costituzionalmente garantiti nei confronti di tutti, cittadini e non, che ne godono in condizioni di parità. L'esclusione comporterebbe, invece, la non operatività della garanzia costituzionale e li ridurrebbe a diritti di fonte legale, la cui disciplina è rimessa alla discrezionalità del legislatore.

A sostegno dell'inclusione dei diritti sociali tra i diritti fondamentali si possono addurre diverse considerazioni. In primo luogo una considerazione di tipo storico, e cioè che la tutela dei diritti sociali rappresenta la novità e il tratto caratterizzante delle costituzioni della seconda metà del Novecento. Gli sconvolgimenti della prima metà del secolo mettono in crisi un modello, ereditato dalla rivoluzione francese, fondato esclusivamente sulla garanzia e riconoscimento delle libertà civili e politiche. Si fa strada la consapevolezza che, per la coesione e la convivenza pacifica della società, è necessaria l'effettiva realizzazione di un'uguaglianza formale e sostanziale, e perché ciò sia possibile, la garanzia dei diritti civili e politici deve essere affiancata dalla tutela dei diritti sociali, che costituiscono il presupposto per il pieno ed effettivo godimento da parte di tutti degli stessi diritti di libertà.

I diritti sociali dunque assumono il ruolo di realizzare l'uguaglianza sostanziale e l'effettiva partecipazione di tutti all'organizzazione politica, economica e sociale. Si evidenzia così il nesso tra democrazia e diritti sociali, che impone che questi vengano promossi al rango di diritti fondamentali dello stesso modello democratico (25). Questa impostazione era già chiara all'assemblea costituente ed emerge chiaramente dalle parole dell'On. La Pira nella relazione sui "principi relativi ai rapporti civili" alla prima sottocommissione, in cui si afferma che la Costituzione intende tutelare, oltre ai diritti di uguaglianza e di libertà, anche i diritti sociali, che sono altrettanto essenziali per la persona umana perché "senza la tutela dei diritti sociali -diritto al lavoro, al riposo, all'assistenza, ecc.-la libertà e l'indipendenza della persona non sono effettivamente garantite" (26).

La Costituzione innova completamente rispetto al passato, includendo i diritti sociali nel novero dei diritti costituzionalmente garantiti, e pone come soggetto di diritto non il cittadino italiano, bensì la persona e il lavoratore. Essa pone i diritti sociali e il principio di uguaglianza sostanziale alla base del nuovo patto fondante, facendo diventare il lavoro elemento di coesione e condivisione, ragione di partecipazione economica e politica, status della persona da cui discendono diritti e tutele (27).

I diritti sociali, oltre ad essere individuati come presupposto per la realizzazione dell'uguaglianza sostanziale e del principio democratico, vengono connotati anche come essenziali alla tutela della dignità umana. Una configurazione di questo tipo emerge anche dai documenti internazionali, che considerano i diritti sociali come strumentali alla liberazione dell'uomo dal bisogno e dall'indigenza, quindi strumentali alla creazione delle condizioni perché sia garantita a tutti un'esistenza libera e dignitosa (28). La stretta correlazione tra garanzia dei diritti sociali e tutela della dignità umana spinge sicuramente per un riconoscimento universale di questi diritti, indipendentemente dalla cittadinanza, e non lascia dubbi sulla loro sicura riconducibilità nella sfera dei diritti inviolabili della persona umana, riconoscibili anche nei confronti di chi non è cittadino.

Il riconoscimento costituzionale dei diritti sociali del non-cittadino muove secondo due direttrici: da un lato il riconoscimento dei diritti inviolabili della persona e dall'altro il riconoscimento di diritti connessi alla condizione di lavoratore. Questa impostazione si riflette nel titolo secondo, sui "rapporti etico-sociali", in cui si afferma la garanzia di alcuni diritti sociali fondamentali, senza alcun riferimento alla cittadinanza, e nel titolo terzo sui "rapporti economici", in cui il soggetto individuato come destinatario delle tutele costituzionali è il lavoratore.

Nel titolo secondo, si riconosce la tutela della famiglia, della maternità e dell'infanzia, anche attraverso la predisposizione di misure economiche volte ad incentivare la formazione della famiglia e a sostenere le famiglie numerose (29). Si garantisce la tutela della salute, come diritto pieno ed incondizionato dell'individuo, dovere inderogabile di solidarietà e interesse della collettività, e si assicurano cure gratuite a chiunque, indigente, si trovi nel territorio italiano (30). Il riconoscimento generalizzato di questo diritto, indipendentemente dalla cittadinanza e dalla regolarità del soggiorno, si giustifica con l'esigenza primaria di tutelare il diritto alla vita di ciascun uomo e di salvaguardare l'interesse della collettività.

Nel titolo terzo sono contenute delle norme poste specificatamente a tutela dei lavoratori, che riflettono le caratteristiche essenziali della nostra Carta costituzionale, la quale pone al centro la tutela della persona e del lavoro. In quest'ottica si giustifica il riconoscimento di determinate garanzie costituzionali in favore dei lavoratori, a prescindere da qualsiasi considerazione in ordine alla cittadinanza; i diritti riconosciuti derivano direttamente dallo status professionale, che prevale sullo status civitatis. In favore del lavoratore, si prevede una tutela costituzionale delle condizioni di lavoro, si garantisce il diritto ad una retribuzione proporzionata ed in grado di garantirgli un'esistenza libera e dignitosa, e si riconosce la parità tra lavoratori e lavoratrici.

Pone dei problemi interpretativi l'art. 38, che costituisce il fondamento costituzionale per il riconoscimento della tutela previdenziale e assistenziale. Fanno dubitare le scelte lessicali del Costituente, che individua come destinatario della tutela previdenziale il lavoratore e come beneficiario del diritto all'assistenza sociale il cittadino. Sulla base della premessa metodologica fatta all'inizio, occorre analizzare la norma andando oltre il mero dato letterale e cercando di individuare quale sia il bene giuridico che intende tutelare.

L'art. 38, primo comma, attribuisce ad ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere il diritto al mantenimento e all'assistenza sociale, e costituisce una declinazione di quel dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti all'organizzazione del Paese. Oltre ad essere strettamente funzionale alla realizzazione dell'uguaglianza sostanziale, la previsione dell'art. 38, primo comma, assolve al compito di liberare l'individuo dalla miseria e dal bisogno e di garantire l'effettivo rispetto della dignità umana, considerata come diritto inalienabile della persona.

Il diritto all'assistenza sociale, considerato come diritto alla realizzazione dell'uguaglianza sostanziale, e in connessione alla tutela della dignità umana, non può non ritenersi costituzionalmente garantito anche nei confronti dello straniero. La scelta lessicale del costituente si giustifica probabilmente con l'intento di dare una connotazione più ampia rispetto al termine lavoratore, essendo prestazioni non connesse con la condizione lavorativa e quindi di carattere prettamente assistenziale (31). Questa impostazione è stata confermata dalla giurisprudenza costituzionale, che ha riconosciuto l'applicabilità delle garanzie di cui all'art. 38, primo comma, anche nei confronti degli stranieri.

Tuttavia, la bipartizione tra previdenza e assistenza si riflette nell'impianto legislativo, in cui si tende a differenziare, nell'ambito della sicurezza sociale, tra prestazioni previdenziali, di tipo contributivo, da una parte, le quali vengono riconosciute nei confronti dei lavoratori italiani e stranieri in un piano di tendenziale parità, e prestazioni assistenziali dall'altra, le quali prescindono da un rapporto contributivo e sono finanziate dalla fiscalità generale. Per quest'ultima tipologia di prestazioni, l'accesso degli stranieri, in condizioni di parità con i cittadini, è evidentemente più problematico (32). A livello comunitario e internazionale non compare la bipartizione, tipica del diritto interno, tra previdenza e assistenza, ma entrambe rientrano nella generale nozione di sicurezza sociale, il cui accesso viene garantito anche nei confronti degli stranieri in condizioni di parità (33).

La Corte costituzionale, in più di un'occasione, ha ribadito che le garanzie dell'art. 38 non sono riservate ai soli cittadini, ma sono da ritenersi estese anche ai non cittadini. Tuttavia l'impostazione della Corte sembra essere quella di ammettere una certa gradualità nell'acceso a questo tipo di diritti da parte degli stranieri (34). In conformità con la giurisprudenza in tema di parità di trattamento, in cui la Corte ha ammesso due livelli di operatività del principio di uguaglianza nei confronti degli stranieri, che opera in maniera piena ed incondizionata solo con riferimento ai diritti inviolabili della persona umana, allo stesso modo la Corte sembra distinguere, nell'ambito dei diritti sociali costituzionalmente garantiti anche allo straniero, una sfera di diritti rispetto ai quali l'accesso da parte dello straniero è incondizionato e altri diritti rispetto ai quali l'accesso è riconosciuto in via di principio, ma può essere subordinato al soddisfacimento di ulteriori requisiti.

Vi è un'area di diritti, per il cui riconoscimento non rileva né il titolo di soggiorno, né la sua durata, ma la mera presenza dello straniero nel territorio dello Stato è sufficiente perché possa goderne. Può essere ricondotto a quest'area di diritti il diritto alla salute, relativamente alle sole cure ambulatoriali o ospedaliere urgenti o comunque essenziali (35). Per altri diritti sociali è prevista invece un'equiparazione in via di principio, ma è possibile stabilire una certa progressività nell'accesso da parte degli stranieri, giustificata dalla necessità di un collegamento significativo con la comunità italiana. Per quanto riguarda il diritto all'assistenza sociale, si ammette la possibilità che il legislatore possa porre delle differenziazioni quanto al godimento dei diritti, giustificate dall'esigenza che sussista un certo collegamento tra lo straniero e lo Stato. Il collegamento che legittima l'accesso al godimento dei diritti viene individuato di volta in volta dal legislatore e può essere fondato sulla mera presenza, sul regolare soggiorno, sulla residenza o sul possesso dello status di lavoratore. Una condizione di questo tipo può in parte trovare giustificazione nella stessa configurazione dell'art. 2 della Costituzione, che presuppone una comunità solidale di diritti e doveri e implica una certa reciprocità tra doveri di solidarietà sociale e diritti sociali. La presenza regolare può essere indice del positivo inserimento in una società caratterizzata da una reciprocità di diritti e doveri, e può essere indice della sussistenza di quel collegamento con la comunità che legittima l'accesso al godimento di determinati diritti sociali.

La discrezionalità del legislatore, nell'individuare quegli elementi che attestano tale collegamento e che operano dunque come criteri di selezione all'ammissibilità nel godimento dei diritti, è vincolata e indirizzata da una serie di condizioni. Abbiamo visto come il legislatore sia tenuto al rispetto delle norme e dei trattati internazionali, dei vincoli derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea e al rispetto del fondamentale principio di uguaglianza sancito dall'articolo 3 della Costituzione. Le differenziazioni nelle condizioni di accesso ai diritti sociali devono inoltre essere ragionevoli, cioè giustificate dall'esistenza di oggettive differenze tra cittadini e stranieri, e queste devono essere obiettivamente rilevabili, cioè non create dalla norma di legge, ma apprezzabili sulla base di elementi materiali, che la struttura costituzionale consente di prendere in considerazione (36). Le condizioni che legittimano l'inclusione o l'esclusione dal godimento dei diritti devono inoltre risultare proporzionate rispetto allo specifico bene della vita la cui accessibilità e godimento vengono in considerazione. E' necessario pertanto un bilanciamento tra il diritto dello Stato di esercitare la propria sovranità, e di subordinare l'accesso degli stranieri a determinati diritti all'assolvimento di corrispondenti obblighi, e il diritto dello straniero di accedere al godimento di diritti che la Costituzione attribuisce universalisticamente a prescindere dalla cittadinanza.

3. La condizione giuridica del non cittadino tra differenziazioni ragionevoli e tutela antidiscriminatoria

Gli ordinamenti ammettono delle limitazioni all'operatività del principio di uguaglianza laddove si tratti di disciplinare la condizione giuridica dello straniero, che ha uno statuto giuridico differenziato rispetto a quello del cittadino. Tuttavia, il principio di uguaglianza resta un principio cardine dell'ordinamento nazionale, europeo e internazionale, pertanto ogni volta che si presenti una differenza di trattamento, occorre valutare se sia giustificabile alla luce del principio di ragionevolezza oppure integri gli estremi del trattamento discriminatorio.

La previsione di una disciplina differenziata tra stranieri e cittadini nell'accesso alle prestazioni sociali pone un duplice interrogativo in ordine all'operatività del principio di uguaglianza. Vengono in gioco entrambi i profili dell'uguaglianza: l'uguaglianza formale viene rilievo come pretesa ad un trattamento uguale, nelle ipotesi in cui la legge prevede un trattamento differenziato tra stranieri e cittadini fondato sulla cittadinanza. L'uguaglianza sostanziale viene in considerazione come pretesa ad un trattamento diseguale, cioè pretesa all'adozione di trattamenti differenziati in funzione della condizione di disparità da eliminare.

Da una parte si pretende la previsione di un trattamento uguale, che comporti un annullamento delle differenze fondate sulla cittadinanza e l'assunzione degli individui come neutri. D'altra parte, la predisposizione di un sistema di inclusione sociale rientra tra quelle misure specifiche di diritto diseguale, che ammettono la deviazione dall'uguaglianza formale, prevedendo un trattamento differenziato al fine di promuovere condizioni di uguaglianza nei fatti. La previsione di un sistema di sicurezza sociale, che attribuisca delle provvidenze economiche di natura assistenziale a determinate categorie di soggetti, rientra tra quelle misure che, prevedendo un trattamento differenziato tra diverse categorie di individui, perseguono il fine di eliminare le conseguenze sfavorevoli (disparità) che derivano dall'esistenza di tali differenze con l'intento di realizzare un principio di eguagliamento, ovvero di uguaglianza sostanziale (37). Le differenze, determinate dalla condizione di indigenza o di handicap, vengono positivamente considerate dal legislatore con l'intento di predisporre delle misure volte a promuovere delle condizioni di uguaglianza concreta.

Dunque una realizzazione effettiva del principio di uguaglianza nell'accesso alle prestazioni di assistenza sociale impone sia l'esigenza che lo straniero non venga trattato in maniera differenziata e sfavorevole per il solo fatto di non essere cittadino, sia l'esigenza che le differenze di condizioni sociali vengano adeguatamente considerate dal legislatore al fine di predisporre dei rimedi alla condizione di disparità fattuale e al fine di realizzare un sistema di inclusione sociale.

Prima dell'introduzione, nel nostro ordinamento, del diritto antidiscriminatorio di derivazione comunitaria, il principale strumento normativo per far valere la violazione del principio di uguaglianza era costituito dall'art. 3 della Costituzione, che riconosce il principio di uguaglianza come diritto fondamentale della persona e come vincolo al legislatore, che è tenuto ad esercitare la potestà legislativa nel rispetto del principio di uguaglianza e di ragionevolezza.

Il diritto antidiscriminatorio, di fonte comunitaria, attualizza il diritto costituzionale all'uguaglianza degli individui e contribuisce alla realizzazione effettiva del principio di ragionevolezza (38), offrendo uno strumento giuridico efficace a far valere la violazione del proprio diritto a non essere svantaggiati per ciò che si è (39). Prevede un rimedio giudiziale specifico e ha un grado di specificità ovviamente superiore rispetto a quello che può avere una Carta costituzionale. Sebbene il diritto antidiscriminatorio sia nato come strumento per superare principalmente le discriminazioni di genere, negli ultimi anni è stato utilizzato anche in funzione di garantire l'accesso ai diritti da parte dello straniero, in condizioni di parità con i cittadini, e realizzare un'integrazione rispettosa delle diversità. Come viene affermato in una recente risoluzione del Parlamento europeo, "la lotta contro le discriminazioni è elemento essenziale di qualsivoglia politica d'integrazione, essa stessa garante della coesione sociale e strumento indispensabile nella lotta contro l'esclusione" (40).

Il punto di riferimento del diritto antidiscriminatorio nell'ambito dell'Unione europea è costituito dalla Direttiva 2000/43 (41), che vieta ogni discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell'origine etnica. Secondo quanto affermato dalla Direttiva, sussiste discriminazione diretta "quando una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga". Sussiste, invece, discriminazione indiretta "quando una disposizione, un criterio, una prassi apparentemente neutri possono mettere delle persone di una particolare razza o origine etnica in posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone". Quanto all'individuazione dei criteri, prassi o disposizioni che possono costituire discriminazione indiretta, la Corte di Giustizia ha avuto modo di pronunciarsi, proprio nei confronti dell'Italia, affermando che il requisito della residenza, utilizzato come criterio per l'individuazione dei soggetti destinatari di un determinato beneficio, integra gli estremi della discriminazione dissimulata (42).

Il divieto di discriminazioni dirette, in maniera analoga al costituzionale principio di ragionevolezza, opera come controllo all'esercizio del potere legislativo, ponendo un limite negativo di non arbitrarietà delle distinzioni operate e imponendo la razionalità delle scelte legislative (43). In tale funzione, il principio di non discriminazione assolve al compito di realizzare l'uguaglianza formale e potrebbe offrire uno strumento di tutela efficace nei confronti degli stranieri, per la realizzazione della una pretesa negativa di non trattare in modo diverso situazioni analoghe, salvo che la differenza di trattamento sia obiettivamente giustificata. Il divieto di discriminazioni indirette contribuisce invece alla realizzazione di un principio di uguaglianza sostanziale, vieta l'adozione di atti, provvedimenti, prassi apparentemente neutri che possono determinare una situazione di diseguaglianza nei fatti.

Tuttavia la realizzazione di un tale obiettivo di uguaglianza nei confronti dei cittadini di Paesi terzi è in parte impedita dalla grande limitazione della Direttiva 2000/43, che espressamente esclude dal suo ambito di applicazione le differenze di trattamento fondate sulla nazionalità. Non pregiudica cioè "le disposizioni e le condizioni relative all'ingresso e alla residenza di cittadini di paesi terzi e di apolidi nel territorio degli Stati membri, né qualsiasi trattamento derivante dalla condizione giuridica dei cittadini di paesi terzi o degli apolidi interessati" (44). Una previsione di questo tipo limita notevolmente l'operatività delle garanzie fissate dalla Direttiva nei confronti degli stranieri extracomunitari. Infatti se è vero che i cittadini dell'Unione hanno a disposizione tutta una serie di strumenti normativi, di fonte comunitaria, funzionali ad aggirare il limite della Direttiva e a rendere operante il divieto di discriminazione in base alla nazionalità, altrettanto non può dirsi per i cittadini extracomunitari (45). Questi ultimi possono utilizzare la direttiva 2000/43/CE solo ove il trattamento discriminatorio sia fondato su motivi legati alla razza o all'origine etnica. Fuori da queste ipotesi, i cittadini extracomunitari potranno soltanto fare riferimento ad un principio di parità di trattamento in relazione a specifici diritti, ove il diritto comunitario espressamente lo estenda anche nei confronti dei cittadini provenienti da paesi terzi.

La limitazione della Direttiva viene superata nella versione italiana del diritto antidiscriminatorio, che presenta dei profili di specificità e una tutela antidiscriminatoria, per certi aspetti, più ampia di quella prevista dal diritto comunitario. L'Italia ha recepito la direttiva 2000/43 con il decreto legislativo n. 215 del 9.7.2003 (46), che riproduce abbastanza fedelmente il testo della Direttiva, e che espressamente fa salve le norme antidiscriminatorie contenute già nel Testo unico sull'immigrazione del 1998.

Il Testo unico contiene due nozioni di discriminazione, una generale, che accomuna sia il profilo diretto che indiretto, e una seconda, specifica, legata al lavoro subordinato (47). Secondo la nozione generale: "costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza, l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica" (48).

A differenza della Direttiva comunitaria, nel Testo unico compare, tra i fattori per i quali opera il principio di non discriminazione, l'origine nazionale (49). L'inclusione della nazionalità tra i fattori di discriminazione estende notevolmente l'ambito di applicazione del diritto antidiscriminatorio, posto che frequentemente il motivo posto alla base di un trattamento differenziato è costituito proprio dal difetto della cittadinanza italiana.

Si pone dunque un problema di coordinamento tra le due normative, in ordine alla possibilità che la nazionalità possa costituire o meno legittimo motivo di trattamento differenziato. C'è chi sostiene che debba essere considerata prevalente la disciplina del decreto di recepimento della Direttiva, in quanto successiva nel tempo, ma più probabilmente si può concordare con chi sostiene che le due fonti "permangono affiancate e parzialmente sovrapposte", e in ipotesi di conflitto, si dovrà applicare "quella più adeguata e rispondente alla ratio dell'intervento di tutela richiamato" (50).

La Direttiva fa esplicito riferimento all'applicabilità del divieto di discriminazione nell'accesso alla protezione sociale, compresa la sicurezza sociale e l'assistenza sanitaria, alle prestazioni sociali e all'alloggio. Allo stesso modo, nel Testo unico stabilisce che compie un atto di discriminazione "chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l'accesso all'occupazione, all'alloggio, all'istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità". C'è dunque una piena operatività del principio di non discriminazione nell'accesso alle prestazioni sociali, includendo la nazionalità tra i fattori di discriminazione, e si prevede espressamente che l'imposizione di condizioni più svantaggiose per l'accesso all'assistenza sociale costituisce un atto di discriminazione.

Se si considera che la ratio della normativa antidiscriminatoria è quella di garantire l'uguaglianza nell'accesso ai diritti e porre le condizioni per la realizzazione dell'integrazione e dell'inclusione sociale, assume ancora maggior rilievo la garanzia della parità di trattamento nell'accesso a quei diritti e a quelle prestazioni appositamente pensate dallo Stato per la realizzazione dell'inclusione sociale di quei soggetti particolarmente svantaggiati perché inabili al lavoro o sprovvisti dei mezzi necessari per vivere. Dunque l'operatività del principio di non discriminazione nell'accesso all'assistenza sociale tende alla realizzazione di un doppio livello di inclusione sociale: l'integrazione degli stranieri e l'inclusione sociale dei soggetti che si trovano in condizione di svantaggio a causa della loro inabilità al lavoro o a causa della loro indigenza. Pertanto si tende a realizzare una doppia operatività del principio di uguaglianza: il principio di uguaglianza formale tra stranieri e cittadini, imponendo un trattamento uguale, e il principio di uguaglianza sostanziale nei confronti di categorie di persone che si trovano in una situazione di svantaggio, imponendo l'adozione di azioni positive e dunque la previsione di un trattamento differenziato con lo scopo di rimuovere le condizioni sfavorevoli. Come è stato giustamente osservato, il welfare, in quanto strumento di redistribuzione del reddito volto a compensare le diseguaglianze prodotte dal mercato, va di pari passo con la tutela antidiscriminatoria, poiché si tratta di strumenti entrambi delegati a rimuovere le situazioni di disuguaglianza. Da un lato, può esservi una sostanziale uguaglianza solo nel caso in cui si predispongano adeguati strumenti di welfare, dall'altro, può esservi un sistema di welfare effettivo solo garantendo che ad esso si acceda in condizioni di uguaglianza (51).

Il diritto antidiscriminatorio rafforza l'operatività del principio di uguaglianza e fissa le condizioni perché esso trovi una realizzazione effettiva nella vita pratica. A questo scopo, oltre alla definizione di cosa possa costituire discriminazione e all'individuazione dei fattori di discriminazione, si predispone uno specifico rimedio processuale per poter far valere in giudizio il diritto all'uguaglianza. L'articolo 44 del Testo unico prevede che "quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole ed adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione". L'azione civile contro la discriminazione è prevista anche dalla Direttiva comunitaria, che prevede l'ulteriore garanzia di inversione dell'onere della prova (52), che non è stata però trasposta nel decreto di recepimento italiano, che ribadisce il principio dell'ordinamento che consente al ricorrente di "dedurre in giudizio, anche sulla base di dati statistici, elementi di fatto, gravi, precisi e concordanti" (53).

Tuttavia, nel nostro Paese le controversie in giudizio rimangono limitate, e il gruppo più consistente riguarda l'alloggio (54). Per quanto riguarda l'accesso alle prestazioni sociali, particolarmente significativa è la recente azione antidiscriminatoria promossa nei confronti del comune di Brescia per il diniego del bonus bebè ai figli di genitori extracomunitari (55).

L'esame del diritto antidiscriminatorio pone un altro interrogativo, in ordine alla possibilità che possa sussistere una lesione del principio di uguaglianza laddove si pongano delle differenziazioni di trattamento tra stranieri. Cioè ove, nella scala dei diritti, la posizione dei cittadini extracomunitari, regolarmente soggiornanti, venga differenziata sulla base del titolo del soggiorno o della durata del soggiorno nel territorio dello Stato. In particolare, per quello che riguarda l'indagine di questo lavoro, ci si domanda se l'esclusione di alcuni stranieri dall'accesso alle prestazioni sociali, fondata sulla durata del soggiorno, sulla residenza o sulla tipologia del permesso di soggiorno possa integrare gli estremi del trattamento discriminatorio.

L'analisi della disciplina in tema di accesso alle prestazioni di natura assistenziale deve tener conto, da una parte, dell'oggettiva limitatezza delle risorse finanziarie dello Stato, che può imporre una selezione degli aventi diritto, e dall'altra parte, dell'esigenza che la possibile differenziazione della posizione dello straniero rispetto al cittadino non sia arbitraria e quindi discriminatoria (56). Il fulcro dell'analisi sarà dunque quello di verificare la ragionevolezza o meno delle differenze di trattamento introdotte dal legislatore, avendo in considerazione gli strumenti del diritto costituzionale, comunitario e sovranazionale che sanciscono un principio di parità di trattamento tra stranieri e cittadini nell'accesso alle prestazioni di assistenza sociale.

4. Il testo unico sull'immigrazione. Una tendenziale parità

La bipartizione tra diritti riconosciuti allo straniero comunque presente nel territorio dello Stato da una parte, e diritti per il cui riconoscimento è richiesta la condizione di regolarità del soggiorno, dall'altra, si riflette anche nel testo unico sull'immigrazione.

L'art. 2 prevede che allo straniero comunque presente nel territorio dello Stato siano riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana, previsti dal diritto interno, dalle convenzioni internazionali e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti (57), e che sia garantita la parità di trattamento con il cittadino relativamente alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, nei rapporti con la pubblica amministrazione e nell'accesso ai pubblici servizi (58). Tra i diritti fondamentali riconosciuti sulla base della mera presenza dello straniero nel territorio dello Stato, sono incluse le cure mediche urgenti o comunque essenziali e l'ammissione ai programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva (59). In particolare, sono garantiti la tutela della gravidanza e della maternità, in parità di trattamento con le cittadine italiane, e la tutela della salute del minore, in esecuzione della Convenzione sui diritti del fanciullo (60). E' altresì riconosciuto l'obbligo scolastico dei minori indipendentemente dalla condizione di regolarità o meno dei genitori (61).

Sulla base del regolare soggiorno sono riconosciuti invece i diritti in materia civile, la partecipazione alla vita pubblica locale e la parità di trattamento e l'uguaglianza dei diritti per quanto attiene al lavoro e alle situazioni giuridiche ad esso connesse (62). Anche l'accesso ai diritti sociali è subordinato alla condizione giuridica della regolarità del soggiorno, e molto spesso all'ulteriore requisito della residenza nel territorio dello Stato. La residenza costituisce il presupposto indispensabile per il godimento e l'esercizio di una molteplicità di diritti e servizi sia per il cittadino che per lo straniero: il diritto all'iscrizione al servizio sanitario nazionale, il diritto di concorrere all'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, la possibilità di accedere ai servizi sociali predisposti dagli enti locali (63).

Per quanto riguarda l'accesso all'assistenza sociale, l'articolo 41 stabilisce che i titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, nonché i minori iscritti nei rispettivi titoli di soggiorno, sono equiparati ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e delle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale. Sono elencate in via esemplificativa le prestazioni previste per coloro che sono affetti dal "morbo di Hansen o da tubercolosi, per sordomuti, per ciechi civili, per gli invalidi civili e per gli indigenti". Tra queste prestazioni vanno ricompresi i trattamenti a sostegno del reddito e quelli assistenziali connessi all'accertata invalidità, e dunque l'assegno d'invalidità civile, l'indennità di accompagnamento e la pensione d'inabilità (64).

Il diritto degli stranieri extracomunitari, indicati nell'articolo 41 del Testo unico, di usufruire delle prestazioni e dei servizi sociali, in condizioni di parità con i cittadini, è ribadito anche dall'art. 2, comma 1, della legge n. 328/2000, legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali. Inoltre, all'articolo 30 T.U., si prevede che gli stranieri che hanno diritto al ricongiungimento familiare devono poter usufruire delle misure di carattere socio-assistenziale che il legislatore può prevedere a sostegno della famiglia.

Dalla lettura di queste norme deriva l'equiparazione degli stranieri regolarmente soggiornanti ai cittadini italiani, per l'accesso alle prestazioni non contributive di natura assistenziale.

Preso atto della circostanza per cui l'integrazione dei migranti passa inevitabilmente per il riconoscimento nei loro confronti dei diritti sociali, l'intento del legislatore sembra essere quello di promuovere un'effettiva integrazione degli stranieri in posizione di soggiorno regolare, in conformità a quanto affermato dall'articolo 2 T.U., comma cinque, che riconosce allo straniero la parità di trattamento con i cittadini relativamente "all'accesso ai pubblici servizi".

Restano esclusi gli immigrati irregolari e gli stranieri in possesso di un titolo di soggiorno di durata inferiore ad un anno. L'esclusione degli stranieri irregolari può trovare una giustificazione, ed integrare i parametri di una differenziazione ragionevole, se si fa riferimento a quella comunità di diritti e doveri di solidarietà che stanno alla base del riconoscimento dei diritti sociali, e la regolarità del soggiorno può essere considerata indice del positivo inserimento in una società caratterizzata da una reciprocità di diritti e doveri. Tuttavia un ragionamento di questo tipo, sebbene risulti coerente nella sua formulazione astratta, appare piuttosto traballante nel momento in cui viene calato nella realtà concreta. Occorre considerare infatti che spesso la condizione di irregolarità costituisce l'anticamera di un soggiorno regolare, in attesa dell'iter burocratico per il rilascio di un titolo di soggiorno o in attesa di rientrare nelle quote ministeriali, fissate annualmente, per ottenere un permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Inoltre, frequentemente, soprattutto per quanto riguarda i soggetti titolari di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, la condizione di irregolarità si presenta come una condizione sopravvenuta, derivante dalla cessazione del rapporto di lavoro. La dipendenza del titolo di soggiorno dal contratto di lavoro rende la condizione di regolarità estremamente precaria, legata alla flessibilità e alla precarietà dei contratti di lavoro. Peraltro si verifica una situazione, sotto alcuni aspetti paradossale, per cui la perdita del posto di lavoro, che normalmente viene ricondotta tra quei presupposti che fanno sorgere il diritto di accedere agli ammortizzatori sociali, per lo straniero costituisce l'anticamera alla situazione di irregolarità, che lo vede regredire alla condizione di soggetto pressoché privo di diritti.

Sebbene la perdita del posto di lavoro non comporti automaticamente la revoca del permesso di soggiorno, di fatto nella realtà intercorre un rapporto di causa-effetto tra le due situazioni; infatti, spesso il tempo di validità residua del titolo di soggiorno non è abbastanza lungo per consentire di trovare una nuova occupazione. L'art. 22, comma 11, del T.U. sull'immigrazione prevede che il lavoratore straniero che perde il posto di lavoro possa essere iscritto nelle liste di collocamento per il periodo di validità residua del permesso di soggiorno, e comunque, salvo che si tratti di permesso di soggiorno per lavoro stagionale, per un periodo non inferiore a sei mesi. Il D.P.R. 334/2004, all'art. 37, comma 6, specifica che "allo scadere del permesso di soggiorno (per motivi di attesa occupazione), lo straniero deve lasciare il territorio dello Stato, salvo che risulti titolare di un nuovo contratto di soggiorno per lavoro ovvero abbia diritto al permesso di soggiorno ad altro titolo, sussistendone i requisiti di legge". Ne deriva che, nel momento in cui lo straniero perde il posto di lavoro e entra in una condizione di indigenza, che costituirebbe il presupposto per l'accesso a determinate prestazioni sociali, perde ogni possibilità di accedervi perché tendenzialmente si trova in una condizione di regolarità precaria, fino alla scadenza del permesso per attesa occupazione, salvo che nel frattempo non trovi una nuovo lavoro o non soddisfi i requisiti di legge per ottenere il permesso di soggiorno ad altro titolo (65).

Queste considerazioni vogliono stimolare una riflessione, e cioè che spesso le norme danno una visione semplificata di una realtà molto più complessa. Non sempre è vero il binomio irregolarità-mancata integrazione in una società fatta di un complesso di diritti e doveri. Spesso la condizione di irregolarità non consegue all'inadempimento, da parte dello straniero, di obblighi amministrativi o alla violazione di norme penali, ma deriva da un fatto del tutto indipendente dalla volontà o dalla condotta dello straniero, come può essere la perdita del posto di lavoro. In questo caso, a trovarsi nella condizione di irregolarità è un lavoratore, integrato in una società fatta di una reciprocità di diritti e di obblighi, che ha apportato il proprio contributo lavorativo per la crescita economica del Paese e che ha adempiuto al dovere di solidarietà sociale, attraverso il pagamento dei tributi. Considerando il problema sotto tale punto di vista, appare decisamente più problematico rinvenire la ragionevolezza di una simile esclusione.

Sono parimenti esclusi dall'accesso all'assistenza sociale anche gli stranieri titolari di un permesso di soggiorno di durata inferiore ad un anno. L'esclusione riguarda delle situazioni molto eterogenee, infatti gli stranieri che si trovano in una condizione di soggiorno regolare ma con un titolo di soggiorno di durata inferiore ad un anno possono essere stranieri in possesso di un mero visto turistico, lavoratori in possesso di un permesso di soggiorno per lavoro stagionale, soggetti autorizzati provvisoriamente al soggiorno nel territorio dello Stato, in attesa che si compia l'iter burocratico per il riconoscimento dello status di apolide, di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale. L'esclusione trova la sua ratio nell'esigenza di contenere le spese pubbliche, quindi di selezionare i beneficiari, escludendo quei soggetti che hanno con lo Stato un rapporto temporaneo, occasionale. In questo modo però ad essere esclusi sono anche i lavoratori stagionali, cioè quei migranti che sebbene non soggiornino continuativamente nel territorio dello Stato, sono dei lavoratori regolarmente e periodicamente soggiornati, rispetto ai quali è previsto un trattamento differenziato e sfavorevole che li esclude dal diritto di accedere alle prestazioni assistenziali, lasciando aperti dei dubbi circa la ragionevolezza di una simile esclusione. La tendenza legislativa sembra essere quella di prevedere un accesso graduale ai diritti, calibrato sulla base della durata del soggiorno regolare nel territorio dello Stato e sulla base della tipologia del titolo di soggiorno posseduto.

L'individuazione dei soggetti ammessi al godimento dei diritti sociali è un'operazione assolutamente problematica. Si tratta di contemperare diverse esigenze: l'interesse a contenere le spese dello Stato in questo settore e l'esigenza di porre le condizioni per la realizzazione di diritti costituzionalmente garantiti. Al di là delle scelte di politica sociale del legislatore, il presupposto è che la discrezionalità venga esercitata nel rispetto del diritto antidiscriminatorio e del principio di ragionevolezza. Al legislatore del 1998 va riconosciuto il merito, se pure con le perplessità descritte, di aver trovato un certo equilibrio nell'individuazione dei soggetti ammessi al diritto di accesso all'assistenza sociale, affermando un principio di parità di trattamento tra stranieri regolarmente residenti e cittadini italiani, nel rispetto del principio di ragionevolezza e in conformità delle Convenzioni e dei Trattati internazionali.

5. Le restrizioni introdotte dalla legge n. 388/2000. La tipologia del titolo di soggiorno come limite all'accesso alle prestazioni sociali

L'equiparazione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nell'accesso alle prestazioni sociali, prevista dall'articolo 41 del T.U., ha comportato delle notevoli conseguenze economiche per la finanza dello Stato, poiché la concessione di tali prestazioni è stata estesa ad ampia platea di nuovi potenziali beneficiari indigenti (66). L'incidenza finanziaria dell'equiparazione ha indotto il legislatore a nuovi interventi normativi, tesi a restringere la cerchia dei possibili beneficiari delle prestazioni assistenziali, con l'intento di ridurre la spesa pubblica.

Mentre il T.U. sull'immigrazione differenzia le posizioni giuridiche degli stranieri a seconda della regolarità o meno del soggiorno, con la legge finanziaria per il 2001, viene introdotta un'ulteriore distinzione tra gli stranieri che soggiornano legalmente, escludendo la possibilità per i titolari di permesso di soggiorno di usufruire della maggior parte delle prestazioni economiche di assistenza sociale. Il principio di parità di trattamento tra stranieri regolarmente soggiornanti e cittadini, affermato a livello comunitario ed internazionale, viene sacrificato per mere esigenze di "cassa", rendendo la normativa estremamente incerta sotto il profilo della legittimità costituzionale (67).

L'espediente utilizzato dal legislatore, per limitare l'ambito di applicazione ratione personae, è stato quello di introdurre, nella legge finanziaria per il 2001, una disposizione, l'art. 80 comma 19, che non modifica l'art. 41 T.U., ma lo interpreta. E stabilisce che, ai sensi dell'art. 41 T.U., "l'assegno sociale e le provvidenze economiche che costituiscono diritto soggettivo in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali sono concessi agli stranieri che siano titolari della carta di soggiorno". Per le altre prestazioni e servizi sociali invece, l'equiparazione con i cittadini italiani è consentita a favore degli stranieri che siano almeno titolari di un permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno.

L'operatività del principio di parità di trattamento, tra stranieri regolarmente soggiornanti e cittadini, nell'accesso all'assegno sociale e alle provvidenze economiche che costituiscono diritto soggettivo, viene ristretto ai soli stranieri titolari di carta di soggiorno. Questa differenziazione, fondata sulla tipologia del titolo di soggiorno, appare incoerente rispetto all'art. 2 del T.U., che riconoscendo la titolarità, in capo allo straniero, dei diritti fondamentali, non detta una disciplina differenziata fondata sul diverso titolo di soggiorno posseduto (68). La norma si pone inoltre in contrasto con i numerosi strumenti normativi, comunitari e internazionali, che sanciscono un principio di parità di trattamento tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nell'accesso alle tutele sociali (69).

Una differenziazione di questo tipo, oltre a porre degli evidenti dubbi circa la ragionevolezza del criteri di selezione utilizzati, si presenta come un vero paradosso giuridico. Occorre considerare che l'art. 9 del T.U. prevede che il rilascio della carta di soggiorno sia subordinato al soddisfacimento di due requisiti: un requisito di tipo temporale, e cioè il soggiorno regolare nel territorio dello Stato di almeno cinque anni, e un requisito di tipo reddituale, cioè lo straniero deve dimostrare di avere un "reddito sufficiente per il sostentamento proprio e dei familiari". Ciò che è paradossale è che viene richiesto il possesso di un determinato reddito per accedere a delle prestazioni previste in favore di persone indigenti o di persone invalide, pertanto svantaggiate nell'accesso al lavoro e nel conseguimento di un reddito. Con la conseguenza che gli stranieri invalidi civili, a causa dell'invalidità sofferta, non sono in grado di svolgere un'attività lavorativa e non potranno ottenere la carta di soggiorno perché non possono raggiungere (proprio per l'impossibilità di lavorare) il minimo reddituale richiesto, e non possono ottenere l'assistenza sociale perché non in possesso della carta di soggiorno. Particolarmente grave è la situazione dei minori portatori di handicap o di gravi invalidità, che avranno diritto alle prestazioni di assistenza economica solo se i genitori sono in possesso di carta di soggiorno e, al compimento della maggiore età, avranno diritto a percepire le prestazioni, solo se i genitori ottengono la carta di soggiorno prima che essi diventino maggiorenni (70).

La discriminazione dei minori in relazione al titolo di soggiorno posseduto dai genitori appare del tutto irragionevole e arbitraria, oltre che in netto contrasto con la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo (71) e con i principi, contenuti nella Costituzione e nel Testo Unico sull'immigrazione (72), che non ammettono differenziazioni di trattamento nell'accesso ai diritti fondamentali fondate sullo status civitatis.

Lo stesso assurdo giuridico si verifica per l'accesso all'assegno sociale; i requisiti richiesti dalla legge per averne diritto sono un requisito anagrafico, cioè aver compiuto il sessantacinquesimo anno d'età, e un requisito reddituale, trovarsi in uno stato di bisogno, cioè con un reddito non superiore all'importo annuo dell'assegno sociale (73). L'articolo 80, comma 19, stabilisce invece che, perché uno straniero possa avere accesso all'assegno sociale, cioè ad una prestazione a sostegno del reddito, che presuppone che si versi in una condizione di bisogno perché sorga il diritto alla prestazione, deve dimostrare di essere in possesso di carta di soggiorno, la quale presuppone, per il rilascio, che si abbia "un reddito sufficiente per il sostentamento proprio e dei propri familiari", che normalmente viene individuato proprio nell'importo annuo dell'assegno sociale. Risulta evidente come il requisito della carta di soggiorno si ponga persino al di là dell'irragionevolezza, rendendo la formulazione della norma addirittura illogica.

La differenziazione della posizione giuridica degli stranieri sulla base del titolo di soggiorno posseduto lascia aperti degli interrogativi, non soltanto in ordine alla manifesta irragionevolezza e illogicità della previsione di un requisito reddituale per l'accesso a prestazioni economiche a sostegno di soggetti inabili al lavoro e indigenti, ma anche in ordine alla scelta della durata del soggiorno come presupposto per l'accesso all'assistenza sociale. Quest'ultimo criterio pone delle differenze di trattamento, non solo tra stranieri e cittadini, ma tra stranieri stessi. E' evidente il contrasto, non solo con i principi sanciti a livello comunitario e internazionale, ma con le stesse previsioni del diritto interno. C'è un netto passo indietro rispetto a quel processo di integrazione, attraverso l'affermazione di un principio di uguaglianza di diritti, iniziato con la legge n. 40 del 1998, poi T.U. sull'immigrazione, che all'art. 2 sancisce un principio di parità di trattamento tra stranieri e cittadini nella tutela dei diritti fondamentali e nell'accesso ai pubblici servizi, principio ribadito dall'art. 41 TU, con specifico riferimento ai diritti di assistenza sociale. Lo stesso principio di parità di trattamento è previsto anche nella legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione e i diritti delle persone handicappate.

L'art. 80, comma 19, distingue, poi, un nucleo di prestazioni sociali il cui accesso è consentito anche nei confronti degli stranieri titolari del solo permesso di soggiorno. E dopo aver previsto che sia necessario il possesso della carta di soggiorno per l'accesso all'assegno sociale e alle altre provvidenze economiche che costituiscono diritto soggettivo, afferma che è sufficiente invece il possesso di un permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno per accedere alle altre prestazioni (che non possono considerarsi diritti soggettivi) e servizi del sistema integrato di interventi e servizi sociali. Questa distinzione determina una separatezza normativa, difficilmente riconducibile a ragionevolezza, per cui lo straniero che voglia ottenere l'assegno sociale, gli assegni e le indennità derivanti da invalidità civile, cecità e sordomutismo o l'assegno di maternità (74), deve essere titolare di carta di soggiorno, mentre lo straniero che voglia accedere alle altre prestazioni previste dal sistema integrato di interventi e servizi sociali, quali quelle per il morbo di Hansen, per gli affetti da tubercolosi, nonché quelle previste per gli indigenti, sia di fonte nazionale che regionale o locale, è sufficiente che sia in possesso del solo permesso di soggiorno di durata di almeno un anno.

L'articolo 80, al comma cinque, restringe ancora di più la cerchia dei beneficiari, stabilendo che l'assegno per i nuclei familiari in condizioni disagiate e numerosi (75), con almeno tre figli minori, sia concesso ai nuclei familiari in cui il richiedente sia cittadino italiano o comunitario. La disposizione viola direttamente la Direttiva 2003/109/CE (76), che afferma il diritto degli stranieri titolari di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo di accedere alle prestazioni di assistenza sociale in condizioni di parità con i cittadini (77). L'art. 80, comma cinque, fa poi salvo espressamente quanto stabilito dall'articolo 66 della legge 23 dicembre 1999, n. 448 che prevede soltanto per le donne extracomunitarie titolari di carta di soggiorno il diritto di ottenere l'assegno di maternità previsto per ogni figlio nato, a parità di condizioni con le donne italiane o cittadine comunitarie in condizioni di disagio economico.

6. Profili d'incostituzionalità della normativa italiana. La posizione illuminata della Consulta nella Sentenza n. 432/2005

Abbiamo visto come la predisposizione di un sistema di assistenza sociale trovi fondamento direttamente nella Costituzione, la quale impone, in base al combinato disposto degli artt. 2 e 3, che il requisito della cittadinanza non possa di per sé legittimare un trattamento differenziato. In contrapposizione al principio di parità di trattamento, pacificamente affermato a livello costituzionale, comunitario e sovranazionale, si pone la disciplina legislativa italiana, che differenzia la possibilità di accedere alle prestazioni assistenziali sulla base del titolo di soggiorno posseduto.

La Corte Costituzionale è stata più volte chiamata a pronunciarsi sulla legittimità delle differenziazioni introdotte dal legislatore, valutandone la ragionevolezza e il rispetto del principio di non discriminazione. Tra le pronunce, si distingue la sentenza n. 432/2005 (78), in cui, pur non venendo direttamente in rilievo la questione di legittimità dell'art. 80 comma 19, ma una norma regionale, la Corte si pronuncia su questioni generali in ordine alla legittimità delle differenziazioni fondate sulla cittadinanza nell'accesso a diritti fondamentali dell'individuo. La Consulta individua quali sono i legittimi criteri di differenziazione e come opera il principio di ragionevolezza, ove il legislatore voglia selezionare i beneficiari di determinate prestazioni assistenziali (79).

La questione che viene in rilievo nel giudizio di legittimità riguardava una legge della Regione Lombardia che, nell'attribuire il diritto alla circolazione gratuita sui servizi di trasporto pubblico di linea alle persone totalmente invalide per cause civili, non includeva i cittadini stranieri residenti nella regione tra gli aventi diritto a tale beneficio (80). Viene proposto ricorso davanti al tribunale amministrativo regionale da parte di un lavoratore bresciano con cittadinanza egiziana e della CGIL Lombardia, e il Tar, dopo aver riconosciuto le ragioni del ricorrente, promuove giudizio di legittimità costituzionale (81) della legge regionale.

L'ordinanza di rimessione prospetta l'incostituzionalità in relazione agli artt. 3, 32, comma 1, 35, comma 1, e 117, comma 2, lettera a). La norma censurata si porrebbe in contrasto con l'art. 32, primo comma, della Costituzione, che riconosce il diritto fondamentale dell'individuo al benessere psicofisico, senza distinzioni, in quanto la salute costituisce un bene primario universalmente riconosciuto. Per contro, la norma censurata non include nel beneficio, riconosciuto in ragione delle condizioni di salute, gli stranieri totalmente invalidi. Si ravvisa poi la violazione del principio di ragionevolezza dell'art. 3 della Costituzione, in quanto la legge regionale introduce un trattamento differenziato per situazioni che non presentano elementi di diversità rilevanti per l'ordinamento, essendo la ratio della norma quella di predisporre misure a favore delle persone totalmente invalide. Si pone in contrasto inoltre con l'art. 35, comma primo, poiché il beneficio sarebbe finalizzato a tutelare chi si trovi in difficoltà rispetto al lavoro per favorirne il recupero delle energie psicofisiche. In ultimo, la norma eccederebbe le competenze della regione, in violazione dell'art. 117, comma 2, lettera a), che attribuisce in via esclusiva alla legislazione dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantirsi su tutto il territorio nazionale e la statuizione di principi fondamentali in materia di tutela della salute.

La Corte dichiara l'illegittimità della legge della Regione Lombardia, "nella parte in cui non include gli stranieri residenti nella regione fra gli aventi diritto alla circolazione gratuita sui servizi di trasporto pubblico di linea riconosciuto alle persone totalmente invalide per cause civili". La sentenza ha un rilievo importante perché la Corte riconosce espressamente l'operatività di un principio di non discriminazione nell'accesso alle prestazioni sociali da parte dello straniero e spiega chiaramente quali sono i limiti alla discrezionalità del legislatore, laddove voglia introdurre un trattamento differenziato tra cittadini e stranieri.

I giudici costituzionali ravvisano la ratio della norma censurata nella logica di solidarietà sociale, con l'intento di agevolare l'accesso ai trasporti da parte delle persone invalide al 100%, sulla base della ragionevole presupposizione che, proprio a causa dell'invalidità, vedono fortemente compromessa o del tutto eliminata la loro capacità di guadagno. Si puntualizza che si tratta di prestazioni non essenziali, che si collocano al di fuori dall'operatività incondizionata del principio di uguaglianza, che non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e dello straniero solo quando venga riferito al godimento dei diritti inviolabili dell'uomo (82). Nell'attribuzione di ulteriori diritti, che eccedono l'essenziale, il legislatore è libero di introdurre delle differenziazioni, tenendo conto anche dell'esigenza di contemperare la limitatezza delle risorse finanziarie, da una parte, e la massima fruibilità del beneficio dall'altra. Tuttavia le scelte connesse all'individuazione delle categorie di beneficiari devono essere operate, "sempre e comunque, in ossequio al principio di ragionevolezza". La distinzione operata dal legislatore della regione Lombardia appare alla Consulta fondata su elementi del tutto arbitrari, "non essendovi alcuna ragionevole correlabilità tra quella condizione positiva di ammissibilità al beneficio (la cittadinanza italiana) e gli altri peculiari requisiti (invalidità al 100% e residenza) che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio e la funzione".

La Corte, nel riconoscere l'operatività di un principio di parità di trattamento tra straniero e cittadino nell'accesso alle prestazioni di assistenza sociale, richiama espressamente l'art. 41 del T.U. e gli artt. 2 e 3, comma 4 della legge quadro in materia di assistenza sociale (83). E puntualizza che le norme richiamate affermano un fondamentale principio di equiparazione tra cittadini, stranieri e apolidi legalmente residenti che vincola il legislatore regionale, che laddove volesse prevedere dei regimi derogatori, dovrebbe porre una "trasparente e razionale causa giustificatrice, idonea a spiegare, sul piano costituzionale, le ragioni poste a base della deroga". La Corte afferma che "non essendo enucleabile dalla norma impugnata altra ratio che non sia quella di introdurre una previsione destinata a scriminare, dal novero dei fruitori della prestazione, gli stranieri in quanto tali, ne deriva la illegittimità costituzionale per violazione dell'art. 3 della Costituzione".

6.1. A passo di gambero. La Corte costituzionale delude le attese. La sentenza n. 324/2006

La netta presa di posizione della Consulta nel censurare la discriminazione diretta fondata sulla nazionalità e nell'affermare un principio di parità di trattamento tra stranieri e cittadini nell'accesso alle prestazioni sociali, aveva lasciato sperare che la sentenza n. 432/2005 potesse essere solo il primo di una serie di provvedimenti volti ad affermare l'equiparazione tra cittadini e stranieri nella fruizione delle misure di assistenza sociale. Il ragionamento della Corte ben si sarebbe potuto applicare anche in riferimento all'art. 80, comma 19, censurandone la discriminazione indiretta, laddove si prevede il requisito della carta di soggiorno per l'accesso, da parte dello straniero, alle prestazioni di assistenza sociale. Tuttavia, sebbene siano state diverse le occasioni a disposizione della Corte per proseguire l'opera cominciata con la sentenza n. 432/2005 e ricondurre a ragionevolezza e al rispetto della Costituzione la legislazione italiana in materia, la Corte ha deluso le aspettative, con delle pronunce per certi versi evasive e reticenti.

La prima occasione si è presentata alla Consulta con la sentenza n. 324/2006 (84), in cui è stata chiamata all'esame congiunto delle ordinanze del Tribunale di Monza e di Milano (85) che dichiarano rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità dell'art. 80, comma 19, l. 388/2000 per contrasto con i principi di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), di parità di trattamento e di non discriminazione (art. 3 Cost.), di tutela della salute (art. 32), di accesso all'assistenza sociale (art. 38) e di necessaria conformazione delle leggi nazionali alle norme ed ai trattati internazionali (art. 10, comma 2, art. 35, comma 3, art. 117, comma 1 Cost.), nella parte in cui prevede la necessità della carta di soggiorno, e della relativa condizione reddituale, affinché gli stranieri riconosciuti invalidi civili possano fruire della pensione d'invalidità.

Sebbene la questione di legittimità sia stata correttamente ed esplicitamente posta dai giudici a quibus, la Corte, rilevando che nei giudizi in cui era stata sollevata la questione si discuteva di provvidenze già concesse ai titolari di permesso di soggiorno, e poi revocate a seguito dell'intervento della legge 388/2000, non si pronuncia sulla questione principale e si limita ad esaminare l'aspetto della retroattività o meno della modifica legislativa. Dichiara la questione di legittimità manifestamente inammissibile, posto che i giudici remittenti avrebbero potuto dirimere la controversia attraverso il generale principio di irretroattività della legge, sancito dall'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale e utilizzato diffusamente dalla giurisprudenza di merito al fine di riconoscere l'irretroattività della norma in esame.

Occorre preliminarmente specificare che la questione sull'efficacia temporale dell'art. 80, comma 19, era già stata oggetto di un copioso contenzioso giurisprudenziale, originato dai provvedimenti con i quali l'INPS aveva interrotto l'erogazione delle prestazioni di assistenza sociale, a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge 388/2000 (primo gennaio 2001), agli stranieri che ne fruivano sulla base dell'art. 41 T.U., qualora questi non avessero dimostrato di possedere la carta di soggiorno, arrivando a chiedere addirittura la restituzione delle somme già versate (86). Sulla questione era intervenuto in prima battuta in Consiglio di Stato, su sollecitazione del Ministero dell'Interno, al fine di chiarire se l'amministrazione potesse revocare o meno le provvidenze ai soggetti carenti di carta di soggiorno. Il Consiglio di Stato aveva affermato che "dopo l'entrata in vigore della norma restrittiva, gli stranieri non titolari di carta di soggiorno, non hanno più diritto a godere delle provvidenze in parola" e dato che "la norma interviene direttamente sui titoli di legittimazione alla percezione delle provvidenze assistenziali, restringendone l'ambito e stabilendo un chiaro parametro di riferimento, alla stregua del quale, ed in difetto di disciplina transitoria, dopo l'entrata in vigore della legge finanziaria l'equiparazione ai cittadini italiani viene meno per gli stranieri titolari di permesso di soggiorno". Nel parere si legge inoltre che la concessione di misure assistenziali innesca un rapporto di durata, caratterizzato da una serie di prestazioni, ciascuna delle quali realizza l'obbligazione per intero in riferimento al periodo dato. Per i successivi periodi, il rapporto di durata sarebbe soggetto alla disciplina legislativa vigente, che richiede come requisito per l'accesso alla prestazione il possesso della carta di soggiorno, pertanto il pagamento di ulteriori rate ai soggetti non titolari di carta di soggiorno verrebbe effettuato in difetto di adeguato titolo giustificativo (87). Ne consegue la legittimità dei provvedimenti con i quali l'INPS aveva interrotto l'erogazione delle prestazioni assistenziali ai soggetti privi di carta di soggiorno.

La conclusione del Consiglio di Stato non era apparsa convincente, e a partire dall'entrata in vigore della legge 388/2000, la giurisprudenza è stata più volte chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell'interruzione dell'erogazione di prestazioni di assistenza sociale nei confronti di soggetti non comunitari già beneficiari delle stesse. L'orientamento dei giudici di merito è stato concorde nel riconoscere l'irretroattività dell'art. 80, comma 19 e tale posizione è stata avvalorata e consolidata con due pronunce della Corte di Cassazione (88).

Nella prima, la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi circa la possibilità che l'art. 80, comma 19, sia configurabile come una norma di interpretazione autentica, pertanto dotata di efficacia retroattiva. La Corte ha affermato che, in forza del generale principio di irretroattività delle leggi, sancito dall'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, l'eventuale natura retroattiva dovrebbe "risultare da una espressa o quanto meno non equivoca dichiarazione del legislatore, dovendosi ritenere, in caso d'incertezza, che la norma non disponga che per l'avvenire, e non abbia quindi effetto retroattivo". Specifica inoltre che l'art. 80, comma 19, non sarebbe configurabile come una norma d'interpretazione autentica poiché "non si limita ad interpretare la norma precedente chiarendone la portata, ma introduce una modificazione nell'ambito di applicazione del beneficio, per cui non può avere carattere d'interpretazione autentica e non può conseguentemente avere efficacia retroattiva". (89)

La Cassazione ha poi ribadito e puntualizzato la propria posizione circa l'irretroattività della norma, rigettando il ricorso proposto dall'INPS contro la sentenza della Corte d'appello di Torino che aveva riconosciuto il diritto di un cittadino straniero in possesso del solo permesso di soggiorno e a cui era stato concesso l'assegno sociale in base all'art. 41 TU, di continuare a beneficiare di tale provvidenza assistenziale anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 80, comma 19, l. 388/2000, trattandosi di un diritto acquisito (90). La Corte, nel respingere la pretesa dell'INPS di sospendere o revocare l'erogazione dell'assegno sociale dopo l'entrata in vigore della nuova normativa, chiarisce che la nuova norma non incide sui diritti già maturati in base alla legislazione previgente, ma ha inteso "limitare l'efficacia [...] solo alle nuove prestazioni assistenziali, senza incidere cioè su quelle riconosciute nella vigenza della precedente normativa". (91)

La sentenza della Corte costituzionale avvalora ancora di più il riconoscimento dell'irretroattività della legge 388/2000, puntualizzando degli utili aspetti tecnici relativi ai rapporti di durata e ribadendo l'illegittimità della revoca dei trattamenti concessi in epoca antecedente alla finanziaria. Consente di salvaguardare il diritto di percepire le prestazioni assistenziali da parte di chi ne beneficiava prima dell'entrata in vigore dell'art. 80, comma 19, seppure non in possesso di carta di soggiorno, ma non prende posizione sulla questione nodale, ovvero la legittimità del requisito della carta di soggiorno come presupposto per l'accesso all'assistenza sociale (92). La Corte si limita ad affermare che "in linea di principio, al legislatore è consentito modificare il regime di un rapporto di durata, [anche] con misure che incidano negativamente [...] sulla posizione del destinatario delle prestazioni, purché esse non siano in contrasto con i principi costituzionali e, quindi, non ledano posizioni aventi fondamento costituzionale".

Contrariamente alle aspettative, la Corte non richiama il ragionamento della sentenza n. 432/2005, sebbene le argomentazioni a sostegno dell'illegittimità costituzionale della norma potessero valere anche con riferimento alla scelta operata dalla finanziaria del 2001, e si limita a risolvere solo marginalmente la questione dell'accesso degli stranieri regolarmente soggiornanti alle prestazioni di assistenza sociale.

6.2. L'incerto equilibrio delle pronunce della Corte, tra l'irragionevolezza del requisito reddituale e la tacita legittimità del requisito della durata del soggiorno. Le sentenze n. 306/2008 e n. 11/2009 e l'ordinanza n. 285/2009

L'occasione di rimediare alla timidezza della sentenza 324/2006, si presenta poco dopo, con la sentenza n. 306/2008, quando su ordinanza del Tribunale di Brescia (93), la Consulta è chiamata a pronunciarsi su una questione di legittimità dell'art. 80, comma 19, relativamente all'estromissione dei titolari di permesso di soggiorno, che avessero presentato la domanda per accedere alla prestazione in epoca posteriore all'entrata in vigore della legge finanziaria (94).

Il caso riguardava una cittadina albanese, legalmente residente in Italia da oltre sei anni, ridotta in stato di coma vegetativo in seguito ad un incidente stradale, che si era vista negare dall'INPS la corresponsione dell'indennità d'accompagnamento perché non in possesso di carta di soggiorno. Il giudice a quo solleva la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell'art. 80, comma 19, l. 388/2000 e l'art. 9, comma 1, del d.lgs. 286/1998, come modificato dall'art. 9, comma 1, l. 189/2002, e poi sostituito dall'art. 1, comma 1, del d. lgs. n. 3/2007 (95), in quanto "condiziona la fruizione di provvidenze di carattere universalistico, poste a tutela di diritti fondamentali della persona, quale [...] l'indennità di accompagnamento, al possesso della carta di soggiorno", titolo che richiede, tra l'altro, il possesso di un reddito perché venga rilasciato. La scelta del legislatore appare al giudice remittente "irrispettosa dei valori di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., ma anche contraddittoria sul piano logico e contrastante con le finalità proprie dell'assistenza, quali emergono dall'art. 38 Cost., dal momento che comporta il riconoscimento delle relative provvidenze ai soggetti economicamente autosufficienti, mentre lo esclude proprio per le ipotesi nelle quali la situazione di bisogno è più intensa".

La Corte costituzionale premette che l'indennità di accompagnamento (96) spetta ai disabili non autonomamente deambulanti, o che non siano in grado di compiere da soli gli atti quotidiani della vita, per il solo fatto delle minorazioni, e quindi indipendentemente da qualsiasi requisito reddituale. Richiama la sentenza n. 432/2005, ribadendo la possibilità per il legislatore di introdurre regimi giuridici differenziati, purché nel rispetto del principio di ragionevolezza. Sulla base di queste considerazioni ritiene manifestamente irragionevole subordinare l'attribuzione di una prestazione assistenziale quale l'indennità di accompagnamento al possesso di un titolo di soggiorno, che richiede per il suo rilascio, tra l'altro, la titolarità di un reddito. Se ne deduce la violazione dell'art. 3 Cost. e degli artt. 32 e 38, nella misura in cui l'irragionevolezza incide sul diritto alla salute, e si ritengono violati anche l'art. 2, "tenuto conto che quello alla salute è diritto fondamentale della persona", e l'art. 10, dal momento che "tra le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute rientrano quelle che, nel garantire i diritti fondamentali della persona indipendentemente dall'appartenenza a determinate entità politiche, vietano discriminazioni nei confronti degli stranieri, legittimamente soggiornanti nel territorio dello Stato".

Ciò stabilendo, la Corte non dichiara l'incostituzionalità dell'art. 80, comma 19, tout court, ma con un'artificiosa operazione chirurgica, dichiara l'illegittimità costituzionale delle norme censurate, nella parte in cui "oltre ai requisiti sanitari e di durata del soggiorno in Italia e comunque inerenti alla persona, già stabiliti per il rilascio della carta di soggiorno, non sospettati d'illegittimità dal remittente, esigono, ai fini dell'attribuzione dell'indennità di accompagnamento, anche requisiti reddituali" (97).

I giudici costituzionali, seppure consapevoli che la concessione della carta di soggiorno implica, oltre la titolarità di un certo reddito, anche un requisito di tipo temporale, ovvero il soggiorno regolare nello Stato per un periodo di almeno cinque anni, neutralizzano il solo requisito inerente alla capacità economica, e evitano di pronunciarsi sulla legittimità della durata del soggiorno come criterio di esclusione dalla fruizione di provvidenze assistenziali. L'omissione della Corte viene giustificata sul rilievo che il suddetto criterio non sia stato sospettato d'illegittimità da parte del remittente, posto che la richiedente era legalmente presente in Italia da più di sei anni e non aveva ottenuto la carta per il solo difetto del requisito reddituale. La Corte fa una applicazione più che rigorosa del limite del chiesto-pronunciato e non si pronuncia sulla legittimità del requisito temporale, tuttavia essa dimostra di essere perfettamente al corrente del tumulto giurisprudenziale che l'art. 80, comma 19, ha causato, avendo escluso dall'accesso all'assistenza sociale i cittadini extracomunitari legalmente residenti, ma privi di carta di soggiorno. Tanto è vero che la Corte approfitta della pronuncia per prendere posizione su alcune soluzioni interpretative prospettate dalla giurisprudenza di merito in proposito, e in linea con i propri precedenti (98), esclude la diretta applicabilità delle disposizioni della CEDU e censura il ricorso al Regolamento comunitario n. 859/2003, espedienti utilizzati entrambi dalla giurisprudenza di merito per consentire l'accesso degli stranieri regolarmente soggiornanti, ma privi di carta di soggiorno, alle prestazioni di assistenza sociale (99).

La posizione della Corte sembra potersi configurare come una tacita ammissione della legittimità del requisito della durata del soggiorno, in linea con la propria tendenza ad accettare una certa "progressività"dei diritti calibrata sulla durata della permanenza regolare o della residenza (100). Infatti al punto 9 del considerato in diritto si legge che "è possibile subordinare, non irragionevolmente, l'erogazione di determinate prestazioni, non inerenti a rimediare a gravi situazioni di urgenza, alla circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero al soggiorno nel territorio dello Stato ne dimostri il carattere non episodico e non di breve durata". Una soluzione di questo tipo apre grandemente la sfera della discrezionalità e pone una serie di dubbi. In primo luogo ci si domanda cosa si debba intendere, precisamente, per prestazioni inerenti a rimediare a gravi situazioni d'urgenza, posto che, dalla lettura della sentenza si deduce che rispetto a questo nucleo di diritti non sarebbero ammissibili differenziazioni, fondate sulla cittadinanza o sul titolo di soggiorno. Si pongono gli stessi problemi interpretativi che si manifestano relativamente all'individuazione dei diritti inviolabili dell'uomo, che spettano all'individuo in quanto tale, indipendentemente da qualsiasi altra considerazione in merito alla cittadinanza o alla regolarità del soggiorno. E' pacifico che rientri in questo nucleo di diritti, comunque garantiti, la tutela della salute, intesa come "nucleo irrinunciabile di tutela protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana" (sentenza n. 432/2005) e pertanto riconosciuto allo straniero indipendentemente dalla sua posizione rispetto alle norme che regolano l'ingresso e il soggiorno (sentenza n. 252/2001). Tuttavia, dati i confini incerti e sfumati delle prestazioni inerenti a rimediare a gravi situazioni d'urgenza, è legittimo domandarsi se non possano essere incluse in questa categoria le prestazioni di tipo economico-assistenziale versate a fronte di situazioni di handicap, che rendono il soggetto assolutamente incapace di provvedere alle proprie esigenze, anche economiche, oppure l'assegno sociale, ove venga considerato come reddito "vitale" di sostentamento agli anziani economicamente non autosufficienti (101). Considerando che si tratta di prestazioni poste a tutela della salute e come rimedio alle situazioni di indigenza e povertà, pertanto configurabili come direttamente attinenti alla tutela della dignità umana, è legittimo che la dignità della persona venga graduata sulla base del tempo di presenza (102)? Questi interrogativi rimangono aperti e la soluzione è rimessa di volta in volta alla sensibilità del giudice chiamato a pronunciarsi sulla questione, con la conseguenza che si estende notevolmente l'area della discrezionalità e viene minata la certezza del diritto.

La lettura del suddetto passaggio della sentenza n. 306/2008 lascia spazio ad un ulteriore dubbio. La Corte afferma che il legislatore può ragionevolmente subordinare l'accesso a determinate prestazioni alla circostanza che il titolo di legittimazione al soggiorno dello straniero ne dimostri il carattere non episodico e non di breve durata. Al di là dei dubbi espressi circa una tale graduazione nel godimento di diritti fondamentali, occorre specificare che l'esistenza di un rapporto dello straniero con lo Stato non episodico e non di breve durata non necessariamente deve essere attestato dal possesso della carta di soggiorno. La titolarità della carta fa scattare il diritto ad un soggiorno permanente, che si presenta come un quid pluris rispetto al carattere non episodico e non di breve durata, che può essere sufficientemente attestato dal possesso di un permesso non inferiore ad un anno, suscettibile di un numero illimitato di rinnovi. Pertanto, anche accogliendo l'impostazione della Corte di differenziare l'accesso ai diritti sulla base di un'attestata presenza non episodica o temporanea dello straniero, comunque non si giustificherebbe il requisito della carta di soggiorno, dal momento che il soggiorno stabile può essere sufficientemente attestato dalla titolarità di un permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno. Sarebbe inoltre conforme ai principi affermati a livello comunitario e internazionale subordinare l'accesso dello straniero alle prestazioni di assistenza sociale, in condizioni di parità con i cittadini, al solo requisito del soggiorno regolare. Una volta in regola con le norme che disciplinano l'ingresso e il soggiorno, non possono essere introdotte differenziazioni irragionevoli da parte del legislatore nell'accesso ai diritti, e individuare il discrimine, per riconoscere la titolarità di un diritto fondamentale, nella durata quinquennale del soggiorno lascia aperti diversi interrogativi in ordine alla ratio e alla ragionevolezza del criterio utilizzato.

La Consulta ha avuto di nuovo l'occasione per pronunciarsi sull'irragionevolezza del medesimo complesso normativo con la sentenza n. 11/2009 (103). Su ordinanza del Tribunale di Prato (104), viene sollevata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000 e l'art. 9, comma 1, del d.lgs. 286/1998 nella parte in cui esclude dal diritto a percepire la pensione d'inabilità un cittadino albanese legalmente residente, ma privo di carta di soggiorno (105).

La Corte afferma che i motivi alla base della sentenza 306/2008, cioè "l'intrinseca irragionevolezza del complesso normativo censurato e la disparità di trattamento che esso determina tra cittadini e stranieri legalmente e non occasionalmente soggiornanti in Italia sussistono a maggior ragione anche con riguardo alla pensione d'inabilità". La pensione d'inabilità infatti è preclusa dalla titolarità di un reddito superiore ad una misura fissata dalla legge, pertanto "la subordinazione dell'attribuzione di tale prestazione al possesso, da parte dello straniero, di un titolo di soggiorno il cui rilascio presuppone il godimento di un reddito, rende ancora più evidente l'intrinseca irragionevolezza del complesso normativo in scrutinio".

Nonostante l'esplicita consapevolezza della Corte circa l'irragionevolezza dell'intero complesso normativo, la sentenza non si spinge fino a censurare per intero l'art. 80, comma 19, nella parte in cui subordina l'accesso alle prestazioni di assistenza sociale alla titolarità della carta di soggiorno, ma si limita a dichiarare l'illegittimità del solo requisito reddituale. Permane dunque la vigenza del requisito della durata quinquennale del soggiorno per l'accesso ai diritti. Anche in questo caso la Corte, sul dato che il ricorrente era legalmente residente in Italia da più di cinque anni, evita di pronunciarsi sulla spinosa questione della ragionevolezza della durata del soggiorno come limite all'accesso ai diritti assistenziali (106).

Le due sentenze censurano la sola illegittimità del requisito reddituale previsto per ottenere la carta di soggiorno, ammettendo tacitamente la legittimità delle scelte del legislatore di subordinare l'accesso ai diritti da parte dello straniero al possesso di un titolo di soggiorno che ne attesti la presenza non episodica e non di breve durata.

La Corte ha continuato a tergiversare sulla legittimità del requisito del soggiorno quinquennale anche con la più recente pronuncia sull'argomento, l'ordinanza n. 285 del 2009, con cui la Corte ha rinviato al giudice a quo gli atti relativi all'eccezione di illegittimità, affinché riesamini la rilevanza della questione, tenendo in considerazione la sopravvenuta modificazione del quadro normativo. La questione ha ad oggetto sempre il combinato disposto dell'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000 e l'art. 9, comma 1, del d.lgs. 286/1998 nella parte in cui richiede il possesso della carta di soggiorno per conseguire l'indennità di frequenza per minori disabili e l'indennità di accompagnamento (107).

La Corte ha rinviato gli atti al giudice a quo perché decida alla luce di due sopravvenuti elementi di novità: la declaratoria di parziale illegittimità costituzionale della norma censurata, da parte delle sentenze n. 306/2008 e n. 11/2009, e l'entrata in vigore della legge 3 marzo 2009 n. 18, con a quale è stata ratificata nel nostro ordinamento la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone disabili, siglata a New York il 13 dicembre 2006 (108).

La pronuncia ha il duplice merito, da una parte, di richiamare esplicitamente la Convenzione di New York, che prevede il diritto alla protezione sociale per le persone disabili e l'accesso all'aiuto pubblico per sostenere le spese collegate alla disabilità (109), senza alcuna discriminazione, qualunque ne sia il fondamento (110). Dall'altra parte, il rinvio al giudice a quo potrebbe essere letto come la tacita affermazione che i principi espressi nelle sentenze n. 306/2008 e n. 11/2009 possono essere estesi in maniera automatica a "tutte le provvidenze economiche che costituiscono diritto soggettivo", senza che sia necessaria la pronuncia della Corte sugli istituti sui quali non si è ancora pronunciata (111), e questo avrebbe una grande utilità pratica, evitando che si debba compiere il percorso del giudizio di legittimità costituzionale per le altre provvidenze sulle quali la Corte non si è ancora pronunciata e riconoscendo il diritto alla prestazione allo straniero, attraverso l'applicazione in via automatica il ragionamento seguito dalla Corte.

Tuttavia, rinviando al giudice a quo, è come se la Corte decidesse di non decidere e di lasciare ancora aperta la questione della legittimità o meno del requisito del soggiorno quinquennale. Una pronuncia coraggiosa della Consulta, che censuri l'illegittimità del requisito del soggiorno quinquennale e che faccia tornare operativo l'art. 41 del TU, nella sua originaria interpretazione, avrebbe indubbiamente delle conseguenze rilevanti sulle finanze dello Stato. Riconoscere il diritto generalizzato alle prestazioni sociali per tutti gli stranieri regolarmente residenti è un'affermazione molto costosa, e la Corte è ben consapevole di questo, di qui la sua evasività. Tuttavia è stata la stessa Corte ad affermare che il legislatore è libero di stabilire le proprie politiche sociali e libero di bilanciare la limitatezza delle risorse con l'individuazione dei beneficiari, con l'unico limite di operare le proprie scelte secondo ragionevolezza. La limitatezza delle risorse può giustificare una restrizione delle prestazioni o dei beneficiari, ma non legittima l'introduzione di un trattamento discriminatorio fondato sulla nazionalità e qualunque differenziazione di trattamento deve trovare giustificazione alla luce del costituzionale principio di ragionevolezza. La Corte è deputata a questo controllo, pertanto è auspicabile un intervento, per così dire, più grintoso che riconduca a ragionevolezza e al rispetto del principio di non discriminazione la normativa legislativa vigente, lasciando esclusivamente al legislatore l'eventuale preoccupazione delle conseguenze economiche che una tale pronuncia può comportare.

7. Le soluzioni della giurisprudenza di merito in favore della parità di trattamento

La posizione assunta dalla giurisprudenza di merito è stata più decisa rispetto a quella della Corte costituzionale nel riconoscere l'operatività di un principio di parità di trattamento tra italiani e stranieri regolarmente soggiornanti nell'accesso alle prestazioni assistenziali. I giudici di merito hanno assunto un'impostazione, secondo la quale sarebbero da ritenere illegittimi, in quanto irragionevoli, i provvedimenti che richiedono requisiti ulteriori rispetto a quelli originariamente previsti dall'art. 41 T.U. del 1998. Sono stati posti in evidenza i profili di discriminatorietà dell'art. 80, comma 19, per contrasto rispetto a principi affermati a livello costituzionale, europeo e sovranazionale, e i percorsi argomentativi seguiti per arrivare ad un tale soluzione sono stati diversi, anche se non tutti condivisibili.

7.1. La disapplicazione dell'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000 per contrasto con il principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale affermato a livello europeo

Un primo filone giurisprudenziale ha ritenuto di dover disapplicare l'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000 perché contrastante con il principio comunitario di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale, esteso ai cittadini di Paesi terzi dal Regolamento n. 859/2003. E' stata questa la soluzione prospettata dal Tribunale di Trento (112) di fronte alla richiesta di un cittadino non comunitario di sollevare questione di legittimità costituzionale della legge provinciale che aveva recepito l'art. 80, comma 19, in ambito provinciale (113). I giudici trentini affermano che il quadro normativo delineato dalle parti ometteva di considerare il Regolamento n. 859/2003, che riconosce l'equiparazione tra cittadini e stranieri nell'accesso alle prestazioni, anche non contributive, di sicurezza sociale, senza prevedere ulteriori requisiti in ordine alle permanenza stabile o al possesso di un titolo di soggiorno permanente (114). Data la diretta efficacia dei Regolamenti comunitari negli ordinamenti degli Stati membri, i giudici ritengono che non sussista la necessità di sottoporre la questione alla Corte costituzionale, ma sia possibile risolvere la controversia, disapplicando la norma interna contrastante con il regolamento e condannando la pubblica amministrazione a corrispondere al ricorrente le provvidenze assistenziali.

I giudici trentini hanno avuto il merito di sottolineare l'esistenza, anche a livello comunitario, di un principio di parità di trattamento nell'accesso alle prestazioni di sicurezza sociale, incluse le prestazioni di tipo non contributivo. Cioè hanno preso le distanze dalla distinzione tipica del diritto interno tra prestazioni previdenziali e prestazioni assistenziali e dall'impostazione che riconosce una piena operatività del principio di parità di trattamento tra italiani e stranieri solo in riferimento alle prestazioni previdenziali. In questa pronuncia invece si fa riferimento alla nozione comunitaria di sicurezza sociale, che include al suo interno sia prestazioni contributive che prestazioni non contributive, che costituiscono diritto soggettivo in base alla legislazione vigente. Tuttavia, sebbene sia meritevole il tentativo dei giudici trentini di superare i profili discriminatori della legge nazionale, l'iter argomentativo seguito non appare condivisibile. Si fa riferimento al Regolamento n. 859/2003 senza considerare che, sebbene questo estenda il principio di parità di trattamento ai cittadini extracomunitari legalmente residenti, non è applicabile in maniera generalizzata, ma solo nei confronti dei cittadini di Paesi terzi che si siano spostati legalmente all'interno dell'Unione. Come è stato chiarito dalla Corte di Giustizia, il Regolamento non trova applicazione nei confronti di uno straniero che abbia soggiornato regolarmente in un solo Stato dell'Unione, ma presuppone, perché possa essere invocato, che ci si trovi in una situazione di mobilità intracomunitaria di un cittadino extracomunitario, che abbia pertanto legami con almeno due Stati membri (115). Peraltro, il diritto alla libera circolazione nello spazio europeo è riconosciuto ai soli cittadini extracomunitari in possesso di un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo. Ne consegue che il regolamento n. 859 del 2003 non incide sulla posizione di chi è giunto direttamente in Italia da un Paese terzo e possiede un normale permesso di soggiorno (116).

Lo stesso percorso argomentativo del Tribunale di Trento è stato seguito dalla Giunta provinciale di Bolzano, che ha deliberato la disapplicazione dell'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000 per contrasto con il regolamento n. 859 del 2003, concedendo al ricorrente la prestazione richiesta sulla base dei soli requisiti fissati dal T.U. del 1998. Sulla stessa linea interpretativa, il Tribunale di Perugia, in data 30 agosto 2007, ha accolto la richiesta di pagamento dell'indennità di frequenza per minori invalidi ex l. n. 289/1990, che l'amministrazione negava in quanto la minore straniera non era in possesso della carta di soggiorno, in applicazione dell'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000. Il Tribunale ha ritenuto che la norma sia in contrasto con il principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale, affermato a livello comunitario, in forza del quale le persone legalmente residenti sono soggette agli obblighi e sono ammesse ai benefici della legislazione di ciascuno Stato membro, alle stesse condizioni dei cittadini. E dato che il regolamento è norma self executing "le disposizioni in esso contenute sono immediatamente applicabili nello Stato membro, anche in presenza di norme interne con esse contrastanti, le quali, pertanto, devono essere disapplicate dall'autorità giudiziaria, senza che sia necessario sottoporre la questione alla Corte costituzionale" (117).

La posizione di questo filone giurisprudenziale è stata criticata, sebbene indirettamente, anche dalla Corte Costituzionale, che in occasione della sentenza n. 306 del 2008 ha censurato la tesi seguita da alcuni giudici di merito che hanno fatto riferimento al diritto comunitario e alla sua diretta applicabilità a delle situazioni puramente interne, non connesse con l'ordinamento sopranazionale, omettendo di considerare che l'art. 1 del Regolamento n. 859/2003 richiede esplicitamente come condizione di applicabilità che la vicenda coinvolga una pluralità di Stati membri (118).

7.2. La disapplicazione della disciplina italiana per contrasto con le disposizioni della CEDU e con le pronunce della Corte di Strasburgo

Un'altra soluzione trovata dalla giurisprudenza di merito in favore della parità di trattamento è stata quella di disapplicare l'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000 per contrasto con le disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Come è noto, la CEDU non contiene disposizioni specifiche in materia di sicurezza sociale, tuttavia la tutela dei diritti patrimoniali, introdotta attraverso l'art. 1 del Protocollo 1 alla Convenzione, è stata interpretata dalla Corte di Strasburgo come estensibile anche alle prestazioni sociali, incluse quelle di tipo non contributivo. Ed è stata assicurata anche nei confronti degli stranieri, mediante l'applicazione del principio di non discriminazione in base alla nazionalità, sancito dall'art. 14 della Convenzione (119). Alla luce di questa interpretazione, alcuni giudici di merito (120) hanno cercato di valorizzare la giurisprudenza della Corte e, sebbene consapevoli che nessuna disposizione della CEDU preveda la diretta esecuzione delle sentenze dei giudici di Strasburgo negli ordinamenti nazionali, hanno cercato di adeguare la normativa interna a quanto affermato dalla Convenzione e puntualizzato dalla giurisprudenza della Corte. E sulla duplice esigenza di effettività della tutela dei diritti dell'uomo negli ordinamenti interni, da una parte, ed esigenza di certezza ed uniforme applicazione del diritto, dall'altra, hanno disapplicato la norma interna contrastante con la disciplina internazionale (121). E' stato questo il ragionamento seguito dal Tribunale di Pistoia (122), chiamato a pronunciarsi sul ricorso di una cittadina non comunitaria che si era vista negare l'assegno sociale maggiorato perché, sebbene legalmente residente e in possesso dei requisiti sanitari e reddituali richiesti per l'accesso alla prestazione, non era titolare di carta di soggiorno. Il Tribunale illustra la posizione della Corte di Strasburgo in proposito, richiama le sentenze Gaygusuz e Koua Poirrez, e ritenendo prevalente l'operatività dell'art. 14 della CEDU, disapplica l'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000 e riconosce alla ricorrente il diritto al pagamento dell'assegno sociale. Nella motivazione si legge che "per quanto generali possano essere le disposizioni della Convenzione, diventano di stringente precettività a seguito delle puntualizzazioni interpretative della Corte europea", pertanto per esigenze di certezza ed uniforme applicazione del diritto, si deve ritenere che il giudice nazionale, qualora ravvisi un contrasto tra la disciplina interna e la fonte internazionale, è tenuto a disapplicare la norma interna e a dare prevalenza alla norma pattizia (123). La lettura del Tribunale di Pistoia ha trovato conferma nella sentenza della Corte d'Appello di Firenze (124), che giunge alla medesima conclusione di disapplicare l'art. 80, comma 19, per contrasto con il divieto di discriminazione in base alla nazionalità affermato a livello comunitario ed internazionale. La Corte d'Appello, oltre a fare riferimento alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, già richiamata dalla sentenza del Tribunale di Pistoia, punta l'attenzione sulla tutela multilevel dei diritti fondamentali, garantita da una pluralità di fonti nazionali, comunitarie ed internazionali: il Regolamento n. 859/2003, la Carta di Nizza, la giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte europea dei diritti dell'uomo, sono tutti strumenti che concorrono alla realizzazione effettiva "del principio di parità di trattamento riguardo le posizioni fondamentali della persona, in particolare relative alla sicurezza sociale [...] e alle dotazioni essenziali di tipo economico o di altro genere necessarie alla sopravvivenza dell'individuo, anzi più precisamente alla sua vita dignitosa". I giudici fiorentini ritengono che l'inquadramento delle prestazioni assistenziali nel novero dei diritti sociali fondamentali rappresenti un "sicuro acquis dell'ordinamento europeo", e ciò sarebbe confermato dalla tutela offerta in modo concorrente dalle Corti di Strasburgo e di Lussemburgo. Il dialogo tra le Corti e l'interferenza tra i due ordinamenti giuridici, comunitario e internazionale, si inserirebbero nel progetto di tutela multilivello dei diritti fondamentali della persona.

La sentenza presenta dei profili di interesse perché, al fine di valorizzare e dare effettività alla tutela internazionale dei diritti dell'uomo, mette in evidenza il rapporto tra l'ordinamento comunitario e quello internazionale, facendo riferimento all'art. 6 del TUE, che stabilisce che l'Unione aderisce ai diritti fondamentali quali garantiti dalla CEDU, in quanto "principi generali dell'ordinamento comunitario". Viene poi richiamata, in entrambe le pronunce, di Pistoia e di Firenze, la Carta di Nizza. Si fa riferimento in particolare all'art. 34, che riconosce il diritto di accesso alle prestazioni di assistenza sociale anche dei cittadini non comunitari legalmente residenti in un paese dell'Unione, senza alcuna differenziazione fondata sulla nazionalità. Sulla base di queste considerazioni, i giudici ravvisano il "vistoso scostamento" della legislazione italiana, che si pone evidentemente in contrasto con l'affermazione del diritto dei non comunitari di accedere "a forme adeguate di assistenza che non discriminino sulla base di elementi inappropriati (documentali e/o di tipo temporale) l'accesso alle provvidenze del welfare". Pertanto disapplicano l'art. 80, comma 19, l n. 388/2000 e riconoscono il diritto del ricorrente di ottenere l'assegno d'invalidità (125). Il riferimento dei giudici fiorentini alla "comunitarizzazione" della CEDU sarà un tema con cui la giurisprudenza dovrà necessariamente confrontarsi dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, che formalmente incorpora la CEDU nel diritto comunitario e rende pienamente operativa la Carta di Nizza. E, ai fini dell'accesso dei non comunitari alle prestazioni assistenziali, si pone come un argomento di estrema rilevanza, data la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sul tema, che riconosce il diritto di accesso all'assistenza sociale agli extracomunitari, senza discriminazioni fondate sulla nazionalità, e indipendentemente dal titolo di soggiorno posseduto o dal tempo di permanenza nello Stato ospitante.

Se queste pronunce si fossero consolidate, l'ordinamento interno si sarebbe rapidamente conformato a quello internazionale, assicurando una tutela dei diritti fondamentali di pari livello di quella offerta dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, e sarebbe stata possibile la realizzazione del principio di non discriminazione nell'accesso degli stranieri alle prestazioni sociali, quanto meno per via giudiziale. Il giudice di merito avrebbe potuto riconoscere il diritto, disapplicando direttamente la norma interna contrastante con il principio di non discriminazione affermato a livello internazionale. Tuttavia l'instaurazione di un circolo virtuoso di questo tipo è stata interrotta dalla Corte Costituzionale, che è intervenuta sulla questione con le sentenze n. 348 e 349 del 2007 (126), in cui ha chiarito i rapporti tra la CEDU e l'ordinamento interno, arrivando ad una conclusione diversa da quella dei giudici di Pistoia e Firenze. La Corte ricorda che le norme della Convenzione vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell'ordinamento interno, con la conseguenza che il giudice nazionale non ha il potere di disapplicare le norme interne contrastanti. La norma cui la Consulta fa riferimento è l'art. 117, primo comma, della Costituzione, che condiziona l'esercizio della potestà legislativa dello Stato e delle regioni al rispetto degli obblighi internazionali, tra i quali rientrano quelli derivanti dall'adesione alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Pertanto, il contrasto della disciplina nazionale con le disposizioni della CEDU non autorizza il giudice di merito a disapplicare la norma interna, poiché l'asserita incompatibilità si presenta come una questione di legittimità costituzionale, per eventuale violazione dell'art. 117, primo comma, Cost. di esclusiva competenza della Corte Costituzionale. Le disposizioni della CEDU vengono dunque considerate come norme interposte che integrano il parametro di legittimità costituzionale, e la Consulta precisa che il parametro di riferimento per valutare la normativa interna è costituito, non solo dalle disposizioni della Convenzione, ma anche dall'interpretazione che di queste è stata data dalla Corte di Strasburgo.

Nella sentenza n. 349 la Corte puntualizza che il sindacato di costituzionalità deve essere considerato come extrema ratio, ed incoraggia ad una interpretazione delle norme interne che risulti conforme alla Convenzione e al suo diritto vivente, come elaborato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. La Consulta vuole dare un monito alla giurisprudenza di merito, ricordando il grande potere a disposizione dei giudici che è quello di interpretare la legge, potere che può essere di per sé sufficiente a ricondurre a costituzionalità la norma interna, mediante un'interpretazione costituzionalmente orientata che adegui la norma ai principi sanciti dalla Costituzione e dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute (127).

Le due sentenze della Consulta possono essere valide e condivisibili con riferimento al contesto normativo vigente, a livello comunitario e internazionale, al momento in cui sono state pronunciate, tuttavia dovranno necessariamente essere rimesse in discussione in seguito al mutamento del quadro normativo, determinato dall'entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Dal primo dicembre 2009 infatti la Convenzione europea dei diritti dell'uomo viene formalmente integrata nell'ordinamento comunitario, e questo sicuramente comporta dei cambiamenti in ordine al rapporto tra le norme della Convenzione e l'ordinamento interno. Le norme della Convenzione potrebbero anche essere considerate, al pari delle norme derivanti dall'ordinamento comunitario, come direttamente produttive di effetti nell'ordinamento interno e potrebbero sì legittimare il potere del giudice di disapplicare le norme interne contrastanti, senza previamente ricorrere al giudizio di legittimità costituzionale.

Le pronunce della Consulta non sono state comunque sufficienti a disincentivare la giurisprudenza di merito a dare prevalenza alle norme della Convenzione, disapplicando le disposizioni interne contrastanti. E' stata questa la posizione seguita dal Tribunale di Ravenna, che nella sentenza del 16 gennaio 2008 (128), ha disapplicato l'art. 80, comma 19, accogliendo la diversa soluzione prospettata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che con la sentenza 23 dicembre 2005, n. 28507 (129) hanno ammesso la possibilità per il giudice di merito di disapplicare la norma interna contrastante, riconoscendo che "l'immediata precettività rispetto al caso concreto delle disposizioni della CEDU appare improntata a conferire maggiore effettività ai diritti fondamentali affermati nello spazio europeo".

7.3. Il riconoscimento della parità di trattamento attraverso un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000

Secondo un ulteriore orientamento giurisprudenziale i profili discriminatori della legge finanziaria del 2001 sono stati superati mediante un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000.

Un primo filone interpretativo, precedente alla declaratoria di incostituzionalità parziale della norma in questione, muovendo dall'incerta formulazione dell'art. 80, comma 19, lo ha interpretato in maniera restrittiva, ritenendo il requisito della carta di soggiorno riferito esclusivamente all'accesso ai "servizi sociali". E' stata questa la soluzione interpretativa adottata dal Tribunale di Brescia (130) e meglio argomentata e specificata dal Tribunale di Verona, con la sentenza del 24 maggio 2006 (131), in cui ha riconosciuto il diritto all'indennità di accompagnamento anche in assenza del possesso della carta di soggiorno, giacché tale requisito deve essere riferito, secondo una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 80, comma 19, alle sole prestazioni erogate dai servizi territoriali, aggiuntive rispetto alle provvidenze dovute agli invalidi in forza di leggi statali. La sentenza in esame ha il merito di ricondurre a costituzionalità la previsione dell'art. 80, comma 19, secondo una lettura sistematica e teleologica della norma, alla luce delle disposizioni vigenti in materia di disabilità e in materia di immigrazione. Il giudice veronese contestualizza la disposizione in esame, ricordando che, poiché disciplina le condizioni per l'accesso degli stranieri alle prestazioni previste a favore degli invalidi, si colloca nell'ambito della normativa in materia di immigrazione e di quella in materia di handicap. Si richiama la legge 104/1992, legge fondamentale in materia di handicap, la cui ratio essendi è quella di dettare "i principi dell'ordinamento in materia di diritti, integrazione e assistenza della persona handicappata" nella prospettiva di eliminazione degli ostacoli che ne impediscono l'integrazione. Si fa riferimento poi l'art. 3 della legge, in cui si stabilisce l'estensione della disciplina "anche agli stranieri e agli apolidi, residenti, domiciliati o aventi stabile dimora nel territorio dello Stato". Dalle norme richiamate, sembra che il presupposto minimo per l'equiparazione, nel settore della disabilità, dello straniero al cittadino, sia la permanenza stabile nel territorio. Viene richiamato poi l'art. 2 del T.U., che prevede come ulteriore requisito alla permanenza stabile, anche la regolarità del soggiorno per il diritto alla piena equiparazione nel godimento dei diritti attribuiti al cittadino. Si fa riferimento inoltre all'art. 41 del T.U. e alla normativa vigente a livello comunitario e internazionale, si richiama in particolare il Regolamento n. 859/2003, non in quanto direttamente applicabile, ma come elemento di ulteriore conferma dell'esistenza, a livello europeo, di un principio di parità di trattamento nell'accesso alle prestazioni di assistenza sociale. Il giudice di Verona, dall'esame del complesso di norme nazionali ed internazionali che intersecano il tema dell'immigrazione e quello dell'handicap, constata l'affermazione di una tendenziale equiparazione fra cittadino e straniero, purché la permanenza nel territorio nazionale sia legale. Alla luce di queste considerazioni, il Tribunale di Verona ritiene che, interpretare l'art. 80, comma 19, nel senso di escludere i titolari di permesso di soggiorno dall'accesso alle prestazioni, significherebbe introdurre in un sistema normativo coerente, un tassello contraddittorio, di dubbia legittimità costituzionale. Pertanto, sulla base di un'interpretazione sistematica e teleologica della norma, il giudice ha ritenuto di dover riconoscere il diritto all'indennità di accompagnamento al minore marocchino, sebbene i genitori, legalmente residenti, non fossero in possesso di carta di soggiorno. Si sostiene che l'art. 80, comma 19, poiché laddove prevede il requisito della carta di soggiorno fa riferimento testualmente "alla legislazione vigente in materia di servizi sociali", deve intendersi come riferibile non all'intera materia della previdenza e dell'assistenza sociale, ma soltanto a "quei servizi gestiti localmente dagli enti comunali, preordinati allo sviluppo economico e civile della comunità territoriale, che incidono negli ambiti scolastici, di quartiere e comunale". Si tratterebbe quindi di un distinguo che "non incide nel nucleo fondamentale dei diritti in materia previdenziale e assistenziale garantiti secondo l'ordinario criterio della titolarità del permesso di soggiorno". Lo sforzo interpretativo del giudice veronese è particolarmente apprezzabile perché riporta al loro alveo naturale, quello dei diritti fondamentali, le prestazioni a tutela del portatore di handicap, diritti che non possono soffrire distinguo in ragione della nazionalità del minorato (132). Inoltre, il giudice mette in evidenza come l'art. 80, comma 19, preveda una disciplina dell'accesso degli stranieri alle prestazioni sociali del tutto incoerente rispetto al quadro normativo vigente a livello nazionale e sovranazionale. Sottolinea come i beneficiari del diritto alle prestazioni assistenziali siano individuati sulla base di criteri, quali quello della durata del soggiorno e della titolarità di un reddito, del tutto estranei alla ratio delle provvidenze assistenziali e agli elementi normalmente valutati ai fini dell'individuazione dei beneficiari delle prestazioni sociali.

Si è affermato poi un altro filone interpretativo che, sulla scorta delle sentenze n. 306/2008 e n. 11/2009 della Corte costituzionale, ha considerato illegittimo il requisito della carta di soggiorno per l'accesso alle provvidenze assistenziali e ha riconosciuto il diritto sulla base del solo possesso del permesso di soggiorno. E' stata questa la posizione del Tribunale di Ravenna che, con la sentenza 6 ottobre 2008, ha disposto l'accoglimento di un ricorso presentano da una cittadina nigeriana, riconosciuta invalida al 100% e con necessità di assistenza continua per il compimento degli atti quotidiani della vita, alla quale non venivano pagate le provvidenze economiche in quanto titolare di un solo permesso di soggiorno e non di carta di soggiorno. I giudici di Ravenna hanno utilizzato le argomentazioni di cui alla sentenza n. 306/2008 della Consulta, a conferma della convinzione che l'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000, in quanto contrastante con le disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell'Uomo, non potesse essere d'ostacolo alla concessione delle provvidenze economiche connesse alla condizione d'invalidità (133).

Particolarmente significativa è inoltre la sentenza del 17 aprile 2009 del Tribunale di Genova (134), in cui si riconosce il diritto ad ottenere l'assegno d'invalidità e la pensione d'inabilità al cittadino extracomunitario, titolare del solo permesso di soggiorno. Il giudice interpreta in maniera restrittiva l'art. 80, comma 19, ritenendo che non sia necessario il possesso della carta di soggiorno per l'accesso alle suddette provvidenze assistenziali, altrimenti "di fatto tali prestazioni non potrebbero mai essere concesse agli stranieri, perché tra le condizioni per l'erogazione dell'assegno e della pensione vi è quella di non superare un certo reddito". Si ritiene pertanto che "non avrebbe senso imporre quale condizione per la concessione di tali benefici la titolarità di un documento (la carta UE) che presuppone il possesso di un reddito non inferiore all'importo annuo della pensione sociale, quando poi tra i requisiti necessari per ottenere le prestazioni assistenziali vi è, al contrario, quello di non possedere redditi superiori a tale limite". Sulla scorta dell'irragionevolezza del requisito reddituale, il giudice genovese arriva alla conclusione che, al fine di superare una simile incongruenza, palesemente incostituzionale, sia sufficiente il possesso del solo permesso di soggiorno per l'accesso alle prestazioni. Il Tribunale di Genova arriva alla conclusione che, ci si sarebbe aspettati dalla Corte Costituzionale, dell'irragionevolezza tout court del requisito della carta di soggiorno, riconoscendo il diritto alla prestazione sulla base dei soli requisiti originariamente richiesti dall'art. 41 T.U. del 1998.

Sempre sulla scia delle sentenze della Corte Costituzionale, il Tribunale di Firenze, con una recente pronuncia del 19 marzo 2010, ha riconosciuto l'assegno d'invalidità civile al cittadino non comunitario titolare di solo permesso di soggiorno. Nella sentenza si richiamano le due recenti pronunce della Consulta e si afferma che "la portata delle affermazioni svolte dalla Corte Costituzionale travalica i singoli istituti (indennità di accompagnamento, pensione d'inabilità) oggetto nei giudizi nell'ambito dei quali sono state rese, imponendo di estendere la medesima conclusione anche all'assegno d'invalidità civile". Si ammette dunque la portata estensiva delle sentenze della Corte in riferimento alle altre prestazioni non contributive che costituiscono diritto soggettivo in base alla legislazione vigente. Nella sentenza si afferma poi che la negazione del diritto per applicazione dell'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000 finirebbe per collidere con il principio di non discriminazione nonché con il diritto fondamentale alla salute, garantito agli stranieri che soggiornano in modo legittimo sul territorio nazionale a parità con i cittadini italiani (135).

In controtendenza rispetto a queste pronunce, e forse maggiormente in linea con la posizione della Consulta, che si è limitata a sancire la parziale illegittimità costituzionale del solo requisito reddituale previsto per ottenere la carta di soggiorno e non anche del requisito temporale, si colloca la sentenza della Corte d'Appello di Firenze del 13 gennaio 2009 (136). A differenza della posizione maggioritaria della giurisprudenza di merito, orientata verso la parificazione tra comunitari ed extracomunitari nell'accesso all'assistenza sociale, i giudici fiorentini accolgono l'appello proposto dall'Inps contro la sentenza del Tribunale di Pistoia, alla quale si è già fatto riferimento, e in cui si sosteneva il contrasto tra l'art. 80, comma 19, e le disposizioni della CEDU, e si era giunti alla conclusione di riconoscere il diritto del ricorrente, disapplicando la norma interna e dando prevalenza alla norma pattizia. In linea con l'orientamento della Corte Costituzionale, i giudici fiorentini ritengono che la limitazione dell'accesso ai benefici assistenziali sia legittima, purché non sia "palesemente irragionevole o arbitraria", come nel caso in cui l'accesso alla prestazione sia subordinato al possesso di un determinato reddito. Non ritengono invece che detti una condizione irragionevole e sproporzionata laddove preveda il requisito del soggiorno quinquennale, posto che la ratio della norma è quella di dimostrare una presenza stabile dello straniero nel nostro paese. La Corte d'Appello, a differenza della Consulta, afferma chiaramente la ragionevolezza della previsione del requisito del soggiorno quinquennale per l'accesso all'assistenza sociale, e si esclude quindi l'illegittimità della soluzione adottata dal legislatore italiano. Se tale orientamento dovesse consolidarsi, verrebbero vanificati gli sforzi della dottrina e dalla giurisprudenza maggioritarie di sostenere l'incompatibilità della normativa con il principio di parità di trattamento, desumibile dall'art. 3 Cost. ed esplicitamente affermato a livello comunitario ed internazionale (137). Tuttavia, per il momento, quella assunta dai giudici fiorentini sembra essere una posizione abbastanza isolata.

7.4 Le soluzioni giurisprudenziali in favore della parità di trattamento per determinate categorie di stranieri

La giurisprudenza ha inoltre trovato delle soluzioni specifiche per gli stranieri appartenenti a determinate categorie, che hanno una disciplina speciale: si fa riferimento, in particolare, ai cittadini extracomunitari provenienti da un Paese che abbia stipulato gli accordi euro mediterranei con la Comunità europea e ai titolari dello status di rifugiati o di persone altrimenti bisognose di protezione internazionale. Si ricorda infatti che sia negli accordi euro mediterranei che nella Convenzione di Ginevra (138) sullo status dei rifugiati sono previste delle esplicite clausole di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale.

Per quanto riguarda la situazione dei rifugiati, merita un cenno particolare la sentenza del Tribunale di Milano del 31 gennaio 2008 (139), che ha accolto il ricorso presentato contro l'Inps e il Comune di Milano che avevano rifiutato di corrispondere l'indennità di accompagnamento al figlio minore riconosciuto invalido totale e permanente per mancanza del requisito della carta di soggiorno. Secondo i giudici milanesi, la l. n. 388/2000 non può trovare applicazione nei confronti dei rifugiati, in quanto il loro status giuridico è del tutto peculiare e disciplinato dalle norme a carattere speciale previste dalla legge di ratifica della Convenzione di Ginevra del 1951. L'art. 24 della Convenzione prevede un principio di parità di trattamento in materia di assistenza sociale, ed è reso operativo nel nostro ordinamento per effetto dell'art. 27 del d.lgs. 19 novembre 2007, n. 251, attuativo della direttiva 2004/83/CE, che recepisce in ambito comunitario la Convenzione di Ginevra e che stabilisce norme minime sull'attribuzione della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale. Il suddetto art. 27 prevede, per il titolare dello status di rifugiato, "il diritto al medesimo trattamento riconosciuto al cittadino italiano in materia di assistenza sociale e sanitaria" (140).

Presenta dei tratti di specialità anche la situazione giuridica dei cittadini marocchini, tunisini, algerini e turchi, dunque provenienti da un a paese che abbia stipulato un accordo euro mediterraneo con la Comunità europea. Abbiamo visto infatti come questi accordi prevedano delle esplicite clausole di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale e, come è stato affermato da una copiosa giurisprudenza della Corte di Giustizia, la nozione di sicurezza sociale cui si fa riferimento negli accordi deve essere intesa con il medesimo significato attribuito nel Regolamento n. 883/2004, pertanto comprensiva delle prestazioni tipo economico anche non contributive. Tuttavia l'applicazione della clausola di parità ha fatto fatica a trovare applicazione nel nostro ordinamento. Una parte della giurisprudenza di merito ha erroneamente interpretato la clausola come riferibile alle sole prestazioni previdenziali. E' stata questa la posizione assunta dal Tribunale di Marsala e confermata dalla Corte d'Appello di Palermo, che hanno affermato l'inapplicabilità del principio di parità di trattamento, sancito dall'Accordo euro mediterraneo tra Comunità europea e Tunisia, nei confronti di un lavoratore tunisino legalmente residente che richiedeva di accedere ad una prestazione assistenziale, sulla base della considerazione che la clausola di parità sia riferibile alle sole prestazioni previdenziali. Le pronunce si pongono in contrasto con la copiosa e consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia, che nell'individuazione del campo di applicazione ratione materiae dell'accordo ha esplicitamente incluso le prestazioni di natura assistenziale (141). Nello stesso grossolano errore interpretativo è caduta anche la Corte di Cassazione, con la sentenza 29 settembre 2008 (142), che ha negato il diritto di ottenere l'assegno familiare per i nuclei familiari numerosi e in condizioni di disagio economico (143), ad un lavoratore tunisino, ritenendo che la clausola di non discriminazione, contenuta nell'accordo euro mediterraneo stipulato con la Tunisia (144), sarebbe da riferirsi alle sole prestazioni previdenziali e non anche alle prestazioni assistenziali non contributive. L'orientamento della Corte di Cassazione è decisamente criticabile poiché interpreta il diritto comunitario, cui appartengono gli accordi euro mediterranei, sulla base di criteri caratteristici del diritto interno. Nell'individuazione della nozione di sicurezza sociale si richiama ad una distinzione puramente interna tra prestazioni di tipo previdenziale, finanziate mediante meccanismi contributivi, e prestazioni di tipo assistenziale, finanziate dalla fiscalità generale, includendo solo le prime nel campo di applicazione dell'accordo ed escludendo invece le seconde. In questo modo, la Cassazione ignora completamente i criteri elaborati dalla Corte di Giustizia, e ampiamente consolidati, ai fini dell'individuazione delle prestazioni ricomprese nella nozione comunitaria di sicurezza sociale. I giudici di Lussemburgo hanno più volte chiarito che, ai sensi della normativa comunitaria del coordinamento dei regimi nazionali di sicurezza sociale, debbono considerarsi prestazioni di sicurezza sociale anche le prestazioni non contributive i cui requisiti oggettivi e soggettivi per l'erogazione siano predeterminati dalla legge e che costituiscono diritto soggettivo in base alla legislazione nazionale.

L'impostazione della Corte di Cassazione è stata successivamente disattesa dalla giurisprudenza di merito, che ha riconosciuto l'operatività del principio di parità di trattamento in materia di assistenza sociale per i cittadini marocchini, tunisini, algerini e turchi, legalmente residenti. Tra queste si segnala la pronuncia del Tribunale di Genova del 3 giugno 2009, che richiama la giurisprudenza della Corte di Giustizia, criticando apertamente la soluzione interpretativa della Corte di Cassazione, e riconosce il diritto all'assegno d'invalidità civile al cittadino marocchino in possesso di solo permesso di soggiorno, in applicazione dell'art. 65 dell'accordo euro mediterraneo tra il Marocco e la Comunità europea.

Dal quadro giurisprudenziale preso in esame risulta che, sebbene la previsione legislativa escluda irragionevolmente gli stranieri regolarmente soggiornanti, titolari di solo permesso di soggiorno, dal godimento delle provvidenze assistenziali, tuttavia una garanzia del principio di parità di trattamento nell'accesso all'assistenza sociale può essere realizzata per via giudiziale. Non mancano infatti strumenti normativi, derivanti dalla costituzione, dal diritto comunitario e dal diritto internazionale, che sanciscono un principio di non discriminazione degli stranieri nell'accesso alle prestazioni assistenziali. Pertanto, anche laddove tali principi non siano tenuti debitamente in considerazione da parte del legislatore, i profili di discriminatorietà possono essere superati in fase di contenzioso giurisprudenziale.

8. Sempre più lontani dalla parità e dalla ragionevolezza. Le scoraggianti prospettive delle innovazioni legislative in materia di assistenza sociale

Le recenti innovazioni legislative in materia assistenziale sono caratterizzate da una tendenza discriminatoria a danno degli stranieri, che si manifesta come una discriminazione diretta fondata sulla nazionalità, laddove il legislatore riserva le nuove prestazioni assistenziali esclusivamente ai cittadini italiani, oppure attraverso una discriminazione indiretta, ove si richiede il requisito della residenza, anche per periodi molto lunghi, per l'accesso alle prestazioni.

Nell'estate del 2008 sono state adottate delle misure innovative in materia di assistenza sociale che si collocano nell'ambito della politica sociale del Governo, orientata alla razionalizzazione e diminuzione della spesa pubblica (145), e che incidono direttamente sul diritto degli stranieri di beneficiare delle prestazioni assistenziali. Sono essenzialmente due le innovazioni contenute nel decreto legge 25 giugno 2008, n. 112, poi convertito nella l. 6 agosto 2008, n. 133, una riguarda la modifica delle condizioni che disciplinano l'accesso all'assegno sociale, l'altra riguarda l'introduzione di una nuova prestazione assistenziale, riservata esclusivamente ai cittadini italiani.

L'art. 20, comma 10, della l. 133/2008 dispone che "A decorrere dal primo gennaio 2009, l'assegno sociale di cui all'art. 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335, è corrisposto agli aventi diritto a condizione che abbiano soggiornato legalmente, in via continuativa, per almeno dieci anni nel territorio nazionale". La previsione dell'ulteriore requisito della residenza decennale interviene sulla definizione del campo di applicazione ratione personae e lascia aperti diversi interrogativi. In primo luogo, essa determina un peggioramento ed una discriminazione indiretta nei confronti di tutti gli aventi diritto, inclusi i cittadini italiani e comunitari. Con la conseguenza che gli stessi cittadini italiani potranno vedersi esclusi dall'accesso alla prestazione, sebbene in possesso dei requisiti anagrafici e reddituali richiesti, perché non soddisfano il requisito della residenza decennale continuativa nel territorio dello Stato. Saranno pertanto penalizzati quei cittadini che abbiano trascorso dei periodi all'estero o che abbiano esercitato il diritto di libera circolazione, in netta contraddizione con quanto disposto dall'art. 45 TFUE (146), e in generale con tutte le disposizioni del diritto dell'Unione europea che tendono a favorire la mobilità dei cittadini comunitari nello spazio europeo.

Al di là delle limitazioni che l'art. 20, comma 10, pone al godimento del diritto all'assegno sociale per i cittadini italiani e comunitari, sembra che la norma sia precipuamente rivolta agli stranieri, che sebbene non espressamente menzionati, sembrano essere i principali destinatari di tale restrizione, proprio in considerazione del requisito della residenza decennale. Come è stato giustamente osservato, appare evidente il carattere discriminatorio della norma, che non potendo stabilire una disparità di trattamento sulla base della nazionalità, fa riferimento ad un criterio obiettivo, quello della permanenza di 10 anni nel territorio, che vale per tutti, indipendentemente dalla nazionalità, ma che pacificamente può essere soddisfatto in maniera più agevole dai cittadini italiani piuttosto che dagli stranieri (147). In particolare, è stato osservato che la disposizione sembra mirata ad evitare che i genitori a carico ricongiunti con il cittadino straniero, che chiedano il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, possano ottenere da subito l'assegno sociale (148).

Le modifiche introdotte peggiorano la già precaria condizione degli stranieri in riferimento al diritto di ottenere l'assegno sociale, e alla già gravosa condizione della titolarità della carta di soggiorno si aggiunge l'ulteriore requisito della residenza decennale, con oggettiva riduzione delle possibilità di ottenere la prestazione (149). Inoltre appare difficilmente giustificabile, alla luce del principio di ragionevolezza, l'introduzione di un tale requisito, che pone un periodo di soggiorno ancora più lungo di quello previsto per ottenere la carta di soggiorno e condiziona l'erogazione dell'assegno ad elementi del tutto estranei rispetto allo stato di bisogno, originaria condizione e ratio giustificatrice delle misure assistenziali. Ciò che fa riflettere è come siano mutate in senso restrittivo le condizioni per l'accesso degli stranieri alle prestazioni sociali a dieci anni di distanza dal testo unico del 1998, e come ogni successivo intervento legislativo si allontani via via da quella tendenziale equiparazione tra cittadini e stranieri contenuta nell'art. 41 del Testo Unico (150). Se l'intento del legislatore del '98 era quello di realizzare un principio di parità di trattamento in materia assistenziale, ponendo come unici requisiti per l'accesso alle prestazioni la regolarità e la non occasionalità del soggiorno, i successivi interventi normativi hanno aggiunto via via ulteriori requisiti per consentire il diritto degli stranieri di ottenere le provvidenze assistenziali: la titolarità della carta di soggiorno, prevista dalla finanziaria del 2001 e la residenza decennale, introdotta con la legge n. 133/2008. Entrambi i requisiti esulano completamente dagli elementi di valutazione normalmente posti alla base dell'adozione di misure di solidarietà sociale, non risultano sorretti da alcuna giustificazione ragionevole, ma sembrano sostenuti dal mero intento di ridurre la spesa pubblica, andando a tagliare su determinati possibili beneficiari, escludendoli dal diritto alla prestazione. Il trend restrittivo dalla legislazione italiana dell'ultimo decennio si pone inoltre in controtendenza rispetto al progressivo sviluppo del diritto antidiscriminatorio di fonte comunitaria e con l'apertura del diritto comunitario verso i cittadini di paesi terzi legalmente residenti, nel senso di una tendenziale equiparazione con i cittadini comunitari. In particolare, la clausola di parità in materia di assistenza sociale è sancita per i cittadini provenienti da Paesi terzi titolari di un permesso di soggiorno per soggiornanti di lungo periodo, ma anche per i titolari dello status di rifugiati, per i familiari extracomunitari di cittadini comunitari e per coloro che abbiano circolato all'interno dell'Unione.

I dubbi circa l'effetto discriminatorio dell'art. 20, comma 10, della l. n. 133/2008 sono stati portati all'attenzione della Commissione europea (151), che di fronte al Parlamento ha ricordato che gli Stati membri dell'Unione non possono concedere particolari privilegi ai propri cittadini senza concederli anche ai soggiornanti di lungo periodo, "a meno che la discriminazione indiretta possa essere giustificata da considerazioni oggettive indipendenti dalla nazionalità della persona in questione, e sia o venga considerata proporzionata agli obiettivi legittimamente perseguiti" (152). La Commissione non ha escluso che la normativa possa presentare dei profili di discriminazione indiretta e ha sollecitato le autorità italiane a fornire maggiori informazioni sui fatti, ai fini di valutare la compatibilità della legislazione italiana con la normativa comunitaria.

Oltre al contrasto con la normativa comunitaria, la disposizione in esame si pone in contraddizione con lo stesso impianto legislativo interno in materia, e lascia aperti dei dubbi sulla possibilità che il requisito del soggiorno continuativo per almeno dieci anni possa essere d'ostacolo alla conversione della prestazione d'invalidità civile in assegno sociale prevista dal nostro ordinamento. L'art. 19 della l. 30 marzo 1971, n. 118 prevede la conversione della pensione d'invalidità civile in assegno sociale al compimento del sessantacinquesimo anno d'età, e si pone il problema se il cittadino extracomunitario che gode del trattamento d'invalidità possa ottenere la conversione nell'assegno sociale se non soddisfa il requisito della residenza decennale nel territorio dello stato. Potrebbe, infatti, verificarsi la situazione per cui lo straniero, che ha legittimamente conseguito la prestazione d'invalidità, non possa ottenere la conversione nell'assegno sociale perché non soddisfa il requisito del soggiorno legale continuativo di almeno 10 anni, con il cortocircuito del sistema che prevede la trasformazione pressoché automatica fra due prestazioni equiparate dalla legge. Lo stesso tipo di problema potrebbe sorgere anche nei confronti del cittadino italiano invalido civile che non ha soggiornato continuativamente in Italia per dieci anni, e che potrebbe pertanto non ottenere la conversione della prestazione per invalidità civile in assegno sociale, al rientro in Italia dopo il sessantacinquesimo anno d'età. Ne consegue che il requisito richiesto dall'art. 20, comma 10, l. 133/2008 potrebbe determinare, per i cittadini extracomunitari come per i cittadini italiani, l'inammissibile perdita di una prestazione assistenziale già in godimento (153).

I profili di illegittimità costituzionale della nuova disposizione appaiono evidenti, in particolare il requisito del soggiorno decennale difficilmente si concilia con l'art. 38 e l'art. 3 della Costituzione. I requisiti posti dal Costituente per poter accedere al costituzionale diritto all'assistenza sociale sono: l'inabilità al lavoro, che si presume dopo il compimento dei sessantacinque anni, e lo stato di bisogno. La Corte ha anche più volte affermato che i diritti sociali hanno una particolare configurazione, che richiede un intervento positivo dello Stato, perché possano trovare una realizzazione effettiva. Posto che l'intervento dello Stato comporta dei costi, è ammesso che la limitatezza delle risorse finanziarie possa determinare una restrizione della cerchia dei beneficiari, tuttavia la Corte ha più volte sottolineato che qualunque scelta del legislatore di limitazione dei beneficiari non può essere arbitraria, ma deve comunque rispettare il costituzionale principio di ragionevolezza. Date queste premesse, anche ammettendo la legittimità dell'intento del legislatore di ridurre la spesa pubblica, appare del tutto irragionevole e arbitrario il criterio di selezione utilizzato per restringere la platea dei beneficiari della prestazione sociale. Oltre ad essere arbitrario e irragionevole, il criterio utilizzato dall'art. 20, comma 10, sembra anche caratterizzato da una certa tendenza discriminatoria: la ratio giustificatrice sembra essere proprio quella di escludere i cittadini extracomunitari, che avranno sicuramente maggiori difficoltà rispetto ai cittadini italiani in ordine alla soddisfazione del requisito del soggiorno legale in via continuativa per 10 anni.

Sembra ci siano tutte le condizioni perché la Consulta, una volta interpellata sulla questione, possa censurare l'illegittimità costituzionale della disposizione in esame, tuttavia i precedenti non lasciano ben sperare e mettono in evidenza l'oggettiva difficoltà della Corte costituzionale di confrontarsi con il tema della discriminazione indiretta (154). Come abbiamo visto nelle pronunce della Corte sull'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000, la Consulta ha censurato l'irragionevolezza e dunque l'illegittimità costituzionale del solo requisito reddituale, ma non si è spinta fino a ritenere che il requisito della durata del soggiorno integrasse gli estremi della discriminazione indiretta e fosse pertanto costituzionalmente illegittimo. A maggior ragione spinge verso un pronostico negativo l'ordinanza 21 febbraio 2008, n. 32, in cui la Corte costituzionale ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della l.r. Lombardia nella parte in cui prevede che per la presentazione della richiesta per l'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica i richiedenti devono avere la residenza o svolgere attività lavorativa nella Regione Lombardia da almeno cinque anni (155).

A differenza della Corte di Giustizia europea, che in più di una sentenza, con riferimento al principio di non discriminazione tra cittadini comunitari, ha chiarito che il requisito della residenza, ai fini dell'accesso ad un beneficio, può integrare una forma di discriminazione dissimulata e pertanto illegittima (156), la Corte Costituzionale fatica a giungere ad una simile conclusione, e la mancata censura della discriminatorietà di simili provvedimenti ha lasciato passare l'idea che il legislatore possa legittimamente subordinare la fruizione di certe prestazioni a periodi di residenza anche molto lunghi, che fondamentalmente penalizzano i non cittadini (157).

Tra le modifiche introdotte dalla legge n. 133/2008, quelle che riguardano la disciplina dell'assegno sociale non sono le uniche a sollevare dubbi circa la portata discriminatoria delle stesse nei confronti degli stranieri. L'art. 81, comma 32, introduce una nuova prestazione assistenziale, dal cui godimento gli stranieri sono esclusi in partenza. Si tratta della carta acquisti (o social card), cioè una carta finalizzata all'acquisto di beni e servizi, "in considerazione delle straordinarie tensioni cui sono sottoposti i prezzi dei generi alimentari e il costo delle bollette energetiche, nonché il costo per la fornitura di gas da privati", e viene concessa ai "residenti di cittadinanza italiana che versano in condizione di maggiore disagio economico". In questo caso la discriminazione è ancora più evidente, non si tratta di una discriminazione dissimulata ma diretta, fondata sulla nazionalità, cioè gli stranieri vengono esclusi a priori dall'accesso alla prestazione, senza che sia addotta alcuna ragionevole giustificazione. Ma almeno altre due disposizioni lasciano trasparire l'indole discriminatoria che sembra pervadere l'intero provvedimento. Si fa riferimento all'art. 11, comma 2, lett. g, che nell'ambito della definizione del piano nazionale di edilizia abitativa, predisposto allo scopo di incrementare il patrimonio immobiliare ad uso abitativo attraverso l'offerta di abitazioni di edilizia residenziale, include tra i destinatari del provvedimento, "gli immigrati regolari a basso reddito, residenti da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque nella medesima regione". Si persiste nel riferimento al criterio della durata del soggiorno e della residenza, determinando una oggettiva situazione di svantaggio per gli stranieri, rispetto agli italiani, quanto all'accesso all'edilizia residenziale pubblica. Denota la stessa tendenza discriminatoria l'art. 83, che si colloca in un contesto diverso, e riguarda l'efficienza dell'amministrazione finanziaria. In tale ambito, si prevede un piano di controllo sul corretto adempimento degli obblighi di natura fiscale e contributiva espressamente destinato ai soggetti non residenti ed a quelli residenti ai fini fiscali da meno di 5 anni. Come è stato osservato, la ratio di una disposizione di questo tipo sembra essere di natura marcatamente discriminatoria: si presume che gli stranieri evadano il fisco in maniera proporzionalmente maggiore rispetto ai cittadini italiani (158).

Con il decreto anti-crisi, il legislatore nazionale è intervenuto prevedendo una nuova misura discriminatoria: l'art. 19, comma 18, della legge 28 gennaio 2009, n. 2 (159) istituisce la cosiddetta carta bambini, e autorizza, in riferimento all'anno 2009, una spesa di due milioni di euro per rimborsare alle famiglie le spese sostenute per acquistare pannolini e latte artificiale per i neonati fino a tre mesi. I destinatari della prestazione sono individuati nei soggetti beneficiari delle provvidenze del Fondo di solidarietà per i cittadini meno abbienti, di cui all'art. 81, comma 29, del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito con la legge 6 agosto 2008, n. 133. Ne consegue che il requisito indispensabile per l'accesso al beneficio è costituito dal possesso della cittadinanza italiana, con totale esclusione degli stranieri dall'accesso alla prestazione. E' evidente la discriminazione diretta fondata sulla nazionalità e il contrasto con l'art. 31 della Costituzione, che impegna la Repubblica a tutelare comunque la famiglia, la maternità e l'infanzia. L'utilizzazione del criterio della cittadinanza ai fini dell'individuazione dei soggetti beneficiari non trova alcuna giustificazione ragionevole alla luce della ratio della norma, che dovrebbe essere quella di tutelare l'infanzia e la famiglia, e dovrebbe pertanto ispirarsi a principi di tipo universalistico. Evidenti sono inoltre i contrasti con il principio di parità di trattamento in materia di assistenza sociale, affermato a livello internazionale e comunitario.

I provvedimenti esaminati prevedono un generale trattamento di sfavore nei confronti dei cittadini extracomunitari, indipendentemente dal titolo di soggiorno posseduto, e denotano la tendenza del legislatore ad operare in maniera del tutto disancorata e autonoma rispetto a quelli che dovrebbero costituire i vincoli all'esercizio della discrezionalità legislativa. Non si ha riguardo dei principi costituzionali, né degli obblighi direttamente derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea, né degli obblighi derivanti dal diritto internazionale. La stessa tendenza all'arbitrarietà e all'adozione di provvedimenti discriminatori si è riscontrata anche a livello locale. Merita un cenno il caso emblematico del Comune di Brescia e del cosiddetto bonus bebè. La Giunta del Comune di Brescia ha previsto, nel novembre 2008 (160), l'erogazione di un contributo economico di mille euro per ogni minore nato o adottato, nel corso del 2008, e con almeno uno dei due genitori o l'unico genitore di cittadinanza italiana, residenti nel Comune da almeno due anni alla data della nascita o adozione del figlio. La delibera viene impugnata da due coppie di cittadini stranieri residenti a Brescia, ai sensi degli artt. 43 e 44 del T.U. n. 286/1998 di fronte al Tribunale, che accoglie il ricorso, riconoscendo la discriminatorietà del provvedimento, e ordina al Comune di eliminare tale discriminazione e i suoi effetti, attribuendo il beneficio a tutti gli stranieri che ne facciano richiesta e siano in possesso degli ulteriori requisiti previsti dalla medesima delibera, escluso quello della cittadinanza (161). L'ordinanza del giudice di primo grado viene confermata in appello e il giudice chiarisce che, trattandosi di una prestazione sociale finalizzata al sostegno delle famiglie, ogni determinazione dell'amministrazione deve essere orientata al principio di parità di trattamento, come espressamente previsto dal d.lgs. n. 215/2003, e la finalità di favorire il sostentamento di gruppi familiari composti da soli cittadini italiani o quantomeno da un cittadino italiano, non può essere ritenuta legittima in quanto discriminatoria in sé (162). Ciò che lascia maggiormente perplessi è la motivazione posta a base della revoca della delibera del novembre 2008 da parte della Giunta comunale che afferma che "l'estensione del beneficio a tutti gli stranieri in possesso dei requisiti risulterebbe in contrasto con la finalità prioritaria di sostegno alla natalità delle famiglie di cittadinanza italiana", che l'amministrazione si prefiggeva con l'adozione della delibera. La Giunta invece di adeguarsi all'ordinanza del Tribunale e di rimuovere la discriminazione ed estendere il beneficio alle coppie di stranieri, in possesso dei requisiti richiesti, decide di revocare tout court la prestazione, motivando che l'estensione agli stranieri non avrebbe permesso di realizzare le finalità originariamente previste, cioè di sostegno e incentivo alla natalità delle famiglie italiane. La Giunta persiste nella propria condotta discriminatoria e afferma che "comunque, si procederà a ricercare forme diversificate e giuridicamente sostenibili di valorizzazione della maternità e della promozione della natalità, e più in generale, ad individuare efficaci strumenti di sostegno economico per le famiglie di cittadinanza italiana che, comunque, rimangono tra gli obiettivi di governo preminenti di questa amministrazione" (163). Contro la delibera viene presentato un nuovo ricorso, ex artt. 43 e 44 T.U. affinché sia dichiarato il carattere discriminatorio del comportamento tenuto dal Comune di Brescia. Il giudice adito pone fine alla vicenda, imponendo la cessazione del comportamento discriminatorio e ritorsivo posto in essere dal Comune con la nuova delibera e ordina il ripristino delle condizioni per il riconoscimento del beneficio economico a tutti gli stranieri che ne facciano richiesta in possesso dei requisiti previsti, in conformità a quanto già stabilito dall'ordinanza del 26 gennaio 2009.

Questo episodio dimostra la tendenza, a livello nazionale come a livello locale, dell'amministrazione di operare in maniera talvolta sregolata laddove si tratta di disciplinare situazioni che incidono sulla sfera giuridica degli stranieri. Vengono spesso ignorati tutta una serie di disposizioni e di principi, posti a livello nazionale e sovranazionale, che in uno Stato di diritto dovrebbero invece operare come limiti all'esercizio della discrezionalità legislativa e amministrativa.

9. La posizione dell'INPS in seguito alle pronunce della Corte Costituzionale

Dopo aver esaminato i profili d'illegittimità dell'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000, e dopo aver illustrato la posizione della giurisprudenza costituzionale e della giurisprudenza di merito, si cercherà a questo punto di verificare quale sia stata la risposta dell'ente previdenziale alla declaratoria di parziale incostituzionalità, e se e come siano mutati i requisiti richiesti dall'INPS, per l'erogazione delle prestazioni di assistenza sociale agli stranieri extracomunitari, in seguito alle sentenze della Corte Costituzionale.

La sentenza che per prima ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 80, comma 19, è stata la sentenza del 30 luglio 2008, n. 306 che, come abbiamo visto, è stata chiara nel considerare irragionevole la previsione del requisito reddituale e ha lasciato intendere la possibilità per il legislatore di subordinare legittimamente l'accesso degli stranieri alle prestazioni sociali alla disponibilità di un titolo di soggiorno che ne attesti il carattere non episodico e non di breve durata. Il fatto che la Consulta abbia dichiarato solo parzialmente illegittima la previsione dell'art. 80, comma 19, ha lasciato aperti dei dubbi in ordine all'effettiva individuazione dei requisiti necessari per ottenere la prestazione. Venendo meno la legittimità di uno dei due requisiti necessari per ottenere la carta di soggiorno, dovrebbe essere pacifico che venga meno il requisito della carta di soggiorno in sé, e la sentenza della Corte Costituzionale potrebbe essere interpretata nel senso di rimandare all'art. 41 del T.U. al fine di individuare i requisiti richiesti ai cittadini extracomunitari per poter accedere alle prestazioni di assistenza sociale. Ed è stata questa l'interpretazione che la giurisprudenza di merito maggioritaria ha dato della sentenza, ritenendo dunque di dover riconoscere il diritto di ottenere le prestazioni sociali agli stranieri titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno, conformemente alla previsione dell'art. 41 del T.U.

Tuttavia, per superare questa situazione di incertezza, determinata dalla declaratoria di illegittimità costituzionale soltanto parziale, sarebbe stato opportuno un intervento chiarificatore del legislatore che, tenendo in considerazione la pronuncia della Consulta, individuasse i requisiti necessari per l'accesso degli stranieri extracomunitari alle prestazioni assistenziali. Un intervento di questo tipo non c'è stato. A pochi giorni di distanza dalla sentenza della Corte Costituzionale, il 6 agosto 2008, è intervenuta la l. n.133, che ha modificato i requisiti richiesti per ottenere l'assegno sociale. Si tratta tuttavia di un intervento legislativo non propriamente qualificabile come chiarificatore e diretto a ricondurre a costituzionalità la disciplina censurata dalla Consulta. In primo luogo occorre specificare che la l. n.133, sebbene sia stata emanata successivamente alla sentenza n. 306/2008, converte in legge il decreto legge del 25 giugno 2008, n. 112, pertanto precedente alla declaratoria di incostituzionalità. In sede di conversione, la previsione dell'art. 20, comma 10, d.l. 112/2008, in base alla quale "A decorrere dal primo gennaio 2009, l'assegno sociale [...] è corrisposto agli aventi diritto a condizione che abbiano soggiornato legalmente, in via continuativa, per almeno 5 anni nel territorio italiano", viene modificata e il requisito del soggiorno legale in via continuativa viene alzato da 5 a 10 anni. Non sembra che la modifica sia dettata dall'esigenza di adeguare la disposizione di legge alla pronuncia della Corte Costituzionale, ma è piuttosto una scelta del legislatore sostanzialmente indipendente dalla sentenza della Consulta.

Tuttavia, il requisito del soggiorno decennale, al di là dei profili discriminatori che sembra presentare, non si pone del tutto in contrasto con la linea interpretativa della Corte costituzionale, che ha ammesso la legittimità che il legislatore subordini l'accesso a determinate prestazioni non essenziali alla disponibilità da parte dello straniero di un titolo di soggiorno che ne dimostri il carattere stabile e non episodico. Il legislatore non sembra considerare invece la sentenza della Corte Costituzionale e rimane ambiguo laddove fa un riferimento generico agli "aventi diritto", senza specificare quali siano i requisiti da soddisfare per essere inclusi in questa indefinita categoria. La mancanza di specificazioni spinge a ritenere un rinvio tacito del legislatore all'art. 80, comma 19. Considerando che l'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000, che individuava come aventi diritto i soli stranieri titolari di carta di soggiorno, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte, rimane aperto un vuoto e si determina una situazione di incertezza in ordine all'individuazione dei soggetti ammessi al godimento dell'assegno sociale.

Di fronte a questa situazione l'INPS, il 2 dicembre 2008, ha adottato la circolare n. 105, applicativa delle nuove disposizioni in materia di assegno sociale, e ha fornito una propria soluzione in ordine all'individuazione degli aventi diritto ammessi al godimento della prestazione. La circolare riassume il novero dei beneficiari dell'assegno sociale, specificando che sono equiparati ai cittadini italiani nella fruizione di tale beneficio, a parità di requisiti di reddito, di età e di soggiorno legale decennale, gli stranieri che si trovano nelle seguenti posizioni:

  1. stranieri o apolidi ai quali è stata riconosciuta la qualifica di "rifugiato politico" o di "protezione sussidiaria" e relativi coniugi ricongiunti (artt. 2 e 22 d.lgs. n. 251/2007);
  2. stranieri extracomunitari o apolidi titolari di "carta di soggiorno" o del "permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo" (d.lgs. n. 3 dell'8 gennaio 2007, che ha recepito la direttiva 2003/109/CE);
  3. cittadini comunitari e loro familiari a carico, soggiornanti in Italia per più di tre mesi ed iscritti all'anagrafe del comune di residenza ai sensi del decreto n. 30/2007.

Dunque la circolare riconduce alla categoria degli aventi diritto i titolari di carta di soggiorno, conformemente a quanto stabilito dall'art. 80, comma 19, e senza considerare la sentenza n. 306/2008 che ne ha dichiarato la parziale illegittimità. Sebbene la sentenza della Corte Costituzionale abbia lasciato spazio, come abbiamo illustrato, a dubbi in ordine alla legittimità di prevedere un requisito relativo alla durata del soggiorno per l'accesso alle prestazioni, è stata chiara nel prevedere l'illegittimità del requisito della carta di soggiorno, nella misura in cui richiede la soddisfazione di un requisito reddituale, considerato irragionevole rispetto alle finalità della prestazione e pertanto illegittimo.

La circolare dell'INPS si inserisce in un contesto normativo in realtà poco chiaro, è applicativa delle modifiche apportate dalla l. n. 133/2008, che come è stato sottolineato, presenta, nella sua formulazione, degli evidenti problemi di incertezza. L'unico elemento pacifico tuttavia sembra essere proprio l'illegittimità del requisito della carta di soggiorno, che l'INPS continua a richiedere per l'erogazione dell'assegno sociale (164).

In seguito alla circolare n. 105 del 2008, non è stato adottato nessun altro provvedimento da parte dell'INPS che fosse finalizzato ad adeguare alla sentenza della Corte Costituzionale la previsione dei requisiti richiesti per l'accesso degli stranieri alle prestazioni assistenziali. La posizione dell'INPS non è cambiata neppure in seguito alla sentenza n. 11/2009, che ha ribadito l'illegittimità costituzionale dell'art. 80, comma 19, nella parte in cui subordina l'accesso alle prestazioni al possesso della carta di soggiorno e del relativo requisito reddituale. Anche in seguito alla sentenza del 2009, l'INPS non ha previsto alcuna circolare che adeguasse i requisiti richiesti per l'accesso alle prestazioni alla pronuncia della Corte Costituzionale.

Mancando una previsione a livello centrale, si è determinata una situazione di incertezza in ordine alle condizioni effettivamente richieste dai vari uffici dell'INPS, dislocati sul territorio, per l'erogazione delle prestazioni di assistenza sociale agli stranieri. In particolare, non è chiara la posizione nell'INPS rispetto all'accoglimento o al rigetto della domanda presentata dagli stranieri, legalmente residenti, in possesso dei requisiti soggettivi previsti dalla legge per l'accesso alla prestazione, e sprovvisti di carta di soggiorno.

Per fare chiarezza sulla posizione dell'INPS non può venire in aiuto nemmeno l'analisi del contenzioso giurisprudenziale. Dall'esame della giurisprudenza di merito, condotto nelle pagine precedenti, si è evidenziata l'esistenza di un copioso contenzioso giurisprudenziale, fondato proprio sui rigetti dell'INPS rispetto alle domande presentate dai soggetti in possesso dei requisiti previsti dalla legge, ma non titolari di carta di soggiorno. Tuttavia la giurisprudenza esaminata riguardava dei rigetti dell'INPS, tutti antecedenti rispetto alla declaratoria di incostituzionalità dell'art. 80, comma 19. Le sentenze della Corte Costituzionale sono molto recenti e, ad oggi, non si è ancora sviluppato un contenzioso giurisprudenziale che abbia ad oggetto dei rigetti dell'INPS successivi alle pronunce della Consulta.

Per cercare di delineare la posizione assunta dall'ente previdenziale è stata esaminata l'area informativa, rivolta agli utenti, del sito internet dell'INPS. Nella parte riservata ai cittadini migranti, si legge, per quanto riguarda l'accesso alle prestazioni di invalidità civile, che "sono equiparati ai cittadini italiani e, quindi, possono fare domanda di pensione agli invalidi civili, qualora sussistano i requisiti richiesti:

  1. i cittadini extracomunitari in possesso di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo;
  2. i cittadini extracomunitari in possesso della vecchia carta di soggiorno (se rilasciata prima del 14/02/2007 e, pertanto, valida fino alla scadenza);
  3. cittadini extracomunitari in possesso del permesso per asilo, del permesso per protezione sussidiaria, del permesso per protezione sociale o umanitaria e i loro familiari;
  4. cittadini di uno Stato dell'Unione e i loro familiari (sia comunitari che extracomunitari)" (165).

Dunque, nel materiale informativo rivolto agli utenti, l'INPS persiste nel richiedere la carta di soggiorno come requisito necessario perché gli stranieri possano accedere alle prestazioni legate all'invalidità civile. Indipendentemente dal valore giuridico che possa essere attribuito al materiale informativo del sito internet dell'INPS, è innegabile che l'amministrazione fornisca un'informazione errata agli utenti. Prevedendo la carta di soggiorno come requisito indispensabile per l'accesso alle prestazioni, l'INPS si pone in una posizione diversa e contrastante rispetto a quella della Corte Costituzionale, che con più di una sentenza ha sancito l'illegittimità del requisito reddituale e quindi, probabilmente, della stessa carta di soggiorno per l'accesso alle prestazioni.

L'elemento che s'intende mettere in evidenza è che, in seguito alle sentenze della Corte Costituzionale, l'INPS non ha adottato alcun atto formale con il quale fornire indicazioni in ordine agli effetti delle pronunce sulla determinazione delle condizioni per l'accesso alle prestazioni. La mancanza di una posizione ufficiale dell'amministrazione sul punto ha determinato una situazione di incertezza, per cui è non è chiaro quali saranno le sorti delle domande presentate dallo straniero, in possesso dei requisiti di legge ma titolare di solo permesso di soggiorno. E' possibile dunque che, nonostante le sentenze della Corte Costituzionale, gli stranieri titolari di permesso di soggiorno si vedano rigettate le proprie domande di accesso alle prestazioni di assistenza sociale, con la conseguenza che lo strumento a disposizione per far valere il loro diritto alla fruizione delle prestazioni diventa necessariamente il ricorso alle sedi giudiziarie.

Note

1. Per un approfondimento, si veda G. Bascherini, Immigrazione e diritti fondamentali, Napoli, 2007, p. 108 ss.

2. Per un approfondimento, si veda G. D'Orazio, Lo straniero nella Costituzione italiana, Padova, 1992, p. 109 ss.

3. Tra le tesi intermedie, si sottolinea quella sostenuta da E. Grosso, che mette in evidenza l'importanza dell'art. 10, secondo comma, in quanto collega la tutela dei diritti degli stranieri alla normativa internazionale e mette in evidenza l'esistenza di diritti fondamentali, riconosciuti dall'art. 2 e recepiti nelle principali Convenzioni internazionali in materia di diritti umani che spettano anche allo straniero, in condizioni di parità con il cittadino. Ci sono poi altre situazioni che ammettono un trattamento differenziato e la cui disciplina è rimessa al legislatore, secondo la sua discrezionalità, nei limiti prescritti dall'art. 10, secondo comma, e nel rispetto del principio di ragionevolezza dell'art. 3. Pertanto, per ogni situazione giuridica spetterà alla Corte costituzionale valutare se il legislatore sia andato al di là del libero esercizio della propria discrezionalità nell'equiparare o differenziare il trattamento tra straniero e cittadino. Si veda E. Grosso, Straniero, p. 163 ss.

4. E' stata questa la posizione assunta dalla Corte Costituzionale anche nella recente sentenza 27 maggio 2010, n. 187, si veda Appendice di aggiornamento, pp. 143 ss.

5. Art. 11 Cost.

6. Di questa opinione, C. Corsi, che nel rapporto tra l'art. 2 e l'art. 10, secondo comma, riconosce la primazia del primo rispetto al secondo. La Costituzione riconosce i diritti fondamentali della persona che spettano anche agli stranieri, in condizioni di parità con i cittadini. L'art. 10, secondo comma, opera invece per tutti quegli aspetti relativi alla condizione dello straniero che non trovino già in costituzione una loro disciplina, e fissa due importanti garanzie: la riserva di legge e il rispetto delle norme internazionali e dei trattati. Si veda C. Corsi, Lo stato e lo straniero, p. 105 ss.

7. Articolo 117, primo comma, Cost. novellato dalla l. costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.

8. V. supra capitolo 1.

9. Direttiva 2003/109/CE. V. supra capitolo 2.

10. Regolamento 859/2003. V. supra capitolo 2.

11. Direttiva 2004/38. V. supra capitolo 2.

12. Sentenza n. 183 del 1973 e sentenza n. 170 del 1984.

13. Sentenza 24 ottobre 2007, n. 348.

14. Corte Costituzionale, sentenze nn. 348-349 del 24 ottobre 2007, in GC, 2007, 11, rispettivamente pp. 2333 e 2331.

15. Sul punto si rinvia al capitolo 1, paragrafo 4.

16. V. infra paragrafo 7.

17. Sentenza 16 novembre 2009, n. 311.

18. Sentenza del 23 novembre 1967, n. 120.

19. Corte costituzionale, sentenza del 26 giugno 1969, n. 104.

20. Tra i diritti preclusi allo straniero, la giurisprudenza e la dottrina prevalente concordano che la differenza principale tra lo statuto dello straniero e quello del cittadino consista nell'esclusione dei primi dal godimento dei diritti politici, più intimamente connessi all'appartenenza e allo status civitatis.

21. In questi termini C. Corsi, cit. p. 118 ss.

22. Per un approfondimento, si veda, G. Loy, Lavoratori extracomunitari. Disparità di trattamento e discriminazione, in Riv. giur. lav., 2009, n. 4.

23. Sentenza 26 giugno 1969, n. 104.

24. Su questa linea di pensiero, G. Bascherini, cit., pp. 127-128.

25. G. Bascherini, cit., pp. 282 ss.

26. Per un approfondimento, si veda C. Corsi, cit., pp. 102 ss.

27. In questi termini, A. Di Stasi, Profili di diritto della sicurezza sociale dello straniero, in Lavoratore extracomunitario ed integrazione europea, Bari, 2007, pp. 123 ss.

28. Si richiama il preambolo del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali in cui si legge che "l'ideale dell'essere umano libero, che goda della libertà dal timore e dalla miseria, può essere conseguito soltanto se vengono create condizioni le quali permettano ad ognuno di godere dei propri diritti economici, sociali e culturali, nonché dei propri diritti civili e politici".

29. Art. 31 della Costituzione.

30. La definizione del diritto alla salute come pieno e incondizionato diritto del singolo e corrispondente dovere inderogabile di solidarietà è stata ribadita dalla Corte costituzionale, sent. 2 giugno 1977, n. 103.

31. Su questa linea di pensiero, C. Corsi, Prestazioni assistenziali e cittadinanza, in dir. imm. citt., 2009, n. 2, pp. 34 ss.

32. Per ulteriori approfondimenti si veda, W. Chiaromonte, Previdenza e assistenza sociale degli stranieri. Prospettive nazionali e comunitarie, in Lavoro e diritto, 2009, n. 4, pp. 587 ss.

33. Per un approfondimento, si veda W. Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per i cittadini non comunitari ed il principio di non discriminazione. Una rassegna critica della giurisprudenza nazionale ed europea, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2008, n. 1. Sul punto, si veda anche la ricostruzione schematica di M. Paggi, Prestazioni di assistenza sociale e parità di trattamento, in Dir. imm. citt., 2004, n. 4, pp. 74 ss.

34. Con la sentenza n. 454 del 1998, la Corte ha affermato che la norma relativa all'avviamento professionale degli inabili e dei minorati, che applica il terzo comma dell'art. 38, si applica anche agli stranieri, per cui i lavoratori invalidi civili possono ottenere l'iscrizione nell'elenco degli invalidi disoccupati che aspirano al collocamento obbligatorio. La Corte ha ribadito l'operatività della garanzia di cui all'art. 38, primo comma, anche nella sentenza n. 432 del 2005, sentenza n. 306/2008 e sentenza n. 11/2009.

35. Definizione contenuta nell'art. 35, comma terzo, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

36. Su questa linea di pensiero, B. Pezzini, Una questione che interroga l'uguaglianza: i diritti sociali del non-cittadino, in Lo statuto costituzionale del non cittadino. Atti del XXIV Convegno annuale AIC (Associazione Italiana Costituzionalisti), Napoli, 2010.

37. Sul punto, si veda M. Bellestero, L'uguaglianza. Nozioni e regole. Un dibattito tra giuslavoristi e teorici del diritto, in Lavoro e diritto, 1992, n. 4, pp. 579 ss.

38. "Le sollecitazioni del diritto antidiscriminatorio sono la leva che ri-attualizza [...] l'idea e il portato del riconoscimento costituzionale diretto dell'uguaglianza fondamentale degli individui che precede la manipolazione normativa della realtà che è e resta esterna alla norma", B. Pezzini, cit., p. 33.

39. In questi termini, C. Favilli, La non discriminazione nell'Unione europea, Firenze, 2008, p. 1.

40. Risoluzione su Una strategia quadro per la non discriminazione e per le pari opportunità per tutti del 14.06.2006 [P6-TA-PROV (2006) 0261].

41. Direttiva 29 giugno 2000, n. 43, Parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica.

42. Corte di Giustizia Ce, 16 gennaio 2003, n. C-388/01. La Corte ha condannato l'Italia in relazione alla concessione delle agevolazioni tariffarie a vantaggio delle persone residenti per l'accesso ai musei comunali. E in tale occasione ha affermato che il principio di parità di trattamento vieta non soltanto le discriminazioni palesi basate sulla cittadinanza, ma anche qualsiasi altra forma di discriminazione dissimulata, che mediante il ricorso ad altri criteri distintivi, produca in pratica lo stesso risultato. Sul punto si veda, G. Loy, Lavoratori extracomunitari. Disparità di trattamento e non discriminazione, cit., pp. 536 ss.

43. Sul punto, si veda C. Favilli, cit., p. 119.

44. Art. 3, comma 2, Direttiva 2000/43.

45. V. supra capitolo 2, paragrafo 1.2.

46. Successivamente modificato dal d.lgs. n. 256 e dal d.lgs. n. 216, entrambi del 2.8.2004.

47. La nozione di non discriminazione riferita al lavoro subordinato contenuta nel Testo Unico, definisce discriminatorio qualsiasi atto o comportamento del datore di lavoro che "produca un effetto pregiudizievole, discriminando, anche indirettamente i lavoratori in ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza" (Art. 43, comma 2, lettera c). E si specifica che "costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa" (Art. 43, comma 2). Anche nella definizione di discriminazione specificamente considerata in relazione allo svolgimento della prestazione lavorativa, la cittadinanza, l'origine nazionale sono incluse tra i fattori di discriminazione giuridicamente rilevanti.

48. Art. 43, primo comma, d.lgs. n. 286 del 1998.

49. Per un approfondimento sulla direttiva 2000/43 e sulla sua trasposizione nell'ordinamento italiano, si veda, D. Gottardi, Le discriminazioni basate sulla razza e sull'origine etnica, in M. Barbera, Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Milano, 2007, pp. 2-42.

50. Di questa opinione D. Gottardi, cit., pp. 15.

51. In questi termini G. Turatto, La tematica dei cittadini stranieri in riferimento all'accesso alle prestazioni non contributive a dieci anni di distanza dall'approvazione della legge n. 40/1998, in riv. giur. lav., 2008, n. 2, p. 499. Sulla stessa linea di pensiero, W. Chiaromonte, Le incertezze della Consulta sull'accesso degli stranieri alle prestazioni non contributive e le recenti novità in tema di misure assistenziali, cit., p. 374.

52. L'art. 8, primo comma, della Direttiva stabilisce che debba essere assicurato che "allorché persone che si ritengano lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espongono, dinanzi a un tribunale o a un'altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio di parità di trattamento".

53. Art. 4, comma 3, del d.lgs. Del 9 luglio 2003, n. 215.

54. Si segnala la sentenza del Tribunale di Milano del 21.3.2002, che ha dichiarato il carattere discriminatorio del sistema di assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica del Comune di Milano, nella parte in cui disponeva l'attribuzione di cinque punti al richiedente avente la cittadinanza italiana. Si evidenzia inoltre l'ordinanza del Tar Lombardia, sezione di Brescia, del 25.2.2005, n. 264, che ha accolto la domanda incidentale di sospensione nei riguardi del regolamento che, per l'assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica subordinava l'accesso degli stranieri alla duplice condizione di reciprocità e di titolarità della carta di soggiorno o del permesso di soggiorno.

55. Tribunale di Brescia, sez. lav., ord. 26 gennaio 2009, n. 335; Tribunale di Brescia, ord. 20 febbraio 2009, n. 198; Tribunale di Brescia, sez. lav., ord. 12 marzo 2003, tutte pubblicate in Dir. imm. citt., 2009, n. 2, pp. 163-170. Per un approfondimento sul punto, v. infra paragrafo 8.

56. Su questa linea di pensiero, W. Chiaromonte, Previdenza e assistenza sociale degli stranieri. Prospettive nazionali e comunitarie, cit., p. 598.

57. Art. 2, primo comma, d.lgs 25 luglio 1998, n. 286.

58. Art. 2, comma cinque.

59. Art. 35, comma terzo.

60. Convenzione del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva ai sensi della legge 27 maggio 1991, n. 176.

61. Art. 38.

62. Art. 2, comma due e tre.

63. Sul punto, M. Vrenna, Le prestazioni economico-assistenziali e gli immigrati extracomunitari, in Gli stranieri, 2004, n. 1, pp. 1 ss.

64. Sul punto si veda, L. Castagnoli, Il diritto alle prestazioni assistenziali d'invalidità dello straniero in Italia, nella normativa interna e comunitaria. Orientamenti giurisprudenziali, in Gli stranieri, 2009, n. 1, p. 42 ss.

65. Sulla situazione di regolarità precaria dei titolari di un permesso di soggiorno per motivi di attesa occupazione è intervenuta, in senso restrittivo, la circolare del Ministero dell'Interno del 6 maggio 2009, in cui si condanna la prassi, seguita da diverse Questure di prolungare la durata del permesso di soggiorno per attesa occupazione fino ad un anno. La prassi delle Questure si fondava sulla lettera dell'art. 22, comma 11, del T.U. che non prevede una durata massima del permesso per attesa occupazione, ma impone soltanto che abbia una durata "non inferiore a sei mesi". Il Ministero dell'Interno, nella circolare, fa riferimento al periodo di validità del titolo di soggiorno di sei mesi e raccomanda che "l'eventuale possibilità di interventi a carattere discrezionale sia limitata esclusivamente a casi eccezionali, aventi carattere di straordinarietà".

66. In questi termini, W. Chiaromonte, Accesso al welfare e principio di parità di trattamento dei cittadini non comunitari: riflessioni sul caso italiano in prospettiva europea, in Riv. dir. sic. soc., 2006, n. 3, p. 702.

67. Per un approfondimento sul punto, si veda A. Di Stasi, Profili di diritto della sicurezza sociale dello straniero, cit., pp. 305 ss.

68. Su questa linea di pensiero, W.Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per i non comunitari e il principio di non discriminazione. Una rassegna critica della giurisprudenza nazionale ed europea, cit., p. 106.

69. V. supra capitoli precedenti.

70. Di questa opinione A. Di Stasi, cit., pag 342-343 e L. Castagnoli, Il diritto alle prestazioni assistenziali d'invalidità dello straniero in Italia, nella normativa interna e comunitaria. Orientamenti giurisprudenziali, cit., p. 43.

71. Ratificata e resa esecutiva con l. 176/1991.

72. Si fa riferimento, in particolare, agli art. 34, 35, 41 TU che assicurano espressamente ai minori extracomunitari la parità di trattamento con i cittadini italiani in materia di prestazioni di assistenza sanitaria e di assistenza sociale.

73. Art. 3, comma 6, legge 335/1995.

74. Ci si riferisce all'assegno concesso alle donne che non beneficiano di alcuna tutela economica della maternità, per ogni figlio nato dopo il primo luglio 2000, e quello concesso alle lavoratrici atipiche e discontinue per le quali sono in atto o sono stati versati contributi per la tutela previdenziale obbligatoria della maternità, A. Di Stasi, cit., p. 343.

75. L'assegno era già disciplinato dall'art. 65 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, che lo concedeva ai soli nuclei familiari in cui il richiedente era un cittadino italiano.

76. Recepita in Italia con d.lgs. n. 3 del 2007.

77. Di questa opinione C. Corsi, Prestazioni di assistenza sociale, cit., pp. 39 ss.

78. Corte costituzionale 2 dicembre 2005, n. 432, in Dir. imm. citt., 2005, n. 4.

79. Per un commento alla sentenza, si veda B. Nicotra, Diritto degli immigrati alla non discriminazione nell'accesso alle prestazioni di assistenza sociale, 2006.

80. L'art. 8 della legge Regione Lombardia n.1 del 2001, come sostituito dall'art. 5, comma 7, legge regionale n. 25 del 2003, stabiliva delle condizioni di particolare favore per gli invalidi totali a lavoro in materia di servizi di trasporto pubblico di linea a livello regionale. In attuazione dell'art. 8, ed a seguito dell'approvazione di una delibera della Giunta regionale (12 marzo 2004, n. 7/16747), veniva innovata la disciplina per il rilascio delle tessere di trasporto pubblico regionale, riconoscendo per inabili ed invalidi civili con grado di invalidità pari al 100%, nonché ai loro eventuali accompagnatori, il diritto alla circolazione gratuita sui servizi di trasporto pubblico di linea nel territorio regionale, a condizione che fossero residenti in Lombardia e che fossero cittadini italiani. Sul punto si rinvia a W. Chiaromonte, Accesso al welfare e principio di parità di trattamento dei cittadini non comunitari: riflessioni sul caso italiano in prospettiva europea, cit., pp. 704-708.

81. Con ordinanza 30 giugno 2003.

82. Sentenza n. 62 del 1994.

83. Legge 5 febbraio 1992, n. 104 (legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate).

84. Corte costituzionale, 6 ottobre 2006, n. 324, in Riv. it. dir. lav., 2007, n. 2, pag 262 e ss.

85. Tribunale di Milano, ord. 13.3.2004, DIC, 2004, 3, 151 e ss, e Tribunale di Monza, ord. 2.3.2005, DIC, 2005, 3, 165 e ss.

86. Per un approfondimento sul contenzioso in ordine all'efficacia temporale dell'art. 80, comma 19 si veda W. Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per i cittadini non comunitari e il principio di non discriminazione. Una rassegna critica della giurisprudenza nazionale ed europea., cit., pp. 107-111.

87. Consiglio di Stato, sez. I, parere 28.2.2001, sezione n. 76/2001.

88. Sul punto si rimanda ancora a W. Chiaromonte, cit., pp. 107-111.

89. Cassazione 20 gennaio 2005, n. 1117, OGL, 2005, I, 196 ss.

90. Sul punto, si veda W. Citti, Parità di trattamento tra stranieri regolarmente soggiornanti e cittadini in materia di assistenza sociale. La Corte Costituzionale delude le attese. Un caso di cattiva strategic litigation?, in Riv. crit. dir. lav., 2006, n. 4, pp. 993 ss.

91. Cassazione 4 agosto 2005, n. 16415, MGC, 2005, 6 ss.

92. Per un approfondimento sulla sentenza 324/2006, si veda anche M. Paggi, La Corte costituzionale e le prestazioni di assistenza sociale per i cittadini extracomunitari. Nota a sentenza n. 324/2006, in Dir. imm. citt., 2006, n. 4, pp. 81 ss, e A. Mazziotti, Carta di soggiorno e prestazioni assistenziali in favore di cittadini extracomunitari, in Riv. giur. lav., 2007, n. 2, pp. 95-102.

93. Ordinanza del 15 gennaio 2007, n. 615.

94. Sentenza Corte Costituzionale del 30 luglio 2008, n. 306, in RGL, 2008, II, p. 991.

95. Attuazione della direttiva 203/109/CE relativa allo status dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo, che riduce il requisito temporale per il rilascio della carta di soggiorno (attualmente denominato permesso di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo) da sei a cinque anni.

96. Disciplinata dall'art. 1, legge 11 febbraio 1980, n. 18.

97. Sulla sentenza n. 306 del 2008, si vedano i commenti di G. Turatto, Prestazioni agli invalidi civili e trattamento degli stranieri: la lunga marcia della Corte Costituzionale verso la parità, in Riv. giur. lav., 2008, n. 4, pag. 1001-1009, N. Salvini, Prevalenza del diritto alla salute sul requisito reddituale: brevi note a Corte costituzionale n. 306 del 30.7.2008, in Dir. imm. citt., 2008, n. 3-4, pp. 149-152, W. Chiaromonte, Le incertezze della Consulta sull'accesso degli stranieri alle prestazioni non contributive e le recenti novità in tema di misure assistenziali, cit., pp. 378-388.

98. Sentenze n. 348 e n. 349 del 2007.

99. Il regolamento n. 859/2003 è stato utilizzato dal Tribunale di Trento, sentenza 29 ottobre 2004, per riconoscere l'operatività, a livello comunitario, di un principio di parità di trattamento tra extracomunitari, in condizione di soggiorno regolare, e cittadini nell'accesso alle misure di sicurezza sociale. Il Tribunale di Pistoia, sentenza 4 maggio 2007, e la Corte d'Appello di Firenze, sentenza 9 giugno 2007, hanno invece direttamente fatto riferimento alle disposizioni della CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, per disapplicare la norme interna contrastante e riconoscere l'operatività del principio di non discriminazione per l'accesso degli stranieri alle prestazioni di assistenza sociale.

100. Di questa opinione, G. Turatto, cit., 2008, n. 4, pp. 1001-1009.

101. Sul punto si rinvia a G. Turatto, cit., p. 1005.

102. Sul punto si rimanda ancora a G. Turatto, cit., p. 1007.

103. Corte costituzionale, 14 gennaio 2009, n. 11, in Dir. imm. citt., 2009, n. 1, pp. 198 ss.

104. Con ordinanza 2 aprile 2008, n. 188.

105. Il Tribunale di Prato aveva sollevato una duplice questione di legittimità costituzionale dell'art. 80, comma 19, "nella parte in cui prevede la necessità della carta di soggiorno e della relativa condizione reddituale affinché gli inabili civili possano fruire della pensione di inabilità e dell'indennità di accompagnamento. La Corte dichiara la questione concernete l'indennità di accompagnamento manifestamente inammissibile perché già risolta dalla sentenza n. 306/2008, dichiara invece fondata la questione per quanto riguarda la pensione d'inabilità.

106. Per un commento alla sentenza n. 11/2009, si veda W. Chiaromonte, Le incertezze della Consulta sull'accesso degli stranieri alle prestazioni non contributive e le recenti novità in tema di misure assistenziali, in Riv. dir. sic. soc., 2009, n. 2, pp. 384-386, W. Citti, P. Bonetti (a cura di), L'accesso alle prestazioni di assistenza sociale, 2009.

107. Per un commento all'ordinanza n. 285/2009 si veda W. Chiaromonte, Sulla ragionevolezza del soggiorno quinquennale in Italia come condizione affinché lo straniero possa beneficiare delle prestazioni assistenziali: una questione ancora aperta, in Riv. crit. dir. lav., 2010, n. 4, pp. 895 ss.

108. V. supra cap. 1, paragrafo 2, pp. 5-6.

109. Art. 28 Convenzione.

110. Art. 5 Convenzione.

111. Sul punto si rinvia a W. Chiaromonte, cit., p. 899.

112. Sentenza 29 ottobre 2004, DIC, 2004, 4, 164 ss.

113. Nello specifico veniva sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge provinciale 15.6.1998, n. 7, come modificato dall'art. 87 della legge provinciale 19.2.2002 n. 1, che aveva recepito in ambito provinciale l'art. 80, comma 19, l. n. 388/2000 per contrasto con gli artt. 2, 3, 10 c. 2, 32 e 38 Cost.

114. Per un commento alla sentenza del Tribunale di Trento si veda W. Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per i cittadini non comunitari ed il principio di non discriminazione. Una rassegna critica della giurisprudenza nazionale ed europea, cit., pp. 116-119 e M. Paggi, Prestazioni di assistenza sociale e parità di trattamento, cit., pp. 77 ss.

115. Corte di Giustizia CE, 11 ottobre 2001, cause riunite da c-95/99 a 98/99 e c-180/99, Mervet Khalil e altri, in Racc., 2001, I, 7413. Sui limiti del regolamento n. 859 del 2003 v. supra capitolo 2, paragrafo 1.2.

116. Sulla protezione sociale offerta ai cittadini provenienti da paesi terzi da parte del diritto comunitario, si veda S. Giubboni, Cittadinanza e mercato nella disciplina comunitaria della sicurezza sociale. Spunti per un dibattito sul regolamento n. 883/2004, in Riv. dir. sic. soc., 2005, n. 2, pp. 237 ss, W. Chiaromonte, Accesso al welfare e principio di parità di trattamento dei cittadini non comunitari: riflessioni sul caso italiano in prospettiva europea, cit.

117. Per un commento alla sentenza del Tribunale di Perugia, si veda L. Castagnoli, Il diritto alle prestazioni assistenziali d'invalidità dello straniero in Italia, nella normativa interna e comunitaria. Orientamenti giurisprudenziali, in Gli stranieri, 2009, n. 1, p. 42 ss.

118. Corte Costituzionale, 30 luglio 2008, n. 306, punto 7 del considerato in diritto.

119. Per la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, si veda: sent. 16.9.1996, Gaygusuz c. Austria; sent. 27.3.1998, Petrovic c. Austria; sent. 4.6.2002, Wessels-Bergevoet c. Olanda; sent. 11.6.2002, Willis c. Regno Unito; sent. 20.6.2002, Azinas c. Cipro; sent. 30.9.2003, Koua Poirrez c. Francia; sent. 25.10.2005, Niedzwiecki c. Germania; sent. 25.10.2005, Okpisz c. Germania; sent. 27.11.2007, Lucsak c. Polonia. Sulla giurisprudenza della Cedu sul punto, v. supra capitolo 1, paragrafo 4.

120. Il riferimento è alla sentenza del Tribunale di Pistoia, del 4.5.2007, alla sentenza della Corte d'Appello di Firenze, del 9.6.2007 e alla sentenza della Corte d'Appello di Milano, del 21.9.2007.

121. Sul punto, si veda A. Caliguri, L'accesso ai benefici di natura assistenziale dei cittadini extracomunitari soggiornanti in Italia, in Dir. imm. citt., 2009, n. 1, pp. 53 ss.

122. Tribunale di Pistoia, 4.5.2007, in Dir. imm. citt., 2007, n. 2, pp. 85 ss.

123. Per un commento alla sentenza del Tribunale di Pistoia, si veda W. Chiaromonte, La disapplicazione delle norme nazionali confliggenti con la Cedu e l'accesso dei non comunitari alle prestazioni di assistenza sociale. Nota a Tribunale di Pistoia 4.5.2007, in Dir. imm. citt., 2007, n. 2, pp. 89 ss.

124. Corte d'Appello di Firenze, 9 giugno 2007, in Riv. giur. lav. rel. ind., 2008, n. 2, pp. 479 ss.

125. Per un commento alla sentenza della Corte d'Appello di Firenze, si veda, W. Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per i cittadini non comunitari ed il principio di non discriminazione. Una rassegna critica della giurisprudenza nazionale ed europea, cit., pp. 101 ss.

126. Corte Costituzionale, sentenze nn. 348-349 del 24 ottobre 2007, in GC, 2007, 11, rispettivamente pp. 2333 e 2331.

127. Per un commento alle sentenze n. 348-349 del 2007, si veda, G. Pili, Il nuovo "smalto costituzionale" della CEDU agli occhi della Consulta, 2008; A. Caliguri, cit., pp. 60-61; W. Chiaromonte, cit., pp. 132-135.

128. Trib. Ravenna, 16 gennaio 2008, in RGL, 2008, II, p. 490.

129. Cassazione 23 dicembre 2005, n. 28507, in FI, 2006, 5, c. 1423.

130. Tribunale di Brescia, 1 luglio 2005, Corte d'Appello 26 gennaio 2006 e Tribunale 17 febbraio 2006.

131. Tribunale di Verona, 22 maggio 2006, in Riv. crit. dir. lav., 2006, n. 3, p. 85 ss.

132. In questi termini, E. Favè, I cittadini non comunitari e le provvidenze di assistenza sociale: portata e limiti del principio di non discriminazione, in Riv. crit. dir. lav., 2006, n. 3, p. 92.

133. Per un commento alla sentenza, si veda L. Castagnoli, cit., p. 49.

134. Pubblicata in Dir. imm. citt., 2009, n. 3, pp. 193 ss.

135. Le sentenze in esame, Tribunale di Ravenna, 1 ottobre 2008, e Tribunale di Firenze 19 marzo 2010, sono reperibili sul sito web dell'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione.

136. Per un commento alla sentenza si veda, W. Chiaromonte, Le incertezze della Consulta sull'accesso degli stranieri alle prestazioni non contributive e le recenti novità in tema di misure assistenziali, cit., pp. 371 ss.

137. Su questa linea di pensiero, W. Chiaromonte, cit., p. 387.

138. Convenzione sullo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951, recepita nell'ordinamento comunitario con la direttiva 2004/83/CE, trasposta nell'ordinamento italiano con il d.lgs. n. 215/2007.

139. Per un commento alla sentenza si veda, W. Citti, P. Bonetti, (a cura di), op. cit.; G.Turatto, La tematica dei cittadini stranieri in riferimento all'accesso alle prestazioni non contributive a dieci anni di distanza dall'approvazione della legge n. 40/1998, cit., pp. 499-500.

140. Prima della sentenza del Tribunale di Milano, ha fatto fatica ad affermarsi l'esigenza dell'applicazione della disciplina speciale per i rifugiati, pertanto conforme al principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale, indipendentemente dal possesso o meno di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo. Significativo è il rigetto del Tar Friuli del 22 maggio 2004, in materia di assegno di maternità, adducendo il carattere "chiaramente programmatico e non di immediata applicazione dell'art. 23 della Convenzione di Ginevra".

141. Si veda, Corte di Giustizia, 31 gennaio 1991, Kziber, causa C-18/90, Racc., 1991, I, 199; Cgce 16 luglio 1992, Hughes, causa C-79/91, Racc., 1992, I, 4839; e Cgce, 10 ottobre 1996, Zachow e Hoever, cause riunite C-245/94 e C-312/94, Racc., 1996, I, 4895. Sulla portata applicativa della clausola di non discriminazione contenuta negli Accordi Euromediterranei, v. supra cap. 2, paragrafo 4.2.

142. Corte di Cassazione, sez. lavoro, 29 settembre 2008, n. 24278.

143. Previsto dall'art. 65, legge 23 dicembre 1998, n. 448.

144. Accordo euro mediterraneo stipulato con la Tunisia il 17 luglio 1995 e ratificato dall'Italia con la legge n. 35/1997.

145. Si veda, G. Ciocca, Le modifiche all'assegno sociale e la carta acquisti nella legge 6 agosto 2008, n. 133, in Riv. dir. sic. soc., 2008, n. 3, p. 639. Le linee guida che il governo intende perseguire in materia di sicurezza sociale sono delineate nel Libro verde sul futuro del modello sociale, presentato dal ministro del lavoro il 25 luglio 2008, e intitolato "La vita buona nella società attiva". L'obiettivo del Libro verde è quello di "riproporre la centralità della persona, in sé e nelle sue proiezioni relazionali, a partire dalla famiglia", attraverso un sistema di responsabilizzazione del singolo, che difficilmente si concilia con la ratio del welfare che è proprio quella di prevedere l'intervento dell'azione pubblica in quelle situazioni che il singolo da solo non è in grado di affrontare. Su questa linea di pensiero, W. Chiaromonte, Le incertezze della Consulta sull'accesso degli stranieri alle prestazioni non contributive e le recenti novità in materia assistenziale, cit., pp. 395-396. Sul Libro verde, si veda anche M. Cinelli, Il "welfare delle opportunità". A proposito del Libro Verde sul futuro del modello sociale, in Riv. dir. sic. soc., 2008, n. 2, pp. 353 ss.

146. Ex. art. 39 TCE sulla libera circolazione dei lavoratori.

147. In questi termini, G. Loy, op. cit., p. 538.

148. In questi termini C. Corsi, Prestazioni assistenziali e cittadinanza, cit., pp. 45-46.

149. In seguito alle modifiche legislative l'Inps ha emanato la circolare 2 dicembre 2008, n. 105, con la quale ha riassunto i requisiti necessari per usufruire dell'assegno. Ha ribadito che gli aventi diritto sono: i cittadini italiani e comunitari, gli stranieri o apolidi ai quali è stata riconosciuta la qualifica di rifugiato politico o lo status di protezioni sussidiaria ed i rispettivi congiunti e gli stranieri o apolidi titolari del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo. L'Inps ha inoltre precisato che il nuovo requisito del soggiorno decennale non ha effetto retroattivo, e vale dunque solo per le domande presentate dal primo dicembre 2008 per ottenere l'erogazione della prestazione assistenziale con decorrenza dal primo gennaio 2009, facendo salvi i diritti di coloro che hanno iniziato a beneficiare dell'assegno prima del primo dicembre 2008 in forza della previgente disciplina.

150. Sull'argomento, si veda G. Turatto, La tematica dei cittadini stranieri in riferimento all'accesso alle prestazioni non contributive a dieci anni di distanza dall'approvazione della legge n. 40/1998, cit., pp. 487 ss.

151. Si vedano le interrogazioni parlamentari nn. P-4722/08 e E-4721/08, presentate dall'europarlamentare Donata Gottardi il 27 agosto 2008.

152. Sul punto si veda W. Chiaromonte, cit., p. 398.

153. Sul punto, si veda G. Ciocca, cit., pp. 654-655.

154. Sul punto, G. Turatto, cit., pp. 1005-1006.

155. Per un approfondimento sull'argomento, si veda C. Corsi, Il diritto all'abitazione è ancora un diritto costituzionalmente garantito anche agli stranieri?, in Dir. imm. citt., 2008, n. 3-4, pp. 141 ss.

156. Sentenze Meints del 27 novembre 2007; Meussen dell'8 giugno 1999; Commissione c. Lussemburgo del 20 giugno 2002. Nella sentenza 16.3.2003, n. C-388/01, ai paragrafi 13 e 14 si legge che "il principio di parità di trattamento [...] vieta non soltanto le discriminazioni palesi basate sulla cittadinanza, ma anche qualsiasi forma di discriminazione dissimulata che, mediante il ricorso ad altri criteri distintivi, produca, in pratica, lo stesso risultato. Ciò avviene, in particolare, nel caso di una misura che preveda una distinzione basata sul criterio della residenza, in quanto quest'ultimo rischia di operare principalmente a danno dei cittadini di altri Stati membri, considerato che il più delle volte i non residenti sono cittadini di altri Stati membri".

157. Su questa linea di pensiero, C. Corsi, Prestazioni assistenziali e cittadinanza, cit., p.47.

158. In questi termini, W. Chiaromonte, cit., pp. 399-400.

159. Conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 29 novembre 2008, n. 185, recante norme urgenti per il sostentamento a famiglie, lavoro, occupazione, impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale.

160. Giunta comunale di Brescia, delibera 21 novembre 2008, n. 1062/52053 P.G.

161. Tribunale di Brescia, 29 gennaio 2009, n. 335, in Dir. imm. citt., 2009, n. 2, pp. 163 ss.

162. Per un approfondimento, si veda C. Corsi, cit., pp. 30-34.

163. Così delibera 30 gennaio 2009, n. 46/5076 P.G.

164. Per un commento alla circolare, si veda M. Paggi, Assegno sociale - Un commento alla circolare INPS applicativa, 2008, sul sito ASGI.

165. Le informazioni riportate possono essere consultate sul sito INPS.