ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo I
I diritti collettivi nell'ambito della tematica multiculturalista: Taylor e Habermas a confronto

Rosaria Pirosa, 2009

1.1.1 Premessa

Il multiculturalismo deve essere concepito in primis come un fatto, non può essere descritto nei termini di un modello inconciliabile con l'impianto liberale degli stati democratici nazionali, né può essere esaurito nella dimensione di un dibattito teorico che polarizza il rapporto individuo/comunità. Più specificamente esso costituisce un complesso di sfide alla capacità inclusiva e ordinativa della politica e del diritto. Ai postulati dell'universalismo liberale astratto, il multiculturalismo oppone l'appartenenza sostanziale ad un'entità collettiva che ha il nome di "cultura" e a volte di "etnia". Come insieme di fenomeni empirici e come orizzonte di problemi che solleva, il multiculturalismo interpella a vario livello e con varia intensità le scienze umane, sociali, filosofiche, giuridiche, politiche, ponendo loro, in forme nuove, le questioni del pluralismo all'interno dell'unità dello stato costituzionale, del rapporto tra universalismo e particolarismo, del diritto come neutralizzazione e come vivificazione delle differenze culturali. Accanto ai diritti universali, emerge il diritto alla particolarità, un diritto non attribuibile in linea primaria agli individui singoli ma a gruppi e collettività, un diritto connesso all'identità culturale. Il fulcro concettuale del dibattito teorico multiculturalista verte sulla opportunità di prevedere accanto al catalogo liberale dei diritti riconosciuti al singolo individuo, diritti collettivi, attribuibili in funzione dell'appartenenza di gruppo e riconducibili alla titolarità di un'identità culturale.

Un importante contributo nella tematizzazione dei cedimenti del paradigma di tutela liberale proviene dalla riflessione di Charles Taylor e, per opposizione, dal pensiero di Jurgen Habermas.

I due autori costituiscono le voci principali nell'ambito del dibattito teorico che ha condotto in superficie i limiti del liberalismo proceduralista. Entrambi rilevano la centralità del concetto di riconoscimento rispetto ad ogni problematica che si riconduca alla tematica multiculturalista ed evidenziano l'infondatezza della pretesa di neutralità dello stato liberale democratico rispetto alle differenze. Se si considerano questi due nuclei tematici, con riguardo al dibattito teorico sul multiculturalismo, diventa difficile collocare le analisi dei due autori su un piano di opposizione (1).

Habermas, infatti, pur teorizzando l'esaustività del sistema dei diritti di taglio individualistico, con la sua nozione di "pregnanza etica" dello stato, garantisce in controluce una lettura delle falle del modello proceduralista dello stato eticamente neutrale; al medesimo esito, attraverso una critica del paradigma liberale comprendente anche la sua versione inclusiva, giunge Taylor.

Il principale punto di frizione tra le elaborazioni dei due filosofi è dunque rappresentato dall'opportunità o meno di riconoscere ed attribuire i diritti collettivi. La tensione dialettica che contraddistingue il confronto tra Taylor e Habermas nasce in prevalenza da questo tema-conduttore. Sembra comunque riduttivo ricondurre la loro contrapposizione al contrasto tra liberali e comunitari. In particolare sembra possibile sostenere che le concezioni di entrambi gli autori includano un superamento delle posizioni essenzialistiche e decontestualizzanti del concetto di cultura, che costituiscono le sotterranee premesse del liberalismo neutralista cieco alle differenze e parimenti di un multiculturalismo decostruzionistico che si appropria delle medesime derive finalistiche ed etnocentriche, pur pretendendo, talvolta, di esserne agli antipodi.

Per Taylor l'antitesi liberals/communitarians è determinata dalla confusione tra questioni ontologiche e questioni di "advocacy". Secondo Taylor non si può prescindere da un'ontologia dell'identità e della comunità, per contro, sviluppare un'ontologia non equivale a propugnare qualcosa (advocating).

"Le questioni ontologiche riguardano ciò a cui si riconosce lo status di fattore da invocarsi per rendere conto della vita sociale. O per dirla in modo "formale", riguardano i termini che si accettano come elementari nell'ambito della spiegazione. Il grande dibattito in questa area, che ha imperversato per più di tre secoli, divide atomisti e olisti, come suggerisco di chiamarli [...] Le questioni di advocacy riguardano la posizione morale o politica che viene adottata" (2).

Gli atomisti o individualisti metodologici ritengono che nell'ambito della spiegazione si può e si deve rendere conto delle azioni, delle strutture e delle condizioni sociali in termini di proprietà degli individui partecipanti, correlativamente essi sostengono che nell'ambito della deliberazione si può e si deve tenere conto dei beni sociali in termini di insiemi di beni individuali. Se si transita dal piano dell'ontologia sociale a quello delle questioni di advocacy, esiste una gamma di posizioni, che, ad un estremo conferiscono priorità ai diritti e alla libertà individuale, e all'altro estremo conferiscono una priorità più elevata alla vita della comunità o al bene delle collettività. Tali posizioni possono essere descritte come individualiste e collettiviste. Per l'autore canadese l'ideologia conduce a collocarsi su uno dei due estremi (3).

"Ora, quando ci si riferisce ai 'liberali' e ai 'comunitaristi', spesso si parla come se ciascuno di questi termini descrivesse un pacchetto di concezioni che connettono le questioni ontologiche alle questioni di 'advocacy'" (4). L'autore prosegue:

"I termini ombrello "liberale" e "comunitarista" dovrebbero probabilmente essere mandati al macero prima che possiamo superare questi fraintendimenti, perché essi portano con sé l'implicazione che esiste qui una sola questione, o che la posizione di qualcuno su una delle questioni determina il suo pensiero riguardo all'altra. Ma una veloce occhiata alla gamma delle posizioni filosofiche reali mostra esattamente il contrario. Ciascuna posizione del dibattito atomismo-olismo può essere combinata con ciascuna delle posizioni sulla questione individualismo-collettivismo" (5).

Il modello atomista e il modello olista si legano a due diverse concezioni del sé e dell'identità: il sé "unencumbered" (6) in antitesi al sé situato. Taylor giunge ad affermare che un'ontologia olistica non si pone in contrapposizione, sul piano dell'advocating, con il liberalismo; anzi poggiare l'impianto liberale su uno sfondo olistico pone alcune questioni circa la reale praticabilità di tale opzione. Per l'autore canadese un'ontologia sociale permette di strutturare il campo delle possibilità e concorre a definire le opzioni che devono essere sorrette per mezzo e sul piano dell'advocacy.

Taylor sostiene che un sé totalmente "unecumbered" sia umanamente impossibile, così come il modello atomistico estremista di una società sia una chimera. Il legame dell'individuo alla comunità, inoltre, non muove soltanto da un "enlightened selfinterest" (7). Il puro interesse egoistico razionale non si pone alla base del legame sociale, piuttosto ciò che soggiace a quest'ultimo è l'identificazione patriottica (8). In questo senso, Taylor e Habermas, concorrono ad eccepire la nozione di neutralità dello stato. Il liberalismo proceduralista assorbe in sé una contraddizione rafforzata: alla circostanza che lo stato liberale procedurale si caratterizza in realtà per ciò che Habermas chiama "patriottismo costituzionale", si coniuga l'impossibilità pragmatica dell'estensione del concetto di neutralità in alcune specifiche direzioni. Per Taylor, infatti, lo stato liberale procedurale ha più chances di mantenersi effettivamente neutrale fra coloro che credono in Dio e coloro che non credono, o fra persone con orientamenti omosessuali ed eterosessuali, non può esserlo tra patrioti e anti patrioti.

L'ontologia dell'identità tayloriana - in termini analoghi è possibile inquadrare la posizione di Habermas - converge su un sé relativamente situato o relativamente "unecumbered". In questo senso si chiarisce il pensiero secondo cui entrambi gli autori si pongono agli antipodi di concezioni essenzialistiche e decontestualizzanti del concetto di cultura. La cultura per l'individuo non è un fardello, mentre finisce per esserlo per lo stato liberale procedurale (9).

Quale che sia l'ambito disciplinare nel quale si affronti la tematica multiculturalista, preliminare e intrinseca a qualsiasi discorso multiculturale è la nozione di cultura.

Tra quelle esistenti risulta particolarmente congrua alla prospettiva multiculturalista tayloriana la nozione socio-antropologica di cultura proposta da Clifford Geertz: "La cultura è il sistema, insieme, o rete di simboli, credenze, valori, costumi, riti che rende specifica una società e che, in qualche misura, condiziona i suoi membri" (10). In essa il condizionamento culturale non viene dilatato e ipostatizzato, mentre è assunto come parziale ed intrinseco, la cultura non è un'entità che possa giustapporsi all'individuo, né precederlo. La cultura, poi, viene concepita in rapporto al singolo e in rapporto alla società, in riferimento a quest'ultimo elemento non si prevede alcun ancoraggio né alcun transito necessitato alla dimensione dello stato-nazione.

A tal proposito, la suddetta nozione non esclude, anzi implica il concetto di cultura deterritorializzata. La possibilità di concepire la cultura come esistente a prescindere da un determinato territorio, ma nel modus vivendi degli individui che in essa si sono formati, assesta il baricentro della tematica dei diritti collettivi in un senso più comprensivo: ciò che è in gioco non è soltanto il riconoscimento di situazioni giuridiche collettive nei confronti delle 'minoranze statali', il problema verte, anche e principalmente, sull'opportunità di prevedere diritti collettivi a favore di gruppi minoritari migranti, marginalizzati, etnicamente diversi nei paesi di insediamento (11).

E'necessario porre qualche chiarimento in merito alle ragioni per cui adottare questo o quel concetto di cultura, e ciò che esso sottintende, costituisce una scelta rilevante nell'ambito della trattazione di qualsiasi tematica o sotto-tematica che riguardi il multiculturalismo. Per le stesse motivazioni, un altro importante uso concerne il termine "etnia" (12). La cultura non è un prius, l'individuo non è un posterius (13), a tal fine risulta particolarmente congrua una nozione di cultura che rilevi il condizionamento culturale come ineliminabile ma sottodimensionato rispetto all'orizzonte di opzioni che l'individuo può discrezionalmente esercitare. La cultura non è qualcosa che acceda senza mediazioni ad un ordinamento giuridico. Le culture non sono ipostasi, né entità sclerotiche, impermeabili ed isolate.

A questo proposito, nell'offrire un'istantanea del fenomeno multiculturalista è possibile riferirsi a quanti lo riconducono "all'idea di una pari dignità da riconoscersi alle espressioni culturali dei gruppi e delle comunità che convivono in una società democratica e all'idea che ciascun essere umano ha diritto a crescere dentro una cultura che sia la propria e non quella contingentemente maggioritaria nel contesto socio-politico entro cui si trova a vivere" (14).

La definizione configura le relazioni tra un ordinamento giuridico e le minoranze che risiedono al suo interno in modo che il primo debba consentire a coloro che si identificano "culturalmente" con una specifica comunità, di mantenere, salvaguardare, promuovere quella differenza culturale, la cui dignità e peculiarità deve essere riconosciuta e rispettata anche dagli altri. Questo implica che i pubblici poteri, ma anche la società nel suo insieme, "riconoscano l'eguale valore di culture diverse" e che ottemperino alla "richiesta di non lasciarle solo sopravvivere, ma di prendere atto che sono preziose" (15).

Alla luce di questa distinzione nucleare, nell'ambito della tematizzazione della cosiddetta "politica del riconoscimento" sviluppata da Taylor, è opportuno porsi un primo interrogativo, le cui implicazioni saranno chiarite nel corso dell'esposizione. Uguaglianza e dignità costituiscono l'endiadi concettuale di una politica e di un diritto che possa recepire al suo interno istanze multiculturaliste? Ove si giungesse a parlare di costituzionalizzazione del multiculturalismo e a teorizzare la recezione nell'ambito del diritto costituzionale di istanze multiculturaliste, tale processo potrebbe dirsi ultimato alla luce della previsione e del rispetto di un principio di eguale dignità?

Un tentativo di risposta ai suddetti interrogativi richiede che ci soffermi preliminarmente sul concetto di riconoscimento e su una filiazione più specifica e, al tempo stesso, onnicomprensiva di tale concetto: il fascio di implicazioni antropo-sociologiche, filosofiche, storiche e giuridiche che sottendono la nozione tayloriana di "politica del riconoscimento". Da tale approdo teorico, come si è accennato, non prende le distanze Jurgen Habermas, il quale mette a fuoco il paradigma del riconoscimento attraverso l'attualizzazione storico-politica che esso riceve nella forma dello stato democratico di diritto, se Taylor conia l'espressione "politica del riconoscimento", Jurgen Habermas mette a punto il concetto di "lotta per il riconoscimento nello stato democratico di diritto". Evidenziamo anticipatamente l'esito cui giunge Habermas per sostenere che una tutela compiuta ed effettiva può essere conseguita per il tramite di un paradigma individuale, rendendosi così superflua l'attribuzione di diritti al gruppo: Habermas descrive l'intersoggettività come un nucleo costitutivo dell'identità individuale; calare l'intersoggettività all'interno di questa dimensione configura il soggetto del riconoscimento come un soggetto individuale. Taylor, invece, articola le complesse dinamiche del riconoscimento tra i gruppi e gli individui che compongono tali gruppi. E' indubbio che la domanda di riconoscimento sia resa più pressante, e correlativamente decisiva, dal legame che si presume esista tra riconoscimento e identità, laddove il secondo termine indica la visione che una persona ha di quello che è, delle caratteristiche fondamentali che la definiscono come essere umano, ma è altrettanto evidente, come affermerà più estesamente Taylor, che l'identità non ha una derivazione monologica.

1.1.2 Prodromi storico-filosofici dello strumentario concettuale e linguistico del dibattito multiculturalista nella tesi di Charles Taylor: identità e riconoscimento

La tesi è che la nostra identità sia plasmata, in parte dal riconoscimento o, spesso, da un misconoscimento da parte di altre persone, per cui un individuo o un gruppo può subire un danno reale, una reale distorsione, se le persone o la società gli rimandano come uno specchio, un'immagine di sé che lo limita o sminuisce o umilia (16).

Il concetto di specchio nella tesi di Taylor è destinato a restituire l'idea del rimbalzo dell'immagine di un individuo o di un'entità collettiva e della decisiva unilateralità del gruppo che contribuisce preminentemente a delinearla; lo specchio, nella riflessività antropologicamente intesa, allude, invece, ad un campo relazionale in cui l'essere umano, nel vedere il proprio simile, scorge se stesso, diverso e uguale. Etimologicamente lo stesso termine àntropos, uomo, rimanda al greco katòptron, specchio, il che evidenzierebbe l'imprescindibilità del carattere relazionale del concetto di persona; la modalità gerarchica che può annidarsi nelle relazioni umane determina, però, un travisamento sostanziale del "venire in rapporto", mutando da virtuoso in vizioso il circolo della comunicazione. Prosegue Taylor: "Il non riconoscimento o misconoscimento può danneggiare, può essere una forma di oppressione che imprigiona una persona in un modo di vivere non autentico, distorto e impoverito" (17).

E' evidente che attorno a queste importanti riflessioni non si è articolato soltanto il pensiero di Taylor, la pensava così anche la Corte Suprema degli Stati Uniti quando, nel 1954, nell'ambito del caso giudiziario Brown, recepì i risultati del cosiddetto doll test (18). Eteropercezione verso il gruppo e verso l'individuo appartenente a quel gruppo ed autopercezione da parte del gruppo e dei singoli individui che compongono il gruppo viene a coincidere. "Il modo di vivere inautentico, distorto e impoverito" cui si riferisce Taylor, discende proprio dalla circostanza che la complessa oscillazione e combinazione di movimenti autopercettivi ed eteropercettivi che contribuiscono a delineare l'identità individuale viene ad essere sostituita dal totale appiattimento del versante autopercettivo su quello eteropercettivo (19). Stando a questa tesi, nella storia, la devalorizzazione di sé degli afroamericani è diventata e diventa tuttora uno dei principali strumenti della loro oppressione, la premessa costitutiva di una reale emancipazione consisterebbe nel liberarsi da questa identità eteroimposta e autodistruttiva. Analogamente, alcune femministe hanno affermato che nelle società patriarcali le donne sono state indotte ad accettare un'immagine di sé stesse svalutativa; hanno interiorizzato la rappresentazione della propria inferiorità al punto che, al venire meno degli ostacoli oggettivi alla loro emancipazione, sono state incapaci di sfruttare nuove opportunità. Frantz Fanon nel suo influente e celebre Les damnés de la terre (20) ha sostenuto che la principale arma dei colonizzatori è stata l'imposizione ai popoli sottomessi dell'immagine che essi avevano dei colonizzati, questi ultimi per liberarsi hanno dovuto innanzitutto purgarsi di tale avvilente immagine di sé (21).

Il non riconoscimento o il misconoscimento è contiguo all'etichettamento, sull'importanza decisiva per gli etichettati dell'immagine prodotta dalla società di riferimento si è pronunciato anche Edwin Lemert, focalizzando la sua labeling theory proprio sul ruolo genetico dell'etichettamento rispetto alla devianza; sarebbe il controllo sociale quale epifenomeno dell'etichettamento a generare la devianza e non la stessa a dare luogo al controllo sociale (22). Un altro autorevole labeling theorist Howard Becker, ha sostenuto che il carattere deviante di un atto risiede nel modo in cui questo è definito dalla mentalità pubblica (23).

Per esaminare alcune delle questioni che discendono da queste considerazioni occorre fare un passo indietro e prendere le distanze dall'ormai irriflesso strumentario teorico che presiede alla discussione della tematica finora introdotta: con un'operazione di straniamento non è difficile rendersi conto di come sia diventato familiare o almeno facilmente comprensibile questo discorso in termini di riconoscimento e di identità.

Non lo è sempre stato, Michel Eyquem de Montaigne ci avrebbe guardato senza capire se avessimo usato questi termini nel loro senso attuale (24). Quali mutamenti sono intervenuti affinché questo tipo di discorso sia giunto ad acquistare un senso per i contemporanei? E' possibile distinguere due cambiamenti che, uniti, hanno reso inevitabile la preoccupazione tutta moderna per l'identità e il riconoscimento. Come rileva Taylor, il primo è il crollo delle gerarchie sociali che un tempo costituivano la base dell'onore. Il termine onore deve essere inteso nel senso intrinsecamente legato alla disuguaglianza dell'ancien régime: perché qualcuno abbia onore, secondo questo paradigma storico-concettuale, è essenziale che non lo abbiano tutti. E' questa l'accezione in cui Montesquieu usa il termine nella sua descrizione della monarchia; l'onore è, per sua natura, una questione di préférences (25). Ed è anche l'accezione in cui usiamo il termine quando parliamo di onorare qualcuno, dandogli una pubblica onorificenza (26).

"A questa nozione di onore si oppone quella di dignità che oggi adottiamo in senso universalistico ed egualitario quando parliamo dell'intrinseca "dignità dell'uomo" o della dignità del cittadino, comune a tutti" (27).

E' possibile constatare come il primo termine della supposta endiadi dignità-eguaglianza o la stessa endiadi entri nell'orizzonte concettuale politico-giuridico degli stati-nazione all'indomani del 4 agosto del 1789. "La famosa notte del 4 agosto del 1789 l'Assemblea rivoluzionaria cancella con un tratto di penna la struttura cetuale che aveva retto l'Europa continentale dal Medioevo fino alla vigilia della Rivoluzione" (28). Il decreto del 4 agosto del 1789 abolisce la differenziazione giuridica tra soggetti, a tale atto seguirà immediatamente la "Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino" (29). In questa matrice storica si radica l'esaltazione in senso universalistico ed egualitario del modello di tutela liberale. La refrattarietà alla differenza e a trattamenti differenziati, in una parabola teorica di scarso rigore epistemologico, viene ricondotta al più grosso transito verso la modernità, alla conquista che la Rivoluzione francese ha prodotto: l'abolizione degli status. "E dopo che si è conquistata l'eguaglianza non si può tornare al privilegio". In realtà alle analisi più profonde non sfugge che la distorsione dell'eguaglianza in astratto egualitarismo ha una facies storicamente ancor più privativa, non può sfuggire la circostanza che gli ideali egualitari rimasero aproblematicamente inapplicati per i popoli colonizzati, per le donne e gli schiavi (30). A questa osservazione non è possibile obiettare che era in gioco l'eguaglianza de iure, non quella de facto, evidentemente soltanto un grossolano anacronismo potrebbe far risalire alla Rivoluzione francese il principio di eguaglianza sostanziale. Questo ci serve per sostenere, però, l'anacronismo non meno palese in cui si incorrerebbe allorché si sostenesse che al riconoscimento dell'eguale dignità siano costitutivi profili di realizzazione dell'eguaglianza sostanziale. Dignità ed eguaglianza non condensano appieno le istanze multiculturaliste della politica del riconoscimento.

"Il concetto di dignità in senso universalistico ed egualitario è l'unico compatibile con la società democratica, ed era inevitabile che sostituisse il vecchio concetto di onore; ma ciò ha anche comportato il fatto che le forme di uguale riconoscimento diventassero essenziali per la cultura democratica. [...] La democrazia ha introdotto una politica dell'uguale riconoscimento che nel corso degli anni ha assunto varie forme e ora ritorna come richiesta di parità delle culture e dei generi" (31).

La politica del riconoscimento, dunque ha due volti e due componenti: la politica dell'uguale dignità generata dal passaggio storico descritto, la politica della differenza originata dalla nascita della nozione moderna di identità, di cui si tracceranno le linee essenziali. Entrambe sono decisive ed entrambe hanno una matrice universalistica. A questo proposito Taylor sostiene:

"Ciò che si afferma con la politica della pari dignità è voluto come universalmente uguale, come un bagaglio universale di diritti e di dignità; la politica della differenza chiede, invece, di riconoscere l'identità irripetibile di ognuno, distinta da quella di chiunque altro, di questo individuo o questo gruppo. L'idea nucleare è che proprio questa differenza sia stata ignorata, trascurata, assimilata ad un'identità dominante o maggioritaria. E tale assimilazione è il peccato capitale contro l'ideale dell'autenticità" (32).

Secondo l'autore canadese, infatti, la nuova visione dell'identità individuale, in virtù della quale è preferibile parlare di identità individualizzata, nasce insieme ad un ideale, quello della fedeltà a se stessi e al proprio modo particolare di essere, che il filosofo, seguendo il brillante saggio di Lionel Trilling, chiama ideale dell'"autenticità" (33). E' possibile affermare sin da ora che è in ragione dell'imprescindibilità dell'esistenza dei due volti della politica del riconoscimento, segnatamente in ragione dell'ineliminabile componente della politica della differenza, che Taylor non può accogliere l'ideale rousseauviano dell'uguale dignità, per cui l'identità dell'individuo viene ridotta ad un'identità universale ed onnicomprensiva, costituita dalla cittadinanza.

Taylor rileva al contempo come Jean Jacques Rousseau abbia contribuito significativamente ad articolare l'ideale dell'autenticità, anche se, in coerenza con quanto precedentemente affermato, è Herder ad associare a quest'ultimo ideale il concetto di unicità.

"Una delle possibili descrizioni che la storia fa di questo ideale lo fa risalire all'idea settecentesca che gli esseri umani siano dotati di una percezione intuitiva del giusto e dell'ingiusto. L'idea base era che la comprensione del giusto e dell'ingiusto non si riducesse ad un arido calcolo ma fosse ancorata ai sentimenti umani. La moralità possedeva in un certo senso una voce interiore. La nozione di autenticità nasce da uno spostamento dell'accento morale entro questa idea di voce interiore" (34).

Per Taylor lo spostamento dell'accento morale ha luogo quando il contatto con i propri sentimenti assume un significato indipendente e cruciale, fino a diventare qualcosa che è necessario realizzare se si vuole raggiungere una dimensione di completezza. Taylor coglie questo transito verso una nuova concezione morale nel contributo di Rousseau, nell'elaborazione rousseauviana l'autore individua il passaggio da concezioni morali più risalenti in cui era il contatto con Dio o l'idea del bene ad essere cruciale per la completezza dell'individuo ad una nuova visione in cui la salvezza morale proviene dal recupero di un contatto morale autentico con se stessi. Rousseau dà un nome al quel contatto intimo con sé più cruciale di qualsiasi idea morale: le "sentiment de l'existence".

Secondo Taylor come si è accennato, l'ideale dell'autenticità diventa fondamentale grazie ad uno sviluppo che è posteriore a Rousseau e che può associarsi al nome di Herder; egli articola il senso di un concetto già virtualmente presente nella svolta soggettivistica della cultura moderna. Herder propone l'idea che ogni individuo abbia un modo originale di essere uomo: ogni persona ha una sua "misura". Herder introduce un'idea nuova: attribuisce alle differenze tra gli esseri umani un significato morale distintivo, associando all'importanza del contatto con se stessi l'introduzione di un principio di originalità, in virtù del quale ogni voce interiore è contraddistinta da una sua unicità.

Occorre notare che Herder applica il suo concetto di originalità a due livelli, non solo alla persona tra le persone, ma anche ai popoli fra i popoli: un Volk come un individuo, dovrebbe essere fedele a se stesso, cioè alla propria cultura. In questo è riconoscibile il germe del pensiero nazionalistico moderno, sia nella sua origine storica che nei suoi esiti distorti.

Secondo Taylor anche questo nuovo ideale di autenticità costituisce in parte una filiazione del declino dell'organizzazione gerarchica, l'originalità di ciascuno non può per definizione essere derivata socialmente, si deve generare interiormente. "La natura del processo è tale che, ontologicamente, non esiste una generazione interiore monologica" (35).

L'orientamento prepotentemente monologico della filosofia moderna ha reso invisibile un aspetto cruciale della vita umana: il suo carattere fondamentalmente dialogico (36).

Siamo giunti ad un aspetto essenziale nel rapporto tra identità e riconoscimento. La nascita del concetto di identità generata interiormente dà una nuova importanza al riconoscimento. L'identità dipende in modo decisivo ed ineliminabile dalle relazioni dialogiche con gli altri. In questo senso risulta cruciale il contributo dell'interazionismo simbolico e del suo fondatore. Taylor cita opportunamente George Herbert Mead e la sua nozione di altri significativi. Nessuna analisi psico-antropologica successiva prescinderà da questo concetto. Veniamo introdotti al linguaggio attraverso l'interazione con persone che per noi sono importanti, gli altri significativi. In questo senso la genesi della mente umana non è monologica, non è un qualcosa che ciascuno realizza individualmente, ma è dialogica. "Si noti, peraltro, che questo non è un fatto che riguardi soltanto la genesi e possa essere poi ignorato" (37). Dunque il contributo degli altri significativi prosegue indefinitamente. L'ideale monologico sottovaluta il ruolo che la dialogicità riveste nella vita umana, cerca di confinarla nel momento della genesi e dimentica che la nostra Weltanschauung può essere influenzata dagli altri significativi. L'eterodipendenza non è nata con l'ideale dell'autenticità, l'identità derivata socialmente dipendeva, per sua stessa natura dalla società. Nell'epoca della differenziazione gerarchica, però, il riconoscimento non destava problematiche: c'era un riconoscimento generale, connaturato all'identità derivata socialmente per la ragione costitutiva che quest'ultima si basava su categorie sociali condivise da tutti e da tutti assunte come ovvie.

Un'identità generata interiormente, invece, un'identità personale, originale non fruisce di questo riconoscimento a priori; deve conquistarselo attraverso uno scambio e può non riuscire nel tentativo.

Con l'età moderna non è nato il bisogno di riconoscimento, sono nate le condizioni nelle quali il tentativo di farsi riconoscere può fallire, ed è da ciò che discende la consapevolezza del bisogno di riconoscimento. Il riconoscimento non rappresenta, in tal modo, una conseguenza irriflessa dell'Esserci di ciascuno.

Nella coscienza premoderna non dimoravano i concetti di identità o riconoscimento non perché gli uomini non avessero un'identità o perché le loro identità non dipendessero da un riconoscimento, ma perché queste categorie non erano suscettibili di una sufficiente problematizzazione, né dunque di una successiva tematizzazione.

Assai influente risulta l'analisi hegeliana del riconoscimento, Taylor, infatti, mutua il termine "riconoscimento" dal celebre episodio della lotta tra due autocoscienze, esposto nella Fenomenologia dello spirito (38) di Hegel (39).

Al livello del singolo individuo possiamo vedere fino a che punto un'identità originale abbia bisogno di un riconoscimento concesso da altri significativi e sia vulnerabile ad un suo rifiuto, sul piano sociale la comprensione del fatto che le identità si formano attraverso rapporti dialogici aperti che non hanno la forma di un copione sociale predefinito, ha reso la politica del riconoscimento fondamentale. L'uguale riconoscimento non è soltanto la modalità appropriata di una società democratica salubre, il suo rifiuto, come si è accennato all'inizio, può tradursi in una forma di oppressione o distorsione reale.

1.2.2 La politica del riconoscimento, due volti: la politica dell'uguale dignità e la politica della differenza. La politica dell'uguale dignità di Rousseau secondo Taylor

Taylor, dunque, giunge alla conclusione che nella coscienza contemporanea il discorso sul riconoscimento sia divenuto familiare a due livelli: in primo luogo nella sfera intima in cui si concepisce la formazione dell'identità e del sé come un dialogo e una contrapposizione ininterrotta con altri significativi, e in secondo luogo nella sfera pubblica in cui la politica del riconoscimento è giunta a svolgere un ruolo di crescente rilevanza.

Occorre prendere in considerazione, in linea precipua, il livello della sfera pubblica nel tentativo di mettere a fuoco che cosa abbia significato e che cosa potrebbe significare la politica dell'uguale riconoscimento. Come si è detto in precedenza, di fatto tale politica si è venuta delineando attraverso due volti diversi, intrinsecamente connessi con i due passaggi storici finora descritti.

Secondo Taylor, Rousseau imprime una svolta soggettivistica alle concezioni morali preesistenti, erigendo il nucleo fondante dell'ideale della fedeltà a se stessi; il suo rilevante contributo, tuttavia, si arresta a questa soglia poiché egli non dà rilevanza morale alle differenze esistenti tra gli uomini.

Il germe dell'idea rousseauviana di dignità del cittadino e di riconoscimento universale risiede nel superamento di uno dei passaggi storici che abbiamo messo in luce. Rousseau critica duramente l'onore gerarchico, le préférences, e in un passo molto significativo del Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza (40) individua il momento fatale in cui la società imbocca la via della corruzione e dell'ingiustizia e gli uomini cominciano a desiderare una stima preferenziale; egli vede, per contrasto, la fonte della salute nella società repubblicana, in cui tutti sono egualmente destinatari dell'attenzione pubblica.

Col transito decisivo dall'onore alla dignità è nata una politica dell'universalismo che sottolinea l'uguale dignità di tutti i cittadini e che ha avuto per contenuto l'egualizzazione dei diritti e dei titoli. Come rileva acutamente Gutmann, Taylor non può abbracciare l'equivalenza e l'assimilazione rousseauviana del concetto di identità a quello di eguaglianza (41), alla stessa stregua della riduzione dell'identità individuale allo status di cittadino. A tal proposito, come si è accennato, è la nozione moderna di identità e i suoi attributi di originalità, unicità ed irripetibilità che hanno dato origine ad una politica della differenza.

Anche alla base della politica della differenza, come si è accennato, c'è un principio di eguaglianza universale, ma essa si caratterizza, più propriamente, per la denuncia delle discriminazioni, per il rifiuto di una cittadinanza menomata. Se ciò assicura al principio dell'eguaglianza universale un varco da cui entrare nella politica della differenza, esso, una volta entrato, produce richieste difficili da realizzare; si chiede, infatti, di concedere un riconoscimento e uno status a qualcosa di non universalmente condiviso. In altri termini, si giunge a prendere atto di qualcosa che esiste universalmente (tutti hanno un'identità) in quanto si riconosce qualcosa che per ognuno è soltanto suo (l'identità di ciascuno). L'esigenza universale spinge ad una presa d'atto della specificità.

"La politica della differenza si sviluppa organicamente dalla politica della dignità universale in virtù di uno di quegli spostamenti noti da tempo, per cui una nuova visione della condizione sociale dell'uomo conferisce un significato radicalmente nuovo ad un vecchio principio. Come l'idea che gli esseri umani siano condizionati dalla loro condizione socio-economica ha cambiato il modo di intendere la cittadinanza di 'seconda classe', tanto che attualmente questa categoria arriva a comprendere, per esempio, coloro che sono intrappolati in una povertà ereditaria, così l'idea che gli esseri umani si siano formati ed, eventualmente deformati da un interscambio, ha introdotto la prospettiva di una nuova forma di status di seconda classe" (42).

La ridefinizione socio-economica ha giustificato programmi sociali che molti contestavano: a chi non condivideva la nuova definizione dell'uguaglianza di status, i vari programmi distributivi e le ulteriori occasioni offerte a certe popolazioni apparivano una forma di favoritismo indebito. Oggi intorno alla politica della differenza nascono conflitti analoghi. Laddove la politica della dignità universale lottava per forme di non discriminazione del tutto "cieche" ai modi in cui i cittadini si distinguevano tra loro, la politica della differenza ridefinisce spesso la non discriminazione come una premessa alla necessità di fare delle suddette distinzioni la base di un trattamento differenziato.

Taylor esemplifica rispetto al caso canadese:

"Qualora dovesse attuarsi un trattamento differenziato, i membri dei gruppi indigeni otterranno, se le domande di autogoverno indigeno verranno finalmente accettate, certi diritti e certi poteri di cui gli altri canadesi non godono, e certe minoranze acquisiranno il diritto di escluderne altre per conservare la propria integrità culturale" (43).

Ai sostenitori della politica originaria della dignità ciò può sembrare una negazione del principio che essi propugnano; non mancano però i tentativi di mediare, di dimostrare che alcune di queste misure, volte a soddisfare le minoranze, in definitiva sono giustificabili su una base originaria, quella della dignità. Alcune delle deviazioni (in apparenza) più clamorose dalla "cecità alle differenze" sono, per esempio, delle discriminazioni a rovescio che assegnano ai membri delle minoranze precedentemente sfavorite certi vantaggi nella competizione per posti di lavoro o negli incarichi all'università; tale pratica è stata giustificata con l'argomento che la discriminazione storica ha creato una struttura nella quale i membri di gruppi sfavoriti si trovano svantaggiati. La discriminazione a rovescio viene difesa come misura temporanea, che nel tempo livellerà gli squilibri e permetterà alle vecchie "regole" cieche di tornare in vigore, ma in un modo che non svantaggerà nessuno. E' un argomento che appare abbastanza stringente laddove abbia una solida base fattuale, ma non giustificherà mai alcune delle misure che oggi vengono chieste in nome della differenza e che non hanno la finalità ultima di riapprodare ad uno spazio sociale "cieco alle differenze", e piuttosto si caratterizzano per lo scopo contrario: quello di conservare e coltivare le differenze. Se l'identità è lo sfondo sul quale acquistano un senso le aspirazioni, le inclinazioni, le opinioni di ognuno, che cosa c'è di più legittimo dell'aspirazione che la propria non vada mai perduta?

Così le due politiche in oggetto, la politica dell'uguale dignità e la politica della differenza, nonostante l'una scaturisca dall'altra, finiscono in realtà per divergere fortemente.

Alla divergenza tra tali paradigmi può farsi risalire la contrapposizione tra un liberalismo proceduralista cieco alle differenze (politica dell'uguale dignità) ed una politica che contempli le differenze e ne preveda una specifica tutela (politica della differenza). Attraverso la focalizzazione di queste distinte matrici storico-filosofiche, è possibile comprendere come le obiezioni mosse alla conservazione e alla valorizzazione delle identità particolari siano epistemologicamente claudicanti se storicamente ricondotte alle istanze della politica dell'eguale dignità, per la ragione costituita dal fatto che essa non include il paradigma identitario cronologicamente successivo. La nascita del concetto moderno e soggettivistico di identità implica una simultanea presa d'atto delle identità particolari.

Le motivazioni della divergenza delle due politiche in oggetto saranno chiarite se ci si soffermerà specificamente su ciò che l'una e l'altra chiedono riconoscere - certi diritti universali la prima, un'identità particolare la seconda - e le intuizioni di valore sottostanti alle stesse.

La politica dell'uguale dignità si basa sull'idea che tutti gli esseri umani siano ugualmente degni di rispetto e si sostanzia - per quanto risulti spontaneo arretrare di fronte a questo sfondo "metafisico" - nella nozione di quelle che sono le caratteristiche degli esseri umani che esigono rispetto. Secondo Kant ciò che in noi suscita rispetto è il nostro status di agenti razionali, capaci di governare la propria vita per mezzo di principi (44).

Da allora, secondo Taylor, il fondamento della nostra intuizione dell'uguale dignità è rimasto, nella sostanza, quello descritto. Il valore che viene individuato, dunque, è una potenzialità umana universale, una capacità comune a tutti gli uomini. E' questa potenzialità, e non ciò che può discendere da essa, ad assicurare che ognuno merita rispetto, anzi il senso della sua rilevanza è in noi così presente che estendiamo la protezione che essa fornisce anche a persone che, in virtù di determinate circostanze, non sono in grado di attualizzarla in modo "normale".

Anche per ciò che concerne la politica della differenza, è possibile sostenere che vi sia alla sua base una potenzialità universale, quella di formare e definire la propria identità, non solo in qualità di singoli individui, ma anche in qualità di individui detentori di un determinato patrimonio culturale; e tale potenzialità deve essere rispettata in tutti allo stesso modo. Ma recentemente è nata, almeno in contesti multiculturali, una richiesta più forte: quella di accordare un eguale rispetto a tutte le culture che di fatto si sono formate. Nel momento in cui si cita il famoso caso di Saul Bellow, il quale avrebbe pronunciato la seguente affermazione: "Quando gli zulù produrranno un Tolstoj, lo leggeremo", questo episodio viene inteso come un distillato di bieco eurocentrismo, e non solo perché di fatto Bellow è (almeno a quanto risulta noto) insensibile alla cultura zulù, ma anche, perché in esso si vede riflessa una negazione di principio dell'uguaglianza tra gli uomini. Persino la possibilità che gli zulù, pur avendo lo stesso potenziale di creazione culturale di qualsiasi popolo, abbiano prodotto ciononostante una cultura che vale meno di altre, è esclusa in partenza. Di Bellow, dunque, non si contesta tanto l'errore su una valutazione particolare quanto il negare un principio fondamentale. Nella misura in cui entra in campo questa critica, la richiesta di un uguale riconoscimento non si ferma ad una presa d'atto dell'uguale valore potenziale di tutti gli uomini, ma comprende anche l'uguale valore di ciò che di fatto è disceso da tale potenzialità. Ciò crea, come vedremo più avanti, una problematica molto seria.

E così, lo si ribadisce, quelli che Taylor chiama due modi di fare politica, basati entrambi sulla nozione di eguale rispetto, entrano in conflitto. Per uno, il principio dell'uguale rispetto impone di trattare gli esseri umani nel rispetto della cecità verso le differenze: l'intuizione fondamentale, consistente nel fatto che questo rispetto è dovuto agli esseri umani, ha il suo punto focale in ciò che è identico in tutti. Per l'altro, occorre riconoscere la particolarità e addirittura coltivarla. La critica che la prima modalità fa alla seconda è che viola il principio di non discriminazione, la critica che la seconda fa alla prima è che nega l'identità facendo rientrare coattivamente gli esseri umani in uno stampo omogeneo e non nella loro immagine "autentica", "fedele". E ciò sarebbe già abbastanza grave se lo stampo fosse per così dire 'neutrale', ovverosia se non fosse ricalcato su nessuno in particolare. Ma in genere l'accusa va oltre, fino a sostenere che il presunto insieme neutrale dei principi, ciechi alle differenze, della politica dell'uguale dignità, in realtà rispecchia, una cultura unica ed egemone; in tal modo soltanto le culture minoritarie o oppresse sono costrette ad assumere una forma estranea. Di conseguenza la presunta società equa e cieca alle differenze non solo è 'dis-umana' (perché sopprime le identità), ma è a sua volta, in modo sottile e (in)conscio, fortemente discriminatoria. Quest'ultimo attacco è il più intransigente e radicale. Il liberalismo dell'uguale dignità postula principi universali e ciechi alle differenze. L'accusa lanciata dalle forme più radicali della politica della differenza è che gli stessi liberalismi "ciechi"sono un riflesso di culture particolari.

L'osservazione apre un percorso teso a districare i nodi posti dalla problematica, un primo passo sarà quello di evidenziare alcuni momenti importanti della formazione di questi due tipi di politica nelle società dell''Occidente' (45).

Secondo Taylor, la politica della dignità è emersa attraverso una modalità preminente che è possibile associare al nome di Rousseau.

Per l'autore canadese, come si è evidenziato, Rousseau offre un contributo al discorso sul e del riconoscimento non legato ad una compiuta tematizzazione del concetto, bensì connesso allo spostamento della riflessione sull'importanza dell'eguale rispetto e sull'essenzialità di tale condizione ai fini della libertà.

Taylor sottolinea che Rousseau contrappone, tendenzialmente, la libertà nell'uguaglianza a una condizione caratterizzata da gerarchia ed eterodipendenza; in quest'ultima si sottostà ad altre persone, non perché dispongano del potere politico, né perché siano indispensabili alla sopravvivenza dei singoli, piuttosto in ragione del fatto che si dipende dalla loro stima. La persona eterodipendente è "schiava dell'opinione". Quella descritta costituisce una delle chiavi del nesso tra eterodipendenza e gerarchia postulato da Rousseau. Taylor osserva che sul piano logico i due fenomeni non appaiono inscindibili e si chiede perché in condizione di eguaglianza non possa sussistere eterodipendenza. Per Rousseau questa eventualità non può verificarsi in quanto egli associa l'eterodipendenza al bisogno della stima degli altri, che, a sua volta, risulta configurabile soltanto nel contesto del concetto tradizionale di onore. E' a causa di questa posizione cruciale dell'onore che la condizione del genere umano presenta una paradossale combinazione di proprietà per la quale gli uomini, nonostante siano tutti diseguali sul piano del potere, dipendono tutti da altre persone, non solo lo schiavo dal padrone, ma anche il padrone dallo schiavo. E' un'osservazione che Rousseau ripete spesso: la seconda frase del Contratto sociale, che segue immediatamente il celebre incipit in cui si afferma che gli uomini nascono liberi ma sono dappertutto in catene, dice "chi si crede padrone degli altri, non è per questo meno schiavo di loro" (46); nell'Emile, inoltre, Rousseau sostiene che in questa condizione di dipendenza "schiavo e padrone si corrompono a vicenda" (47). Rousseau evoca gli stoici, ma al contempo se ne distanzia. C'è un'antica posizione sull'orgoglio, stoica e cristiana insieme, che raccomanda di dimenticare ogni preoccupazione per la buona opinione degli altri; è necessario sottrarsi a quella dimensione della vita umana nella quale si cercano, si conquistano e si perdono le reputazioni. Il modo in cui si figura nello spazio pubblico non dovrebbe destare preoccupazione. In certi passaggi Rousseau dà l'impressione di fare propria questa linea di pensiero; se ci soffermiamo, però, sulle sue descrizioni di una società potenzialmente buona, osserviamo che la stima vi svolge ancora un ruolo, in una repubblica che funzioni, i cittadini si curano di quello che pensano gli altri. In un passo delle Considerazioni sul governo della Polonia, Rousseau descrive come gli antichi legislatori curavano che i cittadini si affezionassero alla patria. Fra i mezzi usati a questo scopo c'erano i giochi pubblici (48). Qui la gloria e il riconoscimento pubblico sono importantissimi ed hanno effetti benefici; perché mai se l'onore moderno si caratterizza per il contrario?

Taylor evidenzia che la risposta a tale interrogativo risiede nell'uguaglianza, più precisamente nella reciprocità equilibrata su cui il concetto di eguaglianza rousseauviana si regge. Rousseau pone la totale assenza di differenziazioni come il requisito imprescindibile che trasforma giochi, feste, recite in occasioni di patriottismo e di virtù. Questo tema è al centro della Lettera a D'Alembert, nella quale Rousseau contrappone il teatro moderno alle feste pubbliche di una vera repubblica, che si svolgono all'aperto, l'aspetto chiave di queste assemblee virtuose è l'identità di spettatore e attore (49).

Affermare tout court che Rousseau si pone all'origine delle nozioni moderne di onore e dignità sarebbe impreciso, egli mette a punto un nuovo discorso sull'onore e la dignità in ragione del fatto che la sua visione appare distante da almeno due modi tradizionali di concepire tali nozioni. I paradigmi tradizionali pongono più propriamente riferimento ai concetti di onore ed orgoglio, si è già accennato alla posizione di matrice stoica e cristiana che criticava l'orgoglio e chiedeva di prescindere dalla preoccupazione della stima altrui; in antitesi a tale visione vi è anche un'etica dell'onore apertamente non universalistica e inegualitaria, per la quale la preoccupazione per l'onore era il primo contrassegno della persona onorevole. Rousseau mutua il linguaggio della prima posizione, ma non arriva a chiedere una rinuncia a ogni preoccupazione per la stima, anzi nel modello da lui descritto la preoccupazione per la stima è fondamentale. L'aspetto ingiusto dell'onore è la lotta per la preferenza, che genera divisione ed eterodipendenza. Dunque il rimedio non sta nel negare l'importanza della stima, ma nell'abbracciare un sistema in cui l'eguaglianza e, in particolare, la reciprocità e l'unità di intenti rendano la dipendenza dall'opinione dei singoli innocua e compatibile con la libertà. In un simile contesto, infatti, la stima è compatibile con la libertà e l'unità sociale perché la società è tale che in essa tutti i virtuosi sono stimati e lo sono per le stesse (giuste) ragioni. In un sistema di onore gerarchico regna, invece, la competizione: la gloria di una persona non può non essere la vergogna o almeno l'oscurità di un'altra, l'unità di intenti va a pezzi, la cattiva dipendenza dagli altri si accompagna paradossalmente alla separazione e all'isolamento. Dopo aver posto riferimento alla visione rousseauviana, comprendiamo anche il senso e l'attinenza che nel discorso di Taylor giunge ad avere la dialettica hegeliana di servo e padrone. Taylor mette in luce che la lotta per il riconoscimento teorizzata da Hegel, pur muovendo da assunti diversi, può risolversi in modo soddisfacente soltanto approdando ad un esito rousseauviano: un regime di riconoscimento reciproco tra uguali (50). Così nel solco di Rousseau, Hegel trova questo regime in una società con uno scopo comune, una società in cui ci siano "un'noi' che è un 'io' che è un 'noi'" (51).

Per Hegel, che, differentemente da Rousseau, rifiuta i discorsi sulla malvagità dell'orgoglio, l'idea fondamentale è che il pieno sviluppo umano sia possibile solo nella misura in cui si è riconosciuti; ogni coscienza cerca riconoscimento in un'altra e questo non è segno di scarsa virtù. In questo assetto la concezione gerarchica dell'onore ha un difetto cruciale, non sa rispondere al bisogno primario che spinge gli uomini a cercare un riconoscimento. E' per questo che l'unico approdo possibile è un regime di riconoscimento reciproco tra uguali: i perdenti nella gara per l'onore restano senza un riconoscimento, ma anche i vincitori sono frustrati, sia pure in modo più sottile, perché sono riconosciuti dai perdenti cioè da coloro il cui riconoscimento, verosimilmente, non ha un vero valore, si tratta di soggetti non liberi e autosufficienti allo stesso livello dei vincitori.

L'esposizione ha avuto l'intenzione di esemplificare più estesamente il punto nodale della divergenza di Taylor dalla politica rousseauviana dell'eguale dignità, cui si è posto riferimento sin dall'apertura della tematica, se è indubbio che Rousseau articola il senso della dignità moderna, del pari è possibile affermare che a questo concetto sovrintende un'imponente condicio sine qua non: l'assenza di ogni differenziazione. Per Taylor la soluzione proposta da Rousseau presenta questo difetto cruciale: l'eguaglianza della stima richiede una stretta unità di intenti che appare incompatibile con qualsiasi differenziazione. In tale concezione l'aspetto chiave di un'organizzazione politica libera è una rigorosa esclusione di qualsiasi differenziazione dei ruoli; il suo principio base è che, per ogni relazione binaria che abbia a che fare con il potere, la condizione di una società libera è che i due termini che essa collega siano identici. Nel contratto sociale (52) il popolo deve essere suddito e sovrano insieme. In Rousseau prende corpo un trinomio indissolubile: la libertà, l'assenza di ruoli differenziati e una strettissima unità di intenti. La dipendenza di tutti dalla volontà generale fa sì che non nascano forme di dipendenza bilaterali. Secondo Taylor ciò rappresenta il paradigma teorico della massima forma di tirannia omogeneizzante, dai giacobini ai regimi totalitari del nostro secolo.

2.1.1 La visione sostantiva della politica della differenza contro il liberalismo proceduralista: il caso canadese attraverso la riflessione di Taylor

Non è difficile prendere le distanze dal modello rousseauviano di dignità del cittadino, tuttavia ciò non esclude l'esigenza di sapere se qualsiasi politica dell'uguale dignità basata sul riconoscimento di qualità universali sarebbe necessariamente omogeneizzante. Occorre chiedersi, inoltre, se questo valga anche per quei modelli che Taylor ascrive ad una matrice kantiana, nei quali 'la libertà uguale per tutti ' è separabile dagli altri due elementi della 'trinità ' rousseauviana.

Tali modelli esulano dalla centralità del concetto della volontà generale ma astraggono completamente dal problema della differenziazione dei ruoli, mirano soltanto all'eguaglianza dei diritti accordati ai cittadini, sorge quindi un importante aspetto di continuità con la concezione rousseauviana della cittadinanza come involucro onnicomprensivo e universalizzante delle identità dei singoli individui che vi sono ammessi. Questa forma di liberalismo, che Taylor denomina liberalismo 1º, è stata attaccata dai sostenitori più radicali della politica della differenza, perché incapace di riconoscere adeguatamente la differenza e dunque volta ad escluderne forme di tutela giuridica. Quali sono i fondamenti di questa critica?

E' un fatto che esistono forme di questo liberalismo degli eguali diritti che, nelle intenzioni dei loro stessi fautori, possono riconoscere identità culturali distinte solo in misura molto limitata.

L'idea che uno dei tradizionali cataloghi di diritti possa avere in un contesto culturale un'applicazione diversa da quella che ha in un altro e che la sua applicazione debba tenere conto di fini culturali che variano, nell'ambito di tale prospettiva liberale è considerata del tutto inaccettabile.

Il problema che occorre affrontare è se questa accezione ristretta dell'uguaglianza dei diritti sia l'unica ammessa dal liberalismo in oggetto; se lo è, l'accusa di omogeneizzazione appare ben fondata. E' evidente che Taylor non supporti gli steccati eretti da questa forma di liberalismo sul terreno dell'eguaglianza dei diritti. Egli muove da queste considerazioni a partire dall'esperienza canadese, su cui sarà utile soffermarsi per proporre una contestualizzazione del problema che abbia portata esemplificativa.

Contrariamente a quanti sostengono la recezione di istanze multiculturali nella costituzione canadese nel solco di un'ottica dichiaratamente comunitaria (53), Taylor afferma che nel dibattito costituzionale canadese dell'ultimo venticinquennio in realtà sono due concezioni liberali ad essersi fronteggiate. La questione della maggiore o minore inclusività di una concezione dell'uguaglianza dei diritti si è imposta, nel 1982, con l'adozione della Carta canadese dei diritti e delle libertà, che ha allineato il sistema politico canadese con quello americano; l'elenco dei diritti in vigore ha posto una base alla revisione giudiziaria della legislazione a tutti i livelli di governo. In linea naturalmente consequenziale non poteva non porsi il problema della relazione fra il suddetto catalogo di diritti e le richieste di trattamento differenziato avanzate dai franco-canadesi (e in particolare dal Québec) da un lato, e dai popoli nativi dall'altro. La posta in gioco era il desiderio di sopravvivenza di questi popoli, con la conseguente richiesta di certe forme di autonomia e di autogoverno, nonché della possibilità di adottare certi tipi di legislazione considerati indispensabili proprio per la sopravvivenza.

Il Québec, per esempio, ha adottato, diverse leggi che riguardano la lingua. Una di queste stabilisce chi può iscrivere i figli ad una scuola inglese (non i francofoni, né gli immigrati); un'altra prescrive che le imprese con più di cinquanta dipendenti usino sul lavoro il francese; una terza vieta le insegne commerciali di lingua non francese. In altri termini, il governo del Québec, in nome della sopravvivenza collettiva, ha imposto ai residenti nello stato restrizioni che in altre comunità canadesi potrebbero essere facilmente dichiarate illegittime in nome della Carta. Il problema fondamentale era se queste differenze fossero accettabili o meno. Alla fine la questione è stata sollevata da una proposta di emendamento costituzionale che ha preso il nome dal luogo della conferenza in cui è stata formulata per la prima volta, il lago Meech. L'emendamento del Meech proponeva di riconoscere il Québec come "società distinta" e mirava a fare di questo riconoscimento una base dell'interpretazione giudiziaria della costituzione, compresa la Carta; sembrava aprirsi, in tal modo, la possibilità di interpretazioni costituzionali diverse in diverse parti del paese. Per molti una simile variazione era sostanzialmente inaccettabile; comprendere il motivo di tale posizione conduce al nucleo del problema del rapporto tra liberalismo dei diritti e diversità identitaria e culturale.

La Carta canadese basa la revisione giudiziaria su due motivazioni fondamentali. In primo luogo definisce un insieme di diritti individuali molto simili a quelli protetti, nelle 'democrazie occidentali', da altre carte costituzionali e dichiarazioni dei diritti, per esempio negli Stati Uniti e in vari paesi europei. In secondo luogo garantisce l'eguaglianza dei cittadini sotto una serie di aspetti o - detto in altro modo - li protegge da discriminazioni basate su una serie di motivi non pertinenti e differenze ascrittive come la razza o il sesso. Il principio di eguaglianza, in linea programmatica, non viene più considerato come astrazione dalla differenza; al contrario, l'eguaglianza si sostanzia nel diritto ad essere trattati come eguali, salvaguardando al contempo le proprie diversità. Questo passaggio è stato efficacemente messo in luce dalla Corte suprema canadese che ha affermato che:

"It is, of course, obvious that legislatures may - and to govern effectively - must treat different individuals and groups in different ways. Indeed, such distinctions are one of the main preoccupations of legislatures. The classifying of individuals and groups, the making of different provisions respecting such groups, the application of different rules, regulations, requirements and qualifications to different persons is necessary for the governance of modern society. As noted above, for the accommodation of differences, which is the essence of true equality, it will frequently be necessary to make distinctions" (54).

Alla luce di questa pronuncia sembrerebbe che il riconoscimento di diritti differenziati costituisca la piena affermazione del principio di eguaglianza.

La Carta canadese comprende anche le norme sui diritti linguistici e i diritti degli aborigeni, che, da un punto di vista rigidamente liberale, sono viste come concessioni di privilegi a determinati gruppi.

Oggi, questi due tipi di norme sono molto comuni in quei pacchetti di diritti ormai consolidati che formano la base della revisione giudiziaria, in questo senso il precedente americano ha avuto una valenza emblematica. "Gli americani sono stati i primi a scrivere e a premunire da ogni attacco una dichiarazione dei diritti; l'hanno fatto mentre ratificavano la loro costituzione, facendone una condizione del suo buon esito" (55). Taylor sottolinea come, con il Quattordicesimo Emendamento, la non discriminazione divenne un tema centrale della revisione giudiziaria. I primi emendamenti proteggevano gli individui e, talvolta, i governi degli stati (56), dalle intrusioni del nuovo governo federale; fu solo dopo la guerra civile, nel periodo della ricostruzione, con il Quattordicesimo Emendamento che chiedeva un'uguale protezione per tutti i cittadini soggetti alla legge, che si giunse all'approdo descritto.

Secondo l'autore canadese attualmente la centralità della non discriminazione nella revisione giudiziaria si pone allo stesso livello della norma più antica - la difesa dei diritti individuali - e nella coscienza pubblica forse la precede.

Per diversi abitanti del "Canada inglese", una società politica, facendo propri certi scopi collettivi, rischia di andare contro qualsiasi dichiarazione dei diritti accettabile. Innanzitutto uno scopo collettivo può imporre ai comportamenti individuali delle limitazioni che violano i diritti della persona; per molti canadesi non francofoni, sia nel Québec che altrove, tale paventata eventualità si è già materializzata con le leggi linguistiche di questo stato (57). In secondo luogo l'adozione di certi scopi collettivi in nome di un gruppo nazionale potrebbe essere considerata intrinsecamente discriminatoria, anche qualora la violazione dei diritti individuali fosse esclusa. Nel mondo contemporaneo accade, invariabilmente, che non tutti i cittadini che vivono sotto una giurisdizione, appartengano al gruppo nazionale che viene così favorito, si potrebbe pensare che ciò provochi già di per sé una discriminazione.

Taylor, a tal proposito, sostiene che, anche ove si prescinda dalla circostanza indicata, è probabile che il perseguimento di un fine di un gruppo conduca a trattare in modo diverso chi è membro del gruppo e chi non lo è. Per l'autore canadese uno dei principali esempi che affiora nello studio del caso canadese riguarda la legge 101; tale disciplina vieta (in linea di massima) ai francofoni e agli immigrati di iscrivere i figli in scuole di lingua inglese, mentre lo consente ai canadesi anglofoni.

Questa percezione di uno scontro tra la Carta e la politica di base del Québec è stata una delle ragioni dell'opposizione del resto del Canada all'accordo del lago Meech. Ciò che destava preoccupazione era la clausola della società distinta; per contro la richiesta generale convergeva verso un emendamento che "proteggesse" la Carta da tale clausola o almeno le desse la precedenza su di essa. Taylor sostiene che per quanto "tale opposizione celasse una certa dose di "pregiudizio vecchio stile contro il Québec, essa prendeva le mosse da una motivazione filosofica seria sulla cui articolazione è necessario soffermarsi" (58).

Coloro che sostengono che i diritti individuali debbono essere sempre considerati in linea prioritaria e che, ineludibilmente accompagnati da misure contro la discriminazione, debbono avere la precedenza su fini e diritti collettivi, parlano spesso da un punto di vista liberale che nel mondo angloamericano è diventato sempre più comune e che per Taylor deve il proprio impianto concettuale ai nomi di John Rawls e Ronald Dworkin.

La formulazione di tale idea principale che condensa più efficacemente il tema dell'antitesi tra liberalismo proceduralista e la visione sostantiva della politica della differenza (59), è stata espressa da Dworkin in un breve saggio intitolato Liberalismo (60).

Dworkin distingue due tipi di impegno morale. Tutti abbiamo delle idee sugli scopi della vita, su cosa costituisca una vita degna per la quale lottare; del pari tutti riteniamo di essere tenuti a trattarci l'un l'altro in modo equo ed eguale, indipendentemente dall'idea che abbiamo dei nostri scopi. Possiamo chiamare "procedurale" (61) il secondo impegno, mentre gli impegni che riguardano gli scopi della vita sono "sostantivi". Dworkin afferma che è liberale quella società che, in quanto società, non fa sua una determinata visione sostantiva dei fini della vita e che, invece, è unita da un forte impegno procedurale a trattare tutti con eguale rispetto.

La ragione per cui il corpo politico in quanto tale non può sposare una posizione sostantiva - per esempio non può consentire che tra i fini della legislazione vi sia quello di rendere gli uomini virtuosi, in un qualche senso del termine - è che ciò comporterebbe una violazione della sua norma procedurale; l'eterogeneità delle società moderne, infatti, è tale che alcuni aderirebbero alla concezione che venisse favorita, mentre altri si opporrebbero. I primi potrebbero essere in maggioranza e anzi probabilmente lo sarebbero, perché in caso contrario una società democratica non farebbe sua, verosimilmente, la loro visione; quest'ultima, tuttavia, non sarebbe la visione di tutti. Adottando, pertanto, tale posizione sostantiva, la società non tratterebbe con uguale rispetto la minoranza dissidente. Per Taylor, alla base del punto di vista di Dworkin, e, in generale di questa visione del liberalismo, vi sono assunzioni filosofiche di matrice kantiana; si tratta di una concezione per la quale la dignità umana consiste in larga misura nell'autonomia, cioè nella capacità di ogni persona di farsi da sé un'idea della vita buona. La dignità di una persona è associata non tanto ad una particolare concezione della vita buona, tale che allontanandosene uno sminuirebbe la propria dignità, quanto al potere di considerare questa o quella concezione entro il terreno del proprio arbitrio. Qualora si ponga, ufficialmente, l'esito delle deliberazioni di alcuni al di sopra dell'esito di quelle degli altri, si finirebbe per non rispettare allo stesso modo il suddetto potere in tutti i soggetti; una società liberale deve rimanere neutrale rispetto alla vita buona e limitarsi a garantire che i cittadini, quali che siano le loro opinioni, si trattino equamente l'uno con l'altro, e che lo stato tuteli tutti allo stesso modo.

La fortuna di tale concezione dell'agente umano, individuato soprattutto come soggetto di scelte autodeterminanti o autoespressive contribuisce a spiegare la forza di questo modello di liberalismo; occorre anche considerare che esso è stato sostenuto, con finezza e vigore da alcuni pensatori "liberal" degli Stati Uniti, proprio nel contesto delle dottrine costituzionali della revisione giudiziaria. Perciò non sorprende che si sia molto diffusa, ben al di là di coloro che potrebbero sottoscrivere una filosofia specificamente kantiana, l'idea che in una società liberale non ci sia spazio per una nozione pubblica di bene. Si tratta - come è stata definita da Michael Sandel - della concezione della "repubblica procedurale" (62), che negli Stati Uniti ha un'influenza molto forte sulla prassi politica e ha contribuito a dare più peso alla revisione giudiziaria sulla base del dettato costituzionale a spese del processo politico ordinario, quello della costruzione di maggioranze finalizzate all'azione legislativa (63). Taylor sottolinea, quindi, come una società con fini collettivi come quella del Québec violi questo modello. I governi del Québec partono da una assioma: il fatto che la cultura francese sopravviva e fiorisca nel loro stato è un bene. La società politica non è neutrale rispetto a coloro che vogliono tenere fede alla cultura di provenienza così come nei confronti di coloro che vorrebbero distanziarsene in nome di un autonomo sviluppo individuale. In realtà si esclude che si possa adattare un fine come la survivance ad una società liberale proceduralista considerando, per esempio, la lingua francese come una risorsa collettiva di cui i singoli vogliono avvalersi e che, quindi, sono intenzionati a salvaguardare.

"Non si tratta, dunque, di porre la lingua francese a disposizione di tutti coloro che potrebbero sceglierla; si deve garantire che in futuro esista una comunità di persone che saranno intenzionate a fruire della lingua francese. Le politiche di sopravvivenza cercano di creare attivamente membri di tale comunità, assicurandosi, per esempio, che le generazioni future continuino a considerarsi francofone. Non c'è modo di interpretare queste leggi come una semplice fornitura di servizi a persone già esistenti" (64).

Prosegue Taylor:

"Per tale motivo, la popolazione del Québec, e con essa tutti coloro che danno un'analoga importanza a questo fine collettivo, opta tendenzialmente per un modello di società liberale diverso dalla "repubblica proceduralista". Essa ritiene che una società possa organizzarsi attorno ad una visione sostantiva dei fini della vita, ad una definizione (65) della vita buona, senza per questo sminuire coloro che non condividono tale definizione; laddove la natura del bene richiede che esso venga perseguito in comune, il bene diventa, per ciò stesso, un problema politico e pubblico" (66).

Secondo questa concezione, dunque, una società liberale si dimostra tale per il modo in cui tratta le minoranze, (compresi coloro che non condividono la definizione pubblica di bene) e soprattutto per i diritti che accorda a ognuno dei suoi membri.

I diritti in questione, tuttavia, sono identificati con quelli fondamentali e cruciali che sono riconosciuti come tali fin dagli inizi della tradizione liberale: diritto alla vita, diritto alla libertà personale, ad un regolare processo, libertà di espressione e di pratica religiosa e così via. Secondo questo sistema di diritti si corre il rischio di perdere di vista un confine essenziale, ove si parli di diritti fondamentali a proposito del fatto di poter disporre di alcune possibilità quali avere insegne commerciali nella lingua che si predilige. Occorre distinguere, da un lato, le libertà fondamentali, che non dovrebbero essere mai violate e in virtù di ciò devono essere garantite fino a renderle inattaccabili, e, dall'altro, privilegi e immunità che, pur rilevanti, possono essere revocati o limitati (anche se in presenza di una motivazione consistente e strutturata) per ragioni di interesse pubblico (public policy).

Per questa posizione una società con fini collettivi può essere liberale purché sappia rispettare la diversità, soprattutto quando ha a che fare con persone che non condividono i suoi fini comuni, e sappia salvaguardare in modo adeguato i diritti fondamentali.

Per Taylor il perseguimento di questi consistenti obiettivi genererà, sicuramente, tensioni e difficoltà, ma non è irrealizzabile, e in linea di principio i problemi non sono più gravi di quelli a cui va incontro qualsiasi società liberale che debba conciliare la libertà e l'uguaglianza, o la prosperità e la giustizia.

L'autore rileva che nel contesto canadese si sono venute a delineare due interpretazioni incompatibili della società liberale, le attuali discordanze derivano dal fatto che nell'ultimo ventennio queste due posizioni si sono scontrate frontalmente. Quella resistenza alla "società distinta" che chiedeva di dare la precedenza alla Carta proveniva, in parte, da un atteggiamento proceduralista sempre più diffuso nel Canada anglofono; per chi accettava questo punto di vista, attribuire ad un governo lo scopo di promuovere il Québec come società distinta significava riconoscere un fine collettivo, ed una simile mossa doveva essere neutralizzata subordinandola alla Carta già in vigore. Dal punto di vista del Québec, per converso, il tentativo di imporre un modello procedurale di liberalismo non solo avrebbe privato, almeno parzialmente, la clausola della società distinta della sua forza di regola interpretativa, ma rivelava un rifiuto del modello del liberalismo sul quale il Québec stesso era fondato. "Nel corso di tutto il dibattito sull'accordo del lago Meech, ognuna delle società percepì l'altra in modo distorto" (67). Il resto del Canada vedeva nella clausola della società distinta la legittimazione dei fini collettivi; il Québec giudicava il tentativo di dare la precedenza alla Carta come l'imposizione di una forma di società liberale che gli era estranea e alla quale esso non si poteva adattare senza rinunciare alla propria identità.

La trattazione del caso canadese, sviluppata attraverso significativi passaggi del pensiero di Taylor, mette in luce alcuni nodi fondamentali del dibattito e i tratti intrinseci a due modelli di carattere liberale, che l'autore denomina liberalismo 1º e liberalismo 2º.

"C'è una forma di politica dell'uguale rispetto, custodita come una reliquia da un certo tipo di liberalismo dei diritti, che è inospitale verso la differenza perché tiene ferma l'applicazione uniforme delle regole che definiscono i diritti e vede con sospetto i fini collettivi" (68).

Ciò naturalmente non significa che tale modello cerchi di abolire le differenze culturali, si tratterebbe di un'accusa infondata. Tuttavia può essere definito un modello inospitale verso la differenza perché non è in grado di contemplare e dunque di collocare realmente i bisogni e le aspirazioni dei membri delle società distinte, nel caso della politica québécoise, la sopravvivenza, che costituisce un fine collettivo e che richiede, inevitabilmente, qualche variazione, da un contesto culturale ad un altro, nel tipo di leggi che si considerano ammissibili. Come si è evidenziato, in precedenza, un discrimen fondamentale tra i due liberalismi, risiede proprio nel respingere o nell'accogliere l'idea che un catalogo tradizionale dei diritti possa avere in un certo contesto culturale un'applicazione diversa da quella che ha in un altro, che la sua applicazione debba tenere conto di fini culturali che variano. Taylor ritiene che questa forma di liberalismo (liberalismo 1º) non possa sottrarsi alle obiezioni che provengono dai sostenitori della politica della differenza.

Esistono, però, altri modelli di società liberale che, per ciò che concerne l'applicazione delle regole che definiscono i diritti e l'esistenza di fini collettivi, assumono posizioni diverse.

"Queste forme, ovviamente, chiedono ancora che certi diritti vengano invariabilmente difesi (è impensabile che le differenze culturali possano modificare l'applicazione dell'habeas corpus); ma distinguono tali diritti fondamentali dall'ampia gamma delle immunità e delle presunzioni di trattamento uniforme che, per esempio, nell'ambito nordamericano si sono affermate con la cultura della revisione giudiziaria. Sono disposte a commisurare l'importanza di certi tipi di trattamento uniforme rispetto alla sopravvivenza culturale e, a volte, optano per la seconda" (69).

Dunque, non sono, in ultima analisi dei modelli procedurali di liberalismo ma si fondano in maniera rilevante su giudizi concernenti una visione sostantiva dei fini della vita, giudizi in cui l'integrità delle culture riveste una parte importante (liberalismo 2º).

Attualmente è possibile sostenere senza tema di smentita che siano sempre più numerose le società che scoprono di essere multiculturali, nel senso che comprendono più comunità culturali decise a sopravvivere. Nel mondo contemporaneo la rigidità del liberalismo procedurale può diventare rapidamente impraticabile.

2.1.2 La presunzione di eguale valore delle culture e la "fusione degli orizzonti" di Gadamer

Taylor giunge alla conclusione che la politica dell'uguale rispetto, in questa variante più ospitale, può essere assolta dall'accusa di omogeneizzare le differenze. Specularmente egli evidenzia che un altro modo di formulare tale accusa potrebbe rendere la stessa più difficile da respingere, o, piuttosto, neutralizzerebbe la necessità di contrastarne i fondamenti.

L'accusa a cui spontaneamente si potrebbe pensare è provocata da una tesi che, talvolta, viene proposta in difesa del liberalismo "cieco alle differenze"; secondo la posizione in questione, esso offre un terreno neutrale nel quale possono incontrarsi e coesistere persone di tutte le culture, sulla base di un processo incentrato su quella che in gran parte della letteratura di tematica multiculturalista viene definita "depoliticizzazione delle differenze". Soltanto dopo aver operato determinate distinzioni - in primis tra ciò che si ascrive al pubblico e ciò che pertiene al privato - è possibile relegare le differenze oggetto di disputa in una sfera che non interferisce con la politica. Si dimentica, per esempio, che per la maggioranza dell'Islam è impensabile separare la politica e la religione attraverso una modalità che alle società 'occidentali' appare ovvia.

Anche alla luce di questa osservazione, è difficile concepire il liberalismo come un possibile terreno di incontro per tutte le culture, esso si configura piuttosto come l'espressione politica di un certo insieme di culture che risulta del tutto incompatibile con altri sistemi. In alcune sue elaborazioni, inoltre, il liberalismo non è un'espressione di quell'atteggiamento laico così popolare fra gli intellettuali liberali, ma si pone, piuttosto, in stretta contiguità con il cristianesimo; e tale appare, talvolta, dal punto di vista alternativo dell'Islam. Il liberalismo, dunque, non può arrogarsi una completa neutralità culturale, né una totale avalutatività.

La lettura del liberalismo procedurale in chiave di astratta pretesa da parte di uno stato non eticamente neutrale, come si è accennato in precedenza, costituisce il principale ambito di convergenza tra Taylor e Habermas. Ma Taylor giunge ad affermare che il liberalismo, sia nella variante più aperta alla differenza sia nelle sue forme più rigide, innalza degli steccati. La cecità rispetto alle differenze, infatti, si pone in contrasto con un dato fattuale: la crescente multiculturalità e la porosità delle società contemporanee. Da un punto di vista sociologico è possibile riscontrare come le società si avvertano come crescentemente multiculturali e divengano sempre più porose (70).

Giungiamo, dunque, alla questione del multiculturalismo così come spesso viene dibattuta oggi: occorre tenere conto del senso di marginalizzazione di gruppi culturali diversi da 'noi' e, in gergo tayloriano, della loro esplicita richiesta di riconoscimento, ma senza che ciò comprometta in alcun modo i 'nostri' principi fondamentali (di estrazione liberale). Parallelamente, però, è possibile rilevare che, talvolta, la cornice assiologica di tale imprescindibile esigenza si confonde con la logica della presunzione di superiorità di certe culture su altre (71).

Torniamo, dunque, al problema del riconoscimento; nella trattazione del caso canadese l'oggetto del contendere non era il riconoscimento di un uguale valore, o almeno non in un senso forte; era se ammettere la survivance come scopo legittimo, si chiedeva di consentire che, entro limiti ragionevoli, le culture difendessero se stesse. Tale obiettivo non si pone in un rapporto di incompatibilità con la variante più ospitale del liberalismo cui Taylor fa riferimento.

Nelle odierne società multiculturali l'istanza descritta si colloca ad un livello diverso: si chiede che tutti riconoscano l'eguale valore di culture diverse, in ciò si articola "la richiesta di non lasciarle solo sopravvivere, ma di prendere atto che sono preziose" (72). Dunque le società multiculturali sono destinate a non raggiungere alcuna coesione perché manca il riconoscimento (chiaramente percettibile) dell'uguale valore di un gruppo da parte di un altro? La risposta affermativa a questo interrogativo costituisce il nucleo della valutazione tayloriana riguardo alla situazione canadese.

La premessa di fondo di tali richieste è che il riconoscimento forgia l'identità e la forgia in senso fanoniano: i gruppi dominanti tendono a consolidare la propria egemonia, inculcando nei soggiogati un'immagine di inferiorità. La lotta per la libertà e l'uguaglianza, pertanto, deve passare attraverso una revisione di tale immagine; parallelamente, le proposte di nuovi programmi culturali negli ambienti accademici e nell'ambito della scuola secondaria sono concepiti come il germe di questo processo di revisione. L'ampliamento o il cambiamento dei curricula "canonici" è necessario non tanto per assicurare a tutti una cultura meno ristretta, quanto piuttosto per concedere finora a chi è stato escluso, il riconoscimento che gli è dovuto. Secondo Taylor anche la logica che emerge dalle critiche rivolte agli ideatori dei programmi tradizionali sembra dipendere dal postulato che si deve uguale rispetto a tutte le culture (73).

"L'assunto di fondo di tali posizioni è che i giudizi di valore sui quali, in teoria, tali programmi si basavano, in realtà erano viziati da refrattarietà al riconoscimento e dall'intenzione o piuttosto dalla "necessità" di degradare gli esclusi. Ne consegue che, in assenza di questi fattori di distorsione, veri giudizi di valore metterebbero le culture più o meno sullo stesso piano" (74).

A tal proposito, occorre rilevare che il linguaggio della "superiorità" e dell'"inferiorità" delle culture non risulta plausibile, esso implica la visione delle culture come "totalità", da respingersi perché fondata su un errore analitico (75).

Tenendo conto del latente e palese eurocentrismo insito in tali giudizi, Taylor giunge ad affermare la teorizzabilità di una presunzione di eguale valore delle culture, ma si affretta a precisare che, se tale presunzione ha al suo fondo un'idea valida, del pari non può sfuggire che essa non sia affatto aproblematica, anche ed in primo luogo in ragione del fatto che comporta in qualche modo un atteggiamento "fideistico".

Essa postula, in linea presuntiva appunto, che tutte le culture che hanno animato intere società per un lasso di tempo considerevole abbiano in sé qualcosa di rilevante per ogni essere umano. L'aggettivo "presuntivo" indica la praticabilità di un'ipotesi di partenza con la quale ciascuno dovrebbe accostarsi allo studio di qualsiasi cultura "altra". In verità, soprattutto, nel caso in cui essa sia piuttosto diversa da quella del soggetto che vi si accosta, ciò comporterà come conseguenza che la nozione ex ante che "l'osservatore" (76) avrà, non consentirà una neutrale messa a fuoco dei contributi validi di quell'universo culturale, stante la precostituzione di categorie e di ambiti di riferimento propri. Colui che si accosta ad una cultura "altra", deve invece muoversi in un orizzonte più ampio, entro il quale ciò che prima era lo sfondo irriflesso delle sue valutazioni può essere riclassificato come una delle diverse possibilità esistenti, alla stessa stregua dello sfondo diverso della cultura che prima gli risultava estranea. Mettendo in evidenza un esito antitetico a quello di un passivo quanto inautentico atteggiamento "fideistico", Taylor mette in campo Gadamer (77) e la sua nozione di "Horizontverschmelzung" (78).

La fusione degli orizzonti opera attraverso lo sviluppo di nuovi vocabolari comparativi, grazie ai quali è possibile articolare i contrasti tra l'orizzonte di riferimento e quello di approdo; per tale motivo, se e quando, alla fine, troviamo un supporto fattuale alla nostra ipotesi iniziale, ciò accade sulla base di una comprensione - che non era possibile avere all'inizio - di che cosa sia "valore". Si approda ad un giudizio attraverso la trasformazione dei criteri preesistenti. Sostiene Gadamer:

"Come il singolo non è mai un singolo, in quanto è sempre già con altri e si intende con essi, così anche l'orizzonte conchiuso che dovrebbe abbracciare una civiltà è un'astrazione. La mobilità storica dell'esistenza umana è proprio costituita dal fatto che essa non è rigidamente legata ad un punto di vista e, quindi, non ha neanche un orizzonte davvero conchiuso. L'orizzonte è invece qualcosa entro cui ci muoviamo e che si muove con noi. Per chi si muove gli orizzonti si spostano. Allo stesso modo, anche l'orizzonte del passato, di cui ogni vita umana vive e che è presente nella forma dei dati storici trasmessi, è sempre in movimento. Non è la coscienza storica a mettere in moto l'orizzonte; in essa semplicemente questo movimento diventa consapevole" (79).

Prosegue Gadamer:

"In realtà l'orizzonte del presente è sempre in atto di farsi, in quanto noi non possiamo fare altro che mettere alla prova i nostri pregiudizi. Di questa continua messa alla prova fa parte anche, in prima linea, l'incontro con il passato e la comprensione della tradizione da cui veniamo. L'orizzonte del presente non si costruisce, dunque, in modo indipendente e separato dal passato. Un orizzonte del presente come qualcosa di separato è altrettanto astratto quanto gli orizzonti storici singoli che si tratterebbe di acquisire uscendo da esso. La comprensione, invece, è sempre il processo di fusione di questi orizzonti che si ritengono indipendenti tra loro" (80).

Vi sono conversazioni che sono confronti, e i confronti possono essere più o meno violenti, tali in ogni caso da impedire ogni Verschmelzung, ogni fusione vicendevole delle parti, ponendo le stesse di fronte alla dicotomia inclusione-esclusione, in cui è possibile optare per un linguaggio e uno schema che richieda l'esclusione dell'altro. Esse, però, possono condurci ad una revisione dei paradigmi di riferimento. Le conversazioni ermeneutiche più riuscite sono disagevoli proprio perché avviano processi di sfida e di apprendimento reciproci.

Attraverso Gadamer, Taylor giunge alla teorizzabilità di una presunzione di valore di tutte le culture. Da questo punto di vista sospendere la presunzione può costituire dimostrazione di puro e semplice pregiudizio; potrebbe addirittura equivalere alla negazione di un'uguale dignità. La tesi presuntiva finora descritta aiuterebbe a chiarire il motivo per cui le richieste del multiculturalismo partono dai principi, già affermati, dell'uguale rispetto. Se il sospendere la presunzione di eguale valore equivale ad una negazione dell'uguaglianza e se la mancanza di un riconoscimento ha conseguenze importanti per l'identità degli individui, ne discendono buoni argomenti per insistere sulla sua universalizzazione come estensione logica della politica della dignità.

Come tutti devono avere diritti civili e diritti politici uguali indipendentemente dalla razza e dalla cultura, così si dovrebbe presumere che la cultura di ciascun gruppo abbia valore. Ma questa estensione, per quanto sembri derivare dalle norme generalmente accettate dell'uguale dignità, non si armonizza facilmente con esse perché mette in questione quella "cecità alle differenze" che sta al loro centro. L'idea è che un adeguato rispetto dell'uguaglianza esiga molto di più della semplice presunzione che studi e approfondimenti ulteriori daranno conferma della fondatezza della premessa presuntiva, un effettivo rispetto dell'uguaglianza dovrebbe pretendere effettivi giudizi di uguale valore relativi ai costumi e alle credenze di culture altre. Ha senso chiedere come contenuto di un diritto che ci si accosti a certe opere presumendo che esse abbiano valore, ma può non avere il medesimo senso pretendere un giudizio conclusivo che stabilisca che il loro valore è grande, o uguale a quello di opere di altri. L'idea di un giudizio favorevole da fornire su richiesta appare priva di fondamento, esso si potrebbe configurare come un atto espressivo di estrema condiscendenza, non di autentico rispetto. A questo proposito Taylor sostiene che l'ultima cosa che si vorrebbe dagli intellettuali dell'area 'nordatlantica', ove se ne potesse fare richiesta, sarebbe un giudizio positivo sul valore di culture che non hanno studiato approfonditamente. Un vero giudizio di valore, come si è evidenziato attraverso Gadamer, presuppone la fusione degli orizzonti culturali e normativi; presuppone che lo studio dell'altro ci abbia trasformato al punto che non giudichiamo più soltanto in virtù dei nostri criteri originari. Un giudizio favorevole emesso prematuramente sarebbe oltreché condiscendente, etnocentrico: approverebbe l'altro perché coercitivamente intelaiato nelle 'nostre' categorie. Questo aspetto inficia intrinsecamente il riconoscimento: paradossalmente la richiesta perentoria di giudizi favorevoli è omogeneizzante, perché implica che già si possiedano dei criteri per la formazione di questi giudizi. In linea esemplificativa penseremo i "loro" artisti come creatori di "opere" che poi potremo includere nel nostro canone. Anche la politica della differenza, invocando implicitamente i nostri criteri come metro di giudizio di tutte le civiltà e culture, può finire per rendere tutti uguali (81).

Proprio come il diritto di ciascun individuo al riconoscimento della propria individualità non può comportare, da parte altrui, l'obbligo normativo di rispettare questo diritto, senza che si presupponga anche che gli individui sono ugualmente degni di rispetto morale, così non si dà neppure alcuna ingiunzione immediata al rispetto di tutte le culture, le quali godono solo di una presunzione di eguaglianza.

Nella forma finora descritta la domanda di uguale riconoscimento è inaccettabile, ma non si può approdare tout court a questo esito, si tratterebbe di una scelta di natura finalistica. Gli oppositori del multiculturalismo, presenti negli ambienti accademici nordamericani, hanno individuato questo punto debole e lo hanno adottato come pretesto per mettere da parte il problema, ma questa mossa presenta evidenti cedimenti sul piano della teoria e della prassi.

Deve darsi, tuttavia, un esito intermedio tra la domanda, inautentica e omogeneizzante, di un riconoscimento di uguale valore, da un lato, e il murarsi da soli entro i propri criteri etnocentrici, dall'altro (82). Le altre culture, come già si è evidenziato, al pari delle 'nostre' non sono ipostasi, entità rigide e isolate, esse hanno vita e costituiscono sempre meno un universo conchiuso entro uno spazio inaccessibile, si vive sempre più insieme, sia su scala mondiale, sia strettamente mescolati in ogni singola società. Ciò che sussiste è la presunzione di eguale valore descritta in precedenza: un atteggiamento mentale che si può assumere nel momento in cui si sceglie di accostarsi all'altro. Taylor ritiene che probabilmente non dovremmo chiederci se gli altri possano pretendere tale assunzione presuntiva come loro diritto, potremmo chiederci soltanto se è in questo modo che noi dobbiamo accostarci a loro.

E' questo il modo allora? Come si può fondare questa presunzione? Si può sostenere che è ragionevole supporre che quelle culture che hanno dato un orizzonte significativo a un gran numero di esseri umani, dai caratteri e dai temperamenti più diversi per un lungo periodo di tempo - che in altri termini, hanno dato espressione al loro senso, del buono, del giusto, del consentito - possiedano (anche se non prive di aspetti da respingere) quasi certamente qualcosa che merita di essere riconosciuto senza astratte e ipocrite assunzioni. Ma forse è possibile esprimere questo concetto diversamente: ci vuole una suprema arroganza o una cecità finalisticamente determinata, per scartare a priori questa possibilità.

Potremmo proseguire con la risposta che offre Taylor: "Ci basta avere il senso del limite della nostra parte nell'intera storia umana per accertare questa tesi presuntiva, e solo l'arroganza o qualche difetto morale analogo può privarcene" (83). Ciò che la tesi presuntiva ci chiede non è una serie di giudizi di uguale valore perentori e inautentici, ma è un'apertura, un tentativo di comprensione, giacché la comprensione è il processo di fusione di orizzonti ab origine ritenuti indipendenti tra loro. E soprattutto ci chiede di ammettere che enormi sono le distanze da quell'orizzonte ultimo nel quale il valore relativo delle culture potrebbe esserci evidente: il che significherebbe rompere con un'illusione cui sono ancorati molti "multiculturalisti" assieme ai loro oppositori più accesi.

3.1.1 Contestualizzazione della lotta di riconoscimento nello stato democratico di diritto: tratti della teoria di Jurgen Habermas

Le moderne costituzioni derivano dall'idea giusrazionalistica che siano gli stessi cittadini a decidere autonomamente di riunirsi in una comunità di consociati giuridici liberi ed eguali. La costituzione pone in vigore esattamente quei diritti che essi devono reciprocamente riconoscersi, se vogliono legittimamente disciplinare la loro convivenza con strumenti di diritto positivo. Con ciò vengono già presupposti i concetti di "diritto soggettivo" e di "persona giuridica individuale" quale titolare di diritti. Anche se il diritto moderno fonda rapporti statalmente sanciti di riconoscimento intersoggettivo, i diritti, che ne derivano, tutelano ogni volta la vulnerabile integrità di soggetti giuridici individualmente presi. Ciò che alla fine conta è tutelare questi soggetti individuali, anche se resta vero che l'integrità di ciascun singolo, in sede sia giuridica che morale, dipende dall'intatta struttura dei rapporti di riconoscimento intersoggettivo (84).

Habermas, muovendo da questa premessa, pone un interrogativo cruciale, chiedendosi come una siffatta teoria dei diritti, dalla dichiarata prospettiva individualistica, sia poi in grado di spiegare quelle lotte di riconoscimento che sembrano ruotare sull'articolazione e sull'affermazione di identità collettive.

Una costituzione può essere intesa come un progetto storico che ogni generazione di cittadini ricomincia a portare avanti. Nello stato democratico di diritto, il potere si esercita attraverso una doppia codificazione, poiché la trattazione istituzionale dei problemi emergenti e la mediazione procedurale degli interessi devono potersi intendere anche come realizzazione di un sistema di diritti. Sennonché nell'arena politica compaiono sempre attori collettivi, che disputano su scopi collettivi e sulla distribuzione di beni collettivi. Solo in tribunale e nel discorso giuridico sono direttamente azionabili diritti individuali.

Ma anche il diritto vigente, di fronte a bisogni e situazioni di interesse nuovi, vuole essere interpretato in maniera nuova. Questa disputa sull'interpretazione e attuazione di diritti storicamente insoddisfatti è una lotta su diritti legittimi in cui, ancora una volta, sono coinvolti attori collettivi che resistono al disconoscimento della loro dignità. La domanda che pone Habermas verte proprio sulla possibilità di conciliare questi fenomeni con una teoria dei diritti impostata in senso individualistico.

Per l'autore "le conquiste politiche del liberalismo e della socialdemocrazia, derivate dal movimento di emancipazione borghese e dal movimento operaio europeo, suggeriscono una risposta di carattere affermativo" (85) dal momento che entrambi i fenomeni hanno perseguito lo scopo di abolire la discriminazione di determinati gruppi e quindi la divisione classista della società. Secondo Habermas la lotta per l'emancipazione di questi collettivi, cui erano negate pari opportunità sociali di vita, si è dovunque compiuta - con il prevalere del riformismo social-liberale - attraverso la lotta dello stato sociale volta all'universalizzazione dei diritti dei cittadini; si aggiunga che dopo il fallimento del socialismo reale, questa prospettiva storicamente si è confermata come l'unica possibile. La popolazione deve poter vivere in una fondata aspettativa di sicurezza, giustizia sociale e benessere, a partire dal fatto che lo status del lavoro salariato dipendente viene integrato da diritti sociali di ripartizione e diritti politici di partecipazione. Nel capitalismo, le diseguali condizioni sociali di vita devono essere compensate da una pressione egualizzatrice (o almeno di impronta egualizzatrice) sulla distribuzione dei beni collettivi.

"Questa visione è senz'altro conciliabile con la teoria liberale dei diritti, giacché i "basic goods" nel senso rawlsiano o sono distribuiti individualmente oppure sono usati individualmente e, dunque, possono essere concessi in forma di diritti individuali a prestazioni dello stato" (86).

Ma occorre altresì tenere conto di un transito riconosciuto da molti autori: il superamento del paradigma distributivo ed il passaggio al paradigma del riconoscimento. In questa direzione come abbiamo visto si è pronunciato Taylor (87). Nancy Fraser evidenzia come le espressioni "lotta per il riconoscimento" e "dalla redistribuzione al riconoscimento" siano usate spesso nel dibattito contemporaneo per segnalare la novità e la peculiarità della nuova politica dell'identità/differenza (88). Anna Elisabetta Galeotti nel delineare la controversa applicazione della nozione di tolleranza alla tematica multiculturalista, mette in risalto che il concetto liberale di tolleranza si attaglia ad un'analisi ferma al paradigma distributivo (89).

La riflessione di Habermas include e pone l'accento su questo mutamento di paradigma della politica contemporanea, poiché il problema della conciliabilità tra la necessità di affermazione di identità collettive ed una teoria liberale dei diritti sussiste ad un livello diverso da quello della social distribution. A tal proposito:

"Esso si pone di fronte a pretese di riconoscimento che sono avanzate da identità collettive e che mirano ad equiparare forme di vita culturali diverse. Per queste pretese si battono oggi femministe, minoranze di società multiculturali, popoli in lotta per l'indipendenza nazionale, nonché quelle regioni ex coloniali che rivendicano sul piano internazionale l'equiparazione delle loro culture" (90).

Dunque il riconoscimento di tradizioni e forme di vita marginalizzate - sia nel contesto della cultura maggioritaria, sia nella società globale dominata dall''Occidente' - dipende da garanzie di status e di sopravvivenza? Potrebbe dipendere da quel genere di diritti collettivi che fanno saltare l'idea tradizionale dello stato democratico di diritto, "liberale", in quanto ritagliato su diritti individuali?

A questa domanda Habermas offre una risposta diversa da quella sviluppata da Taylor.

3.1.2 Esaustività del paradigma di tutela liberale secondo Habermas: rilievi da un punto di vista comunitario

Amy Gutmann afferma che "l'essere pienamente e pubblicamente riconosciuti come cittadini eguali può chiedere due forme di rispetto: a) il rispetto dell'identità irripetibile di ogni individuo, indipendentemente dal sesso, dalla razza o dall'etnia, e b) il rispetto di quelle attività, pratiche e visioni del reale che sono particolarmente apprezzate dai (o tipici dei) membri dei gruppi svantaggiati, ad esempio gli asiatico-americani, gli afro-americani, i nativi americani e molti altri gruppi presenti negli Stati Uniti (91). Lo stesso può dirsi per i Turchi in Germania (Gastarbeiter), per i croati in Serbia, i curdi in Turchia. Questa richiesta di riconoscimento mira non tanto ad eguagliare le condizioni sociali dell'esistenza, quanto a tutelare l'integrità delle forme di vita e delle tradizioni in cui si riconoscono i membri di gruppi discriminati. Sicuramente, come si è a lungo evidenziato, il misconoscimento culturale è quasi sempre legato a grosse discriminazioni sociali, e i due profili si potenziano a vicenda.

Ciò che invece appare controverso è se la richiesta b) discenda dalla richiesta a), cioè dal principio di pari rispetto di ciascun individuo, oppure se queste due richieste, almeno in certe ipotesi, debbano necessariamente confliggere.

Taylor dà per scontato che la salvaguardia delle identità collettive entri in conflitto con il diritto a pari libertà individuali - cioè con il concetto kantiano di Ursprüngliches Menschenrecht (diritto originario dell'uomo) (92) - in caso di contrasto, si deve decidere a quale delle due richieste occorra dare la prevalenza. Taylor fonda la sua tesi sulla seguente considerazione: dal momento che la richiesta b) chiede il rispetto di quelle particolarità da cui la richiesta a) sembra fare astrazione, il principio di pari trattamento dovrà farsi valere per il tramite di programmi politici che includano, da un lato, una politica rispettosa delle differenze culturali, e dall'altro, una politica di universalizzazione dei diritti soggettivi. Una politica che tuteli le differenze culturali deve bilanciare le discriminazioni che una politica dell'eguale dignità, nella forma di un livellante universalismo, finisce per produrre. Rawls e Dworkin propongono un ordinamento giuridico eticamente neutrale, che assicuri a ciascuno pari opportunità nel perseguimento della sua personale concezione del bene: secondo l'interpretazione liberale la politica si deve fondare sull'universalismo delle norme giuridiche e dunque rimanere neutrale rispetto alle varie concezioni etiche "private", a prescindere dalla diversità culturale. Taylor, così come Walzer, nell'ottica di una concezione comunitarista, contesta la neutralità etica dello stato e sostiene piuttosto una visione sostantiva dei fini della vita: la politica si fonda sulla differenza dei valori etici. Secondo Habermas "Taylor può 'permettersi' di pretendere dallo stato di diritto anche la promozione attiva di determinate concezioni della 'vita buona'" (93).

Come abbiamo visto, Taylor si riferisce all'esempio canadese della minoranza francofona. Essa pretende che si conceda al Québec - all'interno della nazione - il diritto di formare una società sui generis; questa società dovrebbe tutelare localmente l'integrità della sua forma di vita attraverso regole che, come si è detto in precedenza, vietino alla popolazione francofona e agli immigrati di iscrivere i propri bambini alle scuole inglesi, oppure che impongano il francese sia come lingua di lavoro sia come lingua commerciale. A questi "fini collettivi" una teoria dei diritti pensata nella sua prima visione dovrebbe decisamente opporsi: come si è evidenziato, una società con fini collettivi come quelli del Québec viola il modello del liberalismo 1º, ritagliato sui diritti individuali.

Secondo Habermas una teoria dei diritti correttamente intesa non è affatto cieca nei confronti delle differenze culturali, per tale motivo egli contesta quello che chiama il "contromodello" di Taylor.

In esso - a parere di Habermas - Taylor legittima, in certe circostanze, una limitazione dei diritti fondamentali per far sopravvivere forme di vita o culture minacciate; autorizza programmi politici che intenzionalmente vogliono "creare attivamente dei membri di tale comunità, per esempio assicurandosi che generazioni future continuino a considerarsi francofone" (94).

Liberalismo 1º, più specificamente, è per Taylor quella teoria secondo cui a tutti i consociati vengono garantite, sotto forma di diritti fondamentali, eguali libertà soggettive: in caso di conflitto i tribunali decidono quali diritti spettano a chi; in definitiva liberalismo 1º è un modello in cui esistono soltanto diritti giuridici (95).

Secondo Habermas il liberalismo 1º misconosce la cooriginarietà di autonomia privata e autonomia pubblica (96). La posizione habermasiana deriva dalla seguente analisi: nell'assetto tayloriano del liberalismo 1º, il principio dell'eguale rispetto si esprimerebbe soltanto nell'autonomia giuridica di cui l'individuo si serve per realizzare un proprio progetto di vita, una simile lettura del sistema dei diritti equivale a dimidiare il concetto di autonomia poiché trascura il fatto che i destinatari del diritto possono acquistare autonomia (in senso kantiano) solo nella misura in cui possono intendersi anche come gli autori delle leggi cui si assoggettano in quanto privati (97).

Il punto di vista di Habermas si dispiega ulteriormente giungendo ad affermare che la contiguità o piuttosto l'inscindibilità che ab origine caratterizza l'autonomia privata e l'autonomia pubblica non può essere concepita nei termini di un'integrazione meramente estrinseca dell'autonomia privata, bensì può essere descritta come una connessione interna e concettualmente necessaria.

L'assunzione teorica che sorregge questa posizione ha un'indiscutibile validità logica; Habermas sostiene, infatti, che i soggetti giuridici privati non potrebbero neppure godere di pari libertà individuale, se prima non stabilissero chiaramente - esercitando insieme la loro autonomia civica - quali siano i loro interessi e criteri legittimi, nonché gli aspetti rilevanti con cui trattare in modo eguale l'eguale e in modo diseguale il diseguale (98). Sostiene Habermas: "Se noi prendiamo sul serio questo legame interno tra stato di diritto e democrazia allora diventa subito chiaro perché il sistema dei diritti non possa essere cieco né verso le condizioni sociali diseguali né verso le differenze culturali" (99).

Emerge chiaro il nucleo della teoria habermasiana: il daltonismo che affligge la lettura dei diritti del liberalismo 1º scompare non appena si riconosca ai titolari dei diritti individuali un'identità intersoggettivamente concepita (100). Le persone (quindi anche i soggetti giuridici) acquistano identità solo tramite la socializzazione (101). Se ciò è vero, una teoria dei diritti rettamente intesa richiederà comunque una "politica di riconoscimento" che tuteli l'integrità dell'individuo anche riguardo al nesso di vita costitutivo della sua identità. A questo fine, dunque, non sussisterebbe la necessità di elaborare "contromodelli" che partano da una diversa prospettiva per correggere il taglio individualistico del sistema dei diritti, sarebbe sufficiente realizzare fino in fondo questo stesso sistema (102). Nel contromodello tayloriano, il liberalismo 2º, esisterebbero anche diritti culturali collettivi da far valere in sede politica. Risulterebbe difficile pensare a questa realizzazione prescindendo dai movimenti sociali e dalle lotte politiche. Tuttavia il modello tracciato dallo sviluppo del diritto 'occidentale' palesa una dialettica, talvolta afona in un senso, tra eguaglianza giuridica ed eguaglianza fattuale, (eguaglianza "de iure" versus eguaglianza "de facto"). Eguali competenze giuridiche concedono libertà d'azione il cui uso differenziale non promuove l'eguaglianza fattuale delle situazioni di vita e delle posizioni di potere. Affinché il senso dell'eguaglianza giuridica non si rovesci nel contrario, occorre realizzare i presupposti fattuali che consentono a tutti di utilizzare con pari opportunità le competenze giuridiche.

Secondo Habermas la negazione della cooriginarietà tra autonomia privata ed autonomia pubblica (103), che si estrinsecherebbe nella rimozione del nesso concettuale e costitutivo che collega i diritti individuali dei privati all'autonomia pubblica dei cittadini partecipanti alla produzione giuridica, decreterebbe "un'oscillazione senza rimedio tra gli estremi di un paradigma giuridico liberale à la Locke e il paradigma giuridico altrettanto miope di uno stato socio-assistenziale" (104).

A questo proposito, per Habermas l'intervento di riequilibrio delle situazioni di fatto e delle posizioni di potere potrebbe comportare un'azione "normalizzatrice" che finisca per coartare il margine d'azione dei potenziali fruitori.

Diversamente, come si è visto, Taylor teorizza i vantaggi di una politica di riequilibrio che decomprima le bolle di marginalità; un'azione che riduca le disuguaglianze, a tal fine, può seguire a buon diritto uno sviluppo diacronico che converga verso un azzeramento di presunti vantaggi iniziali. Più estesamente: la precostituzione di posizioni di privilegio e immunità nei confronti delle minoranze avrebbe un carattere compensatorio della discriminazione esercitata fino a quel momento verso di esse; nel tempo si assisterebbe ad un naturale livellamento di quello che ab initio sembrerebbe il vantaggio attribuito ad un gruppo a detrimento dell'altro. L'apparente violazione del principio di parità di trattamento giustificherebbe, dunque, nella prospettiva liberale, la cecità pubblica rispetto alle differenze. E' possibile fare riferimento ad un profilo di apparenza ove si neghi l'attrito che lo stato oppone al transito dell'eguaglianza de iure in eguaglianza de facto.

Storicamente la politica liberale ebbe come obiettivo primario quello di sganciare l'acquisizione di status dall'identità sessuale, garantendo alle donne un'eguaglianza di opportunità - a prescindere dall'effettivo conseguimento di questo obiettivo - nella lotta per posti di lavoro, prestigio sociale, titoli di studio, cariche politiche. Questa parificazione formale non fece che evidenziare ulteriormente la disparità di trattamento che di fatto le colpiva.

Per Habermas le politiche dello stato sociale ottengono il medesimo esito. Rimanendo sul tema della parità di trattamento tra uomo e donna, egli si chiede in che modo fenomeni quali la maggiore esposizione delle donne al rischio di licenziamento, la loro presenza nei livelli di salari più bassi e la progressiva "femminilizzazione" della povertà possano conciliarsi con l'emanazione di normative concernenti la tutela della donna in gravidanza o del coniuge più debole in caso di divorzio (105).

Habermas pone i "due modelli" tayloriani sullo stesso piano, arrivando a sostenere la secondarietà di quella che chiama la disputa tradizionale concernente l'an dell'autonomia dei soggetti giuridici, se essa sia più efficacemente presidiata dalle libertà individuali della concorrenza privata o dalle prestazioni dello stato (106).

L'inesaustivo e impraticabile liberalismo proceduralista descritto da Taylor scivola in Habermas nella facies di un processo democratico destinato ad assicurare simultaneamente l'autonomia privata e l'autonomia pubblica. Questo esito discenderebbe da una concezione giuridica proceduralista dello stato che, spogliandosi dell'etichetta di liberale, arriva a far coincidere la garanzia dell'autonomia privata dei singoli con l'attivazione della loro autonomia civica. Habermas sembra sostenere che i diritti individuali, attraverso cui i membri delle minoranze dovrebbero progettarsi autonomamente l'esistenza privata, non possono essere formulati in maniera adeguata se non dopo che i diretti interessati abbiano articolato e giustificato gli aspetti, di volta in volta, rilevanti della parità (o disparità di trattamento).

Il pensiero evoca il concetto rawlsiano di spazio pubblico comune, l'universalismo - secondo questa prospettiva - avrebbe un ancoraggio concreto, quasi un'origine negoziale, e questo lo svuoterebbe dei caratteri di un astratto livellamento delle differenze.

Riflettiamo sull'assunto kantiano della cooriginarietà di autonomia privata e pubblica e proviamo ad attualizzarlo: se i destinatari del diritto possono acquistare autonomia solo nella misura in cui possono intendersi anche come gli autori delle leggi cui si assoggettano in quanto privati, occorre che vi sia un bacino di partecipazione allo spazio pubblico trasversale, non monoculturale. Altrimenti persisterebbe per determinati soggetti una totale disgiunzione tra autonomia privata e autonomia civica a detrimento della tutela della prima e dell'esistenza della seconda. La cooriginarietà delle due sfere finirebbe per avere una portata esclusivamente teorica.

Nel termine "comune" (107) vi è forse la chiave della formulabilità della categoria dei diritti collettivi? Veramente i diritti collettivi sono supplementari? L'universalizzazione dei diritti continua a rappresentare il "motore" per una differenziazione progressiva del sistema dei diritti? Non c'è nessun crinale che si interpone tra il taglio individualistico-liberale del sistema dei diritti e la democrazia? La socializzazione cui fa riferimento Habermas coincide con il riconoscimento tayloriano? La socializzazione è l'autentica condicio sine qua non dell'individuazione, dell'acquisizione di un'identità cui devono inerire diritti? Ma soprattutto come si garantiscono i diritti che accedono naturalmente ad un'identità?

3.2.1 Lotte di riconoscimento: fenomeni e livelli d'analisi

A questo punto dell'analisi occorre operare alcune distinzioni analitiche. Multiculturalismo, femminismo, nazionalismo e lotta contro il colonialismo eurocentrico sono fenomeni che presentano tratti in comune ma che, tuttavia, si configurano come distinti.

L'elemento unificante consiste nel fatto che, nell'opporsi a repressione, a emarginazione e disconoscimento, sia minoranze etnico-culturali che donne, sia nazioni che culture lottano per il riconoscimento delle loro identità collettive. Né rileva che ciò avvenga nel contesto di una cultura maggioritaria o nel quadro delle comunità delle nazioni. Si tratta di movimenti di emancipazione i cui obiettivi politici si definiscono innanzitutto in termini culturali, anche se essi, come si è rilevato, non possono prescindere, anzi muovono da ineguaglianze socio-economiche e dipendenze politiche.

Il femminismo è la causa di chi - non certo come minoranza - si contrappone ad una cultura dominante che interpreta asimmetricamente il rapporto tra i sessi negando la parità dei diritti.

La differenza delle esperienze e delle situazioni sociali di esistenza non trova una considerazione adeguata né sul piano giuridico né sul piano informale; l'autocomprensione culturale delle donne e il loro contributo alla cultura comune non trovano il riconoscimento che spetterebbe loro; nell'ambito delle definizioni dominanti, i bisogni femminili non possono essere neppure sufficientemente articolati (108). Così la lotta politica per il riconoscimento comincia come lotta per interpretare prestazioni e interessi legati al sesso; nella misura in cui essa ha successo, modifica con l'identità collettiva anche il rapporto tra i sessi, incidendo immediatamente sull'autocomprensione maschile. Come sostiene Benhabib, è l'intera scala sociale dei valori ad essere messa in discussione: le conseguenze di questa problematizzazione si spingono fin dentro gli ambiti privati e intimi della vita, coinvolgendo le consuete distinzioni tra sfera privata e sfera pubblica (109).

La lotta delle minoranze etniche e culturali per il riconoscimento delle loro identità collettive costituisce un problema diverso. Anche questi movimenti di emancipazione mirano a superare una divisione della società priva di validi fondamenti, e in questo senso anche l'autocomprensione della cultura maggioritaria dovrà esserne coinvolta; tuttavia, "dal punto di vista della cultura maggioritaria, interpretare diversamente prestazioni e interessi altrui non significa necessariamente modificare il proprio ruolo nella stessa misura in cui la reinterpretazione del rapporto tra i sessi modifica il ruolo maschile" (110).

E'importante sottolineare che i movimenti di emancipazione nelle società multiculturali non costituiscono un fenomeno unitario. Essi affrontano sfide di tipo diverso a seconda che minoranze interne siano o diventino consapevoli della propria identità oppure che nuove minoranze sorgano attraverso i flussi migratori. Habermas sottolinea lucidamente che il fenomeno presenta aspetti differenziali anche in relazione alla circostanza che ne sia interessato uno stato che, in base alla propria storia e cultura politica, si consideri fin dall'inizio terra d'immigrazione o, diversamente, uno stato che solo a posteriori abbia adattato la propria autocomprensione all'integrazione di culture straniere (111).

La sfida sarà tanto più grande quanto più profonde sono le differenze culturali, etniche, religiose e quanto più scoscesi sono i dislivelli storico-culturali che si tratta di superare. Ma la sfida sarà tanto più problematica quanto più le tendenze all'autoaffermazione assumono un carattere reattivo e finanche fondamentalistico, stante la presenza di un duplice ordine di motivi: l'esperienza di impotenza e marginalizzazione può spingere le minoranze a forme di lotta altrimenti escluse. Talvolta un gruppo minoritario deve mobilitare la gran parte dei suoi membri nell'articolazione e nella costruzione di una nuova identità da opporre alla maggioranza. A tal proposito, George Devereux, studiando i processi di acculturazione subiti dalle minoranze indiane negli Stati Uniti, ha individuato tre tipi di acculturazione e tre possibili percorsi di inserimento: 1. un processo dissociativo in cui l'individuo, nella posizione di minoranza, accetta di venire assimilato, tende ad assomigliare a chi lo assimila, ma tutto ciò avviene in modo ambivalente attraverso un meccanismo duale di attrazione-repulsione; 2. un processo polarizzatore-oppositivo, con cui si intende il rifiuto dell'assimilazione, accompagnato dall'affermazione reattiva di un'identità originaria, che rappresenta in gran parte un meccanismo di difesa e un processo di autoisolamento ghettizzante; 3. un processo di integrazione reciproca che, invece, implica un adattamento attivo al nuovo contesto, durante il quale l'individuo ne assimila elementi conservando, tuttavia, la peculiarità della propria identità originaria. In questa maniera si effettua un vero feedback positivo in cui la minoranza si lascia contaminare culturalmente, ma riesce a fecondare "di ritorno" la maggioranza con le proprie caratteristiche culturali (112).

Da tutto ciò andrà distinto il nazionalismo di quelle popolazioni che - nell'idea di un comune destino storico (113) - vogliono essere tutelate non solo come collettività etnicamente e linguisticamente omogenee, ma anche come un popolo di stato politicamente autonomo. L'obiettivo dei vari movimenti nazionalistici fu quasi ovunque rappresentato dallo "stato nazionale" così come esso si costituì in forma repubblicana sulla scia della Rivoluzione francese.

Un altro contesto fu quello rappresentato dall'epoca della decolonizzazione dopo la seconda guerra mondiale. Ancora diversa fu la costellazione che vide la disgregazione di imperi come quello turco, austro-ungarico o sovietico. Da ciò occorre scindere la situazione di minoranze nazionali come quella basca, curda o nord-irlandese, che si sono costituite parallelamente alla formazione di uno stato nazionale. Infine "eurocentrismo" e "predominio culturale dell'Occidente" sono parole chiave di una lotta per il riconoscimento sostenuta sul piano internazionale (114).

La controversia costituzionale del governo canadese con il Québec si pone al confine tra il secondo e il terzo fenomeno. Senza peraltro giungere al livello secessionistico della fondazione di un vero e proprio stato, la minoranza francofona lotta evidentemente per diritti che le spetterebbero nel caso in cui anch'essa fosse dichiarata nazione indipendente. Tale minoranza francofona, secondo Habermas, mira però a formare uno "stato nello stato": soluzione per la quale si offre una congerie di modelli associativi che va dalle regolamentazioni di uno stato federale a più allentati legami di tipo confederale. Dal punto di vista del Canada, al decentramento dei poteri statali si aggiunge il problema dell'autonomia culturale di una minoranza che, nell'ambito del proprio territorio, vorrebbe farsi maggioranza relativa. Differenti sono non soltanto i tipi di fenomeni descritti, ma anche i livelli d'analisi intercettati. Taylor ne individua almeno tre.

Nel dibattito americano sulla political correctness questi fenomeni diventano lo spunto per mettere più nitidamente a fuoco le idee sul valore della modernità. "Ma nessuno dei due partiti impegnati nella discussione sembra voler sviluppare veramente la modernità come un progetto irrinunciabile e autofondato" (115). I radicali vogliono transitare nel postmoderno e congedare così vecchie figure totalizzanti del pensiero. I tradizionalisti, invece, assumono questo atteggiamento come il sintomo di una crisi che sarebbe padroneggiabile solo con l'evocativo ritorno alle "tradizioni classiche dell'Occidente". Si tratta di un dibattito totalmente estrinseco rispetto al quadro di comprensione delle lotte di riconoscimento che prendono corpo negli stati democratici di diritto e del tutto sterile sul piano delle possibili soluzioni politiche (116).

Su un livello decisamente diverso si collocano i discorsi specialistici della filosofia, quando partono dai problemi sopra trattati per descrivere problemi generali. Tali discorsi evidenziano le difficoltà inerenti all'intesa tra culture diverse. Essi possono fare luce sul rapporto moralità/eticità, oppure sulla relazione interna significato/validità, alimentando la tradizionale quérelle del se sia possibile trascendere il contesto della lingua e della cultura, o se diversamente tutti gli standard di razionalità restino sempre legati a determinate tradizioni e immagini del mondo.

Secondo Habermas, i vistosi effetti di disgregazione nelle società multiculturali ed un'estrema varietà linguistica nella società planetaria sembrano indurre ad adottare concezioni olistiche del linguaggio e visioni contestualistiche del mondo.

"Queste, a loro volta, sembrano spingerci ad un atteggiamento di scetticismo nei confronti di ogni pretesa universalistica di natura cognitiva o normativa. Il ramificato - e tutt'altro che concluso - 'dibattito sulla razionalità ' involve anche conseguenze sui concetti del 'buono'e del 'giusto' che hanno costituito uno strumento di analisi delle condizioni di una 'politica del riconoscimento'" (117).

Ma occorre ricordare che, al suo fondo, la proposta tayloriana ha un riferimento diverso: essa si colloca sul piano del diritto e della politica.

La questione circa il "diritto" o i "diritti" delle minoranze marginalizzate acquista così un senso essenzialmente giuridico. Per modificare le società complesse, le decisioni politiche si servono della forma di regolamentazione rappresentata dal diritto positivo. Nella elaborazione tayloriana si evidenzia come nel medium giuridico ci si scontra, tuttavia, con una struttura artificiale legata a tutta una serie di presupposti normativi. Il diritto moderno è formale, giacché riposa sulla premessa che è permesso tutto ciò che non è esplicitamente vietato (118). E' individualistico poiché intende la singola persona come titolare di diritti soggettivi. E' diritto coattivo, in quanto è sanzionato dallo stato. E' diritto positivo dal momento che rinvia alle decisioni (modificabili) di un legislatore politico, e infine è diritto proceduralmente statuito, in quanto viene legittimato da un procedimento democratico (119). Pur non pregiudicando i motivi per cui si ottempera alla legge, il diritto deve essere costruito in modo tale da consentire sempre ai suoi destinatari di ottemperarvi anche per "rispetto della legge". Un ordinamento giuridico legittimo (120) deve tutelare l'autonomia dei cittadini (121).

Quando i cittadini possono dirsi realmente autonomi? Quando l'etimologia del termine autonomia risulta pienamente inverata? I cittadini sono autonomi soltanto quando i destinatari del diritto possono anche pensarsi come i suoi autori. Habermas sostiene: "i cittadini sono liberi solo in quanto prendono parte a processi legislativi che sono regolati in modo tale, e si compiono in forme comunicative tali, da far ritenere a tutti che le regole stabilite siano meritevoli di approvazione generale e razionalmente motivata" (122).

Si comprende come il fenomeno del multiculturalismo acquisti una problematicità plurale dotata di un'ineludibile radice sul terreno del diritto e muova una sfida alla democrazia (123). Esce illesa la nostra idea di democrazia? Da un punto di vista normativo nessuno stato di diritto può esistere senza democrazia. Il processo democratico deve istituzionalizzarsi entro forme giuridiche; quelle del nostro stato democratico di diritto includono la parificazione giuridica e l'eguale riconoscimento di gruppi culturalmente definiti? A questo proposito Seyla Benhabib parla del "paradosso della legittimazione democratica" (124): esso consiste nel fatto che il sovrano repubblicano deve garantire una limitazione della propria volontà attraverso una serie di impegni assunti in via preliminare nei confronti di una serie di norme formali e sostanziali, generalmente chiamate "diritti umani" (125). I diritti e le pretese degli "altri" sono quindi negoziati su questo terreno circoscritto dai diritti umani da una parte, e dalle pretese della sovranità dall'altra. Secondo Benhabib, sebbene nei regimi democratici tale paradosso non possa mai essere pienamente risolto, il suo impatto può essere mitigato attraverso una rinegoziazione e reiterazione del duplice impegno nei confronti dei diritti umani e dell'autodeterminazione sovrana. La sovranità popolare, vale a dire il fatto che coloro che sono soggetti alla legge ne siano anche gli artefici, non coincide esattamente con la sovranità territoriale. Se il démos, inteso come popolo sovrano (126), deve affermare il proprio controllo su uno specifico ambito territoriale, esso può anche impegnarsi in atti riflessivi di autocostituzione, attraverso i quali possono essere ridefiniti i confini del démos stesso (127). La politica dell'appartenenza, infatti, nella società multiculturale ha a che fare con la negoziazione dei rapporti complessi tra diritti di piena appartenenza, espressione democratica e residenza nel territorio.

3.2.2 Neutralità o pregnanza etica dello stato di diritto?

Lo sviluppo democratico del sistema dei diritti include non soltanto il perseguimento di obiettivi politici generali, ma anche di quei fini collettivi che si articolano nelle lotte di riconoscimento.

Alla luce di questa considerazione, la neutralità etica del diritto e della politica rischia di rimanere intelaiata entro i confini di una pretesa liberale.

"Le norme giuridiche, a differenza delle norme morali che disciplinano, in astratto, le possibili intenzioni di un qualunque soggetto capace di linguaggio e di azione, si riferiscono ai nessi di società concrete. Esse rinviano alle decisioni di un legislatore, si applicano ad un collettivo socialmente circoscritto all'interno di un ambito statale geograficamente determinato e, nel raggio della loro vigenza, traducono in programmi vincolanti le decisioni politiche attraverso cui una società statalmente autorganizzata vuole autotrasformarsi" (128).

Ciò non significa che non intervenga un'autocomprensione etico-politica dei cittadini cui le suddette norme giuridiche si applicano. Come sostiene Habermas, "alle questioni etiche è grammaticalmente ascritto il riferimento alla prima persona, dunque all'identità del Sé (individuale e collettivo)" (129).

La questione che si pone è se l'autochiarimento etico sia una semplice componente della formazione politica dell'opinione e della volontà civica dei singoli cittadini costituenti un gruppo oppure penetri nel gangli della sua stessa realizzazione giuridica.

E' su quest'ultima opzione che Habermas fonda il transito dalla concezione della neutralità dello stato al piano della pregnanza etica dello stato di diritto; all'origine della marginalizzazione delle minoranze non vi sarebbe la cosiddetta cecità pubblica verso le differenze quanto un processo 'democratico', espressione dell'autopercezione etico-politica della comunità di riferimento (130).

Occorre considerare se la diversa genesi del problema sia soltanto di facciata o aggiunga ulteriori elementi al quadro teorico del problema: la questione concernente la postulabilità e l'attribuibilità di diritti collettivi ai gruppi minoritari presenti nelle società multiculturali. Per Habermas "il perseguimento dei fini della collettività (131) non deve mai compromettere la struttura del diritto, ossia non deve distruggere la forma giuridica come tale, né confondere diritto e politica" (132). Attiene, tuttavia, alla natura concreta delle materie da disciplinare il fatto che nel medium giuridico, a differenza che nella morale, la regolamentazione del comportamento si apra agli scopi che la volontà politica di una società intende stabilire. Per tale motivo Habermas conclude:

"Ogni ordinamento giuridico costituisce anche l'espressione di una forma di vita particolare e non solo l'icona speculare del contenuto universale dei diritti fondamentali. Se infatti è indubbio che le decisioni del legislatore politico devono essere sempre interpretabili come una realizzazione del sistema dei diritti e i suoi programmi politici come uno sviluppo di questo stesso sistema, quanto più concreto si fa il taglio della materia, tanto più l'accettabilità della relativa norma giuridica rifletterà in sé anche l'autocomprensione e autopercezione di una comunità specifica e della sua forma di vita" (133).

E' un fatto che accanto a considerazioni pragmatiche e trattative più o meno eque, nelle consultazioni e nelle giustificazioni del legislatore siano presenti ragioni di tipo etico. Le questioni etico-politiche sono parte inevitabile della politica e le normative esprimono l'identità collettiva di una nazione? Se si converge verso una risposta affermativa, potrà del pari ammettersi che l'elemento scatenante il conflitto tra maggioranza e minoranze e il bisogno di riconoscimento delle suddette, non andrà più cercato nella neutralità etica dell'ordinamento giuridico, ma piuttosto nell'inevitabile pregnanza etica di ogni comunità giuridica e di ogni processo democratico realizzante diritti. A sostegno di ciò, a titolo esemplificativo, possono invocarsi le garanzie istituzionali godute dalle confessioni cristiane in alcuni paesi o il privilegio costituzionale accordato alla famiglia, in quanto distinto da forme analoghe di convivenza more uxorio in stati come il nostro (privilegio che è stato messo in discussione soltanto recentemente).

E'interessante rilevare come tali decisioni etico-politiche, sia nel loro aspetto normativo, sia nel loro aspetto empirico, dovrebbero dipendere dalla contingente composizione della nazione (134). Essa deriva da circostanze storiche, sociali, economiche, geografiche estranee al sistema dei diritti e ai principi dello stato di diritto. Con i loro processi di socializzazione, gli individui che, in un dato momento storico, compongono una nazione, incarnano anche le forme culturali in cui hanno plasmato la loro identità. Questi individui, o meglio le strutture della loro personalità, rappresentano i punti di una rete ascrittiva di tradizioni e usanze, cioè di contesti intersoggettivamente condivisi di vita e di esperienza (135).

E questo contesto è anche l'orizzonte al cui interno i cittadini portano avanti i loro discorsi di autochiarimento etico-politico (136). Se muta l'insieme demografico della popolazione, dovrebbe modificarsi anche questo orizzonte e cessare di essere polarizzato verso la matrice egemonica della maggioranza (137). Norme e assetti istituzionali normativi possono essere considerati validi solo a condizione che tutti coloro che siano investiti dalle conseguenze che essi comportano, possano prendere parte al discorso pratico attraverso cui le norme vengono adottate.

La neutralità liberale è forse il travestimento dell'eticizzazione di uno stato incapace di far fronte alla sua stessa deriva monoculturale?

3.3.1 Configurabilità dei diritti collettivi? La prospettiva liberale

Per Jurgen Habermas, tuttavia, non esistono "diritti collettivi" in quanto la valorizzazione delle diversità socio-culturali deve essere riferita, in ultima analisi, ad una prassi fondata su criteri costituzionali universalistici e transculturali (138).

La convivenza giuridicamente equiparata dei diversi gruppi etnici e delle forme di vita culturali non ha bisogno di essere tutelata da diritti collettivi, cioè "da quel tipo di diritti" che finirebbero per "sovraccaricare" una teoria dei diritti modellata su soggetti giuridici individuali. Egli sostiene che, se anche fosse possibile concedere simili "diritti di gruppo", nell'ambito di uno stato democratico di diritto essi sarebbero non soltanto superflui ma anche normativamente discutibili. Habermas conia l'espressione "tutela ecologica della specie" che egli oppone senza remore al concetto di "coesistenza con eguali diritti" (139): per l'autore la tutela di tradizioni e forme costitutive dell'identità deve, in ultima istanza, servire al riconoscimento dei loro membri in quanto individui (140). Da ciò discende che "essa non può avere il senso di una tutela biologica della specie compiuta per via amministrativa". Le tradizioni culturali e le forme di vita in esse articolate si riproducono di regola per il fatto di convincere tutti coloro la cui struttura della personalità ne risulta influenzata, circolarmente questi soggetti sono motivati ad assimilare tali riferimenti culturali e a svilupparli in maniera produttiva. Uno stato di diritto può soltanto rendere possibile questa prestazione ermeneutica necessaria alla riproduzione culturale dei modi di vita. Una "sopravvivenza garantita", invece, dovrebbe necessariamente sottrarre ai partecipanti la libertà di acconsentire o di dissentire che è oggi preliminare a qualunque acquisizione o tutela di una data eredità culturale.

Habermas pone la sua teoria sotto l'involucro protettivo di una presunzione di costante e sempre rinnovata adesione degli individui alla cultura di riferimento. Ciò configura i valori culturali come costitutivi delle identità collettive non come contenuto di diritti culturali da far valere in sede politica.

L'assunto habermasiano, descrivendo lo statuto impresso ad una determinata cultura come la conseguenza naturale della scelta condivisa di aderirvi o meno - potremmo dire "pubblica" - sembra non includere il riferimento ad una società multiculturale. Nel solco dell'espressione "tutela ecologica della specie", adottata dall'autore in opposizione ad una prospettiva comunitaria e ad un presunto trattamento di favore nei confronti delle minoranze, potremmo dire che Habermas sembra postulare una sorta di darwinismo sociale tra culture il cui esito è scontato in quanto istituzionalizzato. Sembra che l'elemento culturale possa inerire ad una posizione giuridica soggettiva solo se muove da un ineliminabile ancoraggio territoriale: il territorio che costituisce i confini di uno stato in cui vigono e si applicano determinate norme giuridiche. Con questa presupposizione l'elemento culturale diviene istantaneamente da estrinseco e impermeabile, intrinseco e fisiologicamente pregnante. Come si accennava in precedenza, l'elemento culturale e con esso l'autopercezione etico-politica possono permeare lo stesso processo di realizzazione giuridica al punto che Habermas sostiene che la teoria dei diritti di stampo liberale non proibisce affatto di esprimere nell'ordinamento giuridico complessivo una certa concezione del bene, la quale - si evidenzi quest'ultimo aspetto - può essere già condivisa oppure concordata ex novo con discorsi politici.

Habermas pone a suggello della sua posizione in merito alla configurabilità della categoria dei diritti collettivi un'affermazione ambivalente che potrebbe conciliarsi con una prospettiva comunitaria:

"Nelle condizioni di una cultura fattasi riflessiva possono mantenersi in vita soltanto le tradizioni e le forme di vita che, pur legando (141) a sé i propri membri, non si sottraggono al loro esame critico e tengono sempre aperta ai loro discendenti l'opzione o di apprendere da tradizioni diverse o anche di convertirsi e mettersi in marcia verso nuovi lidi" (142).

L'introduzione della categoria socio-antropologica della riflessività alluderebbe ad un concetto di cultura fluida, mobile, in continuo divenire, propensa al confronto, l'espressione è richiamata ed amplificata dal concetto di opzione; l'elemento della scelta, infatti, sempre possibile e rinnovabile, può costituire la premessa di un "cultura vivente". Persino una cultura maggioritaria che non sia minacciata conserva la sua vitalità soltanto attraverso un revisionismo spregiudicato: deve progettare alternative all'esistente, assimilare impulsi esterni e, talora, spingersi fino al punto di rompere con le proprie tradizioni. Più una tradizione culturale è viva, maggiore sarà la contesa intorno ai suoi elementi fondamentali (143). La posizione di Habermas abbandona ogni mediazione tra liberalismo proceduralista e comunitarismo attraverso l'elaborazione dei concetti di "integrazione etica" ed "integrazione politica" e la teorizzazione di un'indiscutibile separazione tre le due sfere:

"Nelle società multiculturali la costituzione di uno stato di diritto può tollerare soltanto forme di vita che si articolano nel medium di tradizioni non fondamentalistiche, giacché la convivenza giuridicamente equiparata di queste forme presuppone che le diverse appartenenze culturali si riconoscano reciprocamente. Ogni persona deve essere, infatti, riconosciuta come membro di una comunità che è integrata attorno ad una certa concezione del bene. Ma, di conseguenza, l'integrazione etica dei diversi gruppi e subculture, ognuno dotato di una sua propria identità, deve sganciarsi dal livello dell'integrazione politica astratta che ricomprende in egual misura tutti i cittadini" (144).

Il punto decisivo è salvaguardare la differenza tra questi due livelli di integrazione. Il senso di questo discrimen viene condiviso e riarticolato anche da Benhabib:

"Voglio suggerire una distinzione tra integrazione culturale e integrazione politica, e avanzare l'ipotesi che in una stabile democrazia liberale la porosità dei confini non costituisca una minaccia, ma piuttosto un arricchimento della diversità democratica esistente. Le comunità culturali sono costruite attraverso l'adesione dei membri a valori, norme e tradizioni che recano un carattere prescrittivo per la loro identità, in quanto la mancata adesione a essi può minare il loro senso di appartenenza e integrazione. E'altrettanto innegabile, tuttavia, che esista sempre una certa dose di contestazione e innovazione intorno a queste definizioni e narrative culturali: cosa significa essere un ebreo osservante ma non ortodosso? Cosa significa essere una donna musulmana moderna? Cosa significa essere un cattolico favorevole all'aborto? Le tradizioni culturali si compongono di queste narrative di interpretazione e reinterpretazione, appropriazione e sovversione" (145).

Come si è evidenziato in precedenza, nello sguardo habermasiano la comune cultura in cui i cittadini si riconoscono come membri della loro comunità politica ha sempre una sua pregnanza etica, un ancoraggio motivazionale, ma nello stesso tempo questo contenuto etico del "patriottismo costituzionale" non deve compromettere la neutralità del diritto rispetto al pluralismo delle diverse "comunità integrate a livello subpolitico" (146). La barriera sicura allo straripamento di questo meccanismo risiederebbe nella separazione tra i due livelli summenzionati: quando essi vengono a confondersi è segno che la cultura di maggioranza usurpa privilegi statali, compromette l'equiparazione delle altre forme di vita e conculca la loro pretesa di riconoscimento.

Il funzionamento del sistema dei diritti di taglio liberale risiederebbe in un comportamento corretto della maggioranza, ma quale presidio può darsi, se è essa che governa? Parallelamente la neutralità etica del diritto nei confronti delle differenziazioni etiche all'interno della società viene agevolmente mutuata dalla distinzione tra consenso sostanziale sui valori e consenso sulle procedure: "nelle società complesse l'insieme dei cittadini non può più essere integrato da un consenso sostanziale sui valori, ma soltanto da un consenso sulle procedure relative ad una legittima produzione giuridica e ad un legittimo esercizio del potere" (147).

Dunque l'universalismo dei principi giuridici si riflette in un consenso procedurale che, attraverso quello che Habermas chiama "patriottismo costituzionale", non può fare a meno di una successiva implementazione nel contesto di una cultura politica storicamente determinata.

Le istituzioni sono neutrali o culturalmente qualificate? Resta il fatto che, sia nel primo caso che nel secondo, non sarebbe corretto parlare di "società multiculturale" e non sarebbe postulabile l'attribuzione di diritti in funzione di un'appartenenza e di un'identità culturale diversa da quella maggioritaria. Non già nel primo perché la neutralità statale tiene lontane le culture dalla sfera propriamente politica e giuridica, non già, ancor più chiaramente, nel secondo, perché l'interpretazione valoriale delle procedure implica che, in un certo qual modo, la cultura dominante sia l'unico interlocutore nella sfera propriamente politica (148).

Il discorso che ruota intorno ad una società multiculturale, in cui ricevano tutela i diritti degli altri, si spoglia definitivamente di ogni portata descrittiva e assume, come si è detto in precedenza, una dimensione eminentemente giuridica e normativa.

Compito dell'eguaglianza democratica sarebbe la creazione di istituzioni pubbliche imparziali nella sfera politica e nella società civile, in cui la lotta per il riconoscimento delle differenze tra culture e il conflitto tra identità culturali possa aver luogo senza esiti egemonici? Le difficoltà principali nello spazio pubblico autodeterminato, attualmente configurabili come insormontabili, o accantonate sic et simpliciter, nascono dal semplice tentativo dei gruppi di mantenere la propria identità culturale all'interno dei confini istituzionali di stati laici e liberaldemocratici. L'autodeterminazione include i profili dell'autoregolamentazione e dell'autocostituzione. Ogni atto di autoregolamentazione è anche un atto di autocostituzione. "Noi, il popolo" si riferisce a una particolare comunità, circoscritta spazialmente e temporalmente, che condivide una specifica cultura, storia e tradizione; e tuttavia questo popolo si costituisce come corpo democratico agendo in nome dell'"universale". La tensione tra diritti umani universali e identità culturali particolaristiche è costitutiva della legittimazione democratica (149): si tratta - secondo le parole di Jurgen Habermas - dell'"altra faccia" (150) della nazione moderna (151). E per l'autore "l'idea che la modernità ha di sé è ispirata a un universalismo egualitario che spinge al decentramento della prospettiva che ha ciascuna delle parti in causa: esso obbliga a relativizzare la propria visuale in base alle prospettive di interpretazione degli altri che hanno pari legittimità" (152). Di fronte alla sfida della modernità Habermas gioca la carta della ragione come universalismo inclusivo delle differenze. Le dimensioni intersoggettive e normative di questa "ragione comunicativa" intendono realizzare nel medium giuridico "una solidale coesistenza di estranei". "Anche il riconoscimento delle divergenze - il reciproco riconoscimento dell'altro nella sua diversità - può diventare il segno di un'identità comune" (153).

4.1 Una società multiculturale o Hérouxville?

La tutela della libertà religiosa dei gruppi minoritari, come si vedrà nella seconda parte del lavoro, costituisce uno dei principali ambiti entro cui una società può individuare i propri presupposti di rispondenza ad un modello di convivenza multiculturale.

Se è evidente che una dimensione importante è costituita dall'adattamento e dall'attivazione a tal fine di strumenti normativi già esistenti nell'ordinamento, un posto importante ed un rilievo propedeutico sul terreno degli sviluppi legislativi è occupato dal dibattito teorico.

In Italia il dibattito concernente l'esercizio del diritto della libertà di religione non si è svolto nelle istituzioni parlamentari, piuttosto esso è stato promosso da giuristi, sociologi e filosofi, con l'esito naturale che la reale portata e le specifiche implicazioni di tale tematica hanno conservato un certo grado di estraneità rispetto alla coscienza pubblica (154). Diversa è invece la recente esperienza canadese ed in particolare quella della provincia del Québec.

Anche in un paese che credeva di aver largamente anticipato i problemi di una società multiculturale e applicato soluzioni congrue, hanno preso corpo tensioni legate alla convivenza sociale, emblematiche delle difficoltà che un compiuto modello di tutela della diversità culturale e religiosa pone. In un ordinamento nel quale ogni anno entrano più di 250.000 migranti si è verificata una vicenda quale quella di Hérouxville. Il 25 gennaio 2007 il consiglio comunale di questa cittadina québécoise ha approvato una mozione con cui si stabiliva che a tutti i nuovi immigrati dovesse essere distribuito un manifesto recante l'indicazione di tutto ciò che, chiunque avesse scelto di vivere a Hérouxville, avrebbe "potuto non fare". "Qui" -diceva il manifesto - "nessuno è obbligato a mettersi in maschera" (dunque nemmeno ad indossare un velo). "Qui nessuno è obbligato a portare un'arma a scuola" (dunque nemmeno un pugnale cerimoniale (155)). Nel documento si scriveva, altresì, che per nessuna palestra si pone l'obbligo di tappare le finestre per impedire la visione di donne discinte che fanno ginnastica; nelle scuole di Hérouxville, infatti si può insegnare anche biologia ed educazione fisica.

La mozione fotografa la ferma quanto astratta intenzione di rimanere immuni dalle conseguenze proprie di una convivenza multiculturale. La condicio sine qua non per risiedere in questo piccolo paese del Québec, dunque, sarebbe rappresentata dalla piena adesione alle regole che il vivere 'occidentale' pone.

Il documento ha le sembianze di un patto hobbesiano nel quale, con tutta evidenza, i tentativi di salvaguardare la diversità culturale esulano anche dal piano della teoria e dei progetti futuribili. I fatti di Hèrouxville, più specificamente "gli anacronismi attuali" che troppo spesso caratterizzano il sentire comune in società crescentemente multiculturali e che, non di rado, trovano voce nei provvedimenti di talune amministrazioni locali, si sono posti alla base della mobilitazione del Primo Ministro della Provincia del Québec, Jean Charest. Nel febbraio del 2007 egli ha promosso l'istituzione di una Commissione parlamentare denominata "Commissione sulle pratiche di rimodulazione legate alle differenze culturali", incaricata di "verificare la conformità delle pratiche in corso" a quei valori di pluralismo, di democrazia e di eguaglianza propri della società québécoise.

Charest ha posto a capo della Commissione Charles Taylor e Gérard Bouchard. Alla luce degli esiti che hanno concretamente riguardato l'applicazione delle trentasette Raccomandazioni contenute nel Rapporto con cui nel marzo del 2008 si sono conclusi i lavori della Commissione, non è difficile ritenere che la richiesta di vagliare la rispondenza delle pratiche in corso ai valori di una società democratica, pluralista ed egualitaria, come ritenuta quella del Québec, muovesse piuttosto dall'intenzione di circoscrivere la tutela prevista per le nuove comunità culturali e religiose. Per contro è evidente che ponendo alla guida dei lavori della Commissione Taylor e Bouchard, Charest non poteva certo aspettarsi, quali postulati teorici del Rapporto, l'imperativo dell'eguaglianza formale o tantomeno un latente 'euroatlanticentrismo' difensivo.

Il documento redatto dalla Commissione, come si è accennato, ha natura raccomandatoria, sta dunque al Governo che ha nominato tale organo, procedere all'attuazione del contenuto del Rapporto in oggetto. E' interessante porre un primo richiamo alla risposta che ha seguito la Raccomandazione consistente nell'invito ad eliminare il crocifisso dall'aula dell'Assemblea Nazionale del Québec: Charest ha opposto al riguardo un pubblico rifiuto affermando che "quel crocifisso rappresenta 350 anni di storia del Québec che, insieme alla presenza della Chiesa cattolica, nessuno sarà mai in grado di cancellare. Questa è la realtà. Coloro che vengono a stare nel Québec devono sapere che entrano a far parte di una società che si è formata in quella storia, che è quella di ciascuno di noi" (156). Come si è accennato in precedenza, le Raccomandazioni sono trentasette, richiamiamo le principali: si sollecita la fine delle preghiere prima delle riunioni pubbliche; i giudici e le forze dell'ordine non devono portare alcun simbolo di carattere religioso (come il turbante sikh o il velo musulmano), ma ciò è consentito tanto ai docenti della scuola pubblica quanto agli impiegati statali o al personale sanitario, nonché a studenti e a pazienti.

Si prosegue: nessuno studente può rifiutarsi di seguire un corso scolastico obbligatorio (biologia o educazione fisica ad esempio); l'esistenza di luoghi di preghiera nelle scuole sono consentiti ma non sono resi obbligatori. Il Rapporto stabilisce, altresì, che a nessun paziente è permesso di rifiutare l'assistenza sanitaria in base al sesso del medico o dell'infermiere e invita alla distribuzione di un calendario provinciale ufficiale in cui si rechi indicazione di tutte le festività religiose per tutte le denominazioni. La Commissione propone poi all'Assemblea Nazionale l'approvazione di una legge che promuova e definisca l'Interculturalità. L'idea di fondo formalmente potrebbe collocarsi nel solco della Legge sul Multiculturalismo, adottata nel 1988 a livello federale dal Primo Ministro Pierre Eliott Trudeau. Si è obiettato che l'interculturalismo di una società non può discendere da previsioni normative, ma in realtà occorre prendere in considerazione il significato di tale scelta: la menzione nel Rapporto del progetto di introdurre nell'ordinamento un corpo di disposizioni in tema di interculturalità ribadisce la necessità di dare corpo ad un quadro normativo per mezzo del quale l'interculturalità possa essere promossa, a livello compiuto e generale, nelle istituzioni pubbliche

Nonostante le Raccomandazioni del Rapporto, che non costituivano parte di prassi già in precedenza adottate, ad oggi non abbiano ricevuto attuazione, è possibile rilevare che tale iniziativa si sia tradotta in una compiuta tematizzazione del discrimen che intercorre tra il fondamentalismo religioso e il diritto di esercitare la libertà religiosa e in una pubblicizzazione degli ambiti maggiormente controversi della convivenza multiculturale (157).

La filosofia di base della Commissione è improntata ad un equo contemperamento tra la tutela delle esigenze religiose dei gruppi minoritari e la salvaguardia della tradizione cristiana. Si prevede la garanzia e la valorizzazione delle istanze delle confessioni minoritarie nel presupposto che le problematiche sollevate dal fondamentalismo religioso, egualmente ripartito tra le diverse denominazioni, non possano essere arginate comprimendo l'esercizio del diritto di libertà religiosa degli appartenenti alle minoranze. Il perno del progetto è rappresentato dalla necessità di risemantizzare e traslare alcuni valori 'occidentali' nella sfera di una società multiculturale.

Resta da vedere, se i principi sanciti nel Rapporto verranno attuati. Per il momento il sistema di tutela della libertà religiosa per ciò che concerne le confessioni minoritarie va nel senso della compressione della dimensione comunitaria di tale diritto, e, conseguentemente verso la negazione dei diritti collettivi. L'universalismo esclusivo e impermeabile alle differenze esclude una tutela compiuta ed effettiva della diversità culturale e religiosa. "Dunque Hérouxville sembra prevalere sulle tesi di Taylor".

Note

1. Le concezioni di Charles Taylor e Jurgen Habermas in merito alla tematica multiculturalista vengono tradizionalmente opposte, come si evidenzierà in seguito, è certo che sulla questione della postulabilità e dell'attribuibilità dei diritti collettivi i due autori giungono ad esiti antitetici; ciò non priva di rilievo la circostanza che entrambi abbiano evidenziato la centralità del concetto di riconoscimento e abbiano messo in luce i limiti del liberalismo proceduralista. Si aggiunga che la tematizzazione di questi due ambiti non costituisce una mera convergenza ma implica il superamento della polarizzazione individuo/comunità che in gran parte fonda la contrapposizione liberals/communitarians.

2. Ch. Taylor, Il dibattito fra sordi di liberali e comunitaristi, in A. Ferrara, Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma, 1992, pp. 137-138.

3. Taylor sposta il baricentro del dibattito multiculturalista sul discrimen tra posizioni teoriche che sostengono che lo stato debba essere neutrale tra le diverse concezioni della buona vita abbracciate dagli individui e posizioni secondo le quali una società democratica non può fare a meno di una qualche definizione, comunemente accettata, della buona vita.

4. Ch. Taylor, Il dibattito tra sordi di liberali e comunitaristi, cit. p. 138.

5. Ibidem, p.138.

6. Il sé "unencumbered" è il sé "sgravato" dal legame sociale, il sé che non deve farsi carico del senso e della vita della comunità. La concezione atomistica dell'individuo come "sé slegato" si coniuga al concetto strumentalistico della formazione della volontà politica come aggregazione di interessi sociali.

7. In senso analogo si esprime anche Habermas: "Qui le parti stipulanti il patto sociale sono pensate come individui egoistici i quali - razionalmente illuminati e non plasmati da tradizioni comuni - non condividono nessun orientamento culturale di valore né possono agire orientandosi all'intesa. Secondo questa descrizione, la formazione della volontà politica si compirebbe soltanto attraverso trattative sul "modus vivendi", senza che sia mai possibile pervenire a un'intesa da punti di vista etici o morali. In effetti è difficile vedere come persone di questo genere - e attraverso un percorso di questo tipo - potrebbero realizzare un ordinamento giuridico che sia intersoggettivamente riconosciuto e capace di trasformare gli estranei in una nazione di cittadini (vale a dire capace di produrre tra estranei una solidarietà civica)"; J. Habermas, Die Einbeziehung Des Anderen, Studien zur politischen Theorie, Suhrkamp Verlag Frankfurt am Main, 1996, tr. it. di L. Ceppa, L'inclusione dell'altro, Studi di teoria politica, Feltrinelli, 2008, p. 150.

8. "La definizione stessa di regime repubblicano classicamente inteso richiede un'ontologia differente dall'atomismo, un'ontologia comune che superi il senso comune infestato di atomismo", Ch. Taylor, Il dibattito tra sordi di liberali e comunitaristi, cit., p. 151.

9. Il fardello reale per lo stato liberale procedurale è la diversità culturale rispetto a cui concretamente può attuarsi l'indifferenza nel senso della mancata attribuzione di rilevanza pubblica. Come si vedrà in seguito, lo stato liberale, suppostamente neutrale, non può che fare proprio un modello culturale.

10. C. Geertz, Interpretation of Cultures, New York, Basic Books, 1973; tr. it. E. Bona, Interpretazione di culture, 2ª ed., Bologna, Il Mulino, 1998, p. 87. Non è questa la sede per affrontare l'articolato dibattito che, nell'ambito delle scienze sociali, ha preso corpo intorno alla misura del condizionamento culturale, è importante, però, portare alla riflessione un paradigma d'analisi: per quanto molti sostengano che la globalizzazione tenda a problematizzare le identità culturali molto più di quanto avvenisse in passato, la descrizione delle varietà culturali deve essere analiticamente separata dall'ideologia delle diversità e dei conflitti culturali, che oggi condiziona politicamente l'immagine ("scientifica e del "common sense") delle culture. In alternativa, l'ideologia rischia di sostituire, di volta in volta, l'antropologia, la sociologia, il diritto.

11. Come si vedrà nella seconda parte del lavoro, il riconoscimento di diritti collettivi in ambito multiculturale risulta estremamente problematico, poiché l'attribuzione di situazioni giuridiche collettive passa sempre attraverso l'appartenenza allo stato-nazione e il radicamento sul territorio dell'ordinamento giuridico di riferimento. Particolarmente emblematica al riguardo, risulta l'esclusione di Sinti e Rom dalla tutela linguistica prevista dall'ordinamento giuridico italiano.

12. "Una definizione con valore 'universale' di una categoria sociale come quella di etnia non è delineabile. Più che di una definizione si potrebbe parlare di rappresentazione, anzi di diverse rappresentazioni e di tutti gli attribuiti particolaristici che le accompagnano. In ciascuna lingua 'etnia' ha un proprio significato che trae in parte la sua singolarità dal diverso rapporto con il termine 'nazione' e dalla diversa compenetrazione con il concetto di 'cultura'. Il dizionario Zingarelli definisce la voce 'etnia' come 'un raggruppamento umano basato su comuni caratteri fisico-somatici, linguistici e culturali', mentre rileva che il 'gruppo etnico' costituisce 'un aggregato che si caratterizza per comunanza di cultura e di lingua'. Alla voce 'nazione', invece, si associa un complesso di 'individui legati da una stessa lingua, storia, civiltà, interessi, aspirazioni, in quanto hanno coscienza di questo patrimonio comune'. Il dizionario italiano attribuisce al termine "nazione" il massimo grado di consapevolezza e di coscienza autopercettiva dell'appartenenza ad un complesso o raggruppamento di individui che condividono un patrimonio culturale", F. Dingo, Identità albanesi, Bonanno Editore, Acireale - Roma, 2007, p. 33 e p. 80.

13. Più rigida e tendente a non tenere conto di questo rapporto di priorità logica appare, invece, la definizione che descrive la cultura come "un processo di stratificazione e di sintesi di alcuni elementi storici, linguistici, religiosi, razziali ed etnici condivisi da una pluralità di persone in senso intergenerazionale e che sono considerati strategici per la costruzione dell'identità individuale" da "Multiculturalismo", voce a cura di E. Ceccherini (p. 1) in Digesto delle Discipline Pubblicistiche. Aggiornamento, Utet, Torino, 2008. La componente "strategica" sembra divergere fortemente dal concetto di cultura quale orizzonte di senso entro cui l'individuo articola le proprie scelte, concetto al quale, per esempio, pone riferimento William Kymlicka.

14. A. Ferrara, "Multiculturalismo", in Dizionario di politica a cura di Bobbio-Matteucci-Pasquino, Torino, 2004, p. 671.

15. Ch. Taylor, Multiculturalism and "the politics of recognition", Princeton University Press, 1992; tr. it. G. Rigamonti, Multiculturalismo, La politica del riconoscimento, Ed. Anabasi, Milano, 1993, p. 91.

16. Ch. Taylor, Multiculturalismo, La politica del riconoscimento, cit., 1993, p. 41.

17. Ibidem, p. 42.

18. Nell'ambito del suddetto caso giudiziario (Oliver Brown et al. v. Board of Education of Topeka et al.) la Corte Suprema degli Stati Uniti tenne in grande considerazione il doll test degli psicologi Kenneth e Mamie Clark: un gruppo di bambine nere, poste dinanzi a bambole di identica fattura ma di diverso colore (nero e bianco), avrebbero dovuto esprimere la loro preferenza. Su 16 bambine nere, 11 identificarono le bambole nere come brutte e cattive, 9 dissero che le bambole bianche erano belle e buone. Il test richiedeva l'espressione di un parere, per cui il risultato divide le bambine in base a questo criterio, ciò significa che tutte, nella sostanza, furono convergenti, e che 4 di loro si espressero su tutti e due i gruppi di bambole. Con la Sentenza Brown, la Corte (presieduta da E. Warren) stabilì unanimemente (9-0) che il regime di segregazione razziale nelle scuole pubbliche violava il XIV Emendamento (in particolare la Equal Protection Clause), in ragione del fatto che la separazione tra gruppi nello svolgimento delle attività scolastiche era "inherentlty unequal". Tale decisione giurisprudenziale costituì un capovolgimento del precedente orientamento sintetizzato nel principio "separate but equal" (Corte Suprema degli Stati Uniti, Plessy v. Ferguson, 1896). Sebbene si sia trattato di un traguardo notevole, esso non trovò piena coerenza con la legislazione federale, si rilevi, per esempio, che l'emanazione del Voting Rights Act è del 1965.

19. L'individuo assimila la portata dell'autopercezione all'eteropercezione.

20. F. Fanon, Les damnés de la terre, Maspero, Paris, 1961; tr. it. C. Cignetti, I dannati della terra, Einaudi, Torino, 1976, pp. 6, 9, 10, 57, 92, 93, 150, 151, 161, 170, 173, 174, 181.

21. Secondo Fanon la via che conduce a questa libertà è una violenza pari alla violenza originaria dell'imposizione straniera; cfr. F. Fanon, ult. op. cit., pp. 3-63. Non tutti coloro che si sono collocati nel solco del suo pensiero lo hanno seguito anche in questo, ma il concetto di una lotta per cambiare l'immagine di sé che ha luogo sia dentro il sottomesso sia contro il dominatore ha trovato un'applicazione vastissima, fino a diventare un'idea cruciale delle sovracitate correnti femministe nonché un imprescindibile elemento del dibattito contemporaneo sul multiculturalismo.

22. E.M. Lemert, Human Deviance, Social Problems and Social Control, Englewood Cliffs (N.J.), Prentice Hall, 1967; tr. it Milano, Giuffré, 1981, p. 1. (modif.).

23. H. Becker, Sociological Work, London Allen Lane, 1971, p. 341, cfr. E. Santoro, Carcere e società liberale, Giappichelli, Torino, 1997, p. 14.

24. La citazione di Montaigne non è affatto casuale, le sue posizioni, infatti, anticipano largamente il relativismo moderno, egli è uno dei pochi intellettuali del suo tempo a mettere in questione la differenziazione gerarchica come cifra caratteristica del modo di accostarsi al Nuovo Mondo. "Piuttosto sarà che chiamiamo barbaro o selvaggio un uso lontano dalle nostre consuetudini?". M. De Montaigne, Essais; tr. it. F. Garavini (a cura di), Adelphi, Milano, 1982, libro I, p. 272. Entro una cornice neoscettica egli giunge a relativizzare il salto culturale "entre nous e les autres", precorrendo una sfida che soltanto dopo sarà raccolta: egli proponeva di difendere, per quanto possibile, con i resti messi a disposizione dalla politica, l'integrità del soggetto, ma nel contempo chiedeva di rinunciare all'idea di fondare un ordine politico-giuridico di carattere universale. Le pagine di Montaigne, sconvolgentemente attuali, non incorporano le categorie concettuali di riconoscimento e identità.

25. "La nature de l'honneur est de demander des préférences et des distinctions", Montesquieu, De l'esprit des lois; tr. it. B. Boffitto Serra, Lo spirito delle leggi, Rizzoli, Milano 1989, p. 173.

26. A tal proposito Charles Taylor propone un uso attuale esemplificativo di tale accezione: "E' chiaro che l'onorificenza dell'Ordine del Canada perderebbe ogni valore, se domani decidessimo di darla ad ogni canadese adulto", Ch. Taylor, J. Habermas, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano, 1998, p. 11.

27. Ch. Taylor, Multiculturalismo, La politica del riconoscimento, cit., 1993, p. 44.

28. L'osservazione è debitrice dell'analisi proposta da Pietro Costa, la fine dell'organizzazione cetuale rappresenta uno dei principali transiti verso la modernità, per questo Costa è orientato verso una proposta di periodizzazione che faccia coincidere con la rottura della differenziazione gerarchica la fine del Medioevo. Cfr. P. Costa, Lo stato di diritto: un'introduzione storica, in P. Costa, D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto, Feltrinelli, Milano, 2003, pp. 94-104.

29. "La Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino" è stata emessa il 26 agosto del 1789.

30. Non occorre trascurare una riflessione: la proclamazione dell'eguaglianza giuridica di tutti gli esseri umani non escluse la vigenza della schiavitù che, per esempio, per ciò che concerne la Francia fu abolita in maniera durevole, non effimera, nel 1848. La rivendicazione egualitaria di una "validità" e di una "inclusione" universale ha avuto ogni volta anche la funzione di nascondere l'effettiva disparità di trattamento che colpiva chi veniva implicitamente escluso.

31. Ch. Taylor, Multiculturalismo, La politica del riconoscimento, cit., 1993, pp. 44-45.

32. Ch. Taylor, J. Habermas, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, cit., 1998, p. 24.

33. L. Trilling, Sincerity and Authencity, Cambridge, Mass, Harvard University Press, 1972.

34. Ch. Taylor, J. Habermas, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, cit., 1998, pp. 12-13.

35. Ibidem, p. 17 (modif.).

36. A questo proposito Taylor sostiene: "Vi è una distinzione largamente ignorata, o mal caratterizzata nel pensiero post-cartesiano: quella fra fatti che esistono 'per me' e 'per te' da un lato, e fatti che esistono 'per noi' dall'altro. Questa distinzione gioca un ruolo tremendamente importante e pervasivo nelle cose umane in modi sia banali che fatidici. [...] Ma il semplice addizionare gli stati monologici non ci porta alla condizione dialogica in cui le cose sono per noi. [...] L'intimità è essenzialmente un fenomeno dialogico: è una questione di ciò che condividiamo, di ciò che è per noi. Non si potrebbe mai descrivere, in termini monologici che cosa significa stare su un piano di intimità con qualcuno", Ch. Taylor, Il dibattito fra sordi di liberali e comunitaristi, cit., pp. 147-149.

37. Ch. Taylor, J. Habermas, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, cit. p. 17.

38. Phänomenologie des Geistes (1807) in Gesammelte Werke, vol. IX, a cura di W. Bonsiepen e R. Heede, Hamburg, F. Meiner; trad. it. Fenomenologia dello spirito, Milano, Bompiani, 2001, pp. 274-291. Nell'incipit della sezione dedicata all'Autocoscienza, Hegel rimarca la differenza che intercorre tra la coscienza che si è realizzata attraverso il riconoscimento (coscienza che è per sé, mediata con sé da un'altra coscienza) e ciò che egli chiama come il semplice concetto (Begriff) dell'autocoscienza. Con quest'ultima espressione, il filosofo si riferisce all'autocoscienza quale essa è prima della contesa: coscienza astratta, essa appare come pura uguaglianza con se stessa; essa avverte come propria verità o essenza, semplicemente l'Io, considerando l'altro come oggetto inessenziale. In questa fase il concetto di autocoscienza corrisponde alla certezza che la coscienza ha di sé, Hegel definisce questo concetto della signoria come immediato rapporto dell'"esser per sé"; dopo l'esito della contesa, il signore non esiste soltanto astrattamente, come "concetto", ma anche concretamente in quanto realizzato nella relazione padrone-servo, scaturita dalla contesa. La coscienza signorile, in quanto realizzata e non più semplice "concetto", è "esser per sé soltanto mediante un altro".

39. Il concetto di riconoscimento inizialmente impiegato nella riflessione dell'idealismo tedesco sulla formazione intersoggettiva dell'identità individuale attraverso il confronto e l'interazione con l'altro, è poi divenuto il concetto guida nella riflessione su ciò che, a prima vista, si presentava come un insieme indistinto di movimenti e lotte socioculturali.

40. "Ciascuno cominciò a guardare gli altri e a volersi far guardare, e la pubblica stima acquistò pregio. Chi cantava o danzava meglio; il più bello, il più forte, il più abile o il più eloquente divenne anche il più considerato, e fu il primo passo verso la disuguaglianza e, al tempo stesso, verso il vizio: da queste prime preferenze nacquero da un lato la vanità e il disprezzo, dall'altro la vergogna e l'invidia", tr. it. Discorso sull'origine e i fondamenti della disuguaglianza, in Scritti politici, Laterza, Roma-Bari 1971, p. 179.

41. Cfr. A. Gutmann, Introduzione a Ch. Taylor, Multiculturalismo, La politica del riconoscimento, con contributi di A. Gutmann, S.C. Rockfeller, M. Walzer, cit., p. 15. L'identità del singolo individuo non può risiedere nella condizione di cittadino eguale agli altri cittadini.

42. Ch. Taylor, J. Habermas, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, cit., p. 25. Nella società multiculturale, il discrimen principale dell'appartenenza a classi differenziate (virtuali sul piano giuridico, reali su quello fattuale) non è la condizione socio-economica dell'individuo, piuttosto entrano in gioco fattori come l'appartenenza ad un'altra cultura e la provenienza da un ordinamento giuridico diverso da quello di insediamento.

43. Ch. Taylor, J. Habermas, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, cit., pp. 25-26.

44. "Soltanto un essere ragionevole ha la facoltà di agire secondo la rappresentazione delle leggi, vale a dire secondo principi, cioè con altre parole ha una volontà. E siccome per derivare le azioni dalle leggi è richiesta la ragione, così la volontà non è altro che la ragion pratica". I. Kant, Grundlegung der Metaphysik der Sitten, Gruyter, Berlin 1968, tr. it. G. Vidari, Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di V. Mathieu, Paravia, Torino, p. 54. In questo senso anche: "Quando l'autovincolarsi della volontà assume le vesti dell'autolegislazione, volontà e ragione si compenetrano interamente"; J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., p. 45.

45. Si adotterà il termine "Occidente" in ragione di un uso irrinunciabilmente convenzionale, tuttavia si tratta di un lessema "vacuo", che necessita un implicito riferimento a qualcos'altro. La riprova di questa precisazione risiede nell'ormai sotterranea etimologia, occidens, forma participiale del latino occido, "che cade, che tramonta".

46. Il contratto sociale, in Scritti politici, cit., p. 721.

47. "Vi sono due specie di dipendenze: quella delle cose, che è dalla natura; quella degli uomini che è della società. La dipendenza dalle cose, non avendo alcuna legge morale, non nuoce affatto alla libertà, e non genera alcun vizio; la dipendenza dagli uomini, essendo disordinata, li genera tutti, ed è per essa che il padrone e lo schiavo si depravano scambievolmente. Se vi è qualche mezzo per rimediare a questo male nella società, è di sostituire la legge all'uomo e di armare le volontà generali di una forza reale, superiore all'azione di ogni volontà particolare. Se le leggi delle nazioni potessero avere, come quelle della natura, una inflessibilità che mai alcuna forza umana potesse vincere, la dipendenza dagli uomini ridiventerebbe dipendenza dalle cose; si riunirebbero nella repubblica tutti i vantaggi dello stato naturale con quelli dello stato civile; si aggiungerebbe alla libertà che mantiene l'uomo esente da vizi; la moralità che lo eleva alla virtù"; tr. it. Luigi De Anna, Emilio o Dell'educazione, in J.J. Rousseau, Opere, a cura di Paolo Rossi, Sansoni, Firenze, 1972, libro II, p. 389. La dipendenza dalla realtà delle cose, in quanto necessità naturale, non lede la libertà dell'individuo. Per evitare la dipendenza dell'uomo dall'uomo, causa e fonte di tutte le depravazioni e miserie umane, occorre stabilire un ordine sociale, in cui la legge, nella sua inflessibilità e indipendenza dagli interessi degli individui, imiti e riproduca la necessità della natura. Solo allora l'uomo sarà libero.

48. Rousseau parla dei premi con i quali "tra gli applausi di tutta la Grecia, s'incoronavano i vincitori dei giochi, ecco ciò che, infiammandoli continuamente di emulazione e di gloria, portò il loro coraggio e le loro virtù a quel grado di energia di cui oggi niente ci può più dare l'idea, e a cui i moderni non riescono neppure a credere", Considerazioni sul governo della Polonia, in Scritti politici, cit., p. 1131.

49. "Fornite come spettatori gli stessi spettatori, fateli diventare attori loro stessi; fate in modo che ciascuno veda e ami se stesso negli altri, affinché tutti abbiamo più forti vincoli di amicizia"; tr. it. G. Scuto, Lettera a D'Alembert sugli spettacoli in J.J. Rousseau, Opere, a cura di Paolo Rossi, cit., p. 269. Cfr. ult. op. cit., p. 275.

50. Nella dialettica padrone/servo, la forma di riconoscimento si rivela unilaterale e sbilanciata ed è priva di reciprocità, essa non può essere dunque assunta come il riconoscimento vero e proprio.

51. Hegel, Fenomenologia dello spirito, cit., pp. 274-291.

52. La concezione rousseauviana del contratto sociale, infatti, differisce significativamente dal contrattualismo hobbesiano e lockeano che affidava la fondazione della società politica ad un duplice atto: il pactum unionis, la decisione degli individui di costituirsi in società, e il pactum subiectionis, la decisione di assoggettarsi al sovrano rinunciando, in tutto (Hobbes) o in parte (Locke), alla propria libertà e ai diritti originari. Rousseau non ammette il pactum subiectionis come cessione, alienazione ad altri (il sovrano) della libertà di cui ogni individuo è titolare per natura: in questo modo, infatti, si dà luogo alla schiavitù. Il patto è di ciascun individuo con se stesso, poiché consiste nell'alienazione del proprio potere individuale alla comunità, che non è altro che l'insieme, il corpo sociale degli individui che hanno deciso di associarsi. Si tratta del concetto rousseaviano di autolegislazione.

53. Sono numerosi gli studiosi di diritto costituzionale comparato che in riferimento all'esperienza canadese enfatizzano la modalità esplicita che nella costituzione canadese contraddistinguerebbe la codificazione del principio multiculturale. "Tale circostanza è confermata dall'art. 27 della Carta dei diritti e delle libertà del Canada che stabilisce: 'This Charter shall be interpreted in a manner consistent with the preservation and enhancement of the multicultural heritage'", E. Ceccherini, Multiculturalismo, cit., p. 8.

54. Andrews v. Law Society of British Columbia, (1989) p. 143.

55. Ch. Taylor, J. Habermas, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, cit., p. 41. E' possibile sostenere che non fossero ancora giunti ad una sistematica teorica e normativa della revisione giudiziaria, intesa come metodo per garantire il catalogo dei diritti, ma che, nonostante ciò, la revisione divenne rapidamente prassi.

56. Per esempio il Primo Emendamento, che vieta al Congresso di introdurre una qualsiasi religione ufficiale, in origine non era destinato a separare la chiesa e lo stato in quanto tali. Entrò in vigore in un'epoca nella quale molti stati avevano una chiesa ufficiale ed era volto ad impedire che il nuovo governo federale interferisse con queste soluzioni locali o le annullasse. Fu solo in seguito, dopo il Quattordicesimo Emendamento, che queste restrizioni imposte al governo federale furono estese, seguendo la cosiddetta "dottrina dell'incorporazione", a tutti i governi, a qualsiasi livello.

57. Per ciò che concerne in particolare la legge che aveva vietato le insegne commerciali di lingua non francese, occorre fare un breve riferimento alla vicenda che ha preceduto l'entrata in vigore della suddetta norma, al fine di evidenziare la previsione, all'interno della Carta canadese, di istituti volti alla tutela e al bilanciamento degli interessi di entrambe le componenti della popolazione canadese. La Corte Suprema del Canada aveva cassato il provvedimento che vietava le insegne commerciali in lingue diverse dal francese, in quanto contrario alla dichiarazione dei diritti del Québec ma anche alla Carta, benché nella sentenza i giudici avessero riconosciuto che sarebbe stato assolutamente ragionevole esigere che tutte le insegne fossero anche in francese, ed eventualmente bilingui. Tale norma è tornata in vigore grazie ad una clausola della Carta che, in certi casi, consente agli organi legislativi di sospendere le decisioni dell'organo giudiziario relative alla Carta stessa (la cosiddetta notwithstanding clause).

58. Ch. Taylor, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, cit., p. 41.

59. Questa è la concezione che, invece, sostiene Charles Taylor.

60. R. Dworkin, Liberalism, in Public and Private Morality, a cura di S. Hampshire, Cambridge University Press, Cambridge 1978.

61. A tal proposito Charles Taylor: "Esiste una famiglia di teorie del liberalismo che nel mondo anglofono gode oggi di molta popolarità, per non dire che è dominante, e che intendo chiamare 'procedurale'. Essa considera la società come un'associazione di individui, ciascuno dei quali ha la sua concezione della vita buona o degna di essere vissuta, e, corrispondentemente, il suo piano di vita. La funzione della società dovrebbe essere di facilitare questi piani di vita per quanto possibile, e di farlo seguendo un qualche principio di eguaglianza. La facilitazione, cioè, dovrebbe non essere discriminatoria, anche se ovviamente vi è spazio per interrogarsi seriamente intorno al significato esatto di ciò: se la facilitazione debba mirare all'eguaglianza dei risultati o delle risorse, o delle opportunità, o delle capacità. Ma molti autori sembrano concordare sulla proposizione che il principio di eguaglianza o di non discriminazione verrebbe infranto se la società stessa abbracciasse una concezione o l'altra della buona vita. L'etica centrale per una società liberale è un'etica del giusto piuttosto che del bene. I suoi principi fondamentali, cioè riguardano il modo in cui la società dovrebbe rispondere alle istanze rivali degli individui ed arbitrare tra esse. Questi principi includerebbero, ovviamente, il rispetto dei diritti e delle libertà individuali, ma centrale ad ogni ordinamento che possa essere chiamato liberale sarebbe il principio della facilitazione massima ed eguale. Ciò non definisce in prima istanza quali beni la società promuoverà, ma piuttosto come determinerà, date le aspirazioni e le istanze degli individui che la compongono, quali beni promuovere. Ciò che è cruciale sono le procedure di decisione, ecco perché intendo chiamare questo tipo di teoria liberale "procedurale". Questo modello di liberalismo ha gravi problemi che possono essere articolati propriamente soltanto qualora vengano affrontati i temi ontologici della identità e della comunità a cui mi sono riferito", Ch. Taylor, Il dibattito tra sordi di liberali e comunitaristi, cit., pp. 142-144.

62. Cfr. M. Sandel, The Procedural Republic and the Unencumbered Self, in "Political Theory", 1984, 12, pp. 81-96. L'espressione "repubblica procedurale", a ben vedere, costituisce un ossimoro e astrattamente mette in campo un paradosso: sparisce l'elemento dell'identificazione dei cittadini intorno a un senso del bene comune, proprio della tesi repubblicana, per lasciare spazio all'idea che le società liberali possono poggiare su presupposti molto diversi, riconducibili all'impostazione proceduralista. Esse possono fondarsi sulla concezione secondo cui la lealtà dei cittadini può essere esclusivamente determinata dall'interesse razionale (enlightened selfinterest); o sull'idea che la civiltà moderna ha educato gli individui a standard morali più alti, cosicché i cittadini sono sufficientemente imbevuti di ethos liberale per sostenere e difendere la loro società; o alternativamente sull'idea secondo cui, di fatto, una società liberale matura non chiede molto alla vita dei suoi membri finché rende le loro vite prospere e sicure. (Per Taylor ciò che tali concezioni estromettono è il bene centrale della tradizione civica umanistica: l'autogoverno partecipatorio. Cfr. Il dibattito tra sordi di liberali e comunitaristi, p. 161.) Ma Sandel, utilizzando l'espressione in oggetto a proposito degli Stati Uniti, vuole ribadire l'attualità della tesi repubblicana, sceglie di non delineare la tradizione liberale americana quasi esclusivamente nei termini dell'ideale procedurale. Nel caso degli Stati Uniti, esiste una diffusa identificazione con la "American way of life", l'idea che gli americani condividono un'identità e una storia comune, definita dalla fedeltà a certi ideali articolati in modo celebre nella Dichiarazione di Indipendenza, nel discorso di Gettysburg di Lincoln, e in documenti che a loro volta traggono importanza dalla connessione con certe transizioni epocali di questa storia condivisa.

63. "Gli Stati Uniti sono diventati una repubblica meno partecipatoria e più 'procedurale'. Il processo di affermazione giuridica dei diritti è diventato sempre più importante; allo stesso modo la partecipazione alle elezioni sembra diminuire"; Ch. Taylor, ult. op. cit., p. 164.

64. Ch. Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, cit., p. 84.

65. Il termine, prima facie, potrebbe apparire espressivo della rigidità intrinseca agli stessi approcci e canoni definitori, in realtà nel lessema in oggetto è destinata a prevalere l'idea della confluenza di varianti plurali in un'unica concezione (la concezione maggiormente condivisa).

66. Ch. Taylor, J. Habermas, Multiculturalismo, Lotte di riconoscimento, p. 84.

67. Ch. Taylor, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, cit. 48.

68. Ibidem.

69. Ch. Taylor, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, cit., p. 49.

70. Quest'ultimo termine indica una maggiore apertura delle società alle migrazioni multinazionali e ad una presenza più consistente, tra i loro membri, di persone che vivono la loro vita nella 'diaspora' collocando il centro dei propri interessi professionali e affettivi nel paese di approdo. A tal proposito: "La responsabilità solidale per un altro visto come uno di noi si riferisce in realtà al "noi" flessibile di una comunità che - riluttante verso ogni forma di sostanzialità- estende sempre 'più in là' i suoi porosi confini. Questa comunità morale può fondarsi soltanto sull'idea negativa di eliminare discriminazione o sofferenza e di includere gli emarginati (ogni emarginato) nell'ambito del reciproco rispetto. Questa comunità - concepita in termini costruttivi - non rappresenta affatto un collettivo in cui appartenenti in uniforme debbano esaltare quanto è loro specificamente proprio. Inclusione qui non significa accaparramento assimilatorio né chiusura contro il diverso. Inclusione dell'altro significa piuttosto che i confini della comunità sono aperti a tutti: anche - e soprattutto - a coloro che sono reciprocamente estranei e che estranei vogliono rimanere"; J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., pp. 9-10.

71. Nella terza parte del lavoro questo tema sarà sviluppato nell'ambito della tematica di genere, con riferimento al contrasto tra diritto individuale e diritto collettivo. Nella soluzione di tale conflitto, i diritti universali sono invocati come standard assiologico e normativo; l'universalità dei diritti, tuttavia, solleva inevitabilmente la questione dell'universalismo 'occidentale' e dell'antropologia che sottostà ai diritti umani.

72. Ch. Taylor, Multiculturalismo, La politica del riconoscimento, cit., p. 91.

73. Questa problematica è efficacemente messa in luce da Susan Wolf: "Ogni volta che vado in biblioteca con i miei figli, mi trovo davanti un esempio di come le generazioni passate non abbiano capito quanto sia multiculturale la nostra comunità e di come la politica del riconoscimento possa produrre, e anzi stia già producendo un certo tipo di progresso sociale. Fra le fiabe che preferiscono i miei figli, ci sono anche racconti africani, asiatici, dell'Europa orientale, dell'America latina che per me, mentre crescevo, non erano disponibili. Forse mia madre non riconosceva in questi libri dei testi che mi potevano piacere? Forse li rimetteva negli scaffali, con un riflesso quasi automatico, quando vedeva lo stile esotico delle illustrazioni, oppure gli occhi a mandorla o la pelle scura dei personaggi? Probabilmente, se questi libri fossero stati in biblioteca, l'avrebbe fatto; ma ho il sospetto che, prima ancora che i suoi poteri di riconoscimento potessero essere messi alla prova, qualcun altro avesse limitato le sue scelte. [...] Quello che desidero mettere in rilievo, non è che il nostro patrimonio di leggende è più comprensivo di prima, o migliore; è che avendo questi libri, e leggendoli, arriviamo a riconoscerci come comunità multiculturale, e quindi a riconoscere e rispettare i membri delle nostra comunità in tutta la loro diversità culturale. Il problema del rapporto fra queste considerazioni e l'istruzione a livello universitario - e in un senso ancora più specifico, la revisione del canone - è molto complesso, perché la discussione del valore del multiculturalismo deve essere rapportata agli scopi dell'istruzione universitaria, ai metodi più adatti a raggiungerli e alle responsabilità che competono, rispettivamente alle istituzioni pubbliche e a quelle private. Non c'è niente di scorretto nell'assegnare nei curricula un posto speciale allo studio della 'nostra' storia, letteratura e cultura; ma se dobbiamo studiare la 'nostra' cultura faremmo meglio a riconoscere chi siamo 'noi', come comunità", S. Wolf, "Commento" in Ch. Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, cit., pp. 113-118.

74. Ch. Taylor, J .Habermas, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, cit., pp. 54-55, (modif.).

75. Si tratta di un errore logico del tipo pars pro toto, indubbiamente in ogni momento possiamo osservare, analizzare, e isolare determinate pratiche o definite forme di visione e valutazione del mondo in quanto fondamentali in una determinata cultura, ma non sarebbe corretto pretendere di giudicare le culture come fossero totalità. Cfr. nota 81.

76. In antropologia l'osservatore è anche l'osservato, e il soggetto è anche l'oggetto: la nascita dell'identità di questi termini, in origine è derivata dalla contiguità spaziale, dalla relazione umana diretta, in una parola dall'esperienza sul campo; si può fare riferimento anche al piano della conoscenza accademica che, tuttavia, diviene prodromo non soltanto teorico di esperienze quotidiane che comportino il venire in rapporto lato sensu con la diversità (diversità dunque non specifica); dovrebbe mutare la percezione delle distanze, distanze che spesso, non secondariamente, transitano nella linguistica.

77. Gadamer può essere definito il fondatore dell'ontologia ermeneutica, egli è infatti il primo pensatore che muovendo da una rimeditazione di tutta la tradizione 'occidentale', dai Greci ad Heidegger, ha dato una fisionomia specifica alla teoria dell'interpretazione o ermeneutica. In Verità e metodo, la sua opera capitale, uscita nel 1960, Gadamer ha realizzato un'autentica 'rivoluzione'. Ha cioè contrapposto allo scientismo e all'epistemologismo che dominavano la filosofia all'inizio del secolo, e che identificavano la verità con il sapere delle 'scienze esatte', altre esperienze chiave dell'esistenza, come quella estetica, quella storiografica, quella del dialogo interpersonale. E ha fondato la "disciplina del domandare e del ricercare" quale unico requisito per la ricerca della verità.

78. L'espressione, tradotta in lingua italiana "fusione degli orizzonti", sta a indicare il fondersi, il mescolarsi o l'amalgamarsi l'uno con l'altro degli orizzonti, il sistema di credenze oggetto di studio incontra il sistema di riferimento altrui, entrando con esso in dialogo, cosicché i due sistemi si mettono in questione e si spiazzano reciprocamente. In questo senso comprendere vuol dire interpretare.

79. H.G. Gadamer, Wahreit und Methode, Mohr, Tubingen, 1975; tr. it. G. Vattimo, Verità e Metodo, Bompiani, Milano 1983, pp. 354-355.

80. Ibidem, pp.356-357.

81. Troviamo le medesime assunzioni omogeneizzanti alla base della reazione negativa che molti hanno di fronte alle rivendicazioni di una maggiore significatività della 'cultura' occidentale per qualche aspetto determinato, per esempio per le scienze naturali. Se tutte le culture apportano dei contributi di valore, non è possibile che questi contenuti siano identici, o anche che rappresentino lo stesso tipo di valore; chi lo ritenesse, sottovaluterebbe probabilmente le differenze esistenti; la presunzione dell'uguale valore, piuttosto, concepisce un universo in cui le varie culture si completano a vicenda con contributi di tipo molto diverso, questa idea non solo è compatibile con dei giudizi di "superiorità sotto un certo aspetto", ma li esige. Le dichiarazioni circa l'eguaglianza presunta delle culture viste come totalità risultano non meno false di quelle circa la loro mancanza di valore.

82. Un pensiero quale quello manifestato da Saul Bellow, dispiegato nell'affermazione che il Tolstoj zulù, se arriverà, sarà accolto senza esitazione, mette a nudo gli abissi dell'etnocentrismo. In questa 'idea' in primis risiede l'assunzione che l'eccellenza debba avere una forma per noi familiare: gli zulù debbono produrre un Tolstoj. E in secondo luogo si assume che il loro contributo sia ancora aleatorio e futuribile: quando e se produrranno un Tolstoj...Risulta evidente che le suddette assunzioni sono strettamente legate: così, se gli zulù devono produrre il nostro stesso tipo di eccellenza, la loro sola speranza sta, ovviamente, nel futuro. Roger Kimball lo dice in modo ancor più asciuttamente etnocentrico: "piaccia o no ai multiculturalisti, la scelta che ci sta davanti oggi non è quella tra una cultura occidentale 'repressiva' e un paradiso multiculturale, ma quella fra cultura e barbarie. La civiltà non è un dono ma una fragile conquista che ha continuo bisogno di essere consolidata e difesa dagli assedianti, interni ed esterni", Tenured Radicals, "New Criterion", gennaio 1991, p. 13. Nella rivendicazione di un concetto di "civiltà" privo di reali ancoraggi epistemologici, nonché nell'implicita ed errata sovrapposizione del termine "civiltà" con il termine "cultura", questo pensiero declina l'inflessione paranoide di una presunta poliocertica della 'cultura civile'.

83. Ch. Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, cit., p. 103.

84. J. Habermas, in "Ragion Pratica", anno II, n. 3, 1994, p. 132. In senso analogo: "Ogni pretesa giuridica individualmente azionabile può in realtà derivare soltanto da norme che siano già state, in precedenza e intersoggettivamente, riconosciute dalla comunità giuridica"; J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., p. 228.

85. J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, cit., p. 64.

86. Ibidem, p. 65. Habermas si è confrontato frequentemente con Rawls ed è intervenuto criticamente sulla sua teoria della giustizia. A tal proposito: "Per decisori razionali legati alla prospettiva della prima persona la dimensione normativa (comunque la si voglia intendere) può essere concettualizzata unicamente in forma di interessi, o valori, che possono essere soddisfatti mediante 'beni'. I beni sono ciò che noi desideriamo, ciò che appunto per questo si presenta come un bene 'per noi'. Di conseguenza Ralws introduce i beni primari come mezzi generalizzati di cui le persone possono servirsi per realizzare i loro piani di vita. Sebbene nella posizione originaria le parti sappiano che ai futuri cittadini della società bene ordinata alcuni di questi 'beni primari' si presenteranno come 'diritti', tuttavia nell'ambito della stessa posizione originaria esse possono descrivere i diritti soltanto come una categoria di beni tra le tante. Ai loro occhi, la questione dei principi di giustizia può porsi soltanto come la questione della giusta ripartizione dei beni primari. In questo modo però Ralws scivola in un concetto di 'giustizia' tipico di un'etica dei beni (guterethisch): un concetto assai più consono a posizioni aristoteliche o utilitaristiche che non a una 'teoria dei diritti' come la sua, tutta derivata dal concetto di autonomia. Siccome Ralws non abbandona la concezione di giustizia per cui l'autonomia civica si costituisce a partire dai diritti, il paradigma della giustizia come 'distribuzione' non può, alla fine, non creargli delle difficoltà. I diritti si possono godere soltanto nella misura in cui li si esercita. Essi non possono essere assimilati a beni 'distribuibili' senza perdere immediatamente il loro senso deontologico. Una paritaria distribuzione dei diritti è soltanto una conseguenza del fatto che i cittadini si riconoscono come liberi e uguali. Naturalmente esistono anche diritti a ricevere una porzione equa dei beni e delle opportunità disponibili, ma i diritti in sé disciplinano sempre relazioni tra gli attori (né possono essere posseduti da loro come fossero delle cose". J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., pp. 68-69.

87. "Il riconoscimento dell'uguale valore di un gruppo, sostiene Taylor, utilizzando un gergo hegeliano è ancora 'sich fur sich'. Gli stessi protagonisti sono spesso i primi a negare di essere mossi da simili considerazioni e invocano, invece, altri moventi come la disuguaglianza, lo sfruttamento e l'ingiustizia. Sono pochissimi, per esempio, gli indipendentisti del Québec disposti ad ammettere che ciò che li porta a lottare è la mancanza di riconoscimento da parte del Canada inglese", Ch. Taylor, Multiculturalismo, La politica del riconoscimento, cit., pp. 91-92.

88. "La condizione "postsocialista" concerne un mutamento dei principi alla base della prassi politica delle rivendicazioni. Le rivendicazioni del riconoscimento della differenza di gruppo si sono fatte recentemente sempre più rilevanti, fino talora a relegare in secondo piano le rivendicazioni di eguaglianza sociale. Tale fenomeno è osservabile a due livelli. A livello empirico si sono certamente constatati l'emergenza di una "politica dell'identità", il decentramento di classe e, fino a tempi molto recenti, il corrispondente declino della democrazia sociale. A un livello più profondo, invece, stiamo assistendo a un chiaro mutamento dell'immaginario politico, in particolare del modo di concepire la giustizia. Il risultato è la separazione della politica culturale dalla politica sociale, con il relativo offuscamento di quest'ultima da parte della prima". N. Fraser, Justice Interruptus: Reflections on the "Postsocialist" Condition, New York-London, Routeledge, 1997, pp. 189-207, cfr. S. Benhabib, Le rivendicazioni dell'identità culturale, Eguaglianza e diversità nell'era globale, Ed. Il Mulino, Bologna, 2005, pp. 77-78. L'osservazione è riportata per segnalare la teorizzabilità di questo transito e la rilevanza del subentrato paradigma del riconoscimento, in realtà occorre parimenti evidenziare un'interdipendenza sostanziale tra le rivendicazioni di riconoscimento e le rivendicazioni di redistribuzione nella politica contemporanea. La stessa Fraser nel volume citato sostiene che le rivendicazioni di redistribuzione e riconoscimento e le lotte contemporanee da esse indotte costituiscono due paradigmi di giustizia distinti e concettualmente irriducibili, ma ineliminabilmente connessi. Il paradigma della redistribuzione si incentra sulle ingiustizie che Fraser definisce socioeconomiche, quali lo sfruttamento, la marginalizzazione economica e la povertà; il paradigma del riconoscimento, invece, mira alle ingiustizie considerate culturali, le cui radici si ritiene affondino nei modelli sociali di rappresentazione, interpretazione e comunicazione. Ma Fraser ritiene che entrambi i paradigmi sovraintendano alle lotte sociali nelle società contemporanee fondate sia su rivendicazioni sociali e di giustizia economica sia di riconoscimento della differenza.

89. Anna Elisabetta Galeotti in La tolleranza: Una proposta pluralista, Liguori Editore, Napoli, 2002, sostiene che a partire dai primi anni Novanta, nella filosofia politica di lingua inglese il centro della discussione teorica transita dalla giustizia distributiva al 'problema' del pluralismo. La giustizia distributiva veniva teorizzata come soluzione eticamente appropriata alle disuguaglianze economiche e ai conflitti di interesse, in ordine al triplice postulato teorico fondato sull'esistenza di comunità nazionali i cui i cittadini fossero aproblematicamente individuati come soggetti della distribuzione, nelle quali fossero presenti tratti di omogeneità tale da determinare un riconoscimento dei soggetti della distribuzione per il tramite di alcuni beni principali quali oggetti della distribuzione sociale, dove infine le divisioni sociali fossero esclusivamente riconducibili alla classe e ai conflitti di interesse più marcati. Questi presupposti sono scavalcati e sfidati dai problemi della società pluralista nella quale il pluralismo non è soltanto quello etico-metafisico, bensì quello delle culture e dei gruppi che si trovano a coesistere con forze sbilanciate e status differenziati. Anche in questo caso è evidente che, se il pluralismo dei gruppi intercetta le frequenze del problema della sperequazione economica, occorre anche rilevare la naturale resistenza del concetto di pluralismo culturale e sociale ad una trattazione del problema che depositi esclusivamente i termini della questione al fondo di progetti di redistribuzione economica.

90. J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, cit., p. 65.

91. A. Gutmann, Introduzione a Ch. Taylor; Multiculturalismo, La politica del riconoscimento, cit., pp. 18-19.

92. Si tratta del diritto fondamentale kantiano a eguali libertà soggettive.

93. J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, cit., p. 67.

94. Ch. Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, cit., p. 84.

95. Diritti codificati, tipizzati dal diritto vigente.

96. "Non appena i principi morali prendono forma concreta nel medium di un diritto coercitivo e positivo, la libertà morale della persona si scinde nell'autonomia pubblica del colegislatore, da un lato, e nell'autonomia privata del destinatario del diritto, dall'altro. Entrambi i ruoli si presuppongono mutualmente. Questa relazione complementare di pubblico e privato non rispecchia alcuna fatticità. Essa è generata piuttosto, sul piano concettuale, dalla struttura del medium giuridico. E' perciò compito del processo democratico ridefinire - ogni volta daccapo - i confini precari tra il privato e il pubblico, allo scopo di garantire a tutti i cittadini pari libertà nelle forme tanto dell'autonomia privata che di quella pubblica"; J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., p. 115.

97. "Perciò ogni essere ragionevole deve agire come se egli fosse sempre per le sue massime un membro legislatore nel regno universale dei fini". In quanto legislatore nessuno è suddito di una volontà estranea; ciascuno è tuttavia, come tutti gli altri, simultaneamente assoggettato alle leggi che si è dato. Kant sostituisce la figura giuridica del contratto, desunta dal diritto privato, con la figura dell'autolegislazione repubblicana, attinta dal diritto pubblico. Così egli può, in sede morale, riunificare nella stessa persona i due ruoli che il diritto aveva distinto: quello del cittadino partecipante alla legislazione e quello del privato sottomesso alle leggi. La persona moralmente libera deve anche potersi intendere come l'autore degli imperativi morali cui come destinatario, resta soggetto. Ciò risulta possibile soltanto a patto che questa persona eserciti la competenza legislativa - cui semplicemente "partecipa"- non in una maniera arbitraria ma in consonanza con la costituzione di una collettività di cittadini autogovernantesi. E in questo caso possono dominare soltanto quelle leggi che "ciascuno circa tutti e tutti circa ciascuno" avrebbe(ro) potuto deliberare. Cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., pp. 99-100. A tal proposito: "Sulla base dei suoi assunti trascendentali, Kant attribuisce la volontà libera ad un 'Io intellegibile' che risiede nel regno dei fini. Così finisce per restituire all'esclusiva competenza del singolo individuo quell'autolegislazione che - nel suo originario senso politico - era invece impresa collaborativa cui l'individuo si limitava a 'partecipare'. Non a caso l'imperativo categorico, indirizzandosi a una seconda persona singolare, dà l'impressione che ciascun individuo possa intraprendere da solo, nel suo foro interno, la verifica delle norme che gli viene richiesta. In effetti però l'applicazione riflessiva del test di generalizzazione richiede l'istituzione di una situazione consultivo-dibattimentale [ Beratungssituation] in cui ciascuno - per verificare se una norma è accettata da tutti a partire dalla prospettiva di ciascuno - viene costretto ad assumere la prospettiva di tutti gli altri. Questa è appunto la situazione di un discorso razionale che mira all'intesa includendo gli interessati. Chi prende sul serio le questioni dell'autochiarimento etico si scontra subito con la necessità di interpretare la logica culturale specifica [Eigensinn] della mutevole comprensione storica del sé e del mondo da parte di individui e gruppi. Kant, invece, figlio del XVIII secolo, pensava ancora in una maniera astorica. Egli salta a pié pari lo strato delle tradizioni culturali in cui si formano le identità. Egli dà per scontato che ciascuno - nell'emettere un giudizio morale - possa mettersi nei panni di chiunque altro soltanto in base alla propria fantasia. Ma quando gli interessati non possono più fare affidamento sulla precomprensione trascendentale di condizioni di vita e di situazioni di interesse più o meno omogenee, allora il punto di vista morale può realizzarsi in quelle condizioni di comunicazione che mettano in grado chiunque di verificare l'accettabilità di una norma innalzata (in via d'ipotesi) a prassi universale"; J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., p. 47. L'imperativo categorico riceve così un'interpretazione discorsiva e viene proposto in una versione intersoggettiva. Il suo posto viene preso dal principio del discorso 'D', "il quale afferma che possono pretendere validità soltanto le norme che potrebbero incontrare l'approvazione di tutti gli interessati in quanto partecipanti ad un discorso pratico"; J. Habermas, Moral bewusstsein und kommunikatives Haldeln, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main; tr. it. Etica del discorso, a cura di E. Agazzi, Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 103.

98. "L'universalismo morale non deve considerare l'aspetto dell'eguaglianza (il fatto cioè che tutte le persone, in quanto persone, siano tra loro assolutamente eguali) a spese dell'aspetto dell'individualità (il fatto che, come individui, queste persone siano anche tra loro assolutamente diverse). L'eguale rispetto per chiunque, richiesto da un universalismo sensibile alle differenze, prende allora la forma di una 'inclusione dell'altro' che ne salvaguardi le diversità senza né livellare astrattamente né confiscare totalitariamente"; J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., p. 55.

99. J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, cit., p. 69.

100. Per Habermas, come si è visto, se è vero che i diritti soggettivi ineriscono alle singole persone giuridiche, del pari deve ammettersi che lo status di persona giuridica - quale titolare di questi diritti soggettivi - si forma soltanto nel contesto di una comunità poggiante sul riconoscimento reciproco dei membri liberamente associati.

101. Nella concezione habermasiana il fatto che le persone acquistino individualità solo passando attraverso processi di socializzazione fa sì che il rispetto morale debba riguardare l'individuo sia come singolo insostituibile sia come membro comunitario. Cfr. J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., pp. 54-55. Per il filosofo tedesco cade la zavorra metafisica di una concezione aprioristica dell'individuo, vale a dire di una concezione che veda l'individuo entrare nel mondo come una "datità" fornita di diritti innati (che prescindono appunto da qualsiasi socializzazione).

102. Secondo la prospettiva di Habermas la disputa tra "individualisti" e "collettivisti" si svuota automaticamente dall'interno non appena i concetti giuridici fondamentali accolgano in sé l'unità ancipite dei processi di individuazione e socializzazione. Dal momento che anche le persone giuridiche possono individuarsi soltanto passando attraverso processi di socializzazione, ne consegue che l'integrità della singola persona è tutelabile solo a patto che le venga simultaneamente garantito l'accesso alle relazioni interpersonali e alle tradizioni culturali che le sono necessarie per conservare la propria identità. Un individualismo correttamente inteso sarebbe incompleto senza l'aggiunta di questa componente di "comunitarismo".

103. Occorre chiedersi quanto tale esito non sia coattivamente indotto dal deficit democratico del sistema. Cfr. nota 134.

104. J. Habermas, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, cit., p. 71. A tal proposito: "entrambi i paradigmi giuridici sono pregiudizialmente legati alla immagine produttivistica di una società economica di tipo capitalistico-industriale. Questa società pensa di poter soddisfare l'aspettativa di giustizia sociale garantendo il perseguimento autonomamente privato di concezioni individuali della 'vita buona'. I due partiti divergono soltanto sulla questione se l'autonomia privata possa essere immediatamente concessa attraverso 'diritti di libertà', oppure se la genesi dell'autonomia privata non debba piuttosto essere garantita tramite la concessione di 'diritti a prestazioni sociali elargite dallo stato. Ma in entrambi i casi viene perso di vista il nesso interno esistente tra autonomia privata e autonomia pubblica"; J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., p. 258. La concezione habermasiana di cittadinanza valorizza particolarmente i diritti politici, in quanto diritti 'riflessivi' che permettono di ottenere altri diritti e, in quanto, a differenza dei diritti civili e sociali, non possono essere concessi paternalisticamente. Cfr. J. Habermas, Morale, diritto, politica, Einaudi, Torino, 1992, pp. 108-109.

105. Cfr. Ibidem, p. 72.

106. Cfr. Ibidem, p.73.

107. Si fa riferimento al concetto habermasiano di democrazia, secondo tale visione essa sussiste solo se praticata come prassi comune. Per Habermas questa 'comunanza' costituisce il grado superiore di intersoggettività caratterizzante l'intesa civica. Antitetica la concezione schmittiana nella quale tale comunanza viene reificata nell'omogeneità dei 'Volksgenossen'. Schmitt contrappone polemicamente il 'Volk' a quella 'Menscheit' della tradizione umanistica cui si ricollega il concetto di eguale rispetto per ciascuno. Cfr. C. Schmitt, Dottrina della costituzione, tr. it. a cura di A. Caracciolo, Giuffré, Milano, 1984, p.299 e 307.

108. Tale tematica verrà approfondita nella terza parte del lavoro.

109. Cfr. S. Benhabib, Situating the Self, Polity Press, Oxford, 1992.

110. J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, cit., p. 75.

111. Cfr. Ibidem.

112. G. Devereux, Saggio di etnopsicologia comparata, Bompiani, Milano, 1975, cit. in F. Dingo, Identità albanesi, cit., p. 53.

113. La comunità di destino "Geschick", che discende naturalmente dalla nota contrapposizione tra Gemeinschaft e Gesellschaft, è una categoria che si riconnette alla Kriegsideologie che caratterizzò la coscienza di gran parte dell'intellighentia tedesca tra le due guerre (Spengler, Junger, Schmitt, Jaspers, Heidegger). E' un termine di derivazione heideggeriana.

114. In realtà storicamente vi è sempre stato un fenomeno di sostanziale ibridazione tra culture, ma è noto che, ad un'oggettiva presa d'atto di fenomeni di contaminazione tra culture ascrivibili alle aree geo-planetarie convenzionalmente definite 'Occidente' e 'Oriente', taluni hanno preferito fondare l'immaginaria genealogia di uno scontro tra civiltà. La più celebre e arbitraria ipostatizzazione dello scontro tra civiltà si deve a Samuel Huntington. A tal proposito, è possibile aggiungere che riflessioni di ben altro rilievo mettono in evidenza come alle divisioni geo-politiche possano opporsi realtà che si caratterizzano per maggiore omogeneità, storica, climatica, artistica, architettonica, il principale esempio è costituito dal Mediterraneo. Cfr. F. Cassano, D. Zolo (a cura di), L'alternativa mediterranea, Feltrinelli, Milano, 2007. In questo senso: "Appellarsi alla nazione 'organica' significa così cancellare la contingenza e l'arbitrarietà storica dei confini politici, trasfigurandoli con un'aura di 'sostanzialità contraffatta' [nachgeahmte Substantialitat] e legittimandoli in base all'origine etnica"; J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., p. 129. Analogamente per ciò che concerne i fondamenti del colonialismo Fanon afferma: "Nella situazione coloniale, il dinamismo lascia il posto ad una sostantificazione degli atteggiamenti. L'area culturale è delimitata da paletti, da pali indicatori"; F. Fanon, I dannati della terra, cit., p. 173.

115. J. Habermas, Der philosophische Dikurs der Moderne, Suhrkamp, Frankfurt am Main; tr. it. E. Agazzi, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari, 1987, p. 8.

116. A tal proposito si cita ancora una volta Amy Gutmann: "Questa riduttiva visione dei criteri di valutazione intellettuale viene spesso proposta per difendere i gruppi sottorappresentati nelle università e svantaggiati nelle società. La tesi del decostruzionismo è che i criteri attuali non siano altro che il mascheramento di una volontà di potenza. Dal che segue, secondo questa logica, che anche sotto la tesi dei decostruttivisti dovrebbe nascondersi questa volontà di potenza. Ma allora che senso ha preoccuparsi tanto dei problemi intellettuali, se ciò che realmente si vuole è soltanto il potere politico? La via che passa per i problemi intellettuali non è certo la più rapida - e nemmeno la più sicura o la più gratificante - per impadronirsi di questo potere", Introduzione a Ch. Taylor, Multiculturalismo, La politica del riconoscimento, cit., p. 32 (modif.).

117. J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, cit. pp. 78-79.

118. A tal riguardo: "Nel servirsi del diritto positivo come di uno strumento per organizzare il suo potere lo stato moderno si lega a un medium che porta in primo piano - attraverso i concetti di 'legge', di 'diritto soggettivo' (da questa derivato) e di 'persona giuridica' (quale titolare dei diritti) - un principio nuovo, reso esplicito per la prima volta da Hobbes: in un ordinamento che (almeno per certi aspetti) si è reso indipendente dalla morale; ai cittadini è concesso tutto ciò che non è esplicitamente proibito"; J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., p. 123.

119. "L'importante è che il processo democratico assuma su di sé la garanzia complessiva [Ausfallburgschaft] per quanto attiene l'integrazione di una società sempre più differenziata. Dato il pluralismo sociale delle culture e delle visioni del mondo, questo onere integrativo non può essere sottratto al piano della formazione politica della volontà e della comunicazione pubblica né tantomeno fatto ricadere sul sostrato (apparentemente naturalistico) di un popolo presuntivamente omogeneo"; J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., p. 131.

120. "Il diritto positivo non è legittimo per il fatto di corrispondere a principi di giustizia contenutistici, ma perché è statuito tramite procedure che sono giuste, cioè democratiche, nella loro stessa struttura", I. Maus, Volk und Nation im Denken der Aufklarung, in "Blatter fur deutsche und internazionale Politik, 5, 1994, p. 604, cit. in J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., p. 149.

121. Se sussiste questa circostanza, si creano anche le condizioni per reagire alle violazioni dell'autogoverno partecipatorio. A tal proposito: "La maggior parte degli elettorati democratici è disposta a reagire a violazioni delle norme dell'autogoverno liberale, e questo è un pilastro cruciale della stabilità di questi regimi. Dove questa disposizione è stata relativamente carente allora si rischia si finire con una giunta argentina o un regime assassino alla Pinochet"; Ch. Taylor, Il dibattito tra sordi di liberali e comunitaristi, cit., p. 156.

122. J. Habermas, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, p. 79. Si tratta della teoria dell'agire comunicativo e del suo 'svolgimento' politico-istituzionale nella teoria discorsiva della democrazia. Habermas coglie l'agire collettivo anche come creazione cooperativa dei significati e delle norme, non appiattisce il sociale sul lato dell'amministrazione coercitiva della vita, dell'organizzazione dall'alto della relazione intersoggettiva: "Un diverso modello per la mediazione fra l'universale e il singolo è quello offerto dall'intersoggettività di grado superiore della libera formazione della volontà in una comunità di cooperazione che sottostà a coazioni cooperative: nell'universalità di un consenso spontaneo, raggiunto fra liberi ed eguali, i singoli conservano un'istanza di appello, che può essere invocata anche contro forme particolari della concretizzazione istituzionale della volontà 'comune'"; J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, cit., p. 42. Si riporta, a tal riguardo, anche il pensiero che segue: "Il mezzo linguistico per sé percorre tutti i campi dell'agire intersoggettivo ma non è in grado di contaminare le logiche normative del sistema economico e di quello burocratico se non per il tramite dei canali giuridici che rappresentano l'elemento istituzionale connettivo delle autonome strutture organizzative"; J. Habermas, Fakzitat und Geltung. Beitrage zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Surkamp Verlag, 1992, tr. it. Fatti e norme, Guerini e Associati, 1996, p. 40. "Le teorie risalenti all'impostazione di Hegel, Humboldt e G.H. Mead hanno dimostrato che l'agire comunicativo e le relative forme di vita racchiudono effettivamente dei contenuti normativi, essendo il primo intessuto di presupposizioni reciproche e le seconde di rapporti di riconoscimento reciproci", J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., p. 54.

123. Anche a questo proposito la riflessione habermasiana può offrire un rilevante contributo per la ricostruzione della problematica: Habermas evidenzia una tensione interessante tra "universalità" della democrazia e "storicità" della sua autorealizzazione. Per un verso la cittadinanza politica si riferisce a comunità giuridiche particolari, limitate nello spazio e nel tempo, e intese a proteggere le loro tradizioni etico-culturali (quelle tradizioni da cui l'impegno civico dei cittadini in definitiva trae motivazione). In questo senso la democrazia è "impregnata eticamente" e deve affidarsi all'interpretazione, storicamente specifica, che del sistema dei diritti danno i cittadini e le loro istituzioni. Per altro verso, invece, l'universalismo democratico può includere al proprio interno il pluralismo politico e culturale delle forme di vita attraverso l'equiparazione giuridica delle diverse identità culturali ed una presa di distanza consapevole dalla cultura di maggioranza. Per Habermas anche nell'idea di nazione si riflette chiaramente la tensione esistente tra universalità e storicità della democrazia. Vi sono due opposti concetti di nazione. Il primo è rivolto al futuro ed è di tipo repubblicano, giuridico e procedurale. Il secondo invece è rivolto storicisticamente al passato ed è di tipo sostanziale, narrativo e culturale, (quando non di tipo etnico e razziale). La sfida lanciata dal multiculturalismo può essere affrontata mettendo in campo una versione pluralistica e inclusiva della nazione. Ma gli stessi concetti di nazione e di cittadinanza, sul terreno di questa sfida, costituiscono dei paletti liberali che è necessario rimodulare. A tal proposito: "Quanto più noi tedeschi, per esempio, mettiamo a frutto il contenuto del "Grundgesetz" relativo ai diritti umani, tanto più lo status giuridico di coloro che vivono in Germania senza nazionalità tedesca viene ad assimilarsi allo status dei cittadini tedeschi. Riferendosi ai diritti umani, anche il contenuto dei diritti di partecipazione politica afferma che ciascuna persona deve poter entrare a far parte, come cittadino, di una qualche comunità politica"; J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., p. 203. In questo senso anche: "Ferrajoli considera la cittadinanza come 'l'ultimo fattore di differenziazione degli esseri umani per un accidente di nascita' e proprio per questo come limite di per sé superabile alla realizzazione dell'uguaglianza universale in diritti fondamentali tra gli esseri umani. In questa prospettiva, non verrebbe forse cancellata la differenza tra diritti della persona e diritti del cittadino?"; M. Bovero, Diritti e democrazia costituzionale in L. Ferrajoli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, a cura di E. Vitale, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 250. Conclusivamente è necessario prendere in considerazione l'interrogativo posto da Habermas: "E se la formazione democratica dell'opinione e della volontà non avesse forza vincolante sufficiente per oltrepassare il livello di integrazione rappresentato dal vecchio stato-nazione?"; J. Habermas, ult. op. cit., p. 140.

124. Cfr. S. Benhabib The Rights of Others, Aliens, Residents and Citizens, Press Syndicate of the University of Cambridge, 2004, tr. it. S. De Petris, I diritti degli altri, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006, pp. 35-38.

125. "Il richiesto nesso interno tra "diritti umani" e "sovranità popolare" consiste nel fatto che i diritti umani istituzionalizzano i presupposti comunicativi che sono indispensabili a una ragionevole formazione della volontà politica"; J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., p. 220. Per l'autore senza i diritti di libertà (ed in particolare senza il diritto fondamentale a eguali libertà soggettive) non potrebbe esistere un medium atto a istituzionalizzare giuridicamente le condizioni che consentono ai cittadini di partecipare alla prassi di autodeterminazione. In questa maniera l'autonomia privata e l'autonomia pubblica si presuppongono a vicenda. Il nesso tra "democrazia" e "stato di diritto" consiste nel fatto che i cittadini possono esercitare adeguatamente la loro autonomia pubblica solo quando siano sufficientemente indipendenti in virtù di un'autonomia privata loro paritariamente concessa ma nondimeno nella circostanza che essi possano godere paritariamente della loro autonomia privata solo quando facciano uso adeguato, come cittadini dello stato, della loro autonomia politica. Come si è evidenziato in precedenza, per Habermas nel modello 'occidentale' di legittimazione dei diritti la cooriginarietà di autonomia privata e autonomia civica è essenziale.

126. Si utilizza il termine greco nell'accezione che ha assunto nel sostantivo italiano composto "democrazia", il démos nell'antica Grecia, in realtà, era un ceto etnicamente qualificato.

127. Tra gli elementi di un ordinamento giuridico che abbia al proprio interno una realtà multiculturale, l'elemento territoriale può essere concepito in subordine rispetto al popolo e alla sovranità. Nondimeno, come si è sottolineato, il paradigma dello stato-nazione non può più costituire un riferimento. A tal proposito: "All'inizio, l'unità suggestiva di un popolo più o meno omogeneo era stata sufficiente per integrare culturalmente una cittadinanza definita in termini giuridici. In questo contesto la cittadinanza democratica poté fungere da 'punto di raccordo' per responsabilità reciproche. Oggi invece constatiamo quotidianamente come le società pluralistiche si allontanino sempre di più dal vecchio modello dello stato-nazione con popolazione culturalmente omogenea. Cresce continuamente la diversità tra forme di vita culturali, gruppi etnici, confessioni religiose e immagini del mondo. Non esistono alternative a questo processo se non al prezzo - normativamente insostenibile - delle pulizie etniche. Perciò il repubblicanesimo deve imparare a reggersi in piedi da solo"; J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., pp. 131-132. (Su quest'ultimo punto: per Habermas la solidarietà costitutiva della concezione repubblicana, come terza fonte dell'integrazione sociale, deve poter sussistere in modo indipendente rispetto all'istanza regolativa del potere sovrano dello stato e all'istanza regolativa del mercato che costituiscono il binomio fondante la concezione 'liberale' della politica. In tal modo l'architettura liberale di stato e società subirebbe una modifica importante. Per l'autore la prassi dell'autodeterminazione civica ha per base una "società civile" autonoma - indipendente dall'amministrazione pubblica e dal commercio privato mercantile - che impedisce alla comunicazione politica di essere risucchiata dall'apparato statale o assimilata alla struttura di mercato). Nella cosiddetta "disputa degli storici" (1986-1987) "Habermas aveva già espresso una dichiarazione di obsolescenza dell'idea veteroeuropea, convenzionale, di stato-nazione quale fonte primaria di identificazione collettiva"; C.E. Rusconi in Aa.Vv., Germania: un passato che non passa, Torino, 1987, p. XLI. Per ciò che concerne il monolitismo culturale del modulo dello stato-nazione occorre rilevare conclusivamente che anche in società dotate di cultura relativamente omogenea, diventa oggi inevitabile dare una nuova formulazione riflessiva a tradizioni dogmatiche dominanti che si pretendevano esclusive. Sul punto cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, tr. it. di G. Rigamonti, a cura di S. Veca, Edizioni di Comunità, Milano, 1994.

128. J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, cit., p.82.

129. Ibidem.

130. "Il problema delle 'minoranze interne' deriva dal fatto che, anche se considerati come persone giuridiche, i cittadini non sono mai individui astratti e avulsi dai propri vincoli originari di appartenenza. Nella misura in cui il diritto tocca questioni etico-politiche, esso altera l'integrità delle forme di vita in cui si inseriscono le condotte personali. In questo modo entrano in gioco - accanto a considerazioni morali, riflessioni pragmatiche e interessi negoziabili - anche valutazioni forti che dipendono da tradizioni condivise intersoggettivamente, ma afferenti a culture specifiche. Anche gli ordinamenti giuridici sono nel complesso "eticamente impregnati", poiché danno interpretazioni diverse al contenuto universalistico dei medesimi principi costituzionali"; J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., p. 156.

131. Il sostantivo declinato al singolare pone univoco riferimento alla collettività maggioritaria.

132. J. Habermas, Multiculturalismo, Lotte per il riconoscimento, cit., p. 82.

133. Ibidem. p. 83.

134. La mancata presa d'atto del mutamento della composizione demografica nei termini di un'analisi politico-giuridica comporta un inevitabile deficit democratico, che sul piano dei diritti politici assume la forma dello scollamento tra elettorato attivo e passivo. In questo senso, a proposito dell'ordinamento giuridico italiano, si è espresso anche Giuliano Amato (si intende riportare il pensiero del teorico, astraendosi da un profilo di valutazione delle scelte dell'uomo politico): "non si concede il diritto di voto ai soggiornanti di lungo periodo e si è estremamente magnanimi nei confronti degli italiani all'estero", G. Amato, "Lectio magistralis", Multiculturalismo e cittadinanza, VII Corso di formazione in diritto costituzionale, Multiculturalismo e diritti: accomodating diversity, Volterra, 2008. Qui il principio di maggioranza urta contro i propri limiti, in quanto la contingente composizione demografica della cittadinanza pregiudica i risultati di un procedimento apparentemente neutrale. In senso analogo: "Lo stesso principio maggioritario dipende da alcune premesse relative all'unità. L'unità in cui esso opera, infatti, deve essere in sé legittima e le questioni su cui viene correttamente impiegato devono ricadere sotto la giurisdizione di tale unità. In altre parole, se la portata e l'ambito della regola maggioritaria siano adatti o meno a una particolare unità dipende da presupposti che lo stesso principio maggioritario non può giustificare. La giustificazione dell'unità va oltre la sfera del principio maggioritario e, in questo senso, anche oltre quella della stessa teoria democratica"; R.A. Dahl, La democrazia e i suoi critici; tr. it. a cura dello Scriptorium snc, Editori Riuniti, Roma, 1990, p. 309. A tal proposito si confronti anche la proposta di articolazione di Ferrajoli del concetto di democrazia in due dimensioni, quella 'formale', basata sul principio di maggioranza e quella 'sostanziale': "In un senso non formale e politico, ma sostanziale e sociale di 'democrazia', lo stato di diritto equivale alla democrazia: nel senso che riflette, al di là della volontà della maggioranza, gli interessi e i bisogni vitali di tutti"; L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari, 1989, 6ª ed. 2000, p. 905.

135. Nell'ambito dell'impostazione intersoggettivistica della teoria discorsiva habermasiana le persone sono "nodi", o punti di incontro nella complessa trama ascrittiva di culture e tradizioni.

136. "Se collochiamo la collettività democratica in una prospettiva comunicativa, allora l'autocomprensione etico-politica dei cittadini non ci appare più quell'apriori storico-culturale che rende possibile la formazione democratica della volontà. Essa diventa piuttosto misurabile come flusso di un processo circolatorio [Flussegrosse in einem Kreisprozess] che entra in azione soltanto a partire dalla istituzionalizzzazione giuridica della comunicazione civica". J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., p. 172.

137. "Implicitamente la casuale composizione demografica della popolazione di stato [Staatsvolk] - ciò che Dahl chiama la "political unit" - determina anche l'orizzonte degli orientamenti di valore in cui si svolgono le battaglie culturali e i discorsi etico-politici di autochiarimento. Se modifichiamo la composizione sociale della cittadinanza modifichiamo anche questo orizzonte di valori"; J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., p.157.

138. "Il diritto come linguaggio dell'interazione possiede già di per sé una carica transculturale in quanto è diretto a far dialogare gli estranei", F. Viola, Diritti fondamentali e multiculturalismo, in A. Bernardi (a cura di) Multiculturalismo, diritti umani, pena, Giuffré, Milano, 2006, p. 44. Benché tale riflessione si fondi su un'indubbia validità concettuale, è evidente che occorre fare della presa d'atto dell'intrinseca transculturalità del diritto un punto di partenza e non d'arrivo.

139. J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, cit. p. 87.

140. Anche se il liberalismo intersoggettivo e comunicativo di Habermas si differenzia profondamente dall'individualismo atomistico di stampo liberista, per Habermas esistono soltanto diritti individuali e non diritti collettivi. L'unica riserva avanzata da Habermas è costituita dal fatto che nel liberalismo intersoggettivo i diritti individuali - tutelando non soltanto la libertà di arbitrio ma anche l'autocostituzione del sé - devono sempre dare accesso alle forme di vita (culturali e collettive) che sono costitutive dell'identità. Oltre che partecipare all'autonomia della prassi civica, guidata da principi costituzionali universalistici, il cittadino può anche scegliere di appartenere a molteplici forme di vita particolari di tipo etico, culturale o religioso. Queste identità collettive di tipo subpolitico si collocano ad un livello "inferiore" rispetto all'autonomia civica realizzata dalla prassi costituzionale e legislativa dello stato. Esse devono essere non solo giuridicamente equiparate dallo stato di diritto, ma anche eventualmente risarcite e soccorse con discriminazioni a rovescio (come si è visto, si tratta dello stesso problema di distribuzione diseguale - ai fini dell'eguaglianza - che è caratteristico del welfare). Ma queste culture di minoranza, per Habermas, non devono essere tutelate "ecologicamente" con misure coattive, quasi fossero delle specie animali in via di estinzione. In una democrazia, infatti, la tutela giuridica delle culture presenti sul territorio - siano esse culture di minoranza o di maggioranza - ha esclusivamente una funzione strumentale rispetto alle finalità dell'autoriconoscimento e dell'autonomia individuale. Così tutti i diritti collettivi culturali o 'assistenziali' hanno per Habermas forma transitoria e validità derivata: essi dipendono da una ridefinizione dei criteri giuridici di libertà ed eguaglianza che può essere portata avanti solo attraverso una politica deliberativa. "Da un punto di vista normativo, accordare 'priorità' al rispetto di diritti sociali e culturali è un controsenso, in quanto questi ultimi servono soltanto ad assicurare l''equo valore' - ossia, come dice Rawls, gli effettivi presupposti per pari opportunità di fruizione - dei primi, vale a dire dei fondamentali diritti liberali e politici"; cfr. J. Habermas, Solidarietà tra estranei. Interventi su "Fatti e norme", Guerini e Associati, Milano, 1997, pp. 94 e ss. Rimane fermo il fatto che nella visione habermasiana, se, da un lato, non esistono diritti di gruppo, diritti culturali, diritti sessuali o diritti di classe, bensì soltanto diritti individuali, dall'altro lato il diritto positivo è ab origine strutturalmente concepito non solo come realizzazione universalistica del sistema dei diritti ma anche come espressione particolare di una forma di vita. Elemento imprescindibile è che il diritto debba 'vagliare' in senso universalistico il particolarismo delle diverse forme di vita culturali.

141. Il termine richiama la summenzionata nozione geertziana di cultura ed evoca una curiosità linguistico-etimologica: il termine komb in albanese vuol dire "nodo" e assieme "etnia".

142. J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, cit. p. 90.

143. Cfr. S. Benhabib, La rivendicazione dell'identità culturale. Eguaglianza e diversità nell'era globale, cit.

144. J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, p. 93.

145. S. Benhabib, I diritti degli altri, cit., p. 95.

146. Con il patriottismo costituzionale, trattato da Habermas in termini di revisione procedurale dell'idea di nazione, il cittadino deve imparare a relativizzare e a rendere compatibili le sue opzioni etico-culturali nel quadro di principi universalistici e cosmopolitici. L'idea convenzionale di patria o di nazione, nella concezione habermasiana, viene decostruita dall'interno attraverso due vettori universalistici del costituzionalismo democratico: "diritti dell'uomo" da un lato e "diritto cosmopolitico" dall'altro.

147. J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, p. 95.

148. Per Habermas in apparenti condizioni di pluralismo culturale e sociale, le società includono spesso interessi e orientamenti di valore che non sono per nulla costitutivi dell'identità comunitaria complessiva, ossia della totalità di una forma di vita intersoggettivamente condivisa.

149. "Il tentativo habermasiano di tenere insieme il particolarismo dell'appartenenza e l'universalismo dei diritti rimanda all'idea che i diritti dell'uomo e la democrazia abbiano valore universale in quanto possono essere fondati a partire dai presupposti 'quasi trascendentali' della comunicazione linguistica"; L. Baccelli, Diritti senza fondamento in L. Ferraioli, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, cit., p. 213.

150. J. Habermas, L'inclusione dell'altro. Studi di teoria politica. Feltrinelli, Milano, 2008, cit., p. 128. (modif.).

151. "Habermas riconduce all'autoaccertamento morale e giuridico della modernità sia i diritti dell'uomo sia il patriottismo costituzionale"; L. Ceppa, Postfazione in J. Habermas, L'inclusione dell'altro, cit., p. 26.

152. J. Habermas, L'Occidente diviso, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 15.

153. Ibidem, p. 25.

154. Su tale aspetto si tornerà nella terza parte del lavoro.

155. Si tratta di una linea diversa rispetto a quella assunta dalla Corte Suprema del Canada con la sentenza 2 marzo 2006, n. 30322, Multani c. Commission Scolaire Marguerite-Bourgeoys, con tale pronuncia la Corte ha riconosciuto allo studente, parte nella causa, il diritto di portare a scuola il kirpan.

156. L. Codignola, La Repubblica, 29 maggio 2008.

157. Considerazioni dettate da un certo pragmatismo, non del tutto infrequenti pongono l'accento sull'onere del progetto, sotto il profilo del tempo impiegato ma soprattutto dei finanziamenti stanziati.