ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 3
Legislazione di polizia e prostituzione

Maria Cristina Acri, 2010

3.1. Nascita della polizia di Pubblica sicurezza

L'apparato di polizia che si trova ad operare in Italia a cavallo tra Ottocento e Novecento rappresenta il risultato di un'evoluzione che affonda le sue radici in epoca assai ben più remota; si può dire, infatti, che l'organo preposto al controllo sociale nasca assieme alla società stessa allorché è ad essa naturalmente connessa l'esigenza di controllo della popolazione da parte del governo centrale: la polizia nacque per affiancare l'azione di governo, ponendosi quale settore aggiuntivo alle forme classiche "della giustizia, delle finanze e della guerra, in quanto insieme di saperi e mezzi istituzionali utili a far crescere le forze e le ricchezze dello Stato" (1).

Il primo ambito in cui si realizzò la funzione della polizia riguarda senza dubbio la disciplina dell'ambiente, inteso come spazio in cui la popolazione vive e si sviluppa: la gestione del territorio è dunque funzionale al mantenimento dell'ordine sociale, ordine che va oltre il puro controllo formale arrivando a regolamentare e scandire i ritmi della vita delle persone in generale, inclusi aspetti propri della sfera lavorativa ed economica (2).

Il controllo sulla popolazione è totale, il modo in cui l'insieme delle funzioni di polizia entra in contatto con le classi popolari lascia poco spazio alla discrezionalità poiché l'intento è quello di inquadrare ogni individuo in un ruolo all'interno del contesto in cui vive; soprattutto agli albori dell'età moderna, con la nascita delle prime fabbriche, la necessità era quella di impiegare chiunque potesse fornire forza lavoro: in questo senso la raccolta di dati sulla popolazione si specificò in modo sempre più dettagliato, la polizia reperiva le informazioni dai datori di lavoro, i quali a loro volta stilavano un "libretto" contenente riferimenti alla condotta lavorativa, ma anche morale, dei propri sottoposti.

S'intuisce come la principale funzione della polizia fosse quella del controllo sulla popolazione ancor prima di essere organo preposto a difendere la società. L'esigenza di disciplinamento delle classi sociali aumentò parallelamente con il progressivo abbandono delle campagne e contestuale incremento urbano che segnò tutto il XIX secolo; le grandi masse che si riversavano nelle città in cerca di lavoro e di migliori condizioni di vita ispiravano un clima di tensione che la polizia era chiamata a vigilare. L'azione di controllo era rivolta a tutta la serie di individui delle classi popolari che per la loro eterogeneità includevano soggetti non inseriti nell'assetto produttivo, la loro condizione era genericamente definita di vagabondaggio ma il termine indicava genericamente oziosi, poveri, donne sospette di prostituzione; gruppi che sovente erano anche identificati come classi pericolose, facendo di tale nozione la chiave interpretativa con la quale leggere e spiegare le condizioni di vita delle classi popolari nelle emergenti città industriali. La maggior parte di questi soggetti era vista con sospetto perché si sottraeva al naturale dovere di subordinazione dell'autorità familiare e di adesione partecipata allo sviluppo economico-sociale, ruolo della polizia era limitare queste condizioni portatrici di agitazioni e disordini (3). E' doveroso mettere in luce un dato essenziale: oggetto reale e concreto della disciplina poliziesca non era tanto la vigilanza e sanzione di certi comportamenti, quanto il sottoporre a sorveglianza determinate condizioni soggettive fuori da ogni controllo predefinito.

L'epoca moderna rappresenta emblematicamente la volontà dei poteri centrali di incanalare la società nel suo complesso verso un aspetto determinato (dall'alto), per fare ciò si ricorre al potere di polizia che con una capillare opera di registrazione degli individui li guida e li inserisce ciascuno in un gruppo di riferimento al fine di meglio disciplinare la collettività nella sua interezza. Si tratta di un dispositivo poliziesco capace di agire sulla pericolosità sia individuale sia sociale, che s'inserisce tra le istanze disciplinari e l'esigenza di scurezza; alla polizia era inizialmente richiesto di partecipare al riordino sociale attraverso un'opera di ricollocazione degli individui all'interno dell'asse produttivo, questo particolare esercizio di governo dei poveri rispecchiava le influenze filosofiche tipiche dell'età mercantilistica. Nascono in questo periodo i maggiori strumenti atti a classificare e gestire la pericolosità degli individui: schedari di polizia, case per poveri servivano a rimuovere le situazioni di povertà motivo di disordini sociali (4). Con l'avvento dell'età liberale l'ambito del potere disciplinare della polizia si ridimensionò, la povertà era divenuta ordinaria e la questione della pericolosità sociale era frutto del contesto socio economico che si stava formando a seguito dell'industrializzazione: la pericolosità sociale era letta in termini di pubblica sicurezza per far fronte ai rischi derivanti dalla crescente urbanizzazione.

Il XIX secolo segna, quindi, l'affermarsi della polizia in senso di istituzione di pubblica sicurezza, intesa come apparato volto alla protezione delle classi popolari e al presidio dell'ordine pubblico nelle città. In Italia, l'apparato di polizia venne statuito nell'ambito dell'amministrazione di Cavour nel 1852, con il nome di Guardie di Pubblica Sicurezza (PS). (5) L'evoluzione in questo senso si posava, ancora, sul retroterra concettuale del periodo precedente: le categorie soggettive verso le quali era rivolta la tutela della polizia comprendevano, tra le altre, "sospette prostitute" e "vagabondi", indice evidente che le misure di polizia erano impostate su "un'aperta concezione soggettivistica e sostanzialistica della devianza quale condizione personale e sociale" (6).

La crescente urbanizzazione comportò la necessità di accentuare il controllo sui rischi ad essa connessi: la gestione di rivolte e disordini, ma anche malattie era svolta dalla polizia con attenzione particolare ai soggetti; le misure di sicurezza, tipiche dell'attività amministrativa di polizia (7), applicate per contenere comportamenti devianti risentivano del clima culturale ispirato dal nascente positivismo che fondava la sua teoria proprio sulla pericolosità dell'individuo.

Dalle affermazioni svolte fino a questo punto si può delineare un quadro della polizia generalmente riconducibile alla gestione del pericolo, prima ancora che alla repressione degli illeciti; come ha ben fatto Ranelletti nel suo dettagliato testo su La polizia di Sicurezza, si può descrivere la polizia come

quella maniera di attività pubblica nel campo dell'amministrazione interna, che si esplica limitando o regolando l'attività dei singoli (persone fisiche o giuridiche), ed eventualmente, se è necessario, per mezzo della coazione, allo scopo di garentire il tutto sociale e le sue parti contro danni che possono provenire dall'attività umana. (8)

La polizia di sicurezza rappresenta l'organo principalmente preposto al disciplinamento degli uomini, essa svolge opera di contenimento della pericolosità individuale tipica di alcune categorie (ladri, oziosi, prostitute, etc.). La prevenzione svolta riguarda situazioni di pericolo fattuale in quanto poste in atto da soggetti essi stessi pericolosi.

3.1.1. Attività della Polizia di Sicurezza

La Polizia di Sicurezza svolgeva attività di gestione della popolazione vigilando e prevenendo situazioni di pericolo, tale esercizio era alquanto incisivo della sfera prettamente personale dell'individuo poiché oggetto d'attenzione era la pericolosità del soggetto in quanto tale, condizione che di solito identificava gruppi slegati dall'assetto lavorativo delle città o che si trovavano ai margini della società. Nel suo essere istituzione civile, la polizia, manteneva l'ordine pubblico nei suoi aspetti di incolumità, tranquillità e decenza (9); per questo destinatari principali delle sue attenzioni erano oziosi, vagabondi e prostitute, queste ultime in particolare costituivano la minaccia più evidente alla moralità pubblica.

La pubblica sicurezza si articolava in termini di prevenzione del pericolo e l'attività di polizia agiva in modo da ostacolare la produzione di situazioni di rischio all'interno della società, in particolare colpendo tutta una serie di soggetti che con la loro condotta potevano nuocere all'ordinamento giuridico e sociale. La limitazione della pericolosità individuale, attraverso misure penetranti nella sfera personale, trovava un limite dettato dalla necessaria esigenza di limitazione di possibili abusi da parte del potere; per questo motivo fiorirono durante il XIX secolo grandi testi di pubblica sicurezza attraverso i quali si tracciavano i confini dell'attività di prevenzione svolta dalla polizia. Quello che potrebbe apparire come un tentativo di rendere giuridico il potere di polizia si spiega con una semplice riflessione: l'impossibilità per leggi di pubblica sicurezza di contemplare e regolare astrattamente la globalità dei casi in cui dovrebbe manifestarsi l'azione della polizia, allo stesso modo risulta difficile delineare in tali testi tutti i singoli profili di pericolosità (10).

Per meglio comprendere i mezzi e le azioni concrete mediante i quali la polizia svolgeva le sue funzioni all'interno della società italiana del XIX secolo è necessario svolgere una considerazione ulteriore riguardo alla nozione di sicurezza e alla sua impostazione storiografica: questa risulta direttamente collegata alla protezione e al mantenimento dei diritti riconosciuti dall'ordinamento giuridico. Ciò che emerge dai testi di pubblica sicurezza di età ottocentesca mette in luce una serie di uffici svolti dalla polizia del tempo che superano quest'accezione di sicurezza, attraverso le sue funzioni di disciplinamento, controllo e regolamentazione la polizia contribuiva a contenere i rischi per favorire lo sviluppo della civiltà industriale.

L'attività della polizia di sicurezza si snoda essenzialmente in una triplice funzione: di osservazione, di prevenzione e di repressione. La prima si pone in una posizione anticipata rispetto la manifestazione del pericolo o del danno, essa infatti "mira a conoscere tutte le circostanze e gli eventi, che possono o attualmente violano l'ordine giuridico, le cause e gli autori di queste possibili o attuali lesioni" (11).

L'attività di prevenzione invece opera in modo da coordinare il rapporto tra pericolo e sicurezza, essa sembra ricomprendere l'osservazione, intesa come funzione coazione psicologica volta a dissuadere dall'agire i potenziali delinquenti, mentre l'attività preventiva di cui si parla opera in modo concreto attraverso misure che toccano la persona o contrastano materialmente il fatto, ad esempio limitando la libertà individuale. Queste si pongono prima che la lesione dell'ordinamento si realizzi, al contrario l'attività di repressione contempla le misure che contrastano i reati una volta che questi si sono verificati; come anche Ranelletti afferma, secondo alcuni sarebbe questa la vera attività di polizia: la vera prevenzione si attuerebbe mediante la repressione delle infrazioni, essendo altro indice di arbitrarietà.

Si è sostenuto che i soli atti, che la polizia può colpire, sono quelli i quali formano obbietto della legge penale [...]. Solo quella attività della polizia, la quale reprime il reato in uno dei suoi stadi, è prevenzione legittima: ogni altra prevenzione è un arbitrio biasimevole, una violazione della libertà dei cittadini (12).

La triplice articolazione delle funzioni di polizia di sicurezza si pone come specificazione di quel generico fine di prevenzione speciale che veniva affermandosi con vigore crescente a fine Ottocento, grazie al contributo della nascente Scuola positiva. La polizia di sicurezza, con i suoi regolamenti e la sua attività pratica, agisce nei confronti di destinatari definiti nel genere: questi sono individui pericolosi perché con le loro condotte abituali mettono in pericolo l'ordinamento giuridico e la collettività sociale. L'attenzione è rivolta a quei gruppi sociali che conducono stili di vita discutibili in termini di legalità e di moralità, un esempio evidente è dato dalle prostitute: donne sole ed indipendenti che mettevano in crisi la stabilità dell'etica borghese del tempo, erano trattate alla stregua dei delinquenti comuni e costituivano oggetto di un pressante controllo da parte della polizia (13), anche se spesso le donne classificate come prostitute erano ragazze arrivate nelle città in cerca di un'occupazione e guardate con diffidenza per la loro elevata autonomia.

La facile discrezionalità d'azione della polizia nei confronti delle donne sospettate di prostituzione era solo uno degli ambiti in cui la polizia agiva con una certa libertà, questo costituiva motivo di diffidenza e di scarsa considerazione dei funzionari di polizia (14). Come si è detto, eventuali abusi erano limitati dalla presenza dei testi di pubblica sicurezza che guidavano la polizia nella sua attività di mantenimento dell'ordine, prevenendo le situazioni di rischio provocate da persone pericolose per la società; il controllo capillare dei gruppi pericolosi, mediante la compilazione di schedari per i delinquenti e liste di prostitute, garantiva uno svolgimento della vita quanto più regolare possibile.

3.2. Controllo sociale e prostituzione: un affare di Stato

La polizia di pubblica sicurezza, si è detto, era organo addetto al controllo e alla protezione della società da ogni possibile pericolo, suo compito era quello di farsi carico di tutti quei soggetti che con la loro condotta potessero arrecare un danno all'ordinamento o ai consociati. Le classi pericolose sottoposte a vigilanza racchiudevano tipologie eterogenee di soggetti, accanto a ladri e vagabondi la figura della prostituta era, per l'ideologia ottocentesca, l'emblema della devianza femminile.

La concezione della società di fine XIX secolo era, infatti, strutturata in ruoli determinati secondo i quali ogni donna rispettabile sottostava alla tutela maschile, di conseguenza, le numerose donne indipendenti che affluivano nelle città venivano classificate come prostitute perché questa era la condizione che più era facile attribuire loro. L'emergente emancipazione femminile destava turbamenti e alimentava l'inquietudine generale.

La prostituzione divenne in breve tempo una questione alquanto dibattuta, se da un lato era necessario contrastare il fenomeno che rientrava nella più ampia lotta alla devianza; dall'altro c'erano posizioni favorevoli ad un disciplinamento dello stesso sostenendo che era impossibile mutare la natura delle donne prostitute, tale ragionamento rifletteva le idee antropologiche diffuse al tempo per cui le prostitute erano devianti naturali "nate con la tendenza atavistica alla devianza sessuale" (15). Un altro tipo di considerazione propensa ad accettare la prostituzione ne sosteneva l'utilità per la società dal momento che offriva una risposta al bisogno di soddisfare l'incontrollabile impulso sessuale maschile che altrimenti sarebbe sfociato in comportamenti peggiori come lo stupro e l'adulterio.

La prostituzione costituiva dunque una valvola di sicurezza sociale e in conformità a tale idea si affermava una regolamentazione del fenomeno, scelta che, nonostante le critiche, fu perseguita da Cavour e assunse un ruolo determinante nel dibattito sulla prostituzione e delineò il quadro sociale fino al 1958 (16). La questione vedeva fronti contrapposti tra regolamentazionisti, sostenitori di una seppur spiacevole legalizzazione di un evento radicato nella società; chi, come gli abolizionisti, si mostrava contrario alla regolamentazione perché considerata svilente della dignità delle donne definite come prostitute; vi erano anche coloro che avversavano la prostituzione, evidenziandone l'amoralità e sostenendo la criminalizzazione delle meretrici: il delitto di cui si macchiavano era essenzialmente l'attività sessuale fuori dell'istituzione matrimoniale. Una simile posizione risulta ancor più radicale considerando che le norme proibizioniste punivano essenzialmente le prostitute e non il cliente; mentre una riflessione in senso più spirituale, e in linea con la morale cattolica che caratterizza la società borghese del XIX secolo, porterebbe a definire la peccaminosità del rapporto sessuale extraconiugale per entrambi i soggetti.

Il pericolo che la donna prostituta rappresentava riguardava la società nella sua interezza poiché essa era minaccia all'ordine pubblico per la sua condotta libera; alla moralità e alla stabilità delle famiglie per la sua sessualità sregolata; infine divenne anche minaccia alla salute pubblica perché portatrice di malattie veneree.

A seguito di tali considerazioni si evince che la donna prostituta era la figura che più portava in sé i caratteri della devianza: il suo essere donna la relegava in una condizione d'inferiorità definita a priori, la sua condotta la poneva in una posizione slegata da ogni categoria femminile tradizionale, articolata in base al rapporto con gli uomini di moglie, madre, figlia o anche suora. L'essere indipendente e sola faceva sì che la prostituta fosse inserita di fatto tra i vagabondi indigenti (17), la sua era una pericolosità dettata dalla devianza morale più che dalla criminalità ma ciò era sufficiente a giustificare un intervento da parte dello Stato.

La disciplina della prostituzione, attraverso la regolamentazione di Stato, illustra in modo concreto una peculiarità del potere del XIX secolo che Foucault ha denominato, molto tempo dopo, come bio-potere in quanto rappresenta il modo il cui il potere ha preso in carico la vita interessando ogni aspetto di questa e attraverso la disciplina del singolo arriva alla popolazione.

Dire che il potere, nel XIX secolo, ha preso possesso della vita, o perlomeno dire che [...] ha preso a carico la vita, equivale a dire che esso è arrivato a occupare tutta la superficie che si estende dall'organico al biologico, dal corpo alla popolazione, attraverso il duplice gioco delle tecnologie della disciplina da un lato e delle tecnologie della regolazione dall'altro (18).

La regolamentazione era dunque lo strumento principale che il nascente Stato italiano usò per contenere il fenomeno della prostituzione e soprattutto per controllare la vita delle donne che la esercitavano: le case di tolleranza erano i luoghi adibiti allo scopo e in esse la vita si svolgeva seguendo ritmi scanditi in modo particolareggiato; si trattava di una vera e propria "disciplina del minuto", la terminologia usata da Foucault a proposito delle prigioni si adatta efficacemente alla realtà dei bordelli poiché anche in questi il controllo zelante serviva a educare personalità smodate, a formare, dunque, dei "corpi docili" (19).

Il disegno del governo della popolazione, arginando le condotte delle classi pericolose, nello specifico disciplinando la vita delle donne prostitute si inserisce in un contesto sociale in fase d'evoluzione. L'Italia di metà Ottocento si stava preparando a divenire una nazione, il governo guidato da Cavour era alle prese con un ampio sistema di riforme per dare al Paese un assetto più moderno e per far ciò era necessario un apparato militare capace e in forze; furono proprio gli elevati tassi di malattie veneree tra i soldati a preoccupare il Primo Ministro e a indurlo alla ricerca di una soluzione per arginare il fenomeno. Cavour scelse, su suggerimento del ministro degli interni Rattazzi, la via della regolamentazione, e nel 1860 emanò un decreto ministeriale sulla prostituzione rivolto all'intera nazione; il provvedimento non era una novità assoluta poiché esistevano forme di controllo sulle prostitute al seguito dell'esercito già in età napoleonica. Il Regolamento Cavour discendeva direttamente dal Regolamento che pochi anni prima lo stesso Rattazzi aveva emesso per tutelare la salute della guarnigione torinese (20); il nuovo testo legislativo rifletteva le influenze normative di Francia e Belgio in materia di prostituzione.

3.2.1. Il Regolamento Cavour

Lo spunto per l'emanazione del Regolamento Cavour, avvenuta il 15 febbraio 1860 (21), fu la tutela della salute pubblica, aspetto, questo, di estrema rilevanza per comprendere a pieno il contesto sociale di riferimento, soprattutto se letto alla luce dell'acuta intuizione di Foucault per il quale "«il corpo sano» diventò il segno distintivo della borghesia del XIX secolo" (22). La legalizzazione della prostituzione muoveva dalla profilassi medica fino ad arrivare a toccare altresì la pericolosità che caratterizzava la figura della prostituta (23), sebbene tradizionalmente la sua condotta non avesse vittime dirette, motivo per cui mancava di una fattispecie penale codificata. La scelta di emanare una serie di norme che regolavano la vita, oltre che l'attività, delle prostitute rappresenta il modo in cui i saperi criminologici sviluppatisi tra Ottocento e Novecento sulla devianza furono sapientemente applicati dai poteri di governo alla quotidianità: l'istituzione di strutture, quali le case di tolleranza, in cui riunire le prostitute permetteva allo Stato di esercitare il controllo su un gruppo sociale che era l'emblema della devianza femminile.

Gran parte del Regolamento Cavour celava, dietro il proposito di protezione, un intenso controllo delle prostitute: i bordelli riproducevano, al pari delle prigioni descritte da Foucault, i caratteri di raccolta di informazioni attraverso la registrazione nelle liste della Polizia di Sicurezza; segregazione poiché la prostituzione era ammessa solo all'interno delle case definite, appunto, "chiuse" nel linguaggio comune; disciplina e sorveglianza erano demandate alla Polizia di Sicurezza che stabiliva, tra le altre cose, gli orari delle case.

A tutte le donne che esercitavano la professione era richiesta la registrazione su apposite liste tenute dalla polizia (24); queste erano poi sottoposte a ispezione vaginale che ne attestasse lo stato di buona salute, solo in seguito a questo era permesso loro lavorare all'interno di una casa di tolleranza gestita da una tenutaria, a lei spettava registrare ogni ragazza, così da collaborare con la polizia al contrasto della prostituzione clandestina. La tenutaria si preoccupava di conservare i beni delle ragazze che ospitava per tutta la loro permanenza, di fornire loro tutto ciò di cui necessitavano, dalla biancheria alla mobilia, compilando un inventario di ciò che apparteneva alla ragazza. Compito della tenutaria era anche quello di provvedere alle visite mediche settimanali. I prezzi di ogni prestazione erano stabiliti dal regolamento (25) (artt. 40 e 61) ma alle prostitute era concesso trattenere solo un quarto della somma. Possibili contrasti tra tenutaria e prostitute erano rimandati all'Ufficio Sanitario, sezione della Polizia di Sicurezza; la polizia doveva essere informata anche nel caso in cui una donna volesse lasciare la prostituzione. Nella realtà, una donna che volesse abbandonare la prostituzione trovava serie difficoltà al momento della cancellazione che veniva in pochi casi determinati (matrimonio, inizio di onesto impiego) e in caso di ottenimento la donna sottostava ad un ulteriore periodo di controllo (26); era inoltre difficile per la donna uscire dallo status di prostituta: smettere di fare la prostituta non si accompagnava sempre allo smettere di essere tale.

Si evince che "il potere effettivo sta nelle mani della polizia" (27), essendo l'organo di pubblica sicurezza a seguire ogni singolo passaggio nella vita della prostituta; dal primo momento in cui la donna si iscriveva nelle liste delle prostitute, sia volontariamente sia d'ufficio. Una volta registrate, alle donne veniva consegnato un libretto che le identificava e sul quale venivano annotati i controlli medici cui sarebbero state sottoposte (artt. 24 e 26), a partire dalla prima ispezione vaginale eseguita al momento della registrazione; il documento era funzionale anche alla lotta alla prostituzione clandestina, chi fosse stata fermata senza e non avesse dimostrato di avere un lavoro onesto sarebbe stata arrestata o iscritta coattivamente nelle liste delle prostitute.

L'esercizio autonomo della prostituzione era alquanto isolato, essendo le case di tolleranza il miglior modo per mantenere il controllo sulle donne prostitute. Il Regolamento Cavour prevedeva una serie di norme sulle case per cui queste non potevano sorgere in prossimità di edifici destinati al culto o all'educazione e solitamente erano dislocate in zone determinate delle città; l'isolamento delle strutture era accentuato da misure ulteriori che prescrivevano di mantenere le finestre chiuse o comunque oscurate, anche per questo era vietato alle inquiline di stare affacciate e sostare sulla porta d'ingresso ad adescare i clienti (28). In questo modo si creava una netta separazione tra due mondi al duplice scopo di nascondere il vizio alla società e limitare la diffusione delle malattie veneree; la tendenza dettata dalla regolamentazione riflette un atteggiamento mentale fortemente radicato nei confronti della prostituzione: data l'estrema difficoltà, o quasi impossibilità, di eliminare la prostituzione all'interno della compagine sociale si cerca di porre rimedio nascondendola alla vista pubblica. Le case di tolleranza rientrano a ragione nell'insieme di "posti equivoci, in cui le persone di un certo tipo vengono subito individuate e quindi non hanno bisogno di nascondere il proprio stigma" (29).

Le donne che lavoravano nelle case erano sottoposte a regole ferree: controlli sanitari bisettimanali (art. 17), svolti da medici alle dirette dipendenze della polizia; divieto di uscire la sera senza giustificato motivo e di attardarsi per le strade. L'allontanamento dalla casa per più di tre giorni doveva essere comunicato alla polizia (artt. 28 e 29), allo stesso modo la polizia doveva essere informata in caso di cambiamento di residenza e ricoveri nei sifilocomi (art. 30), ossia gli ospedali per le prostitute affette da sifilide o altre malattie veneree.

La capillare disciplina dettata dal Regolamento Cavour permise di mantenere l'ordine in una società che, all'indomani dell'industrializzazione, stava cambiando rapidamente in cui si sentiva il bisogno di regolare le masse affluite nelle città; soprattutto i numerosi gruppi di giovani donne sole che, nonostante le aspettative di lavoro e di vita migliori, finivano col prostituirsi e in conseguenza le rendeva destinatarie dirette della regolamentazione. Nonostante la formale puntualità normativa, nella prassi il controllo dell'autorità era facilmente aggirato (30): basti pensare alla stessa registrazione nelle liste di polizia avversata da molte donne che praticavano la prostituzione solo saltuariamente o per arrotondare l'esiguo salario ottenuto da un'occupazione più onesta, non mancavano inoltre tra le prostitute occasionali donne appartenenti al ceto medio; l'iscrizione nelle liste di polizia rappresentava per queste donne una forma di disonore, per ciò era naturale che esercitassero in modo clandestino. Anche le case potevano agevolare trasgressioni al regolamento, le tenutarie erano i reali tramiti tra le prostitute-controllate e la polizia-controllore, quindi potevano concedere alle ragazze di uscire per andare in giro, avallando una libertà di movimento che il regolamento non permetteva.

Queste lacune valsero al Regolamento Cavour numerose critiche che si sommavano ad altre le quali attaccavano il sistema della regolamentazione quale forma di "schiavitù" (31); l'insieme di queste posizioni venne identificata con il movimento definito abolizionismo che auspicava, appunto, l'abolizione del Regolamento Cavour; scopo raggiunto dopo quasi trent'anni dall'emanazione del primo regolamento.

3.2.2. Il Regolamento Crispi

Le principali opposizioni al sistema creato venivano principalmente dalla Sinistra e dall'emergente movimento femminile, un sostegno alla causa dell'abolizionismo veniva anche dalla classe operaia. I principali aspetti attaccati riguardavano l'accentuata disparità di diritti riservati alle donne che esercitavano la prostituzione, specialmente se all'interno dei postriboli; questi ultimi rappresentavano, per gli abolizionisti, l'istituzionalizzazione della corruzione dei costumi, mentre compito dello Stato era quello di educare alla moralità ma anche alla sessualità, in questo modo era possibile far conoscere i rischi delle malattie veneree e gli aspetti etici per i quali la prostituzione non era "una necessità". Gli abolizionisti, concordi con i regolamentazionisti sul fatto che la prostituzione non fosse un delitto, chiedevano allo Stato una maggiore coerenza di trattamento per le prostitute: l'ideale volontà di regolamento sanitario celava la sottomissione della prostituzione al monopolio del governo, la riduzione delle prostitute a sottoclasse era in aperta contraddizione con i principi liberali proclamati dallo Stato Italiano. Inoltre la regolamentazione era vista come una delle principali cause della "tratta delle bianche", attraverso la quale si crearono traffici di donne con l'inganno avviate alla prostituzione (32).

Un altro aspetto criticato del Regolamento Cavour riguardava la difesa della salute pubblica perseguita mediante il controllo delle sole donne; erano le prostitute ad essere sottoposte a controlli medici regolari mentre i clienti non erano altrettanto controllati, inoltre erano liberi nell'esercizio dei loro diritti civili. Non sfuggì alla critica abolizionista nemmeno la polizia, accusata di svolgere le proprie funzioni, talvolta, in modo superficiale, favorendo anzi la licenziosità.

La situazione si mostrava per le sue molteplici incongruenze e le parole di Gramola la descrivono bene, la società italiana era divisa tra "la morale che condanna un vizio e la legge che lo tollera" (33).

Le richieste degli abolizionisti vennero accolte, ma non totalmente, dal Regolamento Crispi (34), emanato nel 1888; questo prevedeva nuovamente una registrazione, formalmente solo dei locali adibiti al meretricio, ancora sottoposti al controllo di polizia, ma le prostitute erano comunque registrate dalle tenutarie delle case, le quali dovevano fornire alla polizia elenchi di identificazione delle loro dipendenti.

L'innovazione più evidente portata dal nuovo testo era l'estensione a tutta la popolazione più povera del trattamento sanitario per le malattie veneree all'interno di reparti specializzati negli ospedali, le prostitute erano così riconosciute come uno dei vari gruppi di contagio; oltretutto il controllo medico veniva svincolato dal controllo di polizia, si stabiliva infatti che il ricovero delle prostitute contagiate da sifilide dovesse avvenire negli ospedali, dotati di reparti specializzati, e non più nei sifilocomi; ciò avrebbe dovuto facilitare la "riabilitazione delle prostitute" (35) ma la mentalità corrente faticava ad accettare una tale innovazione poiché le malattie veneree erano indice di depravazione morale e i contagiati andavano separati dalla "gente per bene" (36).

La riforma attuata dal Regolamento Crispi garantiva in modo pieno il mantenimento dell'ordine pubblico da possibili turbamenti dovuti alle condotte delle prostitute (37), perseguiva il reale scopo di "restituire la libertà alla prostituta" (38), svincolandola dalla registrazione obbligatoria, le permetteva implicitamente di esercitare liberamente la professione; in questo modo cadde anche il limite di età che vietava alle minori di 16 anni di iscriversi nelle liste di prostituzione (39), l'età minima fu alzata, infatti, a 21 anni, anche per il fatto che sarebbe stato assurdo confermare i 16 anni quando il codice penale del Regno prevedeva il reato di corruzione dei minori di anni 21 (40).

L'ondata di abolizionismo durò poco per una serie di molteplici cause, principalmente riconducibili al clima d'instabilità che creava contrapposizioni all'interno gli stessi sostenitori: l'asse politico italiano dopo l'unificazione era ancor più confuso e il consenso alla regolamentazione era ancora forte, soprattutto da parte della Polizia di Sicurezza e medici che, grazie al Regolamento Cavour, avevano modo di esercitare un autorevole controllo sulla società. Non è da tralasciare l'influenza della Chiesa cattolica per la quale la prostituzione andava condannata, tuttavia la sua concezione tradizionale della sessualità maschile era spesso affine a quella regolamentazionista.

3.2.3. Il Regolamento Nicotera

Tutto questo portò alla breve vigenza del Regolamento Crispi che nel 1891 venne sostituito dal Regolamento Nicotera (41); ponendosi come una sorta di compromesso tra i regolamenti che lo avevano preceduto, rappresentava nel complesso un ritorno alla regolamentazione. Gli obiettivi verso cui era rivolto riguardavano, infatti, la difesa della morale e della decenza pubblica, il contenimento del contagio delle malattie veneree attraverso il controllo sulle cure, la vigilanza sui locali in cui si esercitava la prostituzione, il nuovo regolamento si occupava anche di tutelare la libertà personale delle prostitute e di agevolare la loro riabilitazione sociale; quest'ultimo punto, tuttavia, non trovò applicazione concreta.

Tra le innovazioni rispetto al Regolamento Crispi, la vigilanza della polizia ricadeva anche sulle donne che esercitavano la prostituzione in modo autonomo, sempre sottoforma di controllo del locale in cui si svolgeva l'attività, al fine di contrastare la prostituzione clandestina, il punto in questione, al contrario, fu interpretato dagli abolizionisti come una riaffermazione del potere discrezionale della polizia (42).

Sotto l'aspetto medico sanitario, il Regolamento non apportò cambiamenti radicali ma intensificò i controlli sulle case di tolleranza: le tenutarie potevano sì scegliere i medici privati (43), ma dovevano informarne la polizia, allo stesso modo i dottori comunicavano i casi di infezione alle autorità sanitarie; inoltre la donna infetta aveva l'obbligo di presentarsi in ospedale. Se una donna avesse rifiutato la visita di controllo sarebbe stata presunta infetta e ricoverata forzosamente, a meno che la tenutaria avesse garantito il suo isolamento e la cura da parte di un medico privato.

All'inizio del XX secolo la prostituzione era ancora avversata in difesa della salute pubblica, le prostitute erano il principale gruppo di contagio ma non le uniche sottoposte a controllo sanitario. Le modifiche che negli anni vennero apportate al regolamento erano sempre più finalizzate alla separazione del controllo di polizia dal controllo medico; l'apertura dei dispensari pubblici, rivolti alla popolazione più povera, in sostituzione dei sifilocomi per le sole prostitute mostra la nuova direzione del sistema regolamentazionista. Nel 1905, con l'emanazione di un regolamento sanitario (44) si sancì la totale separazione tra il potere di sorveglianza della Polizia di Sicurezza e l'attività di profilassi riservata all'autorità sanitaria; il controllo venne decentralizzato alle autorità locali (45) anche per incentivare la popolazione a sottoporsi a cure senza il timore del contatto con la polizia (46).

A tali considerazioni va aggiunto l'importante elemento della distribuzione delle prostitute sull'intero territorio nazionale: nei primi anni del Novecento le donne che esercitavano all'interno delle case di tolleranza erano relativamente poche, a confronto di quelle che si prostituivano isolatamente; era dunque difficoltoso per lo Stato, soprattutto in termini di costi economici, praticare un controllo capillare attraverso la polizia e soprattutto garantire le visite mediche bisettimanali, come al tempo del Regolamento Cavour. Di questo parere era anche R. Santoliquido, direttore della sanità pubblica, che contribuì molto alle modifiche del regolamento vigente in senso "sanitario": l'ambito della sorveglianza da parte della Pubblica Sicurezza doveva mantenersi nettamente distinto da quello della politica sanitaria (47); la polizia doveva occuparsi principalmente del controllo sociale garantendo l'ordinamento dalle conseguenze di condotte sregolate.

L'assetto italiano si presenta, all'inizio del secolo, ancora votato al mantenimento della sicurezza pubblica; l'apparato normativo in materia prostituzione evidenzia come questa sia perseguita attraverso una regolamentazione più tematicamente circoscritta: la difesa della salute pubblica è l'oggetto principale del controllo; dietro questo, tuttavia, resta attiva la sorveglianza sulla popolazione, che era andata sempre più crescendo nonostante le condizioni di vita restavano per molti precarie. La povertà ed il bisogno si celavano ancora dietro la scelta della prostituzione da parte di molte donne, questo valeva loro un controllo più articolato e marcato sia da parte dell'apparato medico sia, soprattutto, dalla polizia che vedeva le prostitute come classe pericolosa a causa della condotta deviante; risulta evidente, in ciò, l'influenza delle idee positiviste che si stavano diffondendo largamente all'interno del dibattito socio-criminologico.

3.3. Profilo sociale delle prostitute

L'indagine svolta finora ha avuto come oggetto il ruolo dell'autorità pubblica chiamata al controllo sociale e al mantenimento della sicurezza, in seguito si è osservato il modo in cui la legislazione statale si è occupata del contenimento della prostituzione e, di conseguenza, delle misure adottate nei confronti della classe delle prostitute.

Tuttavia, una ricerca che ha come obiettivo l'analisi della donna prostituta nella globalità dei suoi tratti e delle implicazioni che questa figura ha sulla società, non può trascurare di considerare la prospettiva personale del soggetto, vale a dire offrire una valutazione di quelle che sono le motivazioni reali che inducono una donna a diventare prostituta.

Tale indagine si rende doverosa in una trattazione dell'argomento che, fino a questo momento, ha delineato un quadro della donna prostituta prendendo le mosse dalla sua condotta e descrivendone la personalità in relazione a questa. Il soggetto emerso da questa operazione è frutto di una osservazione in termini di devianza e pericolosità sociale: la donna prostituta è stata inquadrata quale soggetto deviante a causa di una condotta amorale, ricercandone le motivazioni anche nel fisico e nella psiche, in coerenza con la metodologia d'indagine positivista del XIX secolo; allo stesso tempo la sua condotta l'ha resa individuo pericoloso perché minaccioso per l'ordinamento e, in seguito, per la salute pubblica, rendendola così oggetto di un consistente controllo da parte dell'autorità. Emerge, sin qui, un'interpretazione della donna prostituta intesa come "oggetto": degli studi criminologici, che sebbene si siano concentrati sulla personalità, ne hanno indagato soprattutto il corpo; oggetto del controllo sociale, in quanto minaccia per l'ordinamento e la collettività (48).

Considerare la donna prostituta in relazione alla sua soggettività significa apprendere, dal suo profilo sociale, che tipo di donne sono le prostitute nella realtà concreta e verificare se e quanto sono differenti dalle altre donne; di conseguenza occorre non dimenticare il contesto di riferimento.

La maggiore urbanizzazione che si ebbe in seguito allo sviluppo industriale a partire dalla metà del 1800 segnò un mutamento delle mappe cittadine sia in senso geografico sia a livello di popolazione: molti furono coloro che arrivarono dalle campagne in cerca di lavoro nelle nuove industrie e negli altri settori emergenti; tra le masse di migranti la presenza femminile era altamente rilevante.

Nel XIX secolo le donne che facevano già parte del mercato del lavoro erano impiegate soprattutto nel settore tessile, che rappresentava il perno dell'industrializzazione italiana, nell'abbigliamento e nel servizio domestico (49). Col progredire dell'industria, sempre più meccanizzata, il lavoro femminile subì un'inflessione (50), cui si aggiungeva la difficoltà per le donne di fronteggiare al duplice ruolo domestico e di lavoratrice, ciò in relazione anche alla numerosità delle famiglie. Vi fu ancora un mutamento di costume per cui la classe media rinunciò alla servitù e alle governanti in favore di una maggiore intimità e di un'educazione personale della prole.

Sullo sfondo di queste vicende, agli albori dell'Unificazione, un piccolo gruppo di donne della classe media cercava impiego come insegnante nel nuovo sistema scolastico nazionale. Ciò che le accomunava con tutte le altre donne lavoratrici era l'esiguità della remunerazione, tutte di gran lunga inferiori rispetto a quelle maschili.

Le donne operaie erano, solitamente, molto giovani e senza figli cui badare. Tuttavia le condizioni di lavoro nelle fabbriche non erano salutari né sicure; gli orari erano massacranti, dato comune alle lavoratrici a cottimo che poteva risentire, più degli altri, della stagionalità e dell'instabilità, soprattutto perché questo tipo di impiego era legato ai bisogni dei consumatori. Ciò spingeva molte donne a cercare una seconda occupazione per incrementare lo scarso salario o per sopravvivere nei momenti di disoccupazione.

Alla luce di un simile quadro si avverte come comprensibile la scelta da parte di molte donne di esercitare la prostituzione come lavoro alternativo o supplementare (51). Esisteva, infatti, una gran quantità di donne di varia estrazione sociale che si prostituiva saltuariamente, esse erano casalinghe, maestrine ma anche appartenenti alle classi medio borghesi; da queste donne proveniva il maggior contrasto alla registrazione nelle liste di polizia per il timore di ripercussioni sulla loro vita sociale, perciò era presumibile che sfuggissero all'iscrizione alimentando il numero delle prostitute clandestine e, allo stesso tempo, il numero oscuro nei dati statistici sulla prostituzione.

Tra le prostitute registrate molte erano le giovani provenienti dalla campagna che, dopo una prima fase di lavoro nelle fabbriche o nelle famiglie come domestiche, lasciavano l'occupazione per entrare in una casa di tolleranza. Soprattutto le ultime costituiscono un dato rilevante: le ragazze che, spinte anche dai genitori, arrivavano in città per mettersi a servizio delle famiglie borghesi, ricevevano un trattamento tutt'altro che di riguardo poiché i datori non esitavano a licenziarle, specie in caso di una loro gravidanza (52). Altre, della medesima estrazione contadina, che, a causa della mancanza d'istruzione, non riuscivano a entrare nelle fabbriche vedevano nella prostituzione un'alternativa alla disoccupazione e alla miseria; questo tipo di scelta mostra come le scarse possibilità e la mancanza di alternative facevano diventare "la prostituzione nelle infime classi" "un mestiere come un altro" (53).

Per confrontare al meglio le prostitute e le altre donne è necessario prendere in considerazione una serie di aspetti che permettano di tracciare un quadro comune; tutto ciò tenendo presente che una maggiore attendibilità di riscontro è possibile guardando ai dati emergenti dalle registrazioni effettuate presso le autorità, tuttavia senza trascurare la prostituzione clandestina che offre un contributo altrettanto utile (54).

Uno dei primi elementi che emerge guardando alle liste di polizia è la giovane età delle ragazze registrate come prostitute, tendenzialmente attorno ai vent'anni, ma non mancavano anche giovanissime (55) il dato risentì molto delle modifiche alla regolamentazione, come già si è accennato, il Regolamento Cavour imponeva la registrazione dall'età minima di 16 anni, in seguito si passò a quella di 21 dei regolamenti Crispi e Nicotera. La principale conseguenza di questo innalzamento fu l'aumento della prostituzione clandestina tra le ragazze più giovani. Anche tra le donne impiegate in lavori regolari erano molte le ragazze giovani, ciò si spiega col fatto che queste non avevano ancora una famiglia di cui prendersi cura; in un'epoca in cui l'età media per il matrimonio era di circa 24 anni è facile comprendere come anche tra le prostitute fosse normale essere nubili.

Molto più rare erano le donne prostitute che superavano i 35 anni, questo perché, come per le lavoratrici, era più facile che avessero scelto la vita matrimoniale; il dato rileva soprattutto alla luce della considerazione per cui molte donne vedevano la prostituzione come una scelta non definitiva per la loro vita, spesso dovuta alle contingenze economiche.

Un aspetto connesso alla giovane età delle prostitute, specialmente tra quelle che esercitavano clandestinamente, era l'alto tasso di adolescenti che si lasciavano conquistare agilmente dai piaceri di una vita dissoluta, come Bolis ha descritto nel suo rapporto:

Esposte a tutte le seduzioni della gioventù e dell'inesperienza, trovandosi continuamente a contatto con giovani dissoluti, si abituano di buon ora ai discorsi immorali, alle provocazioni indecenti, ai lazzi osceni, e assorbono insensibilmente un'atmosfera che corrompe e soffoca in esse ogni sentimento di pudore e di ritenutezza (56).

A causa dell'impossibilità di registrazione, in loro si vedeva una minaccia maggiore per la salute pubblica, poiché avevano molti rapporti ma non conoscevano le norme di prevenzione, era più diffusa, tra loro, la possibilità di contagio (57).

Se da un lato le minori contribuivano largamente ad aumentare il gruppo delle prostitute clandestine, dall'altro queste non erano le sole. Molte erano le donne che si sottraevano all'iscrizione nelle liste della polizia ponendosi in aperto contrasto con la registrazione; tante sceglievano di cancellarsi per poi svolgere l'attività in modo illegale, questo evidenzia la notevole avversione che le prostitute, sottoposte a regolamentazione, nutrivano nei confronti del controllo della polizia. Rientrano in questo gruppo anche le donne che esercitavano la prostituzione part-time, in particolare aumento nell'ultimo decennio del secolo; queste erano mosse soprattutto dalla necessità di arrotondare il ridotto stipendio prostituendosi a termine della giornata di lavoro o nei momenti di calo di questo. La prostituzione part-time era diffusa anche tra le donne sposate della borghesia, piccola e media, che si prostituivano durante le ore di lavoro dei mariti, o in segreto e per tale ragione vedevano nella pratica della registrazione un danno alla loro immagine sociale.

Lo stato civile delle prostitute, soprattutto clandestine è un elemento difficilmente documentabile a causa della scarsità dei dati; tra le interpretazioni a riguardo appare più ragionevole e sostenibile quella che legge l'alto tasso di donne nubili tra le prostitute, specie clandestine, come una conseguenza del fatto che le donne sposate eludevano più facilmente la registrazione, soprattutto in caso di esercizio senza consenso del marito; inoltre era la stessa polizia a risparmiare loro l'iscrizione nelle liste perché queste donne non erano indipendenti come le altre prostitute, ma sottoposte alla tutela maritale. Non registrando le donne sposate si intendeva proteggere anche i figli, evitando di sottoporli al cattivo esempio di un vizio che il senso comune condannava (58).

Alla luce di tali considerazioni si evince che la prostituzione clandestina non era dominata da ragazze minorenni e donne nubili, in quanto l'assenza delle donne sposate dalle liste di polizia non è da sola causa sufficiente a giustificare il fenomeno; la pratica della prostituzione in modo nascosto o saltuario basta a rendere una donna prostituta, pur non essendo registrata, è "l'atto abituale del prostituirsi che qualifica la meretrice e non già la notorietà la quale non è che una conseguenza dell'atto ed un mezzo per addimostrarlo" (59).

Un ulteriore termine di raffronto tra le donne prostitute e le altre donne è rappresentato dal livello di istruzione; Bolis descriveva le meretrici come generalmente "poco istruite, ed anzi nella maggior parte dei casi ignoranti e analfabete" (60), un simile dato, tuttavia, trova un generale supporto nella realtà del tempo dove le donne erano meno istruite degli uomini e si dovrà attendere l'inizio del XX secolo perché la situazione migliori. Se non è possibile descrivere con esattezza la distribuzione dell'istruzione tra le prostitute clandestine, poiché molto probabilmente si riscontrerebbe tra le minorenni un tasso di analfabetismo analogo alle colleghe registrate, si deve, d'altro canto, inserire in questo gruppo gli altrettanti dati incerti riguardanti le donne della classe media che si prostituivano occasionalmente per incrementare il proprio reddito. Tra queste è possibile ascrivere le giovani insegnanti, la cui paga era estremamente bassa; esse erano, per alcuni, la dimostrazione di come la cultura, e non solo l'ignoranza, potesse indurre al vizio: si tratta di una posizione che contrastava principalmente l'indipendenza economica e culturale che le donne potevano raggiungere studiando; tale idea, come si può bene intuire, era connessa alla mentalità del tempo secondo la quale "il vero ideale di donna fu e sarà sempre quello di una compagna dell'uomo" (61). In questo senso la regolamentazione si poneva come strumento di controllo sociale parimenti rivolto alla totalità delle donne, a prescindere dal loro livello culturale o sociale.

Le giovani insegnanti, come si è detto, erano tra coloro che spesso sfuggivano alla registrazione per l'attività di prostitute part-time, ma la loro categoria rileva anche per il fattore "mobilità": erano molte quelle che si spostavano dalla città natale per andare a lavorare in quella in cui avevano ricevuto l'incarico (62); anche tra le prostitute era frequente lo spostamento, spesso dalla provincia, per andare a esercitare in una zona diversa, dove, lontano da familiari e conoscenti, erano meno facilmente riconoscibili.

L'emigrazione femminile, a differenza di quella maschile, era limitata a spostamenti di medio raggio; tra le prostitute registrate (63) si notano spostamenti più frequenti. Inoltre spostarsi frequentemente era un modo per le prostitute clandestine di sfuggire ai controlli ed essere molto più autonome. Era il caso, ad esempio, di cantanti, ballerine, attrici e altre artiste dello spettacolo: sebbene molte risultassero iscritte nelle liste di polizia, costituivano in realtà la parte più consistente delle "prostitute illegali itineranti" (64). Le donne che sceglievano di registrarsi come prostitute erano perciò più stanziali.

Dalle liste compilate dalla polizia emergono dati utili riguardo il tipo di vita svolto precedentemente dalle prostitute. Da queste risulta che la maggior parte delle prostitute registrate aveva un trascorso lavorativo che, contrariamente a quanto è facile pensare, non era di tipo agricolo; ciò è spiegabile con la residenza nelle città di molte prostitute, tuttavia era frequente la loro origine contadina. Le donne registrate come prostitute, come le altre donne lavoratrici, provenivano prevalentemente dai settori di lavoro femminile tessile, dell'abbigliamento (65) e del servizio domestico. Quest'ultima occupazione era soggetta ad un'alta precarietà, si è detto, infatti, che le ragazze poste a servizio delle famiglie borghesi provenivano solitamente dalle campagne, spinte dai genitori che avevano in gran considerazione quel tipo di occupazione: la ragazza, nella loro ottica, avrebbe ricevuto vitto e alloggio in un clima familiare; al contrario i datori di lavoro delle città non riservavano alcun trattamento di premura ai loro dipendenti e non esitavano a licenziare le giovani, specie se rimaste incinte.

Inoltre se la ragazza veniva abbandonata anche dal fidanzato la prostituzione diventava l'unica opportunità di mantenimento.

Le considerazioni esposte sulle occupazioni svolte dalle prostitute prima della registrazione sono valevoli anche per le prostitute non registrate. Alla luce di quanto riportato fino a questo punto, è possibile tracciare delle linee comuni alle donne prostitute e alle altre donne: come emerge dai registri polizia vi era un gran numero di donne che esercitava la prostituzione clandestina come lavoro part-time, spinte dalla necessità di incrementare il basso reddito o supplirne la mancanza nei periodi di disoccupazione. Nei registri si aveva cura di annotare le ore e i giorni di disponibilità per esercitare all'interno delle case di tolleranza (66); si annoveravano, così, domestiche, operaie, che esercitavano al termine del turno di lavoro, ma anche casalinghe, quando i mariti erano assenti, e insegnanti mal pagate dal sistema scolastico, al termine delle lezioni.

Tutte queste tipologie di donne mostrano come la prostituzione non riguardasse solo le donne della classe popolare, o al massimo operaia, come tradizionalmente si pensava (67); essa costituiva un fenomeno di interesse più ampio, che coinvolgeva appartenenti ai settori lavorativi più disparati e membri della classe borghese. Tale affermazione appare più chiara riflettendo sul fatto che alcune donne eludevano facilmente la registrazione, come nel caso di insegnanti, borghesi e casalinghe, ma anche tutte le altre cercavano di non essere iscritte sulle liste di polizia.

La prostituzione clandestina non era la professione isolata di un gruppo di devianti ma piuttosto un'attività diffusa, perché la precarietà economica caratterizzava tutti i settori dell'occupazione femminile (68).

La disoccupazione e l'insicurezza economica non erano gli unici fattori scatenanti la scelta della prostituzione, per perfezionare il ritratto della prostituta è utile considerare anche la provenienza familiare e l'ambiente di origine di queste donne, aspetto che talvolta è stato trascurato nelle indagini governative. Un dato pare accomunare la maggior parte delle prostitute ossia la mancanza di una famiglia solida alle spalle; diversamente, la condizione di figlia illegittima non era diffusa, sebbene fosse corrente l'idea per cui le illegittime fossero "predestinate alla prostituzione" (69).

Molte di loro non aveva più genitori e sebbene la media della vita al tempo era di gran lunga più bassa di quella odierna, la percentuale di prostitute che avevano perso precocemente almeno un genitore era eccezionalmente alta, di conseguenza si trovavano costrette a mantenersi autonomamente fin da giovanissime. Una simile condizione rifletteva i suoi effetti anche sul piano psichico ed emotivo, la privazione di affetti e legami familiari faceva sì che molte adolescenti cercassero altrove un sostegno maschile sia economico che psicologico. I legami però non sempre si saldavano nel matrimonio, a causa anche della debolezza di queste ragazze che, senza una famiglia a supportarle, non riuscivano a persuadere il fidanzato; la prostituzione si presentava alle ragazze abbandonate come un'opportunità di mantenersi, specialmente in caso di gravidanza.

Sebbene sia diffusa l'idea del XIX secolo e l'inizio del XX come un'epoca in cui la sessualità era trattata con estremo rigorismo morale, "accuratamente racchiusa nelle camere da letto" (70), i rapporti sessuali prematrimoniali erano, invece, frequenti e non condannati purché il legame si consolidasse al più presto con il matrimonio; le ragazze quindi accettavano liberamente i rapporti con gli uomini, sperando in una futura unione.

In seno a quanto si è detto fino a questo punto delle prostitute, il profilo sociale che emerge mostra molte correlazioni tra le donne prostitute e quelle appartenenti al proletariato urbano: entrambe accomunate dalla necessità di un guadagno, fosse questo per la sussistenza o di incremento al reddito. La necessità economica, che appare come la principale causa della prostituzione tra le donne di estrazione sociale inferiore (71), non riguardava le donne delle classi più agiate che si prostituivano ma non erano iscritte nei registri della polizia, queste, tuttavia, costituivano la parte più esigua delle prostitute.

Le donne prostitute e le altre lavoratrici iniziavano a lavorare fin da giovanissime, quasi prive d'istruzione, soprattutto le prostitute; molto spesso si spostavano in cerca di un'occupazione, entrambi i gruppi erano caratterizzati dalla prevalenza di donne nubili e da una certa indipendenza. Le donne prostitute si distinguevano per la maggior autonomia rispetto alle altre donne; per la maggior parte prive di una famiglia solida alle spalle, risentivano della mancanza di protezione economica e morale di una figura di sostegno.

La prostituzione sembra presentarsi come un'alternativa tra una serie ridotta di lavori disponibili che molte donne sceglievano spinte dal bisogno. In questo senso, le prostitute costituiscono una categoria del tutto coincidente con le donne "normali" lavoratrici. La corrispondenza emergeva anche dalla pratica crescente, soprattutto al termine del XIX secolo, della prostituzione part-time quale mezzo per integrare il reddito da lavoro regolare; questa prassi aumentò la resistenza delle donne alla registrazione, per cui i molti nomi che si alternavano sulle liste di polizia furono superati dall'espansione della prostituzione clandestina, anche a discapito delle case di tolleranza: le donne che si prostituivano occasionalmente contrastavano il processo di schedatura che derivava dalla registrazione, inoltre lavorare nelle case di tolleranza richiedeva alle donne una disponibilità pressoché totale e una rinuncia all'identità soggettiva.

Molte ragazze che lavoravano nelle case di tolleranza risentivano di questa condizione che le stigmatizzava moralmente e "soffrivano gravemente per la perdita di posizione sociale e per il nuovo status di prostituta" (72). La regolamentazione, pur non negando la coincidenza tra le donne "normali" lavoratrici e le donne prostitute, cercava di mantenere separata la condizione delle prostitute dalle altre donne sottoponendole a una registrazione che non era solo formale ma le etichettava socialmente.

3.4. Prostitute e polizia

La categoria delle prostitute rileva per il suo essere variamente articolata in quanto ricomprende al suo interno personalità che si differenziano tra loro per nascita, estrazione sociale e modalità di esercizio della prostituzione. Nonostante le donne prostitute possano, tuttavia, rispondere a caratteri comuni non esiste, come non esisteva nel periodo storico qui trattato, una definizione esatta di prostituta (73).

L'Art. 17 del Regolamento Cavour stabiliva che "Sono considerate meretrici le donne che esercitano notoriamente la prostituzione" (74); la formulazione tautologica e poco esplicativa della norma si pone quale perno attorno cui ruotavano tutti i rapporti tra le prostitute e la Polizia di Sicurezza, quale organo preposto all'esecuzione delle disposizioni in materia di prostituzione. Rapporti non sempre facili e segnati dall'aperto contrasto delle donne ad essere registrate come prostitute, soprattutto in relazione all'ampia discrezionalità con cui la polizia agiva nell'interpretazione e nell'applicazione dei regolamenti statali. L'attività della polizia era volta al controllo, anch'esso intenso e discrezionale, della vita delle prostitute sin dal momento della registrazione, che poteva avvenire anche d'ufficio, fino a (molto tempo) dopo la cancellazione dalle liste.

La situazione al momento della regolamentazione sembra presentarsi come una presa in carico da parte della Polizia di Sicurezza del potere di controllare e circoscrivere il fenomeno della prostituzione. Tuttavia gli alti funzionari avevano la consapevolezza di dover, principalmente, agire in esecuzione a regolamenti statali, come era giusto che fosse; il parere autorevole di Bolis in questo senso pare spiegarlo bene

Il diritto tuttavia di limitare la libertà individuale delle prostitute non potrebbe essere né arbitrario, né sconfinato [...] La necessità pertanto che siano esattamente definite le norme e le prescrizioni che devono regolare gli obblighi, ai quali importa sottoporre le meretrici, è troppo evidente perché nello stato attuale della nostra civiltà non sia generalmente riconosciuta (75).

I Regolamenti disegnavano l'assetto del controllo sulla donna prostituta toccando ogni aspetto della sua vita, limitandone la libertà personale e di movimento (76), seppur alcune definizioni non fossero estremamente precise, mentre la Polizia di Sicurezza era l'organo chiamato a farli rispettare; essa, ponendosi come longa manus della legge, contribuiva notevolmente a definire i tratti distintivi delle prostitute: attraverso l'arresto e la registrazione coatta molte donne venivano etichettate (77) come prostitute sulla base del solo sospetto, relegandole, così, in una posizione soggettiva da cui difficilmente riuscivano a liberarsi.

Per una maggiore comprensione è utile, a questo punto, approfondire l'articolazione interna dei poteri della Polizia di Sicurezza, così da verificare la reale interazione tra le prostitute e l'autorità nei suoi livelli.

La Polizia di Pubblica Sicurezza, come si è avuto modo di dire nella sezione a questa dedicata, era nata pochi anni prima dell'Unificazione e al tempo della regolamentazione si presentava come un organo in formazione la cui forza era ancora limitata. Alle dirette dipendenze del Ministero dell'Interno, essa era l'unico (78) organo con il dovere di applicare le norme sulla prostituzione; sostituita solo dai sindaci delle piccole città dove non era presente.

La Polizia di Sicurezza era suddivisa in due gruppi: quello dei funzionari, per lo più borghesi e istruiti, e quello delle guardie, i cui componenti erano di estrazione sociale inferiore. Entrambi dipendevano direttamente dalla direzione centrale di Roma, che vigilava sulla corretta applicazione delle leggi nazionali da quelle di pubblica sicurezza, alle norme del codice penale, fino ai regolamenti speciali, come era quello in materia di prostituzione. A fare da tramite tra i vari uffici provinciali di polizia e il capo della Pubblica Sicurezza a Roma era il prefetto, il quale vagliava le circolari con cui si impartivano gli ordini ma non mancavano occasioni in cui gli venivano rivolte doglianze sull'operato della polizia. Talvolta, poi, i questori, con sede nei capoluoghi di provincia, cui spettava la diramazione delle circolari a livello locale, non teneva conto del prefetto rivolgendosi direttamente al vertice di Roma.

Le guardie costituivano la parte più numerosa della Polizia dei Costumi, la sezione della Polizia di Sicurezza adibita alla sorveglianza delle prostitute, e svolgevano la loro attività in collaborazione con il prefetto e il questore. Il compito di questa particolare sezione si spiegava nell'ambito della generale attività di prevenzione, "mediata", la definisce Ranelletti, attraverso la quale "prende di mira e combatte l'immoralità" da cui potevano derivare danni all'ordinamento in termini di lesione dei diritti del singolo e della collettività (79). In quest'ottica, anche le norme in materia di prostituzione trovavano applicazione concreta nei casi in cui recavano un danno diretto alle altre persone, soprattutto quando "dal fatto immorale derivi pubblico scandalo, quando si offenda il pudore o il buon costume o la pubblica decenza con atti commessi in pubblico" (80). L'attività di controllo della polizia si rivolgeva dunque a donne che pubblicamente destavano scandalo con "atti di prostituzione" abituali (81); in realtà la polizia, spesso, fermava donne che di sera giravano sole per le strade di città perché ritenute sospette. Si nota come questo genere di sorveglianza rientrasse già nella sfera di competenza della polizia che doveva, appunto, vigilare che da certe classi non venisse alcun danno alla collettività.

L'alta discrezionalità usata dagli agenti poteva essere motivo di richiamo, per questa ragione la legge richiedeva che le guardie assegnate alla polizia dei costumi fossero scelte tra gli uomini che si distinguevano per l'alto senso morale e la condotta integra; il lavoro di sorveglianza delle prostitute richiedeva personale che restasse impassibile alle seduzioni fuorvianti di quell'ambiente, quando possibile tali mansioni erano affidate a uomini sposati, la difficoltà maggiore derivava dal fatto che i regolamenti della Polizia permettevano il matrimonio solo dopo dieci anni di servizio Le squadre dei poliziotti erano, perciò, formate in prevalenza da celibi che sovente venivano trasferiti (82) per motivi disciplinari, il più delle volte a seguito di richiami e ammonizioni andate vane per non aver seguito l'ordine di interrompere una relazione con qualche prostituta.

Se da un lato, le guardie stentavano ad applicare correttamente i regolamenti per mancanza d'impegno e di un grado d'istruzione adeguato, dall'altro si deve tener conto della loro scarsa formazione professionale; solo i funzionari erano laureati e la loro preparazione si completava con la frequentazione della nuova Scuola di Polizia Scientifica, istituita a Roma da Ottolenghi e di cui abbiamo già parlato, che mirava a istruire gli ufficiali secondo i criteri della nuova metodologia investigativa, fondata sulla conoscenza delle pratiche d'ispirazione positivista come analisi di laboratorio, rilevamenti d'impronte nonché la redazione di schede identificative dei criminali. La netta differenza formativa del personale di polizia era evidente, poche guardie scelte potevano accedere ad un ciclo di corsi nella Scuola. L'apparato di polizia, così formato, risentiva anche delle teorie criminologiche positiviste che sul finire del XIX secolo andavano diffondendosi; si mirava, con ciò, a dare ai funzionari una conoscenza completa delle personalità criminali, garantendo un intenso legame tra i saperi dell'antropologia criminale e i poteri pratici della Polizia di Sicurezza, che durò fino al primo decennio del Novecento.

La figura della donna prostituta, rappresentata dai teorici del positivismo come l'emblema della devianza e della criminalità femminile, richiedeva un controllo da parte della polizia e l'applicazione dei regolamenti in materia di prostituzione evidenziava la concezione della realtà circostante "scientificamente provata".

La vita di una donna prostituta era scandita, in base al regolamento, da una serie di atti determinati che la mettevano in costante interazione con la polizia dei costumi, il primo atto era l'iscrizione nelle liste tenute dalla polizia che poteva avvenire anche in seguito ad arresto, era questo l'altro modo con cui la prostituta entrava in contatto con l'autorità; seguivano poi le ispezioni delle case di tolleranza, le richieste (eventuali) per poter cambiare residenza e infine, come ultimo atto, la cancellazione dalle liste.

La registrazione poteva essere volontaria o avvenire d'ufficio, soprattutto in caso di arresto, molte donne, tuttavia, la osteggiavano perché con tale atto si rendeva ufficiale e si normalizzava un'attività che per tante era solo momentanea, perché speravano di trovare altra occupazione o perché, come più volte affermato, si prostituivano solo occasionalmente per integrare un reddito scarso; la registrazione era vista come l'apposizione di un marchio di difficile affrancatura e quindi avrebbe compromesso una futura vita limitando le possibilità di trovare un lavoro onesto e di ricoprire una posizione sociale rispettosa. Inoltre una volta iscritte sarebbero state vincolate al rispetto delle innumerevoli prescrizioni dei regolamenti.

La registrazione poteva avvenire in modo volontario, presentandosi presso uno degli Uffici Sanitari, diretti da un funzionario della Pubblica Sicurezza e composti di guardie vario grado e medici, o la Questura dopo le modifiche del 1888; nonostante l'avversione diffusa, furono molte le iscrizioni volontarie, soprattutto da parte di straniere provenienti da stati regolamentati come Francia e Germania, inoltre era un modo per evitare l'arresto. La polizia aveva l'obbligo di registrare solo ragazze maggiorenni, le più piccole dovevano essere rimandate alle famiglie d'origine; talvolta i funzionari venivano meno a tale obbligo a causa delle false dichiarazioni delle ragazze o nel caso in cui la famiglia rifiutasse di riprendere in casa la giovane, l'iscrizione irregolare si giustificava con la lotta alla prostituzione clandestina.

Al momento della richiesta di registrazione le donne erano sottoposte a ispezione vaginale, veniva consegnato loro un libretto (o patente) dove sarebbero state annotate le successive visite mediche e che costituiva il documento identificativo delle donne prostitute, le quali avevano l'obbligo di portarlo sempre con sé e mostrarlo su richiesta nel caso venissero fermate dagli agenti, chi ne fosse stata priva e non avesse dimostrato di avere dimora e lavoro stabile sarebbe stata arrestata. In seguito alle modifiche ai regolamenti, nel 1888, il rilascio del libretto venne meno (83): rimasero le tenutarie delle case di tolleranza a compilare un elenco di tutte le ragazze alle sue dipendenze corredato dei loro dati, tuttavia, per una maggiore sorveglianza la polizia consultava gli elenchi delle tenutarie anche prima.

Il secondo modo in cui le donne venivano registrate era anche il più dibattuto poiché prevedeva l'iscrizione d'ufficio, o "registrazione per ordine della polizia dei costumi" (84); le critiche maggiori mosse a questa pratica si basavano sull'eccessiva arbitrarietà d'azione della polizia che così facendo impediva a molte ragazze una possibilità di ravvedimento e un ritorno alla vita onesta. La polizia argomentava il proprio operato come lotta risoluta alla prostituzione clandestina e lamentando restrizioni nei poteri d'arresto, soprattutto all'indomani del Regolamento Nicotera che, vietando la registrazione personale, stabiliva per le prostitute fermate pene ritenute leggere dalla polizia: solo nei casi più gravi era prevista la detenzione di dieci giorni (85). La registrazione dei luoghi in cui si esercitava clandestinamente non era sostenuta dalla polizia che ne preferiva la chiusura poiché erano poche le case che rispondevano ai criteri regolamentari, inoltre molte prostitute, dopo la chiusura della casa clandestina, lasciavano la città per andare a svolgere altrove l'attività; la Polizia di Sicurezza non accettava di buon grado la tutela della libertà riconosciuta alle prostitute dal Regolamento Nicotera e auspicava il ritorno alla registrazione personale.

La preoccupazione della prostituzione clandestina, si può dire, incentivò la polizia nel suo lavoro di registrazioni d'ufficio, sebbene sia da precisare che i dati sulle registrazioni variavano per l'intero territorio nazionale in relazione al grado di attività svolto dalla polizia. Il potere di sorveglianza della polizia continuò a farsi sentire intensamente anche dopo il 1891 come dimostrano gli arresti per adescamento che restarono elevati, le accuse si reggevano su congetture: l'assenza di un lavoro regolare rendeva la donna una sospetta prostituta; spesso la polizia procedeva all'arresto di donne trovate a passeggiare sole di sera, anche in ora non eccessivamente tarda. I verbali di arresto della polizia erano quasi sempre privi di prove certe di prostituzione, talvolta si trattava di comportamenti compromettenti ma non tali da giustificare un'accusa di prostituzione.

Le critiche per arresti eseguiti con troppa discrezionalità rivolte alla polizia da parte degli abolizionisti avevano, dunque, un fondamento ma gli stessi abolizionisti esageravano nel sostenere che agli arresti seguissero inevitabilmente la registrazione e l'inserimento in una casa di tolleranza. In realtà, la polizia talvolta indugiava nell'iscrizione di ragazze molto giovani, anche se in costanza dei requisiti richiesti da regolamento, perché si pensava che il loro comportamento fosse imputabile alla mancanza d'esperienza e le rimandava alle famiglie perché ne garantissero la condotta futura; non mancavano poi casi in cui le famiglie rifiutassero di riprendere le ragazze perché ritenute indomabili e senza possibilità di recupero alcuno. L'iscrizione era spesso evitata alle donne emigrate, incluse le istruite se prive di lavoro, che la polizia dei costumi preferiva rimandare nella città di origine mediante il foglio di via (86) in modo da perpetuare la sorveglianza sulle persone reputate pericolose per l'ordine e, nel caso delle donne disoccupate, la moralità generale.

Oltre alle accuse per reati contro la morale pubblica e reati legati all'attività di prostituzione, che costituivano la maggior parte degli arresti, le prostitute erano spesso arrestate per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale; il fatto che questi superassero gli arresti per reati contro il codice penale, molto inferiori, indica l'immane grado di tensione che percorreva i rapporti tra le prostitute e la polizia, avvertita come organo di un "sistema regolamentazionista repressivo" (87).

Il controllo della polizia continuava anche dopo l'entrata nelle case di tolleranza, generalmente dislocate in zone determinate in modo da rendere più agevole la sorveglianza; questo permetteva l'attuazione, o meglio ribadiva, quelli che Foucault definisce "meccanismi disciplinari" (88) attraverso i quali si praticava il controllo delle persone, in particolare dei corpi; nel caso delle prostitute la "normalizzazione" avveniva all'interno di strutture, che grazie alla loro posizione, venivano sottoposte a "una specie di controllo poliziesco spontaneo esercitato anche attraverso la stessa disposizione spaziale della città" (89). Queste non potevano trovarsi in prossimità di luoghi di culto, edifici adibiti all'educazione, caserme; spesso erano nei quartieri popolari, dove era facile l'integrazione tra le prostitute e le famiglie operaie, accomunate dalle mediocri condizioni di vita. La particolare collocazione si intuisce dalla terminologia usata per descrivere le case di tolleranza, chiamate anche "bordelli" perché, per alcuni, poste ai "bordi" delle città; il Bolis riferisce un'altra interpretazione per cui il termine "deriva, secondo alcuni, dal sassone «bord» e «eau», perché i primi lupanari si apersero sulle rive dei fiumi e negli stabilimenti che servivano ai bagni" (90); altre interpretazioni ancora lo fanno derivare dal francese bord, da cui il provenzale bordel. L'altra accezione con cui si indicano le case di tolleranza, "postribolo" pare più attinente alle strutture in questione poiché corrisponde al direction dell'antica Grecia e al lupanare romano, ossia "il locale pubblico, sorvegliato dallo stato" (91)

Le case erano generalmente abitate da una media di tre prostitute; le donne che volevano esercitare autonomamente dovevano farne richiesta al momento della registrazione (92) al Questore, l'autorizzazione necessitava del consenso del proprietario dell'abitazione ed era data con estrema cautela solo a chi mostrava "una condotta abbastanza regolare" (93), la prostituzione isolata richiedeva una maggiore attenzione nei controlli della polizia poiché le prostitute erano sparse sull'intero territorio cittadino; le difficoltà aumentarono ulteriormente dopo il 1888 quando le case regolarmente registrate diminuirono notevolmente.

Sottoposte a ferree regole, che andavano dall'orario di apertura ai controlli medici sulle ospiti (94), le case di tolleranza erano gestite da tenutarie che avevano il compito di applicare i regolamenti, tuttavia, la stessa struttura delle case, appartate e isolate verso l'esterno (95), facilitava l'elusione delle regole. La tenutaria era di per sé una figura ambigua per il suo simultaneo essere sfruttatrice delle sue dipendenti ma anche loro protettrice dalle molestie e i soprusi della polizia, permettendo così l'instaurarsi di una sorta di alleanza femminile che evitava il ricorso alla protezione maschile, soprattutto nel caso di tenutarie che erano state a loro volta prostitute, il legame era saldato dalla condivisione della medesima sorte e dello stesso astio verso la polizia; tale situazione non valeva, però, in alcune regioni meridionali dove la prostituzione era controllata dalla mafia o dalla camorra.

Molte volte, al contrario, le prostitute si ribellavano fuggendo dalle case per svincolarsi da un vero e proprio sfruttamento cui le tenutarie le sottoponevano; la polizia era chiamata a dirimere le controversie che sorgevano, sovente per denaro, tra le due parti cercando di tutelare l'indipendenza economica delle prostitute poiché era noto che molte tenutarie erano organizzate in una "schifosa lega" (96) tesa a mantenere le ragazze sempre in debito: si diffuse tra le tenutarie la prassi di non assumere ragazze che avessero debiti con un'altra padrona, era questo un modo per aggirare il regolamento che vietava alle tenutarie di trattenere nel bordello una ragazza per debiti (97). La legge non riconosceva questi patti immorali e l'Ufficio Sanitario doveva tutelare la libertà della prostituta che desiderasse cambiare residenza.

Tra i compiti di pertinenza della polizia dei costumi era anche quello di intervenire nel caso di lamentele da parte dei residenti nelle vicinanze delle case di tolleranza; molti "cittadini onesti" denunciavano le condizioni di scarsa igiene e immoralità delle case registrate, la maggior parte dei giudizi di biasimo proveniva da appartenenti alla classe borghese mentre dalle classi inferiori affiorava un senso di tolleranza, quasi vedessero la prostituzione come un passaggio necessario, per quanto squallido e temporaneo, nella vita di queste ragazze. La solidarietà nei loro confronti si spiega con la somiglianza delle condizioni di vita di questi gruppi: le ristrettezze economiche rendevano la prostituzione una pratica cui ricorrevano anche le donne delle classi lavoratrici più basse.

Le forze di polizia raramente rispondeva alle doglianze con la chiusura delle case che, se legalmente registrate, erano viste con favore perché il controllo su queste strutture permetteva loro di "perpetuare un'organizzazione che rendeva più facile la sorveglianza" (98), limitandosi nella maggior parte dei casi a richiami e ammonizioni, al contrario le prostitute clandestine erano immediatamente punite.

Ai sensi dell'articolo 28 del Regolamento Cavour

ogni meretrice, sia poi che dimori in un postribolo, oppure in abitazione particolare, se vuole cangiare d'alloggio, debba prima chiederne l'autorizzazione al Questore o all'Autorità di pubblica sicurezza per mezzo dell'Ufficio Sanitario, il quale emette il suo avviso sulla domanda (99).

Quindi le prostitute avevano contatti con la polizia anche nel caso in cui desideravano cambiare residenza, anche all'interno della medesima città. L'obbligo, in cui rientrava anche quello di chiedere il permesso per potersi assentare più di tre giorni, venne meno con le modifiche del 1888. La polizia concedeva più facilmente le autorizzazioni se le ragazze si spostavano in un'altra casa di tolleranza, mentre le concessioni per avviare un esercizio in proprio erano più rare perché avrebbero reso il controllo delle donne più difficoltoso; tali richieste erano accettate solo per motivi di famiglia o salute. La domanda di trasferimento si riduceva, il più delle volte, ad una mera comunicazione alla polizia con l'impegno di rinnovo della registrazione nella nuova destinazione. Le prostitute potevano, dunque, spostarsi tranquillamente da una casa all'altra e molte si avvalsero di questa facoltà; da tali osservazioni si ricava un'immagine delle case di tolleranza molto diversa da quella generalmente diffusa di luogo in cui le prostitute erano relegate senza possibilità alcuna di uscita.

Vi erano comunque molte che usavano la richiesta di trasferimento come pretesto per sganciarsi dalla sorveglianza della polizia, non ottemperando al rinnovo della registrazione intraprendevano l'attività clandestina; ciò mostra come le prostitute cercavano in ogni modo di sottrarsi alla registrazione che per loro non era solo una "formalità ", come l'ha definita Bolis (100), ma le inseriva in una rete di controllo pressante e, soprattutto, le condizionava socialmente per l'avvenire.

La registrazione presso le liste di polizia aveva, in realtà, un'ulteriore funzione di "servizio pubblico" di informazione alle famiglie che rivolgevano numerose richieste all'autorità per rintracciare e avere notizie delle proprie congiunte. Le comunicazioni, agli inizi del XX secolo, non erano ancora diffuse lungo una rete capillare, il telefono, come mezzo di comunicazione di massa, era privilegio di pochi e i più poveri avevano come unico riferimento la polizia, l'unica ad avere una rete informativa articolata in tutta la nazione e capace di ritrovare persone scomparse. Il controllo da parte della polizia dei costumi si riduceva, nella pratica quotidiana, a ricercare ragazze di cui le famiglie chiedevano notizie.

Nella complessità dei contatti tra le prostitute e la polizia l'ultimo atto era rappresentato dalla richiesta di cancellazione dai registri ufficiali; sebbene l'autorità pubblica non dovesse ostacolare tale volontà, ma anzi favorire il ritorno a una vita onesta, poiché era suo compito "tutelare la pubblica morale, non già di perpetuare il vizio" (101), la domanda era accolta sulla base di precise circostanze: matrimonio, inizio di un lavoro "onesto", malattia, entrata in riformatorio, mantenimento da parte di persona rispettabile. Solo la morte implicava la cancellazione automatica dalle liste di prostituzione.

La cancellazione non era automatica ma avveniva a seguito di un processo graduale, una norma (102) imponeva alla prostituta di sottoporsi a ispezione vaginale settimanale nei tre mesi successivi l'inoltro della richiesta, il tutto al fine di rintracciare eventuali recidive. La visita era dispensata per le prostitute che dimostravano di cessare l'attività per matrimonio (103), perché si riteneva che questo avrebbe ridimensionato la sessualità della donna.

Le prostitute che facevano richiesta di cancellazione per malattia, certificata dal medico, incontravano generalmente il favore della polizia, soprattutto se la donna dava prova di potersi mantenere onestamente una volta cessata la professione; la richiesta veniva respinta anche in caso la donna fosse stata sorpresa ad adescare clienti. Un modo che le prostitute avevano per essere cancellate immediatamente dalle liste di polizia era quello di entrare in riformatorio, sistema poco usato anche per il fatto che molti di questi erano istituti religiosi, o comunque privati, e chiedevano un netto cambiamento di condotta alle donne che vi entravano (104). La polizia, per contro, sollecitava l'apertura di strutture statali sebbene non mancasse di mostrare la sua diffidenza verso un pieno recupero delle prostitute, dal loro punto di vista era più facile per una ragazza giovane mentre, per una prostituta abituale, era quasi impossibile mutare un'inclinazione naturale.

La cancellazione dai registri presupponeva la possibilità di mantenimento autonomo delle ex-prostitute, attraverso un impiego onesto o il sostegno economico da parte di persone rispettabili; nel primo caso la polizia era molto selettiva perché richiedeva alle donne una prova di assunzione, nel caso di molte si trattava di un'occupazione come domestica, che generalmente era quella originaria prima della prostituzione ed era anche la più adeguata a persone generalmente poco istruite. Nel secondo caso, il mantenimento poteva avvenire da parte di amici, parenti o mecenati che assumevano l'impegno di garantire per la donna e per la sua condotta. L'aspetto che più rileva è la scarsità di prospettive che dava l'esercizio della prostituzione all'interno delle case di tolleranza.

Il sistema della regolamentazione, come descritto in relazione alle interazioni tra la donna prostituta e le forze di polizia, mette in luce una diversità d'esecuzione pratica rispetto alla sua concezione teorica. La regolamentazione, in teoria, era concepita in modo da permettere alla polizia un controllo onnicomprensivo della vita delle prostitute: la registrazione avviava un reperimento di informazioni che riguardava ogni aspetto della vita della ragazza iscritta nelle liste di prostituzione; in seguito a ciò erano sottoposte a misure restrittive che le rendeva inferiori agli altri cittadini, inoltre la condizione che derivava dalla registrazione andava oltre la cancellazione, quando concessa, impedendo di fatto una piena riabilitazione in termini sociali. Questa situazione continuò anche con i regolamenti Crispi e Nicotera, che abolirono la registrazione personale a favore di quella dei luoghi di meretricio, ma la provenienza da una casa di tolleranza limitava fortemente le possibilità di impieghi onesti.

Nel suo aspetto pratico, l'esecuzione di regolamenti demandata alla Polizia di Sicurezza era soggetta a varie attenuazioni: la stessa registrazione era influenzata dalla discrezionalità dell'autorità che, come si è detto, preferiva evitarla alle donne sposate o alle giovani; la mobilità delle prostitute mostra come la segregazione auspicata dai regolamenti fosse mitigata dalle tante autorizzazioni ai trasferimenti, con il rischio di favorire l'incremento della prostituzione clandestina. La discrezionalità nell'operato della polizia ripercuoteva i suoi effetti soprattutto sulle donne più povere, prive di lavoro e di mezzi per sopravvivere: queste erano considerate prostitute e venivano registrate senza esitazione, rendendole prigioniere di un'etichetta sociale difficilmente eliminabile. Sorte diversa era riservata alle donne borghesi che esercitavano la prostituzione occasionalmente o alle prostitute che lavoravano nei numerosi postriboli d'alto bordo, la polizia soprassedeva sul controllo perché protetti da clienti di elevati ceti sociali.

Le condizioni sociali e di precarietà economica che portavano una donna verso la prostituzione, anche solo temporanea, rendevano difficile una netta separazione tra le donne lavoratrici "oneste" e le donne prostitute, come era auspicato dal sistema della regolamentazione e come le forze della Polizia di Sicurezza cercavano mettere in pratica, mantenendo con le prostitute dei rapporti sempre molto conflittuali.

3.4.1. Prostitute e medici

I controlli sulla vita di una donna prostituta non riguardavano solo aspetti inerenti la condotta ma attenevano diffusamente la sua salute: una prima ispezione vaginale, più o meno volontaria, al momento della registrazione seguita da una serie di controlli medici durante tutto il corso della professione fino a dopo la cessazione; visite bisettimanali erano previste per le prostitute nelle case di tolleranza ad opera di medici subordinati all'Ufficio Sanitario, dopo il 1888 le tenutarie poterono avvalersi di medici privati.

Le visite mediche si inserivano nell'ampio disegno della regolamentazione di tutelare la salute pubblica, prevenendo il contagio delle malattie veneree e le prostitute costituivano il maggior gruppo di contagio, le riforme sanitarie del 1888 estesero i controlli alla popolazione più povera, così le prostitute divennero uno dei gruppi di infezione.

Dietro la retorica del controllo delle malattie veneree c'era l'obiettivo fondamentale della regolamentazione, ossia quello di disciplinare le classi pericolose. Pur essendo sinceramente preoccupati per la salute pubblica, i medici tendevano [...] a considerare la loro missione come protezione del ceto medio e delle classi elevate dalla contaminazione (105).

In questo impegno di profilassi generale l'importante ruolo dei medici era vincolato al potere di polizia, gli Uffici Sanitari che si occupavano della registrazione delle prostitute erano diretti dalla Polizia di Sicurezza ed è significativo che fino al 1888 fossero gli agenti della polizia dei costumi con il questore, non i medici, a decidere quali donne sottoporre a visita (106). Appare evidente che il reale scopo dell'ispezione era intimidire e scoraggiare le ragazze delle classi popolari dall'intraprendere un certo tipo di vita e indirizzarle a trovare un lavoro diverso. Dal punto di vista dei medici l'ispezione era utile alla prevenzione delle malattie veneree, tuttavia, col trascorrere del tempo aumentò l'insofferenza del personale medico nei confronti delle disposizioni della polizia, i medici iniziarono a orientarsi verso forme di prevenzione diffuse a tutta la popolazione.

All'indomani dell'Unificazione l'apparato sanitario, pur essendo formalmente centralizzato sotto la direzione del ministro dell'Interno, mancava di una solida posizione nella pubblica amministrazione; fu con le modifiche del 1888 che si delinearono le più precise linee della sanità, sulle basi della Polizia di Sicurezza. Furono istituite le figure del Direttore di sanità pubblica e del medico provinciale, corrispondenti al direttore di pubblica sicurezza e del prefetto.

Nonostante la lenta espansione dell'apparato sanitario, la lotta alla sifilide intrapresa fin dal Regolamento Cavour fu decisa e acuta, accogliendo l'opinione medica che definiva la malattia come la peggiore per quel tempo (107). L'azione si articolò in due fasi che caratterizzarono ognuna le posizioni dei medici e le istituzioni; la linea di demarcazione è rappresentata dall'emanazione del Regolamento Crispi nel 1888. Fino a quel momento, abbiamo detto, il personale medico dipendeva direttamente dalla Polizia di Sicurezza che dirigeva l'Ufficio Sanitario, le prostitute registrate erano sottoposte a visite bisettimanali, nelle case di tolleranza o negli Uffici sanitari. La dipendenza dalla polizia si rifletteva anche nei sifilocomi, sebbene in questi prevalesse il personale sanitario.

Nel 1888 il Regolamento Crispi, poi ripreso dal Regolamento Nicotera, apportò ulteriori notevoli innovazioni nel sistema sanitario: gli Uffici Sanitari furono sostituiti da dispensari pubblici accessibili a non degenti e i sifilocomi da reparti specializzati interni agli ospedali. Le nuove strutture resero possibile un nuovo approccio nella lotta alle malattie veneree, per cui tutti erano possibili, legittimi pazienti; sebbene i dati ufficiali riguardino in prevalenza appartenenti alle classi popolari, non si esclude che i ceti più abbienti si rivolgessero a controlli privati.

Con l'abolizione delle visite statali, le tenutarie poterono avvalersi dell'opera di medici privati per garantire il buono stato di salute delle ragazze ospiti delle case; in caso di loro malattie era concessa la possibilità di cura in forma privata, purché l'infetta fosse isolata dal resto delle persone. I medici fiduciari restarono, in certo senso, sotto il controllo dei colleghi statali i quali vigilavano sul loro corretto operato; questo si rendeva necessario per il fatto che molti medici generici, di cui erano parte anche i medici fiduciari, non avevano le adeguate conoscenze in materia di malattie veneree. L'attività di prevenzione era compromessa anche dalle condizioni in cui le visite si svolgevano: l'assenza di strumenti idonei, come speculum (108) o microscopio, faceva sì che le ispezioni fossero superficiali e spesso solo esterne, inoltre la scarsa illuminazione delle stanze, che per regolamento dovevano stare in penombra, aumentava il rischio di diagnosi errate.

Il controllo medico era centrato all'analisi delle sole prostitute, ritenute il principale, e unico fino al 1888, gruppo di contagio della sifilide; la questione era largamente dibattuta tra gli stessi medici, ma si rilevavano anche tra loro pregiudizi legati al sesso e alla classe sociale, per cui si aveva che i medici sostenitori della regolamentazione concordavano pienamente con la soggezione delle prostitute alla normativa statale e, pur riconoscendo il contributo maschile, soprattutto dei militari (109), alla diffusione del contagio, cedevano davanti le necessità sessuali degli uomini. Di tutt'altro avviso i medici abolizionisti che intuivano e ponevano l'accento sull'ipocrisia del sistema, di notevole chiarezza il parere di Bertani: "L'ideale di questa scuola è una legislazione per la vigoria della quale nessun uomo sano trovi una donna infetta, senza però curarsi, per contrapposto, che una donna sana trovi un uomo malato" (110).

Nel descrivere il tipo di approccio che i medici avevano nella lotta alle malattie veneree, occorre aver chiaro che la scienza medica in questo campo era ancora agli inizi. Per tutto il XIX secolo vi fu il dibattito intorno ai caratteri fondanti delle malattie veneree e una diagnosi poté dirsi corretta solo negli anni precedenti la Prima guerra mondiale, mentre non esisteva ancora una cura pienamente efficace. In un contesto così delineato la tutela della salute pubblica venne ampliata dai Regolamenti Crispi e Nicotera (111) sottoponendo a controllo medico tutta la popolazione.

Le prostitute, oggetto principale e diretto di questo sistema di profilassi, avevano nei confronti dei medici visitatori atteggiamenti di resistenza con cui indirettamente osteggiavano l'intera regolamentazione; varie erano le astuzie usate per sottrarsi ai controlli: lasciando false generalità o fingendo indisposizioni, quando non evitavano di presentarsi, non mancavano poi trucchi per nascondere eventuali ulcere genitali. Un comportamento simile, più frequente nelle giovani che sottovalutavano i sintomi della sifilide, derivava anche dalla generale sfiducia che le classi più basse nutrivano nei confronti dei medici preferendo affidarsi alle pratiche di vecchie prostitute che suggerivano rimedi popolari di dubbia efficacia (112). L'astio verso i medici fiduciari era dettato, inoltre, dalla loro collaborazione con la Polizia di Sicurezza: il controllo svolto negli Uffici Sanitari acuiva il senso di repressione delle prostitute.

Queste si opponevano maggiormente alle ispezioni vaginali perché viste come una soggezione all'autorità statale, le donne di classe media le ritenevano una violenza (113) nell'intimità più totale di una donna, i medici tendevano, però, a sminuire tali atteggiamenti che nel caso delle prostitute erano, a parer loro, in contraddizione con la natura stessa del loro mestiere.

La visita, praticata su ogni donna arrestata dalla polizia, era secondo le prostitute principalmente l'atto che segnava il passaggio da "donna onesta" a "donna prostituta".

In caso di malattia le prostitute erano ricoverate nei sifilocomi, perché dovevano essere separate dalle altre donne; tali strutture specializzate somigliavano molto alle prigioni per la loro posizione isolata e la presenza di personale carcerario oltre a quello medico, la degenza era volta alla guarigione fisica ma non era trascurata anche la riabilitazione morale delle ricoverate, infatti si facevano svolgere loro mansioni rieducative (114). Nella realtà la maggior parte delle strutture falliva nell'impresa di rieducazione, cosicché il ricovero era solo un pretesto per l'isolamento delle prostitute infette. Una tale situazione accentuava il senso di oppressione nelle donne rinchiuse per cui erano frequenti le manifestazioni d'insofferenza e proteste all'interno dei sifilocomi: la brama di libertà superava l'interesse per la propria salute.

Le modifiche sanitarie del 1888 cambiarono totalmente la situazione, la lotta alle malattie veneree si ampliò con controlli in dispensari pubblici (115) estesi a tutta la popolazione e i ricoveri divennero volontari, si avviò così una campagna di educazione al riconoscimento dei sintomi.

Le prostitute erano ancora sottoposte a visite bisettimanali, ma queste erano svolte da medici privati di fiducia, il cui operato restava sottoposto al controllo dei medici statali. Quelle che esercitavano clandestinamente si rivolgevano, per le cure, ai dispensari con un'affluenza che negli anni mostrò una maggiore fiducia nei medici e un miglioramento dei loro rapporti.

In base alle nuove norme sanitarie, gli ospedali dovevano dotarsi di reparti specializzati per le malattie veneree, in cui ricoverare anche le prostitute; per garantire una maggiore riservatezza il Regolamento sanitario del 1905 stabiliva di usare solo nomi propri o numeri dei letti per identificare le pazienti, tuttavia alle prostitute era riservato, dal medesimo Regolamento, un trattamento ulteriormente diverso poiché si prescriveva la "separazione delle meretrici dalle altre donne" (116), le prostitute erano ancora relegate nella loro classificazione di donne devianti e per ciò da mantenere separate dalle altre per non contaminarle moralmente. Forse anche a causa di un simile trattamento discriminatorio, la collaborazione con i medici ospedalieri non era sempre facilitata dalle resistenze delle prostitute, contrariamente a quanto accadeva nei dispensari dove i rapporti tra medici e prostitute erano migliori.

Il nuovo sistema sanitario, rendendo i trattamenti sanitari volontari, segnò un notevole passo avanti nel modo di approcciarsi delle prostitute ai controlli medici, molte donne che esercitavano clandestinamente mostrarono nei confronti dei medici una maggiore fiducia poiché, finalmente, li percepivano come organo nettamente separato dalla polizia: le prostitute, sentendosi libere di rivelare la loro professione, ricercavano più facilmente le cure senza il timore che queste comportassero l'arresto. Il fatto che le prostitute potessero scegliere volontariamente quando rivolgersi ai dispensari per richiedere assistenza sanitaria, dove per altro erano trattate al pari degli altri pazienti, rappresentò una delle conquiste maggiori della riforma del 1888; le prostitute mostrarono così una maggiore coscienza per la loro salute. Un ulteriore aspetto da non trascurare è quello per cui la prostituzione clandestina non rappresentava più una preoccupazione, almeno in una prospettiva medica; le donne che lavoravano nelle case potevano avvalersi di cure private. Il trattamento all'interno di dispensari e ospedali era rivolto parimenti alle prostitute e alle altre persone "oneste", ciò mette in luce un crescente avvicinamento delle due categorie sociali rendendo sempre più blanda la politica di separazione e classificazione che la regolamentazione rivolgeva alle prostitute.

La consolidazione dei rapporti tra prostitute e medici era conseguenza diretta dell'assoluta separazione tra l'apparato di Sanità Pubblica e la Pubblica Sicurezza: il Regolamento Crispi aveva svincolato i medici da ogni controllo della polizia. Quest'ultima, tuttavia, risentiva di un simile cambiamento e non accettava lo svuotamento di poteri in materia di sorveglianza sanitaria. L'attività della Polizia di Sicurezza proseguì nel controllo delle case di tolleranza e nel perseguire il mantenimento della moralità pubblica arrestando le passeggiatrici, ma queste non erano più sottoposte a ispezione vaginale.

La riforma sanitaria aveva mutato la prospettiva del controllo sociale: la polizia, privata di molte prerogative sulle prostitute, dovette rimodellare i suoi poteri adeguandoli al nuovo sistema di regolamentazione che adesso vedeva le donne prostitute come soggetti di un problema sanitario, il loro controllo era dunque affidato ai medici. In conformità a tali considerazioni si può affermare che la regolamentazione raggiunse il suo obiettivo originario di profilassi sanitaria solo dopo il 1888; nata dall'esigenza di tutela della salute pubblica nella lotta alla diffusione delle malattie veneree, venne realizzata in concreto come forma di controllo sociale per contenere la classe pericolosa delle prostitute, donne ritenute problematiche soprattutto per la loro devianza morale.

Note

1. G. Campesi, Genealogia della pubblica sicurezza, cit., p. 128.

2. L'articolazione di questi controlli era identificata da una precisa terminologia per cui si parlava di polizia del territorio, polizia economica e polizia della popolazione. A riguardo si veda il testo sopra citato di G. Campesi.

3. Cfr. Ivi, p. 150 e ss.

4. Cfr. D. Melossi, M. Pavarini, Carcere e fabbrica, cit.

5. L'organo integrò al suo interno anche il più antico corpo dei Carabinieri, nato come guardia reale. Cfr. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 184.

6. L. Ferrajoli, Diritto e ragione: teoria e garantismo penale, cit., p. 818.

7. Tali misure presentavano i caratteri peculiari dei provvedimenti amministrativi: discrezionalità d'applicazione e successiva revocabilità o modificabilità. Cfr. Ivi, cit., p. 813.

8. O. Ranelletti, 1904, La polizia di Sicurezza, in Trattato di diritto amministrativo italiano, diretto da V.M. Orlando, IV*, Milano, Società Editrice Libraria, p. 278.

9. Cfr. G. Bolis, La polizia e le classi pericolose della società, cit., p. 17.

10. Cfr. G. Campesi, Genealogia della pubblica sicurezza, cit., p. 226.

11. O. Ranelletti, La polizia di Sicurezza, cit., p. 314.

12. Ivi, p. 345.

13. Una donna poteva essere arrestata con l'accusa di prostituzione anche per il solo fatto di essere disoccupata, ciò bastava per essere iscritta in appositi registri di prostitute tenute dalla polizia. Oltre al controllo di polizia la questione della prostituzione venne regolamentata dallo Stato fin dall'Unità d'Italia.

14. Cfr. G. Bolis, La polizia e le classi pericolose della società, cit., p.11.

15. M. Gibson, Nati per il crimine, cit., p. 112.

16. Quando la Legge Merlin chiuse le case di tolleranza. Cfr. M. Gibson, 1995, Stato e prostituzione in Italia, Il Saggiatore, Milano, p.13.

17. Ivi, p. 31.

18. M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 218.

19. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., p. 147 e ss.

20. Il testo, del 1857, era a sua volta il frutto di originarie disposizioni sperimentali, le "Istituzioni Ministeriali" riguardanti la prostituzione, emanate sempre dal Rattazzi. Per formulare il nuovo Regolamento statale, Rattazzi si avvalse della consulenza del dottor Casimiro Sperino, autorevole esperto di sifilide. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p.39 e ss.

21. La legge che permetteva al Ministro dell'Interno l'emanazione del regolamento era la Legge di pubblica Sicurezza del 13 novembre 1859. A. Morale, Studio della prostituzione nella storia del diritto e nella legislazione vigente, cit., p. 165.

22. Ivi, p.36.

23. Il testo recava una titolazione molto intuitiva in tal senso, fu, infatti, denominato "Regolamento del servizio di sorveglianza sulla prostituzione".

24. Tale pratica non era una novità introdotta dal Regolamento Cavour, ma era retaggio del diritto introdotto durante il dominio francese (1795-1814). Cfr. A. Morale, Studio della prostituzione nella storia del diritto e nella legislazione vigente, cit., p. 34.

25. Le case erano divise in due categorie le cui tariffe variavano dalle 2 lire delle case popolari alle 5 lire per quelle di lusso.

26. Le era richiesto (art. 35) di sottoporsi a visita ginecologica per i tre mesi successivi alla richiesta di cancellazione per individuare eventuali recidive.

27. Cfr. A. Morale, Studio della prostituzione nella storia del diritto e nella legislazione vigente, cit., p.165.

28. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p.46.

29. E. Goffman, 1963, Stigma: l'identità negata, Ombre corte, Verona, 2003, p. 89.

30. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 49.

31. Ivi, p. 50.

32. Cfr. Ivi; R. Canosa, Sesso e Stato, cit., p. 87 e ss.

33. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 66.

34. Il testo fu approvato con R.D. il 29 marzo 1888 ed emanato in tre parti (tra marzo e luglio 1888) "Regolamento sulla Prostituzione", "Regolamento sulla profilassi e sulla cura delle malattie sifilitiche", "Regolamento per i dispensari celtici".

35. A. Morale, Studio della prostituzione nella storia del diritto e nella legislazione vigente, cit., p. 173.

36. Cfr. R. Canosa, Sesso e Stato, cit., p. 67.

37. Ibidem.

38. A. Morale, Studio della prostituzione nella storia del diritto e nella legislazione vigente, cit., p 175.

39. Ibidem.

40. Art. 421 Codice Penale.

41. Approvato con il R.D. n. 605 del 27 ottobre 1891 e denominato "Regolamento sul meretricio nell'interesse dell'ordine pubblico, della salute pubblica e del buon costume".

42. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p 86.

43. Il Regolamento del 1888 togliendo l'obbligo delle visite negli Uffici Sanitari aveva concesso alle tenutarie di ricorrere a medici privati, restavano comunque controlli casuali da parte dei medici di Stato.

44. Regio Decreto 27 luglio 1905, n. 487.

45. I dispensari nazionali vennero chiusi nel 1901 anche a causa di difficoltà economiche del governo.

46. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 105.

47. Ivi, p.108.

48. Sul concetto di prostituta oggetto si veda anche R. Villa, 1981, La prostituzione come problema storiografico, in "Studi storici", 22, p. 312.

49. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 140.

50. La percentuale delle donne lavoratrici diminuì in modo pressoché costante fino alla metà del Novecento, quando la ripresa economica post bellica permise ad un alto numero di donne di ritornare nel mercato del lavoro. Cfr. Ibidem.

51. Ivi, p. 144.

52. Le aspettative di queste ragazze e l'appoggio dei genitori risentiva della tradizione contadina dove le giovani messe a servizio nelle fattorie vicine erano trattare come membri di famiglia più che come dipendenti. Cfr. Ivi p. 148.

53. J. White Mario in J. A. Davis, Legge e ordine. Autorità e conflitti nell'Italia dell'800, cit., p. 258.

54. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 128.

55. Ivi, p. 131; G. Greco, Lo scienziato e la prostituta, cit., p. 41.

56. G. Bolis, La polizia e le classi pericolose della società, cit., p. 878. In qualità di capo della polizia, l'autore ha potuto valersi di un punto di osservazione privilegiato per esaminare la condizione delle prostitute.

57. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 130.

58. Ivi, p. 133.

59. G. Bolis, La polizia e le classi pericolose della società, cit., p. 841.

60. Ivi, p. 882.

61. C. F. Gabba in J. A. Davis, Legge e ordine. Autorità e conflitti nell'Italia dell'800, cit., p. 304.

62. L'allontanamento dalla famiglia e la vita da donne sole e indipendenti esponeva le insegnanti a sospetti di bassa moralità poiché il loro stile di vita era associato ad una certa promiscuità sessuale. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 148.

63. Per potersi spostare le prostitute registrate dovevano avere l'autorizzazione della polizia.

64. Ivi, p. 149.

65. In questo settore erano considerate anche le stiratrici e le lavandaie, occupazioni molto umili e mal pagate, soggette alla mutevolezza dei bisogni dei consumatori. Cfr. Ivi, p. 146.

66. Ivi, p. 149.

67. Bolis stesso riportava che "Il maggior contingente al meretricio lo danno le famiglie dei proletari e degli artigiani", G. Bolis, La polizia e le classi pericolose della società, cit., p. 881.

68. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 149.

69. In questo senso si veda anche A. Morale, Studio della prostituzione nella storia del diritto e nella legislazione vigente, cit., p. 83.

70. Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 9 e ss.

71. Cfr. A. Morale, Studio della prostituzione nella storia del diritto e nella legislazione vigente, cit., p. 43 e ss.

72. N. J. Davis, 1997, Prostituzione in Enciclopedia delle Scienze sociali, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, vol. VII, p.136.

73. Da un punto di vista etimologico il termine "prostituta" deriva dal latino prostituere, esporre pubblicamente, mettere in vendita. Questo deriva dal verbo statuere, che significava collocare, più il prefisso pro- che indica l'idea di fare qualcosa in pubblico. "Prostituta" venne inizialmente usato come participio passivo del verbo. Cfr. N. J. Davis, Prostituzione in Enciclopedia delle Scienze sociali, cit., p. 134; G. N. Lazo, La reglamentatión de la prostitutión en el Estado español. Genealogía jurídico-feminista de lo discursos sobre prostitutión y sexualidad, Tesi doctorical, Departament de Dret Penal i Ciènces Penals, Universitat de Barcelona, p. 72.

74. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 153.

75. G. Bolis, La polizia e le classi pericolose della società, cit., p. 834-835.

76. Cfr. G. Greco, Lo scienziato e la prostituta, cit., p. 56.

77. Il tema dell'etichettatura sociale sarà ripreso e sviluppato in una teoria, "dell'etichettamento" appunto, molti anni dopo da Becker e Lemert che, negli anni Sessanta del Novecento, apportarono una svolta al pensiero criminologico moderno spostando l'attenzione dalla devianza ai processi di controllo sociale. Tale teoria sosteneva che fosse il controllo sociale a condurre alla devianza, attraverso un processo sociale di criminalizzazione, per cui il deviante diventa tale in quanto è stato etichettato in questo modo. (Cfr. D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, cit. p. 184 e ss.). Una donna registrata come prostituta assumeva uno status difficilmente cancellabile agli occhi della collettività, anche a seguito della cancellazione dalle liste: un'impostazione teorica simile può interpretarsi, a ragione, come antefatto storico alla citata teoria.

78. Tra le forze armate del nascente Stato italico erano già i Carabinieri, dipendenti dal ministro della guerra; di nuova istituzione furono le guardie di finanza, forestali, carcerarie e municipali. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 155.

79. Cfr. O. Ranelletti, La polizia di Sicurezza, cit., p. 771.

80. Ivi, p. 811. Il riferimento è agli articoli 337-339 e 490 del codice Zanardelli che disciplinavano la pubblica decenza.

81. G. Bolis, La polizia e le classi pericolose della società, cit., p. 841.

82. Gli agenti non erano i soli a soggetti a spostamento, anche le ragazze erano spostate da una casa all'altra ogni quindici giorni. Cfr. L. Braun, 2004, Lo scialle giallo, Edizioni Clandestine, Marina di Massa, p. 123.

83. I Regolamenti Crispi e Nicotera prevedevano la registrazione dei luoghi e non più delle persone.

84. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 171.

85. Le pene più frequenti erano multe fino a 50 lire o la detenzione per cinque giorni. Rileva anche il dato che le prostitute erano più spesso arrestate per infrazioni ai regolamenti che per reati contro il codice penale, nonostante la fama di frequentazioni con la criminalità.

86. Mezzo con il quale la Polizia di Sicurezza rimpatriava un soggetto, il documento conteneva i dati dell'individuo e l'ordine di trasferimento al proprio comune seguendo un itinerario prestabilito e obbligatorio; arrivato a destinazione il soggetto doveva presentare il foglio di via all'autorità locale nel termine prescritto. Cfr. O. Ranelletti, La polizia di Sicurezza, cit., p. 1037.

87. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 180.

88. M. Foucault, Bisogna difendere la società, cit., p. 217.

89. Ibidem.

90. G. Bolis, La polizia e le classi pericolose della società, cit., p. 915.

91. F. Pautrier, 1968, Sessuario. Dizionario sessuologico, Edizioni mediterranee, Roma, p. 271.

92. Art. 17 del regolamento Cavour.

93. G. Bolis, La polizia e le classi pericolose della società, cit., p. 888.

94. Il rispetto di queste regole era vigilato dalla polizia che effettuava controlli nelle case in qualunque orario volesse, anche oltre la chiusura in caso di necessità con possibilità d'accesso nelle stanze. La legge, comunque, limitava tali facoltà stabilendo l'accesso a soli due agenti in uniforme. Cfr. O. Ranelletti, La polizia di Sicurezza, cit., p. 330.

95. Le finestre delle case dovevano restare chiuse o comunque oscurate. Il Regolamento Crispi prescrisse espressamente che non poteva esserci più di una porta d'accesso (Cfr. A. Morale, Studio della prostituzione nella storia del diritto e nella legislazione vigente, cit., p. 187). Alcune case più lussuose, infatti, avevano un accesso secondario riservato alla clientela di riguardo (politici, generali, personaggi noti) cui era riservata una sala d'attesa privata. I clienti dei bordelli, in ogni caso, dovevano essere maggiorenni (Cfr. L. Braun, Lo scialle giallo, cit., p. 122-123).

96. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 181.

97. Le ragazze che entravano nelle case di tolleranza ricevevano dalla tenutaria tutto ciò che serviva loro, dalla biancheria alla mobilia, e queste potevano riscattare quanto acquisito mediante le trattenute dalla paga. Le tenutarie, per contro, applicavano prezzi elevati che rendevano difficile il saldo. Cfr. A. Morale, Studio della prostituzione nella storia del diritto e nella legislazione vigente, cit., p. 140 e ss.; G. Bolis, La polizia e le classi pericolose della società, cit., p. 926.

98. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 185.

99. Si veda anche G. Bolis, La polizia e le classi pericolose della società, cit., p. 889.

100. Ivi, p. 854.

101. Ivi, p. 905.

102. Art. 35 del Regolamento Cavour.

103. Cfr. G. Bolis, La polizia e le classi pericolose della società, cit., p. 907.

104. Degli istituti finalizzati al recupero delle prostitute si parlerà più ampiamente in seguito, in relazione alla campagna contro la tratta delle bianche.

105. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 206.

106. Questa precisazione pare più convincente e più attinente alla situazione reale, sebbene non siano mancate interpretazioni diverse: Villa, ad esempio, dà una maggiore importanza al ruolo dei medici elevandoli a "figura principale del meccanismo di controllo sociale". R. Villa, La prostituzione come problema storiografico, cit., p. 312.

107. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 198.

108. In ostetricia è un dispositivo utilizzato per visualizzare la vagina e la cervice. J. C. Segen, 2007, Dizionario di Medicina moderna, McGraw-Hill, Milano.

109. L'esercito era l'unico gruppo sociale ad essere sottoposta a controllo medico, ne erano esentati gli ufficiali. L'obbligo si estendeva a tutte le forze di polizia disciplinate militarmente. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 206; G. Bolis, La polizia e le classi pericolose della società, cit., p. 964.

110. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 205.

111. Le modifiche sanitarie vennero riconosciute anche nella Legge sulla Sanità Pubblica del 1905.

112. Le guaritrici popolari spesso erano state a loro volta prostitute e infondevano nelle giovani maggiore fiducia.

113. Jessie White Mario definì la visita forzosa uno "stupro". Cfr. R. Macrelli, 1981, L'indegna schiavitù. Anna Maria Mozzoni e la lotta contro la prostituzione di Stato, Editori Riuniti, Roma, p. 150.

114. Alle pazienti era richiesto il rifacimento del proprio letto e la collaborazione nelle pulizie; erano sollecitate nella lettura di testi morali o altre occupazioni istruttive. Cfr. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p. 224.

115. Il Regolamento Sanitario del 1905 li rese obbligatori per i comuni di grandi dimensioni e stabilì la gratuità per i trattamenti effettuati in queste strutture.

116. M. Gibson, Stato e prostituzione in Italia, cit., p.243.