ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Considerazioni conclusive

Orkida Mehillaj, 2010

Con questo lavoro si è tentato di esaminare il fenomeno dell'immigrazione clandestina albanese in Italia dagli anni '90 fino ai giorni d'oggi.

Iniziando questa tesi credevo di riuscire a trovare abbastanza materiale sul quale poter lavorare. Così non è stato, purtroppo ho incontrato costanti difficoltà nel reperire il materiale necessario per ogni argomento trattato. Sin dal primo capitolo, come si può notare, lo sviluppo del tema è basato principalmente su testi di autori italiani, essendo difficile trovare degli autori albanesi che abbiano analizzato la storia e le cause che hanno costretto molti dei loro connazionali ad emigrare in questi ultimi venti anni. Nonostante le richieste che ho rivolto a fonti e a gestori di archivi albanesi, nel tentativo di presentare le problematiche legate al fenomeno migratorio dal punto di vista del Paese d'emigrazione, spesso mi sono stati consigliati testi di autori italiani. Questo è il caso di un sociologo albanese, Kosta Barjaba, con il quale mi sono messa in contatto durante le ricerche, che si è limitato a fornirmi il nome di autori italiani con cui aveva collaborato.

Non sono pochi i testi che iniziano la loro analisi mettendo in evidenza la scarsa attenzione rivolta ai problemi sociali causati dall'emigrazione, con i quali l'Albania ha dovuto fare i conti in questo ventennio, ma che poi affrontano essi stessi questi problemi in modo superficiale.

È stato molto difficile recuperare i testi degli accordi di collaborazione tra Italia e Albania per la lotta contro l'emigrazione clandestina, molti sono contenuti in archivi cartacei ai quali non è possibile avere accesso: nessuno dei funzionari degli uffici preposti a cui mi sono rivolta si è reso disponibile a cercarli. Poiché solo ultimamente sono stati create in Albania banche dati che raccolgono le statistiche sui risultati raggiunti da questi accordi, il personale dei vari ministeri e della Direzione del Migrazione e Riammissione ha incontrato molte difficoltà nell'aiutarmi a reperire quello che mi serviva, spesso senza riuscirci. Il problema non ha riguardato soltanto le informazioni richieste all'Albania, ma anche le richieste presentate agli Uffici delle pubbliche relazioni della Camera, del Ministero degli Interni, della Direzione Centrale dell'Immigrazione e della Polizia di Frontiera italiani. Questi ultimi, infatti, spesso hanno mancato di rispondere, e, quando lo hanno fatto, si sono limitati a suggerirmi di rivolgermi ad altri uffici, ai quali il più delle volte mi ero già rivolta ricevendo la medesima risposta. Di conseguenza le uniche fonti precise, oltre le relazioni tenute al parlamento dal periodo 2001-2005, alle quali ho potuto fare riferimento, sono stati articoli pubblicati su riviste della Marina, della Difesa e dei Carabinieri, che oltre a fornire un punto di vista molto parziale, sono spesso limitate alla descrizione dell'organizzazione logistica delle missioni. Per la stesura del terzo capitolo non ho potuto fare altro che attingere a tali fonti, ma da esse l'unico giudizio che emerge è quello delle forze armate italiane, che non fanno altro che sostenere il sicuro successo del loro lavoro, senza alcun tipo di analisi o approfondimento.

Mancando un riscontro dalla parte albanese, e non essendo stato possibile ricomporre un quadro generale completo del funzionamento e dei risultati raggiunti dagli accordi stipulati tra i due Paesi, non si può sostenere che gli obiettivi posti dall'Italia siano stati effettivamente raggiunti. Se anche l'Albania avesse fornito i dati richiesti, avrei conservato molteplici dubbi sull'attendibilità degli stessi, e sui giudizi espressi. A spingermi verso questa conclusione è il comportamento tenuto dall'Albania in occasione di alcuni episodi che si sono verificati in questi anni: il trattamento che è stato riservato ai profughi dello Stadio della Vittoria per il quale il Presidente Alia ringraziò l'Italia, l'incidente della nave della marina "Sibilla" con la motovedetta "Kater i Rades" il 28 marzo del 1997, la collisione di una motovedetta della Guardia di Finanza con un gommone il 21 luglio del 2002 che ha causato la morte di 2 albanesi. In tutte queste occasioni lo Stato Albanese ha dimostrato di non sostenere efficacemente i propri cittadini.

Nel merito non si può nascondere che oggi il numero degli albanesi che arriva in Italia clandestinamente è esiguo, e che l'attraversamento del confine avviene per lo più via terra. Questo risultato va attribuito in parte alla collaborazione italo-albanese nella lotta all'immigrazione clandestina, ma in parte anche agli obblighi che all'Albania sono stati imposti in ambito europeo, e che questa si è assunta al fine di poter far parte in un futuro dell'Unione Europea. La testimonianza più recente che dimostra la scomparsa del fenomeno sta nella decisione dell'Unione Europea dell'8 novembre del 2010 per la liberalizzazione dei visti per i cittadini albanesi. Dalla metà del mese di dicembre, i cittadini albanesi potranno muoversi liberalmente nell'area Schengen.

Volevo concludere riportando quello che dott.ssa Edlira Ciftja ha scritto in "L'emigrazione Albanese in Puglia":

L'Abania deve poter contare sull'Europa e sull'aiuto dei vicini. Ed attenzione ad offrire pietà. La pietà uccide, offende la dignità umana ed ho la fortissima impressione che il contrario dell'amore non sia l'odio, ma l'apatia e l'indifferenza.

Personalmente, credo che difficilmente uno Stato ne aiuti un altro senza avere un proprio interesse, ma questo non mi stupisce. Ritengo, però, che la collaborazione tra Stati, nello specifico tra Italia e Albania, dovrebbe essere basata su uno scambio di interessi proporzionati e uguali, senza approfittare delle condizioni di debolezza in cui può versare una delle parti.