ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo III
Profili sociologici in materia di amministrazione di sostegno

Francesco Berti, 2009

3.1. Rafforzamento dell'amministrazione di sostegno e abrogazione dell'interdizione e dell'inabilitazione: la "seconda bozza Cendon"

E' utile, a questo punto del lavoro, domandarsi se sia necessario, così come opinato da autorevole dottrina (1), un superamento completo - una abrogazione - degli anacronistici istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione a vantaggio dell'amministrazione di sostegno. Occorre infatti ricordare come la stessa scuola triestina, che ha elaborato la prima e più importante bozza di riforma del codice civile sul tema in esame ("prima bozza Cendon"), contribuendo all'introduzione del nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno nel nostro ordinamento giuridico, recentemente abbia elaborato un'ulteriore bozza ("seconda bozza Cendon") (2) al fine di riformulare la normativa sull'amministrazione di sostegno, proponendo alcuni miglioramenti alla disciplina codicistica e prevedendo, al contempo, la completa abrogazione degli istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione.

Con l'entrata in vigore del nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno sono stati diversi e variegati i commenti e le prese di posizione di studiosi ed operatori sul tema. Se, da un lato, si è salutato con favore l'intervento del legislatore, in quanto per la prima volta venivano messi in discussione alcuni paradigmi anacronistici (per esempio quello relativo alla contrapposizione tra soggetto sano di mente e soggetto non sano di mente) e si ridava spessore e centralità all'individuo in quanto tale, cioè a prescindere dal suo status mentale, dall'altro, si è osservato come la nuova disciplina dell'amministrazione di sostegno fosse caratterizzata da alcune problematicità. A tal proposito, si possono ricordare le difficoltà di coordinamento tra il nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno e quelli dell'interdizione e dell'inabilitazione, che la Corte di Cassazione, con le sentenze nn. 13.584 e 25.366 entrambe del 2006, non ha chiarito del tutto; si può pensare alle difficoltà di coordinamento tra le nuove norme sull'amministrazione di sostegno e quelle dettate in tema di interdizione, richiamate esplicitamente dalla legge n. 4/2006 in quanto compatibili; si può pensare al dibattito, ancora non concluso, riguardante la riconducibilità o meno del procedimento per l'attivazione (o chiusura) dell'amministrazione di sostegno alla giurisdizione contenziosa o volontaria; ancora, ci si può chiedere se sia o meno necessario il patrocinio di un difensore nel procedimento riguardante il nuovo istituto e se sia o meno necessario prevedere forme remunerative, a vantaggio dell'amministratore di sostegno, per l'attività svolta.

Era evidente che, di fronte ad una tale situazione e alla crescente diffusione e applicazione del nuovo istituto, si ponesse l'esigenza di una rivisitazione di tutta la materia. Si è parlato della necessità di abrogare gli istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione, ma anche di elaborare un nuovo sistema di diritto per i "deboli", per i "diversi", quasi una sorta di bill of rights dei disabili (si prevede concretamente di creare un nuovo VII libro del codice civile che raccolga al suo interno tutte le norme sulla disabilità). Infatti, nella relazione che accompagna la "seconda bozza Cendon" si afferma che:

è tempo di mettere in rete [...] le varie indicazioni che il diritto italiano ha visto sbocciare, quasi sempre in via separata, rispetto ai diversi comparti della debolezza (opportunità rimediali, parole d'ordine, valori, modalità difensive, legittimazioni, strumenti trasversali, etc.), in particolare per quanto concerne minori, infermi di mente, handicappati, anziani, oppure consumatori, immigrati, lavoratori subordinati, vittime di dipendenze, diversi, detenuti, e così via. (3)

Inoltre, prosegue la relazione, per ciò che riguarda le modifiche da apportare:

le ipotesi di rinnovamento restano affidate, per intanto, ad una serie di disposizioni che si collocano lungo i singoli libri del codice civile e che attengono ai vari settori non toccati esplicitamente dalla riforma del 2004: matrimonio e istituti connessi alla filiazione, capacità d'agire del minore, regime di annullabilità dei contratti, negozi mortis causa, donazione, titoli di credito, fatti illeciti. (4)

Così come avveniva per la "prima bozza Cendon", anche adesso si ritiene che la proposta di riforma in esame debba abbracciare non solo le persone intrinsecamente svantaggiate, cioè gli individui versanti in condizione di disagio per effetto di patologie cliniche vere e proprie, oppure a causa dei problemi di natura fisica o psichica:

occorre fare riferimento, più ampiamente, alle 'persone indebolite', ovvero agli esseri che figurino poveri di cittadinanza, precari, segregati o isolati, abbandonati a se stessi, manchevoli o eterodipendenti dall'esterno; vale a dire agli individui che, impossibilitati a 'farcela' da soli quanto alla gestione dei passaggi della vita quotidiana (in quanto toccati da impedimenti di carattere fisico, o psichico, o sensoriale, o logistico, o anagrafico), continuano a non trovare, all'intorno, da parte della comunità organizzata, supporti idonei a consentire la realizzazione del progetto di vita loro proprio, più o meno complesso o ambizioso. (5)

Quindi, secondo questa impostazione teorica, la categoria dei "soggetti deboli" deve comprendere al suo interno tutte le persone che stanno "così così", impossibilitati per le ragioni più diverse a condurre una vita giuridica e di relazione "normale".

In questa ottica, il nuovo progetto di riforma del codice civile costituisce la prosecuzione del percorso avviato con la legge n. 6/2004 (che ha introdotto il nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno), in quanto la stessa ha avuto il merito di introdurre nel nostro ordinamento giuridico una prerogativa soggettiva di rango costituzionale, definibile quale diritto generale al "sostegno". (6) Infatti, con l'introduzione dell'amministrazione di sostegno si è compiuto un primo importante passo verso il superamento di un grave limite del codice del 1942: cioè l'aver disciplinato soltanto la condizione, con strumenti spesso stigmatizzanti, degli individui più fragili sul piano del disagio psichico.

Inoltre, la continuità della "seconda bozza Cendon", rispetto alla riforma del codice operata dalla legge n. 6/2004, si coglie nel rafforzamento del principio di tendenziale capacità d'agire della persona. A tale scelta viene, anzi, dato il suo pieno e definitivo sviluppo mediante l'abrogazione delle misure 'protettive' di vecchio stampo, nonché attraverso il superamento della concezione su cui queste si reggevano, rappresentata dall'idea della generale deminutio formale del soggetto "protetto", del quale veniva sacrificato ogni segmento di sovranità. Infatti, come si afferma nella stessa relazione di accompagnamento al nuovo progetto di riforma, "pur non essendosi optato - con la precedente riforma - per l'opzione di tipo schiettamente abrogativo, è opportuno sottolineare come le modifiche apportate dalla legge n. 6/2004 agli artt. 414-432 cod. civ. abbiano determinato un parziale ammorbidimento dei vecchi istituti, oltre che il 'contingentamento' della loro potenzialità applicativa". (7) Quanto poi alla scelta, operata nella "prima bozza Cendon" e fatta propria anche dalla legge n. 6/2004, di non abrogare gli istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione, ciò si spiega tenendo conto del fatto che i tempi per una tale ipotesi non erano ancora maturi e una tale proposta, così "rivoluzionaria", avrebbe rischiato di impedire l'approvazione della stessa legge sull'amministrazione di sostegno.

E' giunto però il momento, per i promotori di questa nuova riforma, di affermare con forza la necessità di abrogare gli istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione e questo per le seguenti ragioni:

  1. "taglio espropriativo dell'interdizione: un regime che comporta la morte civile della persona, che tradisce valenze cripto-punitive, che dà luogo a un eccesso di impedimenti anche di natura non patrimoniale;
  2. mancanza di valore terapeutico: inidoneità a prestarsi ad un progetto personalizzato di risocializzazione per il disabile;
  3. enfasi solo economicistica, impostazione di favore nei riguardi dei familiari o dei terzi, frequenza statistica per i casi di sciacallaggio;
  4. costosità, scarsa trasparenza delle procedure, debolezza delle garanzie formali e politiche, complessità delle revoche e delle modifiche". (8)

Infine, la continuità tra la riforma del 2004 e il presente progetto de iure condendo si coglie, ulteriormente, nei ritocchi che vengono proposti, ora, riguardo alla disciplina dell'amministrazione di sostegno al fine di superare i dubbi interpretativi emersi in questi primi anni di vigenza. (9)

Come già accennato, tratto saliente della proposta di riforma, contenuta nella "seconda bozza Cendon", consiste nella necessità di abrogare gli istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione. La relazione di accompagnamento alla stessa bozza, infatti, a sostegno di questa tesi, ricorda come già nella "prima bozza Cendon" si affermasse come l'interdizione, in special modo, venisse ritenuta una risposta eccessiva, "frutto di concezioni ormai superate in psichiatria e funzionale prevalentemente agli interessi dei familiari, che finisce per annullare alcuni tra i diritti fondamentali della persona, risultando sicuramente sproporzionata rispetto alla salvaguardia della grande maggioranza dei sofferenti psichici". (10) Inoltre, la Corte di Cassazione, come visto in precedenza nel cap. II, in una recente sentenza (Cass., Sez I, 12 giugno 2006, n. 13584) ha precisato, nel tentativo di chiarire i confini tra il nuovo istituto e l'interdizione e l'inabilitazione, che "l'ordito normativo esclude che si faccia luogo all'interdizione tutte le volte in cui la protezione del soggetto abitualmente infermo di mente, e perciò incapace di provvedere ai propri interessi, sia garantita dallo strumento dell'amministrazione di sostegno". Si conclude inoltre affermando il carattere residuale dell'interdizione, in quanto misura cui (si è precisato) si potrà far ricorso soltanto quando si tratti di gestire "un'attività di una certa complessità", o quando serva per contrastare il rischio che il soggetto compia "atti pregiudizievoli per sé". (11)

Nonostante la Suprema Corte abbia previsto dei residui margini di operatività per gli istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione, gli estensori della "seconda bozza Cendon" propendono per un'applicazione generalizzata dell'amministrazione di sostegno, che abbracci tutte le ipotesi di "difficoltà" del soggetto, ricondotte un tempo sotto i citati anacronistici istituti. Infatti:

il punto è che, già nell'attuale fase applicativa, [l'amministrazione di sostegno] si presenta quale mezzo duttile, modulabile in relazione alle esigenze specifiche dell'interessato (persona priva, in tutto o in parte, di autonomia), nonché strumento difensivo applicabile, in quanto tale, ad ampio raggio: anche in quelle situazioni in cui si tratti, cioè, di far fronte ad un rischio di autolesionismo della persona, o ad attività gestorie particolarmente complesse e delicate. (12)

Inoltre, va aggiunto, a sostegno di questa tesi, che il nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno si pone come uno strumento di "aiuto" flessibile e costruito sulle esigenze del singolo beneficiario, che recupera il ruolo dell'individuo debole quale soggetto di diritto immerso nelle relazioni sociali.

Il progetto di riforma che stiamo esaminando, come già in precedenza evidenziato e sempre al fine di salvaguardare la dignità della persona e per coerenza sistematica, propone inoltre l'abrogazione dell'interdizione legale. Infatti, secondo i promotori della "seconda bozza Cendon", deve riconoscersi "l'opportunità di completare il presente progetto abrogativo, inerente al cod. civ., includendovi anche la misura accessoria interdittiva, la quale (sebbene non pregiudichi la possibilità, per il condannato, di compiere gli atti di natura personale) più non si giustifica oggigiorno, stante il carattere in ogni caso svilente per la dignità della persona". (13) L'interdizione legale non impedisce ai detenuti e agli internati l'esercizio personale dei diritti riconosciuti loro dall'ordinamento penitenziario. Sulla base, dunque, di queste premesse si ritiene che con l'abrogazione dell'interdizione giudiziale (nonché legale, come pena accessoria) e dell'inabilitazione, l'incapacità legale permanga, nel nostro sistema giuridico, soltanto con riferimento alla categoria dei minori. Per quanto riguarda, infatti, i soggetti maggiorenni, "ad un tipo di espropriazione sul piano negoziale, a tutto campo, viene a sostituirsi la possibilità di un'incapacitazione (14) funzionale, depersonalizzata"; il rischio di un "etichettamento" dell'interessato quale incapace di agire, una volta per sempre, verrà superato, de iure condendo, con una mera e contingente sospensione di poteri, giustificata da specifici pericoli sul terreno gestionale, circoscritta nel caso concreto ad uno o a più (in limitatissimi casi, a tutti quanti gli) atti e operazioni da compiersi, secondo la modulazione che verrà stabilita dal giudice tutelare. (15)

Anche laddove si rendesse necessaria un'incapacitazione totale del beneficiario, estesa cioè all'insieme degli atti di natura personale e patrimoniali (esclusi comunque quelli della vita quotidiana) questa avrà - secondo gli estensori della "seconda bozza Cendon" - natura prettamente funzionale rispetto al caso concreto, in quanto sarà revocabile e modificabile in qualunque momento. Infatti, si ritiene che i casi in cui potrà aversi una restrizione "totale" della capacità del soggetto dovranno comunque essere circoscritti "alle situazioni di malessere psichico tali da comportare seri rischi di autolesionismo [come nel caso del] disabile intenzionato a porre in essere atti di tipo rovinoso/autodistruttivo, o all'individuo del tutto inerte/ostile rispetto al compimento di un negozio necessario per fronteggiare qualche necessità". (16)

Il sistema di protezione delle persone deboli dovrebbe essere imperniato sulla nuova figura dell'"inadeguatezza gestionale". Tutti i soggetti, cioè, che presentino difficoltà sul piano organizzativo e gestionale, che abbiano una mancanza di autonomia sul versante del "fare", dovrebbero poter beneficiare del "nuovo" assetto fornito dall'amministrazione di sostegno. Sarà la nuova figura dell'"inadeguatezza gestionale", per la "seconda bozza Cendon", a indicare le situazioni che richiedono un intervento di protezione.

Sulla base di queste considerazioni, l'amministrazione di sostegno si candida ad essere l'unico strumento di aiuto e protezione, previsto dal nostro ordinamento giuridico, per i "soggetti deboli". Non più misure "stigmatizzanti" e "ghettizzanti", come l'interdizione e l'inabilitazione, ma un intervento di un solo istituto "a 360 gradi". Si passa quindi da un'"incapacitazione formale", secondo la logica del passato, ad un'"incapacitazione funzionale", secondo il nuovo progetto. Una "incapacitazione" non più riconducibile alla persona in quanto interdetta o inabilitata, ma riferita a singoli atti limitati nel quadro dell'amministrazione di sostegno. E anche nell'ipotesi in cui si renda necessario, tramite l'amministrazione di sostegno, un intervento totalmente "incapacitante" o comunque esteso alla maggior parte degli atti, occorre precisare che lo stesso "dovrà costituire un tipo di intervento soltanto eventuale, che spetterà al giudice disporre, volta per volta, più o meno ampiamente, a seconda che vi sia o meno il concreto pericolo di un cattivo uso dei propri poteri e diritti, da parte dell'interessato". (17)

La relazione di accompagnamento della "seconda bozza cendon" individua, inoltre, nelle stesse caratteristiche dell'"inadeguatezza gestionale" il discrimen tra una "incapacitazione totale" o limitata al compimento di singoli atti. Secondo la stessa relazione si possono individuare tre specifiche ipotesi:

  1. Soggetti impossibilitati, per motivi di ordine fisico o psichico, a poter decidere o fare qualunque cosa in autonomia. Soggetti che, per la condizione di vita che li caratterizza, sono tenuti al riparo contro il rischio di errori o approfittamenti altrui. Si possono considerare, "i soggetti in coma, o colpiti da gravi forme di ictus, i malati terminali, i pazienti 'attaccati' ad una macchina, i portatori di sindromi estreme di oligofrenia o di demenza: in tutti questi casi, proprio per l'estrema gravità della condizione psico-fisica, la persona si trova nell'impossibilità assoluta di fare alcunché, compresi eventuali atti pregiudizievoli per sé o per altri". (18) In queste ipotesi, pertanto, si renderà necessario il ricorso ad un amministratore con ampi poteri, dotato di piena rappresentanza per gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione. Ma proprio perché tali soggetti vivono in uno stato di inerzia, di immobilismo giuridico, a causa della loro condizione psico-fisica, deve essere rigettata con forza l'idea di una loro "incapacitazione".

  2. La seconda tipologia di soggetti considerata dalla relazione, rispetto alla quale (come sopra) non trova giustificazione un provvedimento di amministrazione "incapacitante", è quella delle persone che pur "trovandosi in condizioni psichiche rassicuranti, accusino deficit fisico/sensoriali tali da far temere intralci o ristagni di vario genere nella coltivazione di rapporti con i terzi e nel compimento di atti necessari alla cura dei loro interessi". (19) Si pensi, per esempio, ad "un soggetto non vedente, o sordomuto, o costretto ad una sedia a rotelle, privo, peraltro, di una rete familiare efficiente e affezionata, disponibile a prendersi cura di lui; si consideri, ancora, un adulto non in grado di farsi capire bene poiché affetto da dislessie, balbuzie, tic, o sofferente di epilessia, o affetto da morbo di Parkinson; e, non da ultimo, un neo-immigrato da un paese lontano, spaesato ed incerto sul da farsi, nonché l'anziano della quarta età pur pienamente lucido e consapevole". (20)

    Anche in questo caso, nonostante la diversità delle situazioni considerate, si opina nel senso che il provvedimento di sostegno non sia "incapacitante", conservandosi in capo al beneficiario la sovranità piena in ordine agli atti da compire, compresi quelli affidati all'amministratore.

  3. La terza categoria di soggetti, infine, abbraccia soggetti affetti da "malanni psichici abbastanza insidiosi e/o radicati da trovarsi esposti a rischi di sperpero/autolesionismo qualora venisse conservata la loro sovranità gestionale; è il caso degli schizofrenici, dei malati avanzati di Alzheimer, dei paranoici acuti, dei depressi gravi, di coloro che si trovino in stati deliranti, paranoici, o affetti da disturbi profondi della personalità, inclinazioni al suicidio, forme gravi di dipendenza da alcool o droghe: in definitiva, il vecchio target dell'interdizione". (21) In tutti questi casi, al contrario delle altre due categorie viste sopra, l'attivazione dell'amministrazione di sostegno dovrà accompagnarsi ad un'"incapacitazione" negoziale, peraltro limitata alle sole operazioni realmente minacciose per il beneficiario.

Come emerge ancora dalla relazione di accompagnamento, sulla base di quanto fin qui affermato (e detto anche in precedenza), vi è una evidente linea di continuità con i principi ispiratori della legge n. 6/2004: apprestare protezione al disabile limitandone la sovranità nelle sole ipotesi in cui ciò sia indispensabile per la cura e la salvaguardia del suo interesse.

A tal proposito occorre ricordare come l'art. 1 della legge n. 6/2004 affermi che "la presente legge ha la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità d'agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nel'espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente"; mentre l'art. 409 cod. civ. afferma che "il beneficiario conserva la capacità d'agire per tutti gli atti che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l'assistenza necessaria dell'amministratore di sostegno". De iure condendo, l'equilibrio tra il mantenimento della sovranità del beneficiario e l'esigenza di protezione dello stesso viene perseguito, dalla proposta di riforma, attraverso alcuni interventi:

  1. si prevede la possibilità che il beneficiario possa compiere atti di natura personale, con l'assistenza/affiancamento dell'amministratore di sostegno, previa indicazione del giudice tutelare;
  2. si introducono spazi di capacità d'agire per il minore "limitatamente agli atti necessari a soddisfare le esigenze della vita quotidiana prevedendo, al contempo, una intensificazione dei doveri del tutore del minore, sulla falsariga dei doveri genitoriali contemplati dall'art. 147 cod. civ. (si veda il nuovo testo degli artt. 382 e 384 cod. civ.)"; (22)
  3. si riconosce pienamente il diritto del soggetto debole di testare e di donare, con l'introduzione di norme ad hoc in difesa del beneficiario di amministrazione di sostegno, eventualmente dichiarato incapace, al fine di preservare la validità dei propri atti (v. artt. 591 bis e 775 bis cod. civ.);
  4. infine, sul piano processuale, si opta per una soluzione di compromesso tra la sovranità e l'autosufficienza del beneficiario e i diritti costituzionali della difesa e del contraddittorio (si vedano le integrazioni che vengono apportate agli artt. 406 e 407 cod. civ. e all'art. 716 c.p.c.).

La proposta di riforma prevede al contempo, però, specifiche ipotesi di "incapacitazione" per l'amministrato rispetto ad atti di natura personale. Questa scelta deriva, da un lato, dal fatto che con la riforma scompariranno gli impedimenti automatici al compimento di atti personali previsti attualmente per l'interdetto (per esempio, il divieto di sposarsi, di fare testamento o donazione, etc.) e, dall'altro, dall'impossibilità di ricorrere all'art. 411, cod. civ., che consente di estendere al beneficiario di amministrazione di sostegno le limitazioni previste per l'interdizione. La conseguenza sarà quindi di rimettere al giudice tutelare, vista la eterogeneità degli atti in questione, la scelta se uno o più atti di natura personale debbano essere impediti allo stesso beneficiario; inoltre, si propone di sostituire l'art. 411 cod. civ. con una serie di disposizioni collocate in diversi punti del codice civile. Conclusione, "soltanto allorché la valutazione dell'interesse del beneficiario conduca a ravvisare la necessità di un divieto al compimento della totalità degli atti personali, il giudice potrà adottare una formula onnicomprensiva facente riferimento, cioè, in via generale, a tutti gli atti di tal natura". (23) A questo proposito, considera la collocazione in diversi settori delle norme "incapacitanti" e la soppressione dell'art. 411 cod. civ., si ritiene di dovere introdurre, all'interno della disciplina dell'amministrazione di sostegno, un riferimento alla possibilità di "incapacitazione" del beneficiario nell'art 409 cod. civ., che viene infatti riformulato nel seguente modo: "egli conserva, altresì, la capacità di compiere i singoli atti di natura personale riguardo ai quali il giudice tutelare non abbia stabilito un impedimento con l'atto istitutivo dell'amministrazione di sostegno o successivamente".

Ancora, la proposta di riforma contempla l'ipotesi in cui vi sia una situazione di "immobilismo" dell'interessato, la quale si riveli per lui pregiudizievole. In questo caso si prevede una protezione "attiva", un "fare sostitutivo" da parte dell'amministratore di sostegno. Si spiegano così le disposizioni contenute negli artt. 471, 650 e 780 cod. civ., che prevedono, appunto, la rappresentanza esclusiva dell'amministratore di sostegno, su disposizione del giudice tutelare, per il compimento di un atto necessario alla salvaguardia degli interessi della persona che, tuttavia, questa rifiuta o trascura di compiere. Tale situazione di rischio è prospettabile e (conseguentemente, è stata prevista) nelle ipotesi di rifiuto di accettare un'eredità (nuovo art. 471 cod. civ.) o una donazione (nuovo art. 780 cod. civ.) che risultino vantaggiose per il beneficiario, o all'inerzia nell'esprimere il rifiuto del legato (nuovo art. 650 cod. civ.) di un bene immobile che risulti gravato da ipoteca (inerzia che, come noto, comporta l'accettazione tacita del legato). (24) La scelta fatta in questo caso dalla "seconda bozza Cendon" anche se potrebbe apparire - in quanto viene ammessa una protezione attiva/sostitutiva del disabile - contraria ai principi di autodeterminazione e libertà della persona, viene giustificata dalla necessità di apprestare una protezione effettiva ed efficace, quando siano in gioco interessi legati alla cura e al sostentamento del disabile.

Altro aspetto saliente, che emerge da questa proposta di riforma, consiste nel rafforzamento del ruolo del giudice tutelare. Già attualmente la legge n. 6/2004 riconosce un importante ruolo al giudice tutelare, consistente nello stabilire le direttive dell'intervento di sostegno, nonché gli eventuali interventi e aggiustamenti che si possano rendere necessari nel corso della stessa amministrazione di sostegno. In base alla proposta di riforma questo ruolo viene accresciuto soprattutto in tre direzioni. Sarà infatti il giudice tutelare a dover stabilire l'eventuale "incapacitazione" del disabile oppure un'amministrazione che, al contrario, si presenti come "non incapacitante"; spetterà al giudice tutelare un ruolo fondamentale di indirizzo e controllo rispetto al compimento di atti personali, quali un testamento, oppure l'accettazione di un'eredità o di un legato; infine, spetterà al giudice tutelare accendere un'eventuale protezione "attiva", attribuendo all'amministratore di sostegno poteri di rappresentanza esclusiva riguardo all'accettazione di un'eredità, o di una donazione o, ancora, alla manifestazione del rifiuto di accettare un legato.

Tutto questo vale parallelamente anche per l'amministratore di sostegno - cui la proposta di riforma attribuisce un ruolo di "tutoraggio" - il quale assume nuovi compiti consistenti nell'assistere il beneficiario nella stessa redazione e predisposizione del testamento o di un atto di donazione (nuovi artt. 591 bis e 775 bis cod. civ.). Inoltre, occorre ricordare anche la funzione di protezione "attiva" alla quale l'amministratore di sostegno può essere chiamato, dal giudice tutelare, nel caso di "immobilismo" del beneficiario, riguardo al compimento di atti necessari alla cura dei propri interessi. (25)

Inoltre, la proposta di riforma prevede, come già avveniva nella "prima bozza Cendon", anche un riassetto del sistema di responsabilità dell'incapace, attraverso il ritocco degli artt. 2046 e 2047 del cod. civ. Come infatti si afferma nella relazione che accompagna la proposta di riforma "il nucleo fondamentale della nuova ipotesi è rappresentato dalla sostituzione della regola di piena responsabilità, a quella oggi vigente di irresponsabilità dell'incapace (in linea di principio) per l'illecito commesso". (26) La ratio di questa scelta trova il suo fondamento non soltanto nel diritto comparato (in Francia, una modifica del code civil, approvata nel 1968, ha introdotto il principio secondo cui anche l'infermo di mente dovrà risarcire per intero i danni extracontrattuali da lui arrecati ad altri), ma anche nella funzione terapeutica che la psichiatria moderna riconosce alla responsabilizzazione dell'infermo di mente. (27)

Sul piano processuale la proposta di riforma propone di rendere più snello e immediato l'accesso alla misura di protezione dell'amministrazione di sostegno. Sono significative, a tal riguardo, l'espressa indicazione che il ricorso per l'istituzione dell'amministrazione di sostegno potrà essere presentato dallo stesso interessato e la previsione, ex nuovo art. 716, comma uno, cod. proc. civ., relativa alla sovranità e autosufficienza processuale dell'interessato, il quale potrà agire autonomamente in giudizio e compiere tutti gli atti del procedimento, comprese le impugnazioni. L'autonomia del beneficiario di amministrazione di sostegno trova un limite, però, nell'ipotesi in cui il giudice tutelare ritenga di disporre, nei confronti dello stesso beneficiario, limitazioni, divieti e decadenze tali da incidere sui diritti fondamentali della persona, poiché in questo caso si renderà necessaria l'assistenza di un difensore (nuovi artt. 716, secondo e terzo comma, cod. proc. civ. e 407 cod. civ.). La "seconda bozza Cendon" fa, quindi, proprio l'orientamento della Corte di Cassazione (sentenza n. 25366 del 29 novembre 2006), in base al quale il patrocinio di un difensore, a favore del beneficiario del provvedimento di amministrazione di sostegno, si rende necessario nelle ipotesi in cui l'intervento del giudice tutelare sia destinato a toccare, comprimendoli, diritti fondamentali della persona (ed in questo caso, appunto, del beneficiario di amministrazione di sostegno). E' evidente d'altronde, come emerge dalla stessa relazione di accompagnamento alla "seconda bozza Cendon", che una tale soluzione del problema potrà suscitare discussioni e dibattiti, in particolare:

  1. su quali siano i diritti fondamentali della persona (in particolare ci si domanderà se vengano in gioco soltanto diritti di natura strettamente personale, oppure anche di natura patrimoniale);
  2. su quale potrà essere, di fronte alla mancata predisposizione della difesa tecnica, la sanzione predisposta nei casi in cui la stessa si fosse presentata necessaria;
  3. su come debbano, ancora, essere risolte le ipotesi in cui il giudice tutelare non provveda ad "incapacitare" la persona, proprio per evitare la nomina del difensore, magari assecondando la riluttanza dello stesso beneficiario a farsi assistere da un difensore;

Si tratta, in sintesi, "di difficoltà di bilanciamento inevitabili in un sistema di protezione dei soggetti deboli che ha in sé una doppia anima: per metà di tipo eminentemente giurisdizionale (allorché ci si trovi dinanzi a persone che vanno davvero 'incapacitate', più o meno significativamente, per il loro bene, e che magari non vogliono saperne affatto di essere salvaguardate dal diritto); per metà di natura un po' più amministrativa (quando la clientela sia di tipo leggero, e tutto finisce per assomigliare alle deleghe che ciascuno di noi fa, quotidianamente, per gestire i momenti burocratici/gestionali che ci affannano: banche, posta, condominio, etc.)". (28)

La "seconda bozza Cendon" fa, inoltre, propria l'idea che la protezione dei soggetti deboli debba avvenire e svilupparsi "dal basso". Questo risulta evidente considerando che:

  1. "è rimesso al giudice di confezionare, sul piano concreto, il paradigma di protezione più adeguato, più rispondente cioè alle esigenze e alle aspirazioni che vengano manifestate, anche indirettamente, dalla persona"; (29)
  2. "sempre al giudice tutelare spetta di operare, nel corso della gestione della misura di protezione, le varie colmature ed integrazioni destinate a rendersi via via necessarie"; (30)
  3. la disciplina dell'amministrazione di sostegno non prevede nessuna limitazione generale di sovranità, poiché l'intervento limitativo viene rimesso al giudice tutelare: sarà quest'ultimo a decidere l'intervento necessario e calibrato sulle esigenze che emergono dal caso concreto.
  4. ancora, "la disomogeneità/inconfondibilità rappresenta un tratto dominante nella gestione dell'amministrazione di sostegno: per ogni creatura versante in difficoltà il decreto del giudice tutelare appare un quid personalizzato, emesso appositamente sul suo conto, tale da cucire intorno all'interessato un 'vestito su misura'". (31)

Si ritiene, dunque, fondamentale il ruolo del giudice tutelare. Dovrà infatti farsi affidamento sulle sue attitudini e qualità ogni volta in cui sarà necessario un suo intervento. Ciò emerge con evidenza, in primo luogo:

da tutta una serie di neo-disposizioni, che rimandano al giudice tutelare la decisione relativa 'all'incapacitazione' del beneficiario, riguardo ad un determinato atto o a più atti (basta pensare alle varie norme sparse nel I libro cod. civ., in materia di matrimonio, di filiazione, e di successione mortis causa, e nel libro II, in materia di donazione; ma si vedano anche i rimandi contenuti nel libro V agli eventuali impedimenti, stabiliti dal giudice tutelare, a prendere parte ad una società di persone, o ad assumere cariche societarie in società di capitali, e così via). Lo stesso vale per le disposizioni di nuova formulazione in materia testamentaria e di donazione (art. 591 bis e 775 bis cod. civ.), che demandano al giudice la scelta circa le modalità da adottare per la redazione del testamento o di un atto di donazione da parte del disabile; così, ancora, per quanto concerne la nomina, ai fini della redazione dell'atto, di un curatore piuttosto che dell'amministratore di sostegno. Né va dimenticata l'attribuzione al giudice tutelare di compiti strategici, di puntello o di rilancio, in ordine alla necessità di attivare una protezione 'dinamica', consistente, in particolare, nell'attribuire all'amministratore di sostegno la rappresentanza esclusiva riguardo al compimento di determinati atti, che l'interessato trascuri o rifiuti di compiere, ponendo a repentaglio così la propria sussistenza o sicurezza. (32)

Infine, per concludere questa sintetica esposizione che ripercorre i tratti salienti della nuova proposta di riforma del codice civile in tema di amministrazione di sostegno, può essere interessante ricordare come la "seconda bozza Cendon" preveda l'inserimento nel codice civile (all'interno del II libro) - utilizzando lo spazio della sostituzione fedecommissaria assistenziale di cui all'art. 692 cod. civ. che viene abrogata - il nuovo istituto del "patrimonio con vincolo di destinazione". Tratto saliente dello stesso è:

la finalità, che strutturalmente gli si assegna, di favorire l'autosufficienza economica del beneficiario: risultato che viene raggiunto con il 'vincolare', appunto, determinati beni (per volontà del disponente) al mantenimento, alla cura, alla istruzione e - più in generale - alle necessità concrete e quotidiane del beneficiario dell'amministrazione di sostegno, in relazione ai bisogni e aspirazioni di questo (tanto che, con la revoca dell'amministrazione di sostegno, il vincolo è destinato a venir automaticamente meno). (33)

Inoltre, i beni facenti parte del patrimonio vincolato potranno essere alienati, dietro autorizzazione del giudice tutelare, nel caso di un'utilità evidente per il beneficiario.

Infine, per concludere il discorso concernente il dibattito che attualmente si muove attorno all'istituto dell'amministrazione di sostegno, si può ricordare come il 28 novembre 2008 si sia svolto, presso l'università di Firenze, un convegno dal titolo "Amministrazione di sostegno e consenso informato" al quale hanno partecipato giuristi, psichiatri, medici ed altri operatori giuridici e socio-sanitari. Tra i relatori era presente lo stesso Cendon, il quale ha cercato di mettere in evidenza, nel suo intervento dal titolo "Agenda dell'amministrazione di sostegno", le più importanti innovazioni della legge n. 6/2004 sull'amministrazione di sostegno, oltre alle problematiche che, a tre anni dalla sua entrata in vigore, ancora la caratterizzano. La prima osservazione del relatore è stata quella che a tre anni dall'entrata in vigore dell'amministrazione di sostegno, non si assiste ad una uniforme applicazione della legge n. 6/2004. A seconda del comune considerato varia notevolmente, infatti, l'impegno e l'attenzione dedicata dagli attori politici e socio-sanitari alle problematiche concernenti la disabilità e le difficoltà della persona. Anche gli stessi giudici tutelari vengono chiamati ad un forte impegno per la realizzazione delle finalità della legge n. 6/2004, che però non tutti assolvono a pieno. Vi sono, infatti, giudici tutelari che si impegnano, al fine di individuare le situazioni che richiedono un loro intervento; altri, invece, si trasformano in semplici "burocrati", senza cogliere a pieno il vero significato della loro professione. Infine, anche nel mondo del volontariato si riscontrano risposte diverse.

Cendon ha ricordato, ancora una volta, perché sia nata l'amministrazione di sostegno. Il nuovo istituto è nato per rispondere all'esigenza di proteggere persone che si trovavano a metà strada tra soggetti non bisognosi d'aiuto e soggetti che, invece, potevano, secondo la precedente disciplina, essere soltanto interdetti o inabilitati: si volevano proteggere i soggetti che stavano "così-così". Soggetti che non si trovano in una situazione di totale infermità, in quanto capaci comunque di compiere alcuni atti della vita quotidiana, ma che richiedono un aiuto, un "sostegno" per il compimento di particolari atti giuridici (es. un contratto di compravendita) che non potrebbero porre in essere autonomamente. La domanda che occorre porsi, a questo riguardo, è se tutte queste persone siano oggi supportate dall'amministrazione di sostegno. La risposta che dà il relatore è che laddove vi è un giudice tutelare che si impegna, cerca di "stanare" le difficoltà, allora si assiste ad un'applicazione ampia dell'amministrazione di sostegno, con importanti risvolti positivi soprattutto per la persona debole. Al contrario, dove ciò non si verifica, una consistente fetta della società debole rischia di essere abbandonata a se stessa.

Uno dei principali meriti dell'amministrazione di sostegno è quello di avere considerato la situazione della persona in difficoltà (fosse un handicappato, un immigrato con difficoltà di inserimento, etc.) non già come persona da compiangere, o verso cui avere un atteggiamento "caritatevole", ma secondo una visione "promozionale". Un soggetto, quindi, uguale agli altri, ma bisognoso di un "aiuto attivo" nel compimento di alcuni atti, secondo l'idea che "la debolezza non è dentro la persona, ma fuori dalla stessa". Occorre capire se questa concezione "promozionale" - che guarda all'individuo in difficoltà come soggetto che con un po' di aiuto può riuscire a vivere dignitosamente, come individuo carico di potenzialità - sia o meno stata assimilata nella nostra società dopo tre anni dall'approvazione della legge n. 6/2004. La risposta, secondo Cendon, dipende ancora dalla reazione dei vari giudici tutelari e dei servizi socio sanitari: solo laddove la reazione è nel senso di un forte impegno, allora è possibile andare verso una corretta lettura ed interpretazione della nuova normativa.

Da ciò che abbiamo detto, secondo l'interpretazione data dal "padre nobile" della riforma, emerge come due importanti principi su cui si regge il nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno siano quelli di "non abbandonare" e di "non mortificare". Il primo principio richiede un impegno da parte delle istituzioni, dell'autorità giudiziaria, delle famiglie, etc., al fine di non lasciare sole le persone in difficoltà, il secondo implica il "non chiedere un prezzo per il sostegno", ma dare un sostegno incondizionato, al contrario dell'interdizione che protegge, ma al contempo sottrae all'individuo ogni autonomia. Cendon ritiene che rispetto al primo di questi due fondamentali principi ancora molto debba essere fatto, in quanto non vi è, come visto sopra, una risposta univoca da parte di tutte le realtà territoriali. Quanto al secondo principio, il "non mortificare", purtroppo la situazione è ancora più drammatica, poiché si continua insistentemente, in alcuni tribunali, ad interdire nonostante la presenza del nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno nel nostro ordinamento.

Inoltre, si chiede ancora il relatore se sia passata l'idea che ravvisa nel beneficiario di amministrazione di sostegno un soggetto capace di "autodeterminarsi", nonostante la sua fragilità e il suo bisogno d'aiuto. La risposta non è semplice, in quanto l'amministrazione di sostegno, al di là dell'interpretazione datale dai suoi ideatori, ha ereditato tutte le storture, i dubbi e le paure proprie dell'interdizione. Vi è il rischio che l'amministrazione di sostegno sia portatrice cioè di un effetto "stigmatizzante", al pari degli istituti del passato.

Altro aspetto fondamentale consiste nel considerare l'amministratore di sostegno come un soggetto "dinamico" e non "statico". Soltanto l'amministratore di sostegno che possa determinare un "progetto di sostegno", in armonia con i servizi e il giudice tutelare, può essere davvero uno strumento importante di aiuto per il soggetto debole. A volte, anche in questo caso, si assiste all'attivazione di amministrazioni di sostegno che hanno successo, altre volte purtroppo ciò non si verifica. Ancora, si chiede Cendon se sia passata l'idea di un superamento della categoria di "incapacità" e se, invece, possa essere usato il nuovo concetto di "inadeguatezza gestionale": un nuovo concetto, cioè, capace di racchiudere diverse situazioni di debolezza. Un importante aspetto dell'amministrazione di sostegno consiste infatti, come affermato in precedenza, nel "portare il diritto verso il basso", affinché tutto si giochi sul piano concreto. In alto vi sono i principi di solidarietà, eguaglianza, etc., ma è sul piano concreto che viene determinata la regolamentazione rispetto alle esigenze del singolo beneficiario. Al contrario di quello che accade per l'interdizione, dove tutto si gioca sul piano sopraelevato del diritto, che è uguale e standardizzato per tutti, con l'amministrazione di sostegno, in alto vi sono alcuni principi, mentre in basso tutto si muove in funzione del sostegno da dare al soggetto, rispetto alle concrete esigenze che possono emergere.

Ancora, ricorda Cendon come un tratto saliente della riforma, apportata con la legge 6/2004, sia stato il "cambiamento di linguaggio" del legislatore. Un linguaggio più attento al rispetto della persona, meno tecnico, che si attaglia meglio ad una società profondamente mutata.

Infine, perché tutto questo possa realizzarsi, serve un impegno forte dei servizi, serve uno "sportello" che fornisca informazioni a tutti gli operatori coinvolti. Serve la creazione di "associazioni di amministratori di sostegno", al fine di coordinare gli amministratori e aiutare gli stessi nella loro attività. Serve, secondo Cendon, un impegno maggiore da parte delle istituzioni (magari attraverso contributi economici regionali), affinché gli amministratori vengono gratificati nella loro difficile attività e non abbandonati a se stessi. (34)

3.2. Casi particolari

3.2.1. O.P.G. e Amministrazione di sostegno

Si ritiene necessario, a questo punto del lavoro, svolgere alcune considerazioni sul ruolo che può avere il nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno rispetto al reinserimento sociale del detenuto-internato in strutture di reclusione. Come infatti è emerso in precedenza, tra gli ideatori della legge n. 6/2004 - ma questo vale anche per l'attuale proposta di riforma "seconda bozza Cendon" - si era fatta strada l'idea che l'amministrazione di sostegno potesse essere uno strumento di aiuto anche rispetto a soggetti che si trovassero in condizione di detenzione. Di seguito, una volta ripercorsa brevemente la genesi della nascita degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e la loro attuale organizzazione e finalità, si ripercorrerà anche la storia di un caso pratico di amministrazione di sostegno, che vede come beneficiario un soggetto inizialmente internato in O.P.G., rispetto al quale chi scrive è attualmente amministratore di sostegno.

Come è stato giustamente osservato:

il dibattito sull'opportunità di istituire i manicomi criminali si svolse alla luce delle conoscenze psichiatriche della seconda metà del XIX secolo: secondo l'impostazione organicistica allora dominante, essendo i disturbi mentali malattie del cervello e non dello spirito, era opportuna l'introduzione di un metodo empirico-sperimentale, fondato sull'analisi di dati misurabili (antropometria, craniometria, esame somatico e statistiche). La pretesa di assoluta scientificità della psichiatria e la particolare attenzione per fattori come l'ereditarietà, nonché una concezione della realtà sociale ispirata al riduzionismo biologico, per cui un soggetto malato doveva essere curato e guarito, costituiscono i presupposti del manicomio giudiziario, nato come risposta all'esigenza di creare una struttura per i detenuti impazziti in carcere, detti 'rei-folli', e per i malati di mente che avevano commesso un reato, detti 'folli-rei'. (35)

La nascita dell'O.P.G., inizialmente denominato "manicomio criminale", può essere pertanto collocata verso la fine del 1700 in Inghilterra, anche se una vera istituzione manicomiale di tipo statale si avrà soltanto verso la metà del 1800. Anche in Italia, sulla spinta della Scuola Positiva di Cesare Lombroso (36), si aprì un intenso dibattito sulla necessità di istituire "manicomi criminali" nei quali sarebbero stati internati i delinquenti folli. Pertanto, sulla base di questa impostazione, ed in seguito all'unità d'Italia, iniziarono a nascere anche nel nostro ordinamento giuridico le prime strutture manicomiali. Durante il periodo di vigenza del "codice penale Zanardelli", entrato in vigore nel 1889, non si assistette però ad una compiuta e uniforme regolamentazione dei manicomi giudiziari, mai concepiti come strutture concretamente sanitarie, in quanto usati come mezzi di contenimento e di gestione punitiva della follia. Successivamente, merita di essere ricordata per la sua imporatanza la legge n. 36 del 1904 intitolata "Disposizioni sui manicomi e gli alienati. Custodia e cura degli alienati", la quale regolamentava per la prima volta in Italia la condizione del malato e della malattia mentale. Come visto però nella parte iniziale di questo lavoro, anche questo provvedimento era espressione delle concezioni teoriche dell'epoca, delineanti un sistema di tipo essenzialmente "asilare", basato sulla obbligatorietà del trattamento e sulla nozione di pericolosità sociale del malato di mente. Sarà, invece, con l'approvazione del "codice penale Rocco" del 1930 che verranno introdotte interessanti modifiche in materia di manicomi criminali.

Si chiarisce, innanzi tutto, il concetto di imputabilità. Infatti, ai sensi dell'art. 85 del cod. pen. "nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile" ed è imputabile chi ha la capacità di intendere e volere. Mentre, al contrario, non è imputabile, in base all'art. 88 cod. pen., "chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere".

Secondo il codice penale del 1930, infatti, vige una vera e propria presunzione di incapacità di intendere e di volere per tutti i soggetti con età inferiore agli anni quattordici (art. 97 c.p.), a causa di un'assoluta immaturità biologica e psicologica: tale presunzione di non imputabilità del minore degli anni quattordici non ammette prova contraria. Per i soggetti di età compresa fra i quattordici e i diciotto anni invece, la capacità di intendere e di volere deve essere dimostrata caso per caso, vista la variabilità del grado di sviluppo del soggetto in riferimento all'ambiente e all'educazione ricevuta. Per i soggetti che hanno compiuto il diciottesimo anno di età, la legge presume l'esistenza della piena imputabilità: l'assenza di questa può derivare solo da cause tassative predeterminate per legge (per esempio potrà essere esclusa nel caso di piena ubriachezza da caso fortuito o forza maggiore ex art. 91 cod. pen., etc.) e deve essere in ogni caso dimostrata e motivata. (37)

Inoltre, il codice penale del 1930, facendo propria l'impostazione teorica della Scuola Positiva, accoglie il cosiddetto sistema del "doppio binario": accanto cioè al sistema della pene viene a strutturarsi il sistema delle "misure di sicurezza", applicabili in via di principio soltanto alle persone che hanno commesso un reato e che vengono riconosciute "socialmente pericolose". (38) In tale quadro, il manicomio criminale viene inquadrato nell'ambito delle misure di sicurezza, riconoscendosi allo stesso un ruolo di strumento di protezione sociale.

Sintetizzando molto è possibile ricostruire in questi termini il sistema elaborato dal codice del 1930. Accertata la responsabilità dell'imputato di aver commesso il fatto, si procede all'indagine sull'imputabilità, svolta anche questa durante il corso del processo penale con specifico riferimento al momento della commissione del reato; attraverso la perizia e gli accertamenti avvenuti in sede penale, il giudice può giungere a tre diverse conclusioni: o ritiene che il soggetto autore del reato sia pienamente capace di intendere e di volere e quindi imputabile e, in questo primo caso, sarà condannato alla pena prevista dalla legge; oppure se ritiene che il reo abbia commesso il fatto in una situazione di assoluta incapacità di intendere e di volere causata da malattia (vizio totale di mente o infermità mentale) e che quindi il soggetto non sia imputabile, egli viene quindi prosciolto dall'accusa e, se ritenuto socialmente pericoloso, gli viene comminata una misura di sicurezza in O.P.G.(della durata di due, cinque o dieci anni, a seconda della gravità del reato commesso); oppure se si ritiene che il soggetto abbia commesso il fatto criminoso in una situazione mentale di capacità di intendere e di volere grandemente scemata (vizio parziale di mente o seminfermità mentale), egli sarà imputabile e potrà essergli inflitta una pena diminuita e, in aggiunta, la misura di sicurezza del ricovero in casa di cura e custodia.

Questa impostazione è il portato della concezione della malattia mentale presente nel "codice Rocco del 1930", derivata dalla visione dominante nella psichiatria di allora. In base a quest'ultima il folle era sempre, per definizione, incapace, irresponsabile, pericoloso, inidoneo alla vita sociale tanto da doversi isolare in manicomio; il comportamento abnorme era sempre conseguenza di una malattia mentale; il malato di mente era considerato affetto da una patologia del cervello, che lo aveva privato delle sue caratteristiche umane, divenendo alieno rispetto al resto della società: era persona della quale la malattia si era impadronita, così come, in tempi ancora più remoti, si riteneva che di lui si fosse impadronito il demonio o il maleficio. (39)

Sarà però con la fine degli anni sessanta che inizierà a farsi strada una nuova concezione del malato e della malattia mentale che, almeno in parte, si ripercuoterà anche sull'O.P.G. Si può ricordare la legge n. 431 del 1968, citata anche nel primo capitolo di questo lavoro, che introdusse, per la prima volta, la possibilità del ricovero volontario in manicomio civile su richiesta del malato (art. 4), nonché l'abolizione dell'obbligo di annotazione sul casellario giudiziale dei provvedimenti di ricovero definitivo disposti dal magistrato. Sarà però con la legge 354 del 1975 e con il relativo regolamento d'esecuzione (D.P.R. 431/1976), riguardanti le istituzioni penitenziarie in generale, che verranno prodotti importanti cambiamenti sugli istituti psichiatrici giudiziari. Oltre, infatti, al cambiamento del nome delle strutture in "Ospedali Psichiatrici Giudiziari", la riforma penitenziaria ha modificato, almeno dal punto di vista formale, la precedente prospettiva meramente custodiale. Infatti, l'Ospedale Psichiatrico Giudiziario diviene, adesso, soprattutto luogo di trattamento, affermandosi infatti il diritto dell'internato di usufruire di opportunità terapeutiche deputate al reinserimento sociale. Ancora, importantissime innovazioni sul piano politico e sociale saranno apportate dalla legge n. 180 del 1978 (detta legge "Basaglia"), anche questa citata nel primo capitolo di questo lavoro, con cui si segnerà la definitiva chiusura dei manicomi civili, ridisegnando la condizione del sofferente psichico e riconducendo il trattamento dello stesso sul piano dell'inclusione sociale, attraverso la creazione di strutture territoriali ad hoc. Infine, semplificando notevolmente la trattazione, si possono ricordare per importanza l'approvazione della legge n. 663 del 1986 (detta "legge Gozzini") e la promulgazione del nuovo codice di procedura penale del 1988, nonché successivi interventi giurisprudenziali. Così, attualmente l'applicazione della misura di sicurezza è subordinata a una specifica procedura, introdotta dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 139 del 1982, attraverso la quale si mira a un accertamento effettivo della pericolosità sociale dell'infermo di mente non imputabile, precedentemente dichiarabile anche sulla base della mera presunzione della stessa. Oggi, tale principio è sancito dall'art. 679 cod. proc. pen. che introduce l'accertamento della pericolosità sociale del soggetto prosciolto per infermità mentale a cura del Magistrato di Sorveglianza prima dell'effettiva esecuzione della misura di sicurezza applicata in sentenza. Sostanzialmente, con il nuovo codice di procedura penale è stata finalmente soppressa la presunzione di pericolosità e di durata: oggi la misura è applicata sulla base di una valutazione discrezionale del magistrato di sorveglianza, in riferimento al momento in cui deve essere data esecuzione alla misura di sicurezza, e revocabile in qualsiasi momento. (40)

Purtroppo, però, occorre ricordare che la difficoltà di attuazione della legge n. 180/78, che ha previsto la creazione di una serie di strutture territoriali per la cura dei problemi psichici (es. case famiglia, etc.), ha comportato la difficoltà di reinserire gli internati in O.P.G. una volta venuta meno la loro pericolosità sociale. In altre parole, si è assistito ad un protrarsi, spesso per svariati anni, dell'internamento degli stessi nell'ambito psichiatrico-carcerario, quindi, ad una prolungata carcerazione che da taluni è stata definita "ergastolo bianco".

Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari attualmente sono sei (O.P.G. di Barcellona Pozzo di Gotto - ME; O.P.G. di Reggio Emilia; O.P.G. di Montelupo Fiorentino (FI); O.P.G. di Castiglione delle Stiviere - MN; O.P.G. di Napoli; O.P.G. di Aversa - CE) ed accolgono diverse tipologie di pazienti con diverse posizioni giuridiche:

  1. Prosciolti per vizio totale di mente (art. 222 cod. pen.), dichiarati socialmente pericolosi (68% della popolazione)
  2. Condannati (giudicati cioè in grado di intendere e di volere al momento del reato) che durante l'esecuzione della pena sono colpiti da infermità psichica (art. 148 cod. pen.) (8,5 % della popolazione)
  3. Condannati, ma con vizio parziale di mente (art. 219 cod. pen.) dichiarati socialmente pericolosi, che devono eseguire un periodo di casa di cura e custodia, eventualmente in aggiunta alla pena detentiva (12,7 %)
  4. Imputati, detenuti in ogni grado del giudizio e condannati che vengono sottoposti ad osservazione psichiatrica a norma dell'art. 99 D.P.R. 431/76 per un periodo non superiore a 30 giorni (2%)
  5. Imputati ai quali sia stata applicata una misura di sicurezza provvisoria (art. 206 cod. pen., 312 cod. proc. pen.), in considerazione della loro presunta pericolosità sociale, ed in attesa di un giudizio definitivo (5,5 %)
  6. Imputati sottoposti a perizia Psichiatrica (raramente in quanto essa dovrebbe essere svolta in carcere)
  7. Imputati colpiti durante il giudizio da malattia mentale tale che essi non siano più in grado di attendere utilmente al procedimento (categoria peraltro virtualmente non più presente in quanto il ricovero e trattamento di tali soggetti compete al Servizio Psichiatrico Pubblico come previsto dall'art. 70 del cod. proc. pen.).

Inoltre, operano in O.P.G. le seguenti categorie di personale medico:

  1. Direttore dell'O.P.G., dipendente dell'amministrazione penitenziaria, con compiti inerenti la polizia penitenziaria, contabilità, area trattamento etc.
  2. Medico responsabile dei servizi sanitari-psichitrici, dipendente direttamente dall'Azienda sanitaria n. 11 di Empoli. (41)
  3. Medici Incaricati: dipendenti, con rapporto di impiego speciale, dall'Amministrazione tramite la Legge 740/70, che si occupano dell'assistenza sanitaria generica con un orario di lavoro di almeno 18 ore settimanali.
  4. Medici di Guardia: assunti con rapporto di lavoro libero-professionale, coprono il turno continuativo 24 ore al giorno per un massimo di 150 ciascuno e compenso orario.
  5. Consulenti Psichiatri: operano per fornire prestazioni specialistiche con stipula di rapporto libero professionale con un massimale di orario individuale di 80 ore circa a compenso orario.

Altre figure operanti negli O.P.G. sono i Consulenti Specialisti a rapporto libero professionale, con compenso a prestazione, per le attività specialistiche necessarie all'assistenza sanitaria: per alcuni di essi (Odontoiatria, Radiologia, Dermatologia, Cardiologia ed Elettroencefalografia) l'impegno ha cadenza settimanale e costante, mentre per altri vi è un minore quantitativo di richieste di prestazioni (Oculistica, Ortopedia, Pneumologia etc.).

Ad essi vanno aggiunte le categorie di personale non medico rappresentate da: agenti e personale di Polizia Penitenziaria, educatori penitenziari, psicologi a consulenza, assistenti sociali. (42)

Gli O.P.G., nonostante i diversi interventi legislativi e giurisprudenziali che si sono avuti dopo la promulgazione del codice penale del 1930, non sono mai stati oggetto di una compiuta riforma che ne definisse, una volta per tutte, la propria funzione e natura. Ci troviamo, cioè, sempre di fronte all'alternativa se considerare tali strutture come "ospedali", anche se con forti contraddizioni interne per la presenza di operatori sanitari e carcerari e per la presenza di filosofie di fondo difficilmente conciliabili tra loro (cura e custodia, controllo e trattamento): comunque una impostazione sicuramente anacronistica dopo la legge n. 180 del 1978; oppure, considerare le stesse come "carceri", rinunciando però ad ogni velleità di organizzazione di realtà e priorità trattamentali, subendo totalmente l'organizzazione penitenziaria limitandosi ad assicurare, con le componenti mediche, un servizio di consulenza e di cura che non si preoccupa della effettiva gestione "sanitaria" della struttura. (43)

Negli ultimi anni si è riacceso il dibattito su come concepire gli O.P.G. e su un eventuale loro superamento ed al riguardo sono state avanzate alcune proposte di legge. Sintetizzando anche in questo caso l'esposizione, si possono ricordare:

  1. Proposta di legge del deputato, On. Francesco Corleone: "Norme in materia di imputabilità e di trattamento penitenziario del malato di mente autore di reato";
  2. Proposta di legge delle Regioni Emilia Romagna e Toscana: "Superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (O.P.G.), nuova disciplina della imputabilità, del difetto della stessa, della sentenza di assoluzione per tale causa e delle misure conseguenti, della perizia psichiatrica e della ammissibilità della revisione della sentenza di assoluzione".

In sintesi, i punti salienti della prima proposta di legge sono i seguenti: l'abolizione dell'istituto della non imputabilità (art. 1, Appendice I); il riconoscere, di conseguenza, al malato di mente autore di reato la capacità di intendere e di volere, la sua imputabilità e possibilità di essere soggetto alle pene previste dal codice penale per il tipo di reato commesso (art. 1, Appendice I); l'abolizione, quindi, delle misure di sicurezza (artt. 4 e 8, Appendice I); la cura e la tutela della salute del malato di mente dovrebbero essere, quindi, assicurate nel carcere di destinazione da strutture adeguate alla cura dei disturbi mentali, che vengono costituite ed organizzate all'interno dell'istituto penitenziario stesso (art. 13, Appendice I); la collaborazione con i servizi psichiatrici territoriali che devono assicurare l'assistenza medica-psichiatrica nelle strutture carcerarie sopracitate, nonché formulare i programmi di riabilitazione (art. 14, Appendice I). (44)

Al contrario, la proposta di legge della Regione Emilia Romagna e Toscana, si pone su di una linea diametralmente opposta, propone varie modifiche ed innovazioni nell'ambito del concetto di imputabilità, nonché una più organica riforma degli ospedali psichiatrici giudiziari.

Pur mantenendo la figura giuridica della non imputabilità, tale proposta di legge prevede, ad esempio, l'abolizione della seminfermità di mente o vizio parziale di mente come causa di non imputabilità, anche se alcune condizioni psicopatologiche possono determinare un'attenuazione e, quindi, diminuzione della pena (art. 1, Appendice II).

Viene conservato il concetto di pericolosità sociale, di cui si prevede una più puntuale definizione tramite criteri oggettivi e, quindi, anche l'applicazione della misura di sicurezza nei confronti di chi è ritenuto non imputabile. Tale misura non verrebbe applicata, secondo tale proposta, per i reati per cui è prevista una pena pecuniaria, per i delitti colposi e per quelli la cui pena non sia superiore ai dieci anni (art. 3, Appendice II). Due sono, quindi, i tipi di misura di sicurezza proposti:

  1. l'assegnazione ad un istituto in cui oltre al trattamento psichiatrico sia garantita la custodia, misura che viene applicata alle persone che abbiano commesso un reato per il quale la pena massima sia non inferiore a dieci anni (art. 4, Appendice II);
  2. l'affidamento al Servizio Sociale, misura che si applica alle persone che abbiano commesso un reato per il quale la pena massima sia inferiore a dieci anni, e che, qualora non risulti adeguata, può esser convertita, dal giudice, nella prima (art. 6, Appendice II).

Inoltre, le strutture per il trattamento psichiatrico custodito sopracitate verrebbero create in ogni regione e per un numero di pazienti non superiore a trenta unità. Sarebbero, inoltre, cogestite dal Servizio Sanitario Nazionale, per quel che riguarda le attività sanitarie, e dall'Amministrazione Penitenziaria, per le responsabilità del servizio e le attività custodiali, per altro più limitate rispetto a quelle attualmente vigenti negli O.P.G. (art. 5, Appendice II).

Viene inoltre previsto che il giudice di Sorveglianza che dispone la misura di sicurezza, accerti periodicamente la permanenza della pericolosità: ogni anno per la misura del ricovero in istituto, ogni sei mesi per quella dell'affidamento al Servizio Sociale, ed in tempi diversi, su richiesta dell'interessato o per altre motivate ragioni (art. 7, Appendice II).

La proposta di legge in questione cerca, inoltre, di delineare una più organica strutturazione dell'istituto della perizia psichiatrica, in quanto si tratta di una prestazione professionale delicata che assolve ad un'altrettanto delicata funzione. L'intento è quello di conferire una maggiore dignità istituzionale al consulente tecnico (psichiatra in questo caso) d'ufficio, assicurando, ad esempio, che la sua opera risponda maggiormente a criteri obiettivi di valutazione. Per questo viene proposta la costituzione di una specie di pool di psichiatri abilitati alle perizie che dovrebbero essere chiamati in causa a rotazione al fine di evitare che il rapporto tra il giudice ed il perito si fondi più sull'affinità ideologiche e sulla fiducia personale che sull'obiettiva evidenza dei fatti (art. 15, Appendice II). Per quel che riguarda la perizia sull'imputabilità, il perito psichiatra non si dovrebbe pronunciare sulla pericolosità che, invece, dovrebbe essere valutata in base ad elementi non solo di natura psicopatologica, e, comunque, dovrebbe essere effettuata in un secondo tempo, dopo che sono stati effettuati trattamenti psichiatrici (art. 13, Appendice II). (45)

Concludendo questa breve esposizione è possibile affermare come da più parti emerga l'esigenza di un ripensamento degli O.P.G. Strutture nate circa un secolo e mezzo addietro, funzionali ad una società che riteneva la malattia ed il malato mentale come realtà da escludere e custodire, ma che oggi mostrano, nonostante gli sforzi di molti operatori e medici che vi operano, carenze strutturali e soprattutto un'incertezza su quale debba essere la loro finalità. Dopo l'approvazione della legge n. 180/78 non è pensabile poter avere, infatti, strutture para-manicomiali

impossibilitate a divenire sempre più realtà ospedaliere per pazienti psichiatrici. Tali strutture sono in realtà attirate dalla 'galassia carceraria', ciclicamente irrigidita dalle emergenze di lotta alla criminalità, sovraccaricate da richieste di soddisfare ambigue e pericolose richieste provenienti dall'interno (perizie ed osservazione dei detenuti per accertare le simulazioni di malattia, l'utilizzo da parte di componenti della criminalità organizzata), queste strutture hanno visto ridursi nel tempo le possibilità di intervento in una fase di 'emergenza' sociale della malattia finendo così invece per funzionare da specifico serbatoio di controllo di problemi spesso eterogenei e marginali. (46)

E' possibile, a questo punto del lavoro, provare a ripercorrere la storia di un caso pratico di amministrazione di sostegno, che vede come beneficiario un soggetto inizialmente internato in O.P.G., rispetto al quale chi scrive è attualmente amministratore di sostegno. Infatti, chi scrive da alcuni anni presta attività di volontariato nell'O.P.G. di Montelupo Fiorentino (FI), in qualità di assistente dell'associazione ONLUS "Altro Diritto" ed è stato, pertanto, individuato come amministratore di sostegno dal Tribunale di Empoli, in seguito al superamento di un corso di formazione per amministratori di sostegno organizzato dal CESVOT, su segnalazione della stessa struttura detentiva. Risulta quindi evidente il ruolo potenziale che possono rivestire le associazioni di volontariato nel fornire potenziali amministratori di sostegno, specialmente in un contesto normativo nel quale, all'approvazione della legge 6/2004 non è seguita, purtroppo, una riorganizzazione tale dei servizi che potesse farsi carico della necessità di individuare, e formare, operatori da immettere in tale delicato settore. Per comodità il beneficiario verrà chiamato da adesso in poi sig. Rossi.

In data 01/07/2005, il sig. Rossi, sottoposto alla misura di sicurezza dell'O.P.G e nello stesso internato, con l'ausilio dei propri avvocati, ha presentato ricorso per la nomina di un amministratore di sostegno che potesse accompagnarlo nel compimento di alcune attività. Nel ricorso (ex art. 3 legge n. 6/2004) egli chiedeva la nomina di un amministratore di sostegno principalmente per poter riscuotere la pensione di invalidità erogata dall'INPS e poter così provvedere al "pagamento delle competenze professionali maturate dai suoi legali nell'assistenza e difesa del suddetto nei vari procedimenti penali a suo carico". In seguito, nel corso dello stesso anno, chi scrive è stato nominato amministratore di sostegno del sig. Rossi. Infatti, il giudice tutelare del Trib. di Firenze Sez. distaccata di Empoli, vista la condizione psicofisica del sig. Rossi (affetto da schizofrenia) che impediva allo stesso la cura dei propri interessi e l'assenza di parenti che potessero prestargli un aiuto, ha provveduto ad emettere un decreto di nomina a tempo determinato, indicando i seguenti compiti per l'amministratore:

  1. compiere tutte le attività di gestione ordinaria del patrimonio mobiliare ed immobiliare in nome e per conto del beneficiario;
  2. compiere solo atti di ordinaria amministrazione, richiedendo specifiche autorizzazioni al giudice tutelare per gli atti di straordinaria amministrazione;
  3. sostenere spese mensili con un limite di 400 euro, salvo specifiche autorizzazioni del giudice tutelare;

In seguito alla nomina, chi scrive, in qualità di amministratore di sostegno, ha provveduto a "sbloccare" la pensione di invalidità erogata dall'I.N.P.S., che da circa due anni non veniva riscossa dal sig. Rossi, a causa del suo internamento in O.P.G. e per l'assenza di qualunque altro soggetto che potesse procedere al compimento di tale attività. Successivamente si è, invece, proceduto all'apertura, a nome del beneficiario, di un libretto postale su quale potessero essere accreditati gli arretrati pensionistici e l'assegno mensile di invalidità. Ovviamente, una prima grande difficoltà riscontrata è stata quella della totale o quasi assenza di conoscenza, da parte dei vari operatori dell'INPS e delle Poste Italiane S.P.A., dei contenuti e delle funzioni del nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno. Ancora, tra consistenti problemi si è proceduto a richiedere, al comune di residenza, il rinnovo del documento d'identità ormai scaduto.

In seguito, nel 2007, il sig. Rossi è stato trasferito in una comunità protetta, nel quadro di un percorso di reinserimento sociale. Quindi, da questo momento l'attività di amministratore di sostegno è consistita sostanzialmente nel procedere ad effettuare versamenti mensili, presso la struttura di residenza del beneficiario, per l'espletamento degli atti della vita quotidiana (acquisto di riviste, vestiti, etc.). Nel mantenere un rapporto costante con gli operatori della struttura e nel chiedere eventuali e necessarie autorizzazioni al giudice tutelare (come ad esempio la richiesta di essere autorizzato al pagamento di spese mediche-odontoiatriche che eccedevano il limite di 400 euro mensili). Inoltre, ogni anno chi scrive ha proceduto ad inoltrare un resoconto delle attività svolte in favore del beneficiario, ottenendo dal giudice tutelare un "rimborso spese" forfetario. Come indicato però in precedenza, nel paragrafo intitolato "Amministrazione di sostegno: ufficio gratuito?", sono notevoli i problemi che si pongono nel momento in cui si debba calcolare il ristoro previsto, a vantaggio dell'amministratore di sostegno, per l'attività svolta in favore del beneficiario. Ed infatti, come già affermato, si pone con forza la necessità di una revisione della normativa o di un'interpretazione evolutiva delle norme che tenga conto delle esigenze concrete di ristoro cui può aspirare, legittimamente, un amministratore di sostegno e che preveda soluzioni più equilibrate e meglio rispettose delle condizioni in cui spesso si trova ad operare chi svolge tale funzione. (47)

Occorre domandarsi, a questo punto, quale sia la funzione del nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno rispetto alle situazioni, come quella riportata, in cui il beneficiario si trovi non soltanto in condizioni psichiche disagiate (il sig. Rossi è affetto da schizofrenia), ma anche in condizioni di internamento carcerario. Può l'amministrazione di sostegno essere uno strumento utile ad aiutare tale tipologia di soggetto ad intraprendere un percorso effettivo di reinserimento sociale? Può, quindi, il nuovo istituto avere un ruolo "risocializzante"? A questo riguardo si è ritenuto fondamentale chiedere un parere al dott. Franco Scarpa, ex direttore dell'O.P.G. di Montelupo Fiorentino.

Innanzi tutto, ricorda il dott. Scarpa, "sono pochi i casi di nomina di un amministratore di sostegno per internati in O.P.G e sono pochi anche i casi di soggetti che, internati in O.P.G., siano interdetti o inabilitati (forse in tutto un 10%)", infatti la figura dell'amministratore di sostegno (ma ciò vale anche per quella del tutore) ha un percorso indipendente e parallela rispetto alla condizione di internamento". Ancora, secondo l'intervistato, "l'amministrazione di sostegno può avere una funzione nel processo di reinserimento se la persona sottoposta a misura di sicurezza in O.P.G. ha delle carenze, dei problemi (magari è un soggetto abbandonato, privo di rapporti personali e familiari) che non può risolvere da solo". Adesso, chi viene internato in O.P.G. si trova in una situazione di forte debolezza, in quanto soggetto ad una misura privativa della libertà, spesso con problemi psichiatrici, oppure delocalizzato (cioè lontano da casa). I primi soggetti, ritiene il dott. Scarpa, ad occuparsi degli internati devono essere i servizi psichiatrici presenti sul territorio e l'organizzazione psichiatrica dell'O.P.G. che deve elaborare un programma di cura, riabilitazione e di dimissione con presa in carico da parte dei servizi presenti sul territorio. L'amministrazione di sostegno può essere in questo quadro "un carta in più", però occorre mantenere una divisione dei ruoli tra l'amministratore di sostegno e gli altri soggetti istituzionali deputati all'assistenza e cura del soggetto debole. Sul punto, infatti, il dott. Scarpa è chiaro nell'affermare che occorre stare attenti a non interpretare l'amministrazione di sostegno come uno strumento applicabile ad ogni situazione di difficoltà, perché altrimenti vi è in concreto il rischio che il singolo amministratore si trasformi in una sorta di "io vicariante generale", in un "garante individuale dei diritti", avvicinandolo molto alla figura del tutore. Infatti, se è necessario sviluppare un percorso di riabilitazione e di riacquisizione delle potenzialità da parte di una persona internata, serve una sinergia tra le strutture deputate al trattamento medico e l'eventuale rete sociale e familiare propria del soggetto debole. Solo dove manchi un sostegno relazionale e affettivo della famiglia potrà ricorrersi all'aiuto di un amministratore di sostegno, che però non deve essere legato, né alla condizione psichica del soggetto, nel al fatto che il soggetto sia internato, ma bensì all'individualità. Questo perché "chi si trova in O.P.G. non deve necessariamente avere un amministratore di sostegno, essendo questa possibilità legata alla valutazione della sua condizione psichica e del tessuto sociale che il soggetto ha attorno e della possibile evoluzione del programma terapeutico. Infatti, solo se vi sono delle carenze individuali specifiche si potrà ricorrere alla nomina di un amministratore di sostegno". L'amministrazione può essere vista, quindi come supporto da applicare alle singole situazioni che lo richiedono, ma non come strumento "universalistico o generalizzato". Quindi, per concludere sul punto, il ruolo dell'amministrazione di sostegno può essere essenziale, ma deve esserci un coordinamento tra la figura di amministratore di sostegno e tutti gli altri attori (medici, educatori, etc.) che entrano in gioco in un eventuale percorso di reinserimento. Occorre cioè evitare che il nuovo istituto, che si presenta come un "arricchimento" non si trasformi in un ulteriore carico stigmatizzante per soggetti che per la società sono già "infermi, malati e criminali". Occorre inserire l'amministrazione di sostegno in un percorso terapeutico individualizzato, al fine di renderla effettivamente una "stampella", un aiuto concreto per la persona in difficoltà.

Inoltre, il dott. Scarpa ha ricordato come legge finanziaria del 2008 (Legge 244/07 del 24.12.2007) abbia stabilito che lo stesso non sia più dipendente dal Ministero della giustizia, ma dall'Azienda sanitaria n. 11 di Empoli e in servizio presso l'O.P.G. di Montelupo Fiorentino (FI). L'Amministrazione Penitenziaria ha di conseguenza nominato un nuovo direttore dipendente dalla stessa, che gestisce la struttura dell'O.P.G. per ciò che riguarda la polizia penitenziaria, contabilità, area trattamento etc., mentre il dott. Scarpa, non più direttore dell'O.P.G., è adesso responsabile dei servizi sanitari-psichitrici. La novità fondamentale consiste nel fatto che l'O.P.G. non è più diretto da un medico, come in precedenza, ma da un funzionario direttamente dipendente dall'Amministrazione Penitenziaria. Siamo cioè di fronte, come ricorda ancora l'intervistato, ad una "carcerizzazione" dell'O.P.G. Purtroppo, almeno da un punto di vista formale, siamo di fronte ad un forte arretramento nella prospettiva di un effettivo superamento del sistema degli O.P.G. Se questo provvedimento ha "scarcerato i medici", non più dipendenti dal Ministero di Giustizia, il passo ulteriore deve essere la "scarcerazione dei pazienti, al fine di decarcerizzarli e portandoli fuori dal sistema penitenziario". Oggi, ricorda ancora il dott. Scarpa, "viviamo una situazione piuttosto strana in quanto gli psichiatri sono dipendenti del S.S.N., mentre gli psicologi e gli educatori, al contrario, sono dipendenti dell'Amministrazione Penitenziaria ed in una struttura come quella dell'O.P.G. ciò è come aver spaccato un gruppo di lavoro. Mentre per le altre figure (es. le associazioni di volontariato) non si capisce se debbano essere gestiti dall'Amministrazione Penitenziaria oppure dal S.S.N."

3.2.2. Amministrazione di sostegno e testamento biologico

Con l'espressione "testamento biologico o testamento per la vita", traduzione italiana della locuzione living will, si denomina una "dichiarazione fatta da una persona, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali (eventualmente in presenza di testimoni o di fronte ad un notaio), in cui si specificano le condizioni in cui essa dovrà essere trattata nel caso si venisse a trovare affetta da una malattia terminale". (48)

Generalmente il "testamento biologico" è composto da due parti: una "direttiva di delega" ed una "direttiva di istruzioni". La prima è la parte in cui viene indicata la persona che dovrà prendere le decisioni al posto del delegante, quando questi non sia più in grado di farlo da solo. In tal caso, il delegato, che deve accettare la delega, dovrà assumere le decisioni secondo la volontà del delegante. La seconda è, invece, la parte del "testamento biologico" in cui sono indicate le decisioni da prendere e le scelte da compiere per la tutela della salute e la cura della persona del delegante. Di conseguenza, nella "direttiva di istruzioni" potranno essere fornite indicazioni che riguarderanno tutti gli aspetti della vita quotidiana come l'alloggio (cioè il luogo in cui si vuole trascorrere la fase della malattia), l'alimentazione (si può indicare il cibo che il delegante vuole gli venga somministrato, specificando ad esempio un particolare regime alimentare, consono alle proprie abitudini di vita o rispettoso del proprio credo religioso), l'igiene (con un'attenzione specifica alla pulizia personale) e l'abbigliamento (per esempio, si potrà indicare se si vuole indossare un tipo particolare di abito, nel rispetto delle tradizioni e della religione). (49)

Nell'ordinamento giuridico italiano non è presente una normativa specifica che disciplini l'istituto del "testamento biologico", nonostante a livello internazionale questa materia trovi risposte normative adeguate. (50) Si è avanzata la tesi di colmare questo vuoto normativo ricorrendo al nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno. In particolare, sfruttando gli spazi offerti dalla nuova normativa codicistica (artt. 404 e ss.) sull'amministrazione di sostegno, sarebbe possibile "normare" un fenomeno giuridico e sociale che sta assumendo una rilevanza sempre maggiore nella nostra società. In tal senso, nonostante il vuoto normativo, si è sostenuto che non può negarsi l'importanza della redazione di un atto unilaterale inter vivos con cui una persona, temendo di perdere per malattia o intervento chirurgico la capacità di intendere e volere, attribuisca ad un terzo il potere di prendere decisioni rilevanti, in tema di cure e salute, in nome e per conto del designante, e di porre in essere una serie di direttive per l'avvenire (relative al luogo in cui curarsi, all'abbigliamento, etc.). (51)

Inoltre, recentemente il dibattito sul "testamento biologico" - e sul suo rapporto con l'amministrazione di sostegno - è stato nuovamente rianimato da due pronunce del giudice tutelare di Modena. Nel primo caso il giudice tutelare di Modena ha emesso un decreto, in data 13 maggio 2008, accogliendo la richiesta di una donna - intenzionata a rifiutare ogni cura che potesse prolungare le sue sofferenze - di nominare il marito amministratore di sostegno, al fine di prendere alcune rilevanti decisioni in caso di perdita delle facoltà intellettive della stessa. Infatti, la donna era affetta da una malattia incurabile (SLA: sclerosi laterale amiotrofica) e aveva comunicato a suo marito e ai figli di non volere interventi né accanimenti terapeutici rifiutando, quindi, anche la respirazione artificiale. Nel momento in cui le condizioni della stessa sono notevolmente peggiorate, il marito, per rispettare la sua volontà, ha presentato la richiesta della moglie al giudice tutelare del Tribunale di Modena. Il 13 maggio il giudice tutelare nomina il marito amministratore di sostegno con il compito di negare il consenso a "pratiche di ventilazione forzata e tracheotomia nell'atto in cui, senza che sia stata manifestata contraria volontà della persona, l'evolversi della malattia imponesse la specifica terapia salvifica"; e con l'ulteriore compito di "chiedere ai sanitari di apprestare, con la maggiore tempestività e anticipazioni consentite, le cure palliative più efficaci al fine di annullare ogni sofferenza alla persona". Quindi, i medici si sono dovuti limitare ad applicare le cure palliative più efficaci, per alleviare le sofferenze negli ultimi momenti di vita. Il giorno 28 maggio sopraggiunge la crisi respiratoria e la signora in questione ha potuto morire come aveva chiesto.

Il secondo decreto, emesso il 5 novembre 2008, riguarda un ricorso, per la nomina di un amministratore di sostegno, depositato in data 14 ottobre 2008 da un professionista in possesso di piena capacità di intendere e volere dopo che, con scrittura privata autenticata da un notaio, aveva designato, ai sensi dell'art. 408, comma 2º, cod. civ., come proprio amministratore di sostegno la moglie, con l'incarico di pretendere il rispetto delle disposizioni terapeutiche dettate con la scrittura stessa per l'ipotesi di una sua eventuale e futura incapacità. Per il caso d'impossibilità della moglie ad esercitare la funzione conferita, era stata designata la figlia. Il ricorrente chiese che all'amministratore di sostegno fossero attribuiti, in suo nome e per suo conto, per il tempo di un'eventuale perdita della capacità autodeterminativa e sempre che, nel frattempo, non intervenga manifestazione di volontà contraria, "i poteri-doveri di autorizzazione alla negazione di prestare consenso ai sanitari a sottoporlo alle terapie individuate nella scrittura privata anzidetta nonché di richiedere ai sanitari coinvolti di porre in essere, nell'occasione, le cure palliative più efficaci". In sostanza, il ricorrente con la scrittura ha chiesto di non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico, con particolare riguardo a "rianimazione cardiopolmonare, dialisi, trasfusione, terapia antibiotica, ventilazione, idratazione o alimentazione forzata e artificiale, in caso di malattia allo stato terminale, malattia o lesione traumatica cerebrale, irreversibile e invalidante, malattia che lo costringa a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione". Ha chiesto inoltre formalmente che, nel caso delle situazioni indicate, fossero intrapresi "tutti i provvedimenti atti ad alleviare le sue sofferenze, compreso, in particolare, l'uso di farmaci oppiacei, anche se essi dovessero anticipare la fine della sua vita". All'udienza del 3 novembre 2008 è stato interrogato il ricorrente, che ha confermato le domande proposte con l'atto introduttivo. Sono state interrogate anche la moglie e la figlia, che hanno prestato adesione piena alle richieste del rispettivo marito e padre, dichiarandosi disponibili all'assunzione del ruolo di amministratore di sostegno. Il giudice tutelare pertanto nomina come amministratore di sostegno la moglie del richiedente e, in subordine, (nel caso in cui la prima non potesse svolgere l'incarico affidatole dal giudice tutelare) la figlia dello stesso.

In entrambi i casi si legittima il diritto del malato di rifiutare trattamenti medici, che possano prolungare artificialmente la vita del soggetto oltre il suo "tempo biologico". Inoltre, si vuole garantire il "diritto al consenso" al trattamento medico, nel caso in cui il paziente non sia più in grado di esprimere coscientemente e consapevolmente la propria volontà.

Si è notato, al riguardo, che vi sono differenze rispetto ai precedenti casi, che, occorre ricordarlo, hanno avuto un forte risalto mediatico. Infatti, rispetto al caso Welby (52), si chiede di non attaccare il respiratore, non di spegnerlo. Nel caso di Maria, la paziente diabetica che in piena coscienza rifiutò l'amputazione dell'arto, la volontà deve essere fatta valere da altri dopo la perdita della coscienza. Infine, rispetto al caso Englaro (53), la giovane donna in stato vegetativo permanente, viene espresso un rifiuto esplicito e formale prima della perdita di coscienza. Nonostante la varietà dei casi, in tutti si è riconosciuto il diritto di rifiutare le cure o di interromperle. (54)

E' opportuno, a questo punto, provare a ricostruire il quadro normativo in cui si inseriscono i recenti provvedimenti giudiziari presi in considerazione e provare, in seguito, a comprendere se l'istituto dell'amministrazione di sostegno possa avere, in questa materia, un autonomo spazio di operatività.

Il rapporto medico-paziente ha subito, negli ultimi decenni, una profonda evoluzione. A questo riguardo, il codice di deontologia medica riflette, nelle sue regole e nel suo stesso linguaggio, queste trasformazioni. Così, a partire dal 1998, il destinatario del servizio non viene più indicato come "paziente", ma come "persona", come "cittadino", quasi a significare il superamento di un'asimmetria di poteri tra chi decide (il medico) e chi subisce delle decisioni altrui (paziente). Il riferimento invece ad espressioni quali quelle di "cittadino" o "persona", tende ad evocare l'immagine di un soggetto che, insieme al medico, diviene protagonista del rapporto terapeutico, di cui il "consenso informato" costituisce un fondamentale punto di equilibrio. (55) Si ha quindi un pieno riconoscimento, anche a livello medico-deontologico, del principio secondo cui il medico non può agire "senza" il consenso del paziente, né tanto meno in "contrasto" con lo stesso. (56) Inoltre, nell'ordinamento giuridico italiano il principio del "consenso informato" è sancito in una pluralità di fonti. Innanzi tutto, sul piano dei principi costituzionali, lo stesso trova fondamento nell'ambito della tutela dei diritti fondamentali della persona, della dignità e identità (art. 2 Cost.), della libertà personale (art. 13 Cost.), della salute (art. 32 Cost.). Infatti, come è stato correttamente ricordato, "nel contesto della disciplina costituzionale improntata al principio 'personalista', di piena ed integrale tutela della persona umana, la questione dell'autodeterminazione viene impostata non in termini di potere di disporre del corpo, ma come libertà di decidere e di autodeterminarsi in relazione a scelte che coinvolgono la persona anche nella sua dimensione fisica. La tutela integrale della persona umana implica la sua inviolabilità fisica e, ad un tempo, la sua libertà nelle scelte personali". (57)

In particolare, l'art. 32 Cost. afferma che "la repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività [...] Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". E' evidente come tale norma appresti una tutela particolarmente forte ed infatti il diritto alla salute viene definito come "diritto fondamentale" della persona. Lo stesso legislatore, per quanto autorizzato a disporre trattamenti coattivi, incontra un limite invalicabile. Infatti, "in nessun caso" può superare quelli "imposti dal rispetto della persona umana". Come si è osservato, in questa disposizione si avverte "tutta la preoccupazione di porre il corpo della persona al riparo da interferenze esterne, siano pure quelle del legislatore. I trattamenti obbligatori costituiscono un'eccezione al generale principio del consenso e sono previsti dalla legge (ad esempio, vaccinazioni obbligatorie, T.S.O. in ambito psichiatrico) al fine di tutelare un interesse generale. Il rispetto della 'dignità' della persona non consente di imporli esclusivamente a tutela della salute individuale". (58) Inoltre, il principio di autodeterminazione (59) è espressione del più generale principio di libertà personale sancito dall'art. 13 della Costituzione. Infatti, l'esistenza del generale principio di libertà personale implica il riconoscimento di un generale potere di autodeterminazione dell'individuo, in relazione alle proprie vicende esistenziali e personali. L'inviolabilità fisica che costituisce il nucleo essenziale della libertà personale viene garantita nei confronti di qualunque atto che, per qualunque ragione, ne comporti una lesione. Il principio del consenso riguarda ogni atto medico, anche non terapeutico (come, per esempio, il prelievo ematico nell'ambito di un procedimento civile o penale). Il trattamento coattivo è ammissibile solo se sussiste una previsione di legge e l'ordine dell'autorità giudiziaria. (60)

A livello internazionale, inoltre, il principio del consenso trova riconoscimento nella Convenzione Europea di Bioetica (sottoscritta a Oviedo nel 1997 e ratificata dall'Italia con L. 2001, n. 145) (61) e nella Carta dei Diritti Fondamentali dei Cittadini dell'Unione Europea (sottoscritta a Nizza nel 2000 ed ora parte del Trattato dell'Unione Europea). (62)

Tali fonti sovranazionali non hanno ancora pieno valore giuridico nel nostro ordinamento, ma costituiscono per l'interprete una significativa conferma di scelte di fondo emergenti in via interpretativa dalla nostra Carta costituzionale. (63)

Il principio del consenso trova, inoltre, espressioni in numerose leggi nazionali: art. 33, legge 23 dicembre1978, n. 833, istitutiva del Servizio sanitario Nazionale; d.lgs. 24 giugno 2003, n. 211, in tema di sperimentazione clinica; legge 19 febbraio 2004, n. 40, sulla procreazione medicalmente assistita; legge 21 ottobre 2005, n. 219, sulle attività trasfusionali e la produzione nazionale di emoderivati, etc.

Del resto, anche il Codice di deontologia medica (2006) individua nel consenso informato del paziente la condizione di liceità dell'atto medico. Infatti, l'art. 35 dello stesso testo afferma che "il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l'acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente [e inoltre] in presenza di un documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona". Anche se il Codice deontologico medico non ha valore di regola generale valevole per tutti i cittadini, poiché ha la funzione di regolare i rapporti interni all'ordine professionale, si osserva che "esso, tuttavia, ha una indiretta rilevanza nell'ordinamento statuale, in quanto vale a precisare il contenuto dei doveri del medico verso il paziente e l'ampiezza della diligenza professionale, il cui mancato rispetto è fonte di responsabilità". (64) Ancora, la salute, in quanto elemento del più complessivo quadro dei diritti fondamentali della persona, deve essere apprezzata sulla base di una valutazione soggettiva del paziente. Infatti, non esiste un limite di tolleranza del dolore uguale per tutti, poiché "ciascuno è unico, con una propria visione della vita, del suo significato". (65) Ed è anche per questo che non può essergli imposto nessun trattamento medico.

Come ha infatti affermato di recente la Corte di Cassazione nella sentenza 16 ottobre 2007, n. 21748, con riferimento al caso Englaro, "il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche eventualmente di rifiutare una terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Mentre, al medico si impone il "dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico e attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c'è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico". (66)

Occorre però ricordare che, secondo alcuni autori, (67) in nome della sacralità della vita e dell'indisponibilità dell'integrità fisica, il medico avrebbe il dovere di salvare il paziente indipendentemente dal consenso-dissenso di quest'ultimo. Questa tesi ha peraltro incontrato, in alcuni casi, il favore della Cassazione penale (68). Secondo altri (69), invece, si ritiene che una tale impostazione sia contraria agli stessi principi costituzionali. Ed inoltre, la stessa attribuirebbe all'art. 5 del cod. civ. un significato che eccede la sua corretta interpretazione, quasi che "il limite del rispetto dell'integrità fisica riguardasse non solo gli atti con cui si dispone (del corpo e delle sue parti) a vantaggio di altri [...] ma ogni forma di esercizio della libertà personale, ogni decisione che può avere come conseguenza un rischio per la vita". (70) Al contrario, essendo la vita un "diritto" e non un "obbligo", il dovere di curarsi, che può scaturire da fonti giuridiche o morali, non può tradursi nell'obbligo di preservare la propria vita a tutti i costi, dovendo prevalere la libertà (consenso-dissenso) e la dignità della persona. A questo proposito occorre ricordare come la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo abbia sostenuto come le scelte di vita, anche di fine vita, siano espressione della libertà individuale ed attengano al rispetto della vita privata. (71) Da quanto detto emerge, dunque, la crescente importanza del concetto di "consenso informato", il quale è sempre più "presupposto di liceità" dell'intervento medico. (72) Infatti, può ravvisarsi l'illiceità penale della condotta del medico che agisca senza il consenso del paziente, nonostante l'intervento sia svolto correttamente e abbia avuto esito positivo. (73) Ancora, lo stato di necessità o urgenza può giustificare l'intervento del medico su di un paziente incosciente (quindi incapace di esprimere la propria volontà), ma non autorizza il medico ad intervenire laddove il paziente abbia manifestato il proprio rifiuto in modo consapevole. (74)

In ogni caso, la Cassazione penale ha recentemente affermato che l'obbligo del medico di attivarsi nel modo più risoluto (per curare l'individuo) "non può sfociare in un'azione impositiva contro la volontà della persona ammalata". (75) Successivamente ha ancora ricordato che "non è attribuibile al medico un generale diritto di curare, a fronte del quale non avrebbe alcun rilievo la volontà dell'ammalato". Al contrario "il consenso informato ha, come contenuto concreto, la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale". (76) In concreto, il problema si è posto con riferimento al rifiuto, coscientemente manifestato da pazienti adulti Testimoni di Geova, di essere sottoposti a trasfusioni di sangue. (77) Ancora, si è ritenuto che la situazione di urgenza terapeutica potrebbe concretizzare la scriminante dello stato di necessità anche nel caso di dissenso espresso coscientemente, essendo il diritto alla vita di natura personalissima e indisponibile. (78) Altre sentenze invece hanno affermato l'esistenza di "un diritto costituzionalmente garantito a non subire trattamenti sanitari indesiderati se non in casi speciali predeterminati dalla legge con le garanzie all'uopo apprestate", ed hanno riconosciuto la "liceità insuperabile del dissenso per motivi religiosi alle trasfusioni di sangue". (79) Se però il rifiuto della trasfusione di sangue oppure dell'intervento chirurgico di amputazione di un arto sono situazioni che ricadono sotto l'ipotesi del "prestare il consenso", al contrario la richiesta di interruzione di una terapia concerne il momento della revocabilità del consenso. A questo riguardo, è possibile ricordare come la legge contempli il principio della revocabilità per gli atti di esercizio dei diritti della personalità. In campo medico è espressamente previsto per la sperimentazione clinica (l. 211/2003) e per la procreazione assistita (l. 40/2004). In termini generali è contenuto nell'art. 5 della Convenzione di Oviedo. (80)

Si pone adesso l'esigenza di verificare come il nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno si ponga rispetto alle questioni fino a questo momento trattate. Più precisamente, come l'amministrazione di sostegno si pone rispetto al consenso informato? Può l'amministrazione di sostegno essere lo strumento attraverso cui consentire la manifestazione di volontà del paziente, rispetto alle terapie di fine vita? Qual è, in Italia, il rapporto tra l'amministrazione di sostegno e l'istituto del testamento biologico?

Come più volte abbiamo osservato, l'amministrazione di sostegno costituisce lo strumento giuridico che la legge n. 6/2004 ha introdotto nel nostro ordinamento al fine di "tutelare con la minore limitazione possibile della capacità di agire delle persone prive in tutto o in parte dell''autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanenti" (art. 1). Inoltre, l'amministratore di sostegno ha la funzione di assistere ogni "persona, che per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nell'impossibilità anche parziale o temporanea di provvedere ai propri interessi" (art. 404 cod. civ.). E' evidente come, rispetto ai precedenti modelli dell'interdizione e dell'inabilitazione, l'amministrazione di sostegno intenda garantire un maggior rispetto dell'autonomia del disabile ed una maggiore attenzione alla sfera dei suoi interessi personali, in sintonia con il quadro dei principi costituzionali (art. 2 e 3 Cost.).

Adesso, come detto in precedenza, ad una situazione di generale incapacità propria dell'interdizione e dell'inabilitazione, si è sostituita una situazione di generale capacità del soggetto, cui il giudice tutelare di volta in volta indicherà gli atti che non può compiere o che non può compiere da solo. Sarà infatti il giudice tutelare che individuerà, nel provvedimento di nomina, "l'oggetto dell'incarico" e gli "atti che l'amministratore di sostegno ha il potere di compiere" (art. 405 cod. civ.), secondo un criterio di evidente flessibilità. Inoltre, come tratto saliente del nuovo istituto, si prevede che, in ogni caso, per tutti gli atti che non formano oggetto dell'amministrazione di sostegno, il beneficiario conservi la piena capacità d'agire (art. 409 cod. civ.). Ancora, l'istituto dell'amministrazione di sostegno, a differenza del passato, pone in primo piano i bisogni e le aspirazioni di natura esistenziale, divenendo, infatti, fondamentale per l'amministratore la cura personae del beneficiario.

Ma particolarmente significativa, specialmente per cercare di dare qualche risposta alle domande poste sopra, risulta la disposizione contenuta nell'art. 408 cod. civ. ai sensi del quale "l'amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata". Quindi, attraverso questa previsione pare che l'amministrazione di sostegno possa essere uno strumento attraverso cui "la volontà attuale si proietta verso il futuro, quando la persona non sarà più in grado di esprimersi in modo libero e consapevole". (81) Anche se la legge non lo afferma espressamente, si opina nel senso che "appare coerente con il suo impianto complessivo ritenere che a questa persona il malato possa dare anche direttive anticipate sulle decisioni che più gli stanno a cuore". (82)

In questa direzione si muovono alcuni recenti provvedimenti giudiziari. Infatti, in alcuni casi si è proceduto alla nomina di un amministratore di sostegno a favore di Testimoni di Geova in stato di incoscienza, con lo scopo di far rispettare la loro volontà contraria alle trasfusioni. (83) Ancora, nel "caso Nuvoli" il giudice tutelare ha ammesso in linea di principio la possibilità di nominare un amministratore di sostegno, al fine di far rispettare la volontà del malato dopo la perdita di coscienza, anche se nel caso in questione lo stesso non ha ritenuto necessario dar seguito al provvedimento di nomina poiché il malato era perfettamente vigile e, con l'ausilio di un sintonizzatore vocale, perfettamente capace di esprimere la propria volontà. (84) Infine, si possono ricordare i provvedimenti in precedenza citati emessi dal giudice tutelare di Modena, con i quali si nomina un amministratore di sostegno affinché, nel caso in cui il beneficiario perda conoscenza, possa esprimere la volontà del paziente (beneficiario) contraria alla prosecuzione della terapia salvifica.

Proprio questi ultimi due casi mettono in luce l'importanza che può ricoprire l'istituto dell'amministrazione di sostegno rispetto al tema delle direttive anticipate (o il che è lo stesso, rispetto al tema del "testamento biologico"). Infatti, si sottolinea come, nonostante l'assenza di una normativa ad hoc sul testamento biologico, "già esistono nel nostro ordinamento gli strumenti per dare attuazione ai diritti fondamentali della persona". (85) E lo strumento è la legge n. 6/2004, nella parte in cui consente ad ognuno di nominare un amministratore di sostegno in previsione della propria futura eventuale incapacità. Nel documento di nomina, si ritiene, il beneficiario potrà indicare le direttive che la persona di fiducia dovrà seguire nel prendere le decisioni (anche in materia sanitaria) che si renderanno necessarie, così come previsto nei decreti di nomina emessi dal giudice tutelare di Modena. Anche se ancora nel nostro ordinamento le direttive anticipate non sono oggetto di una specifica disciplina, delle stesse si fa cenno sia nel Codice di deontologia medica (86), sia nella Convenzione di Oviedo (87). Nella situazione di attuale incertezza sulla loro rilevanza (e quindi sulla eventuale responsabilità del medico che ne tenga conto), si sostiene, come ricordato sopra, come l'amministrazione di sostegno sia lo strumento più adatto (in assenza di una normativa ad hoc sul tema) non soltanto per far rispettare la volontà del beneficiario-paziente nel caso di eventuale incapacità, ma anche per sollevare il medico da ogni responsabilità, poiché a prendere la decisione inerente la vita del paziente sarebbe, appunto, lo stesso amministratore di sostegno. Inoltre, l'attività dell'amministratore dovrebbe svolgersi all'interno di una cornice predefinita e sotto il diretto controllo del giudice tutelare.

Occorre ricordare che sul tema delle direttive anticipate è intervenuta di recente la Corte di Cassazione (caso Englaro), affermando che nel caso in cui il paziente abbia manifestato la propria volontà "in forma espressa o anche attraverso i propri convincimenti, il proprio stile di vita, ed i valori di riferimento", questa volontà costituisce la linea giuda sulla quale il rappresentante legale, sotto il controllo del giudice, deve prendere le decisioni sanitarie nell'interesse dell'incapace, compresa la sospensione dei trattamenti di sostegno vitale in paziente in stato vegetativo permanente irreversibile. (88)

E' quindi possibile concludere affermando che le direttive anticipate (89) "sono già oggi rilevanti nell'ambito di un procedimento di nomina di un amministratore di sostegno (caso Modena), o in quello di autorizzazione del tutore a chiedere la sospensione di terapie di sostegno vitale (caso Englaro). Esse hanno già valore come criterio orientativo in base al quale il medico deve prendere le decisioni nell'interesse del paziente incapace". (90) In ogni caso, chi scrive ritiene preferibile la soluzione dell'intervento legislativo, così da poter sgombrare il campo da dubbi ed incertezze (anche esecutive, vedi sempre il caso Englaro) ed evitare di attribuire al solo giudice la responsabilità di dover decidere se attivare o meno l'amministrazione di sostegno (caso Modena) nell'ambito di una materia così delicata, come quella riguardante il compimento degli atti di fine vita.

Il caso di Eluana Englaro ha contribuito notevolmente ad acuire il dibattito sulla necessità di varare, anche in Italia, una legge ad hoc sul testamento biologico. Infatti, il padre di Eluana Englaro, la quale versava in coma vegetativo irreversibile dal 1992 in seguito ad un drammatico incidente stradale, aveva fin da subito condotto una battaglia solitaria per il riconoscimento della possibilità di interrompere l'alimentazione e l'idratazione forzate, consentendo alla figlia di abbandonare così il mondo terreno. L'estenuante percorso giudiziario condotto dal padre (Peppino Englaro) pareva essersi concluso in seguito all'emanazione della sentenza della Corte di Cassazione del 16 ottobre 2007, n. 21748, cui ha fatto seguito il Decreto del 9 luglio 2008 della Corte di Appello di Milano, n. 88, il quale, sulla base delle indicazioni provenienti dalla precedente sentenza della Corte di Cassazione, ha disposto l'interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale di Eluana Englaro, realizzato mediante alimentazione e idratazione con sondino naso-gastrico. (91) In seguito all'emanazione dei citati provvedimenti giudiziari, si è sviluppato un intenso scontro tra le varie forze politiche sulla legittimità o meno della magistratura di decidere su un tema così delicato, quale l'interruzione dell'idratazione e alimentazione del paziente, soprattutto in un contesto normativo che vede, rispetto al tema dei trattamenti di fine vita, un evidente vuoto normativo. (92) Il Governo Italiano, ritenendo la magistratura non legittimata a statuire sul tema in questione, ha sollevato un conflitto di attribuzione avverso i provvedimenti citati. La Corte Costituzionale, investita della questione, con Ord. 8 ottobre 2008, n. 334, ha però rigettato il ricorso del Parlamento, confermato l'indirizzo emerso nelle precedenti decisioni giudiziarie. (93) A questo punto, nonostante i tentativi del Governo Italiano di impedire l'esecuzione del provvedimento del Tribunale di Milano, la Clinica "La Quiete" di Udine ha deciso di procedere all'attuazione della sospensione graduale dell'alimentazione e dell'idratazione. (94) Il 9 febbraio, dopo pochi giorni dalla sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione, Eluana Englaro si è spenta.

Attualmente è in discussione in Parlamento il D.D.L. governativo 26/01/2009, intitolato "Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento". Questo disegno di legge si pone l'obbiettivo di elaborare, come emerge dalla relazione di accompagnamento, una normativa che contemperi il rispetto dell'esercizio della libertà del soggetto con la tutela della dignità di ogni uomo e del valore dell'inviolabilità della vita umana. Partendo dall'idea dell'indisponibilità assoluta della vita, il disegno di legge del Governo riconosce un ruolo marginale alla volontà del paziente. Sulla base della nuova "alleanza terapeutica" tra medico e paziente, si vorrebbe riconoscere un ruolo centrale al medico, tale da consentire a quest'ultimo di assumere, alla luce delle nuove circostanze emerse (per esempio innovazioni mediche), le decisioni "più opportune" per il paziente, anche in contrasto con la volontà di quest'ultimo. Inoltre, riconoscendosi, come detto, l'inviolabilità assoluta del diritto alla vita, nel D.D.L. citato si ribadisce la contrarietà a qualunque forma eutanasica o di suicidio assistito. Si vieta di disporre, attraverso le dichiarazioni anticipate di trattamento, l'interruzione dell'idratazione o dell'alimentazione artificiali. Ma il dato forse più dirompente del D.D.L. consiste nel ritenere come non vincolanti le stesse dichiarazioni anticipate di trattamento, sul presupposto che in seguito alla stesura delle direttive anticipate potrebbero venire ad esistenza innovazioni scientifiche tali per cui nessun paziente si rifiuterebbe di beneficiarne. In questa ottica, secondo i proponenti, deve essere elaborata una nuova interpretazione del ruolo del medico: non un semplice burocrate, che si limiti ad avvalorare la volontà del paziente, ma un soggetto che ha l'obbligo morale di valutare l'attualità dei desideri del paziente, in relazione alla sua situazione clinica e agli sviluppi scientifici eventualmente intercorsi. Inoltre, il medico dovrebbe essere accompagnato nella sua scelta da una persona di fiducia del paziente che sappia valutare con il primo la volontà del soggetto impossibilitato ad esprimersi, attualizzando i suoi desideri alla luce dei mutamenti eventualmente verificatisi. Infatti, come ha ricordato il relatore Calabro', nella relazione di accompagnamento del D.D.L., "ciò a cui si deve mirare è un'alleanza terapeutica tra medico e paziente, in cui il malato sia considerato un attore attivo e responsabile del trattamento terapeutico, rispettando la sua libertà decisionale, senza dimenticare i rischi insiti nell'esaltazione acritica dell'autonomia dell'individuo".

Passando all'esposizione degli articoli del D.D.L. 26/01/2009, si può ricordare come il primo articolo del testo garantisca l'inviolabilità e l'indisponibilità della vita umana. Inoltre, si riconosce il diritto alla salute, come fondamentale diritto dell'individuo e della collettività, prevedendo la partecipazione del paziente all'identificazione delle cure mediche nell'ambito dell'alleanza terapeutica tra medico e paziente. Gli artt. 2 e 3 prevedono il divieto di ogni forma di eutanasia e di suicidio assistito, nonché il divieto dell'accanimento terapeutico. Nell'art. 4 si disciplina la figura del consenso informato, prevedendo che il dichiarante debba essere informato in maniera completa e comprensibile su diagnosi, prognosi, natura, rischi e benefici del trattamento proposto. Il consenso può essere sempre revocato, anche solo parzialmente. L'art. 5 disciplina i contenuti e i limiti delle Dichiarazioni Anticipate di trattamento, (DAT) attraverso le quali il dichiarante esprime il proprio orientamento circa i trattamenti medico-sanitari e di fine vita, in previsione di una futura perdita della capacità di intendere e di volere. Si chiarisce, inoltre, che il redattore può rendere manifesta la propria volontà su quei trattamenti terapeutico-sanitari, che egli, in stato di piena capacità di intendere e dopo compiuta informazione clinica, è legittimato dalla legge a sottoporre al proprio medico curante. Ne deriva che nel testo non possono essere inserite indicazioni finalizzate all'eutanasia attiva od omissiva. Si specifica, quindi, che l'idratazione e l'alimentazione artificiale, in quanto ritenute forme di sostegno vitale, non possono formare oggetto di dichiarazioni anticipate. Si prevede, altresì, che la dichiarazione anticipata di trattamento acquisti efficacia dal momento in cui il paziente in stato neurovegetativo sia incapace di intendere e di volere. La valutazione dello stato clinico spetta a un collegio formato da cinque medici (neurologo, neurofisiologo, neuroradiologo, medico curante e medico specialista della patologia). Agli art. 6, 7 e 8, si afferma che la dichiarazione anticipata di trattamento debba essere redatta in forma scritta, da persona maggiorenne, in piena capacità di intendere e di volere, accolta da un notaio a titolo gratuito. La dichiarazione anticipata di trattamento, sempre revocabile e modificabile, ha validità di tre anni, termine oltre il quale perde ogni efficacia. L'art. 7 prevede la nomina di un fiduciario che, in collaborazione con il medico curante, si impegna a far si che si tenga conto delle indicazioni sottoscritte dal paziente. L'art 8 garantisce al medico la possibilità di disattendere le dichiarazioni anticipate di trattamento, sentito il fiduciario, qualora non siano più corrispondenti agli sviluppi delle conoscenze tecnico-scientifiche e terapeutiche, motivando la decisone nella cartella clinica. Si stabilisce inoltre che nel caso di controversia tra il fiduciario ed il medico curante, la questione sia sottoposta alla valutazione di un collegio di medici: medico legale, neurofisiologo, neuroradiologo, medico curante e medico specialista della patologia, designati dalla direzione sanitaria della struttura di ricovero. Tale parere non è vincolante per il medico curante, il quale non sarà tenuto a porre in essere personalmente prestazioni contrarie alle sue convinzioni di carattere scientifico e deontologico. Negli art 9 e 10 si disciplina l'ipotesi di contrasto tra soggetti parimenti legittimati ad esprimere il consenso al trattamento sanitario, stabilendo che la decisione venga assunta, su istanza del pubblico ministero, dal giudice tutelare o, in caso di urgenza, da quest'ultimo sentito il medico curante. Nelle disposizioni finali (art. 10) è prevista l'istituzione di un registro delle dichiarazioni anticipate di trattamento nell'ambito di un archivio unico nazionale informatico presso il Consiglio nazionale del notariato, consultabile in via telematica unicamente dai notai, dall'autorità giudiziaria, dai dirigenti sanitari e dai medici responsabili del trattamento sanitario di soggetti in caso di incapacità.

Un primo dato che emerge da un'analisi del testo del D.D.L. 26/01/2009 è che lo stesso pare discostarsi da un'interpretazione delle norme, viste in precedenza, che riconoscono pieno valore alla volontà e all'autodeterminazione del soggetto. In particolare, come ha ricordato Rodotà (95), il fondamento del principio di autodeterminazione è radicato nei principi costituzionali ed in particolare nell'art. 32 della Costituzione. Infatti, nello stesso articolo, dopo aver considerato la salute come fondamentale diritto dell'individuo, si stabilisce che a nessuno può essere imposto un trattamento sanitario se non per legge: tuttavia, in nessun caso, la stessa legge può violare il limite imposto dal "rispetto della persona umana". In questo caso siamo di fronte ad una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché la stessa pone al legislatore un limite invalicabile, più incisivo, come ricorda ancora Rodotà, di quello previsto dall'art. 13 della Costituzione per la libertà personale, per la quale si ammettono limitazioni soltanto sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice. Ma nell'art. 32 Cost. si va oltre, secondo l'autore, poiché "quando si giunge al nucleo duro dell'esistenza, alla necessità di rispettare la persona umana in quanto tale, nessuna volontà esterna, fosse pure quella espressa da tutti i cittadini o da un parlamento unanime, può prendere il posto di quella dell'interessato". Siamo pertanto di fronte ad una proposta di legge sul testamento biologico che tradisce evidentemente le aspettative e le indicazioni emergenti dalla giurisprudenza ed in precedenza trattate. Una proposta di legge che riconosce il testamento biologico, ma che in sostanza nega allo stesso qualunque valore vincolante, che rimette al medico il compito di decidere se il malato, non più capace di esprimersi, desideri o meno un certo trattamento. Una proposta di legge che, se approvata, impone in ogni caso l'idratazione e l'alimentazione forzate in quanto ritenute sostegni vitali e non cure mediche, che prevede la nomina di un rappresentante del malato che, insieme al medico, decida se una certa terapia sia o meno appropriata e necessaria per il paziente. Una proposta di legge che riduce e annulla drasticamente la libertà di scelta individuale e che annichilisce il concetto stesso di autodeterminazione individuale. Infatti, al di là della difficoltà di individuare il confine tra ciò che è lecito o illecito, rispetto ad un tema così delicato quale quello dei trattamenti di fine vita, dovrebbe essere un dato implicito, ad uno stato di diritto, il riconoscimento della libertà dell'individuo di autodeterminarsi, di scegliere le cure che preferisce, la durata delle stesse, ciò che per lo stesso è alimentazione necessaria, in quanto sostegno vitale, o semplice accanimento terapeutico, per il tempo in cui non potrà più esprimersi compiutamente e liberamente. Il principio che dovrebbe guidare il legislatore nel disciplinare questa materia dovrebbe essere la libertà di scelta, quale principio rispettoso di tutte le sensibilità e non portatore di dogmi etici. Risulta, pertanto, ancora attuale la domanda che un oncologo di fama mondiale si è posto sul tema della libertà di scelta. Se il suicidio nel nostro paese non è un reato, e non lo è nemmeno il tentato suicidio, allora, "perché un poveraccio che si trovi in condizioni di degrado, di dolore mentale e fisico, e che chieda insistentemente di terminare la sua vita, non deve essere esaudito nel suo desiderio"? (96)

3.3. Le testimonianze e le interviste: operatori giuridici e socio-sanitari a confronto

Per tentare di comprendere più in profondità il funzionamento del nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno, a tre anni dalla sua entrata in vigore, si è ritenuto utile svolgere un lavoro di indagine "sul campo" attraverso una serie di interviste ad operatori giuridici e socio-sanitari che, quotidianamente, da diversi prospettive, hanno un contatto diretto col nuovo istituto. Essi sono, quindi, i soggetti più indicati per fornire informazioni e per far emergere eventuali problematiche applicative dell'amministrazione di sostegno, ma anche per fornire osservazioni idonee al loro superamento ed indicare i maggiori vantaggi derivanti della legge n. 6/2004. Si è ritenuto utile, a questo fine, intervistare innanzi tutto due giudici tutelari (il dott. De Marzo del Tribunale di Pistoia e il dott. Gatta del Tribunale di Firenze) in quanto soggetti che rivestono un ruolo centrale nel procedimento dell'amministrazione di sostegno, per ciò che riguarda la sua genesi, durata ed eventuale chiusura. In secondo luogo, si è proceduto ad intervistare un'avvocatessa (avv. Santoni del foro di Firenze), nominata, in più occasioni, amministratrice di sostegno. Infine, si è intervistato uno psichiatra, il dott. Giuffrida, operante presso il D.S.M. dell'Azienda U.S.L. n. 4 di Prato, per cercare di ottenere osservazioni sul nuovo istituto da una prospettiva psichiatrica. La scelta è ricaduta su di lui in quanto lo stesso segue, in qualità di medico, un soggetto che attualmente beneficia dell'amministrazione di sostegno, di cui chi scrive è, al contempo, amministratore.

Il primo operatore intervistato è il dott. Giuffrida, psichiatra in servizio al D.S.M. del comune di Prato.

Innanzi tutto il dott. Giuffrida sottolinea, quanto ai pregi della nuova normativa, la rapidità con cui il procedimento dell'amministrazione di sostegno può essere attivato e il fatto che lo stesso provvedimento non sia eccessivamente "limitante" rispetto alla persona verso cui viene emesso: lo stesso, infatti, deve essere interpretato come "un aiuto". L'intervistato ricorda, a tal proposito, come la filosofia (specialmente quella propria della scuola triestina del prof. Cendon), che ha portato il nostro legislatore ad approvare la legge n. 6/2004, fosse mossa dall'intento di prevedere un supporto, un ausilio, per persone con difficoltà non solo psichiche, ma anche fisiche (per esempio, per paraplegici, etc.). Quindi, continua il dott. Giuffrida, la legge n. 6/2004, almeno inizialmente, non nasceva con finalità prettamente psichiatriche.

Se, invece, guardiamo ad eventuali difetti della nuova normativa, il principale può essere individuato nel fatto che "ancora non è stato chiarito bene come debba essere applicato l'istituto dell'amministrazione di sostegno". In particolare, si ha l'impressione che "molto spesso questo tipo di provvedimento non possa essere applicato nei confronti delle persone non consenzienti". Infatti, può accadere che alcuni pazienti rifiutino qualunque forma di aiuto e quindi "dovrebbe essere chiarito meglio il rapporto che intercorre tra il consenso del paziente e l'applicazione del nuovo istituto". Infatti, "mentre nel caso dell'applicazione dell'interdizione e dell'inabilitazione l'elemento del consenso dell'interdicendo o dell'inabilitando non ricopre un ruolo fondamentale - anche se si tenta in ogni caso di creare una collaborazione, una sinergia tra le parti - nell'ipotesi di amministrazione di sostegno il peso del consenso del paziente è sicuramente maggiore. Tuttavia, occorre chiarire l'ipotesi di un rifiuto dello stesso paziente all'ipotesi di applicazione del nuovo istituto, poiché di fronte ad un paziente non collaborante vi possono essere problemi maggiori di agibilità".

Per quanto riguarda poi la tipologia di persone che possono essere oggetto di amministrazione di sostegno, il dott. Giuffrida afferma che:

non è possibile collegare direttamente un tipo di provvedimento (interdizione, inabilitazione o amministrazione di sostegno) ad una patologia, in quanto anche la patologia più grave potrebbe non comportare l'interdizione o l'inabilitazione della persona. Questo perché l'applicazione di una delle tre misure protettive discende principalmente da un giudizio non prettamente clinico, ma medico-legale. E' pertanto possibile avere un soggetto con un disturbo della personalità, oppure un alcolista, che è oggetto di inabilitazione e magari un soggetto schizofrenico che, nonostante la gravità della patologia, non viene interdetto ma beneficia dell'amministrazione di sostegno. Non c'è una correlazione precisa tra provvedimento protettivo e patologia clinica del soggetto preso in considerazione. Non è detto, quindi, che la patologia clinica più grave dia luogo all'applicazione del provvedimento maggiormente restrittivo sul piano della libertà del soggetto.

La tendenza, auspicata dal dott. Giuffrida, dovrà essere quella di "una riduzione sempre maggiore dell'applicazione dell'interdizione e dell'inabilitazione in funzione di provvedimenti, come l'amministrazione di sostegno, che si rivelano più snelli e leggeri, soprattutto rispetto alla dignità della persona. L'amministrazione di sostegno sta togliendo, infatti, sempre più spazio non solo all'inabilitazione, ma anche all'interdizione". Vi sono casi in cui, ricorda il mio interlocutore, soggetti giudicati non imputabili per vizio totale di mente non vengono interdetti, ma sono oggetto di amministrazione di sostegno. (97) Può infatti riconoscersi al nuovo istituto, in forza del suo carattere meno stringente e più "leggero", un ruolo importante in vista di un eventuale processo di reinserimento sociale. Essendo l'amministrazione di sostegno un istituto strutturato intorno alla persona, "è possibile tentare di far emergere con più forza le potenzialità, le risorse, della persona stessa, piuttosto che affidare l'intervento di protezione, in termini deresponsabilizzanti, ad un tutore che si sostituisce completamente al soggetto in difficoltà". Spesso, "le amministrazioni di sostegno vengono attivate a tempo, con scadenze cronologiche, per il compimento di specifici atti, ma per il resto - almeno che non vi sia una situazione disperata - il beneficiario mantiene una certa autonomia e libertà". In questo senso, per il dott. Giuffrida, "l'amministratore di sostegno è una persona che aiuta, che opera a fianco del soggetto debole, mentre il tutore o il curatore si sostituiscono soltanto all'individuo". Inoltre, i servizi socio-sanitari possono contribuire notevolmente alla diffusione del nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno, in quanto il giudice tutelare spesso ricorre alla consulenza degli psichiatri per decidere quale provvedimento di protezione applicare. Quindi, è evidente che la psichiatria - ma ciò vale per i servi socio-sanitari in generale - riveste un ruolo fondamentale di indirizzo culturale e giuridico. La tendenza attuale da parte dei servizi socio-sanitari, così come ricorda ancora il dott. Giuffrida, è di prediligere l'applicazione dell'amministrazione di sostegno a scapito degli altri istituti di protezione, ed infatti "il rapporto in termini percentuali è di 2-3 ad 1 in favore dell'applicazione dell'amministrazione di sostegno".

La seconda intervista è stata effettuata all'avv. Santoni del foro di Firenze.

Quanto ai pregi della normativa n. 6/2004, l'intervistata ritiene che l'istituto dell'amministrazione di sostegno abbia apportato, rispetto al passato, innumerevoli vantaggi alla condizione del soggetto debole. Innanzitutto, l'amministrazione di sostegno è un istituto che può essere applicato ad innumerevoli ipotesi di difficoltà: "si va dall'anziano solo ed in difficoltà, privo di parenti che possano o vogliano accudirlo, al giovane che ha difficoltà nel compimento di atti quali il pagamento delle bollette o che ha disturbi mentali". Quindi, la casistica che può rientrare sotto l'amministrazione di sostegno è notevolmente ampia. Inoltre, non si richiede una "deficienza" così grave come per pronunciare l'interdizione e, pertanto, il nuovo istituto ha una potenzialità applicativa notevole. Questo, ricorda l'avv. Santoni, vale in particolar modo con riferimento alla categoria dei "soggetti anziani", in quanto "la società si sta trasformando profondamente e ciò comporterà la presenza di una quantità sempre maggiore di anziani, che dovranno essere aiutati e sostenuti: in questo senso l'amministrazione di sostegno può rivestire un ruolo fondamentale". Non sembrano, invece, emergere dalle sue parole particolari difetti della legge n. 6/2004, se non il fatto che ancora coabitano nel sistema giuridico, accanto all'amministrazione di sostegno, gli istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione. L'avv. Santoni ritiene però, a questo riguardo, che questi ultimi istituti debbano essere abrogati, poiché "l'amministratore di sostegno, a seconda dei poteri che gli ritaglia addosso il giudice tutelare, può fare benissimo quello che fa il tutore per l'interdetto oppure quello che fa il curatore per l'inabilitato. Il giudice tutelare, infatti, può adeguare la figura dell'amministrazione di sostegno alle esigenze dell'amministrato e quindi attribuirà, in capo all'amministratore di sostegno, maggiori poteri se il beneficiario è meno capace di accudire se stesso, oppure poteri limitati ad alcuni aspetti patrimoniali se il soggetto ha bisogno soltanto di un aiuto nel compimento di alcuni atti". L'avvocatessa ricorda, a tal proposito, di essere curatrice di un soggetto inabilitato, ma che secondo lei dovrebbe essere, invece, sottoposto ad amministrazione di sostegno, in quanto "ha bisogno anche di un rapporto affettivo". Emerge, in tal senso, l'importanza della cura personae quale componente essenziale del nuovo istituto, la quale invece non riveste un ruolo altrettanto importante rispetto all'interdizione e all'inabilitazione, in quanto questi ultimi sono strumenti nati per rispondere principalmente ad esigenze di carattere patrimoniale. Per questo, "si rende necessario - in tempi rapidi - un superamento degli istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione".

Quanto alla tipologia dei soggetti amministrati dall'avv. Santoni, la stessa ricorda che "la maggior parte di loro è formata da persone anziane in solitudine, o perché non hanno parenti in vita, o perché non hanno parenti che possano o vogliano occuparsi di loro; inoltre, vi sono alcuni giovani". Quindi, da un lato persone che subiscono un decadimento psico-fisico legato all'età: persone un tempo "attive" che col passare del tempo hanno patito un processo degenerativo, specialmente con riferimento alla possibilità di instaurare relazioni sociali. Diversamente, nei giovani in genere sono presenti disagi psichici e psicologici che richiedono, appunto, l'attivazione di un provvedimento di sostegno. Come ricorda ancora l'avv. Santoni, "tra i beneficiari del nuovo istituto prevalgono le persone anziane, ed infatti, se si dovesse fare una statistica, la maggior parte degli amministrati ha un'età superiore ai 65 anni".

Per ciò che riguarda il decreto che istituisce l'amministrazione, come emerge dall'intervista, è in genere standard salvo prevedere il compimento di specifici atti o particolari limitazioni. Ricorda l'avv. Santoni che, in un caso da lei seguito come amministratore di sostegno, il giudice tutelare aveva espressamente previsto il compito di assumere una badante che accudisse la beneficiaria nel suo appartamento. Però, di fronte al rifiuto della beneficiaria, il giudice ha modificato il decreto, non prevedendo più l'obbligo per l'avv. Santoni, in qualità amministratore di sostegno, di cercare una badante e autorizzando la stessa a inserire la persona in difficoltà in un istituto. Risulta, quindi, importante ritagliare il decreto sulle esigenze del singolo beneficiario e, in tal senso, emerge un ruolo decisivo dell'amministratore di sostegno, il quale può far da "collante", da "anello di congiunzione", tra le esigenze del beneficiario e il giudice tutelare. L'avvocatessa chiede, infatti, continue modifiche del decreto, in quanto "parlando con l'amministrato possono emergere esigenze non previste inizialmente". A tal proposito la mia interlocutrice ricorda il caso di un'altra persona da lei amministrata che, anche se non in grado di gestire in modo completamente autonomo il suo patrimonio, ha però ottenuto la possibilità da parte del giudice - in seguito ad una sollecitazione dell'amministratrice di sostegno - di poter utilizzare 1000 euro, dal totale di uno stipendio di 1200 percepito dallo stesso beneficiario, per le spese ordinarie (spese alimentari, pagamento di bollette), accantonando le restanti 200 euro per far fronte a eventuali spese straordinarie. In questo caso, dunque, nonostante la necessità di un controllo sulle spese effettuate dal beneficiario, si è scelta una soluzione che tenesse anche conto delle sue esigenze di vita, riconoscendo allo stesso una certa autonomia finanziaria.

Quanto, invece, al rapporto tra l'amministratore di sostegno e il beneficiario, come ricorda l'intervistata, "lo stesso può avere un valore importante se l'amministrato è capace di comprendere e ha un certo grado di discernimento. Vi sono rapporti più stretti con amministrati che hanno una certa capacità di intendere e una discreta libertà di movimento. E' in ogni caso importante trovare il modo di collaborare con il beneficiario".

Quanto invece ai rapporti con il giudice tutelare, "rivestono una notevole importanza sia le varie istanze che possono essere presentate durante il corso dell'amministrazione, sia il resoconto annuale. Inoltre, a seconda delle esigenze, l'amministratore può recarsi dallo stesso giudice per cercare di mantenere un rapporto costante ed, eventualmente, per chiarire qualche dubbio ". In particolare, per ciò che riguarda la gratuità o meno dell'ufficio di amministrazione di sostegno, si sottolinea come lo stesso sia tendenzialmente gratuito, anche se il giudice tutelare può prevedere un rimborso spese, calcolato sulla base delle indicazioni fornite dall'amministratore. Infatti, ricorda l'interlocutrice, è importante che l'amministratore annoti minuziosamente ogni piccola spesa sostenuta in favore del beneficiario. In un secondo momento l'amministratore si rivolgerà al giudice, in genere con cadenza annuale, chiedendo il rimborso delle spese sostenute e accuratamente documentate. Il giudice effettuerà pertanto il rimborso spese, anche se non è possibile individuare un criterio generale seguito da ogni Tribunale per calcolare il rimborso, poiché la consistenza dello stesso potrà variare a seconda della discrezionalità del singolo giudice.

Quanto, invece, ai rapporti tra l'amministratore di sostegno ed i servizi socio-sanitari, innanzi tutto occorre premettere che "il servizio ha in carico il soggetto debole e deve prestare principalmente una cura alla persona". Questo comporta una sorta di suddivisione dei compiti tra l'amministratore, che per esempio potrà occuparsi della redazione di una richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno per un 'amministrata straniera e il servizio socio-sanitario, che fornirà alla persona debole le sue strutture e i suoi mezzi (per esempio, per accompagnare l'amministrato presso la questura e poter così rinnovare il permesso di soggiorno). Quindi, il compito dell'amministratore può essere quello di "affiancare" il servizio socio-sanitario, al fine di individuare la tutela degli interessi del soggetto debole. L'avv. Santoni ricorda ancora il caso di una persona che viveva in un appartamento in condizioni fortemente disagiate. In questo caso, il compito dell'amministratore è consistito nel coordinarsi con il servizio al fine di individuare una sistemazione alternativa e momentanea (individuata presso un'amica della beneficiaria), per il tempo necessario alla ristrutturazione dell'appartamento della beneficiaria. In un altro caso, ricorda ancora l'avv. Santoni, era necessario vendere l'appartamento della beneficiaria in quanto priva di risorse sufficienti al proprio sostentamento. L'avvocatessa, in qualità di amministratore di sostegno, ha cercato di operare in sinergia con i servizi socio-sanitari per capire quale fosse il modo migliore di comunicare alla beneficiaria l'esigenza di dover vendere l'abitazione, poiché la stessa era contraria. Concludendo, è possibile affermare quindi che in entrambe le situazioni descritte il coordinamento tra le varie figure (amministratore di sostegno, servizi, autorità giudiziaria) ha prodotto effetti positivi per i soggetti in difficoltà.

La terza intervista è stata invece effettuata al dott. De Marzo, giudice tutelare del Tribunale di Pistoia.

Innanzitutto, il dott. De Marzo ritiene che tra i pregi della legge n. 6/2004 si possa sicuramente ricordare "l'indubbia flessibilità processuale e di disciplina sostanziale nonché la maggiore rapidità dei tempi di individuazione dell'amministratore, rispetto ai giudizi di interdizione e inabilitazione". Al contrario, tra i difetti della stessa normativa si può annoverare "il mancato coordinamento, sostanziale e processuale, con gli istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione e la mancata previsione di adeguate forme pubblicitarie del contenuto del decreto di nomina. Infatti, mentre gli effetti dell'interdizione e dell'inabilitazione erano previsti dalla legge, talché la pubblicità dell'esistenza del provvedimento esauriva le esigenze informative dei terzi, con l'amministrazione di sostegno è il giudice che determina i limiti alla capacità del soggetto e pertanto diviene necessaria l'esigenza di garantire la conoscibilità del contenuto del decreto". In ogni caso, ritiene il giudice, non ha più senso riconoscere un ruolo agli anacronistici istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione.

Per ciò che riguarda, invece, la tipologia di soggetti che beneficiano dall'amministrazione di sostegno, l'intervistato ricorda come sia capitato, allo stesso, di "ricorrere all'istituto sia per il soggetto capace di intendere e volere, ma con menomazioni (cecità) che gli impedivano di controllare l'operato dell'amministratore, sia per persone affette da sindrome di Down, sia per persone in coma, ma con limitate esigenze di gestione patrimoniale".

Un'altra domanda rivolta all'intervistato concerne, invece, i criteri che vengono seguiti dal giudice tutelare nella scelta dell'amministratore di sostegno e del perchè, se si deve scegliere un terzo come amministratore, si prediligano in genere gli avvocati. Inoltre, si domanda quale ruolo possono ricoprire le organizzazioni di volontariato. Il dott. De Marzo afferma che "se manca una designazione (al riguardo, va segnalata l'assenza di un registro ad hoc per gli atti di designazione), la scelta ricade sul parente che si occupa del beneficiario o, in assenza o in caso di conflittualità, su un avvocato, perché il numero di volontari è ridottissimo e i legali offrono garanzie di preparazione professionale per gestire almeno gli interessi patrimoniali del beneficiario (richieste di trattamenti assistenziali, richieste di ordini di protezione, giudizi divisori e così via). Emerge quindi, dalla risposta dell'intervistato, un ruolo ancora non centrale delle organizzazioni di volontariato nell'ambito dell'amministrazione di sostegno, specie per ciò che riguarda la loro formazione e preparazione, ed una tendenza del giudice a prediligere la figura dell'avvocato in quanto ritenuto maggiormente preparato sul piano tecnico-giuridico.

Ancora, ricorda il dott. De Marzo come sia centrale, in questa materia, il controllo esercitato dal giudice tutelare sulle spese effettuate dall'amministratore, controllo identico a quello previsto per l'interdizione, effettuato attraverso la documentazione giustificativa fornita dall'amministratore di sostegno.

Per quanto riguarda, invece, la determinazione dell'eventuale rimborso a vantaggio dell'amministratore e l'indicazione dei criteri seguiti dal giudice tutelare nello svolgere questa delicata operazione, il dott. De Marzo ricorda come "molto dipenda dall'entità del patrimonio del beneficiario e dalle esigenze di cura della persona". Infatti, "il primo dato è fondamentale perché, mancando risorse diverse dal patrimonio del beneficiario cui attingere per il pagamento dell'equo indennizzo, l'unica ipotesi per poterlo prevedere è proprio quella in cui esista un patrimonio del beneficiario da cui attingere per poter rimborsare l'attività prestata dall'amministratore di sostegno".

Il giudice De Marzo ha poi chiarito come non sempre sia necessario procede all'audizione del beneficiario. Lo stesso, infatti, ricorda che questo non avviene nel caso di soggetto in coma, perché "è inutile verificare, attraverso l'audizione, le esigenze di un soggetto assolutamente non in grado di intendere e di comunicare in alcun modo con l'esterno".

Ancora, il dott. De Marzo ritiene che sia necessario il patrocinio di un avvocato per l'instaurazione del procedimento di amministrazione di sostegno, anche se sostiene come il vero problema sia "l'assistenza tecnica del beneficiario, non soltanto di chi instaura il giudizio". Si pone in altri termini l'accento sull'esigenza che l'amministratore di sostegno, che deve affiancare il beneficiario nel compimento di alcuni importanti atti della propria vita, sia dotato di una certa competenza tecnica al fine di poter risolvere eventuali incombenze. Inoltre, prosegue l'intervistato, il procedimento di amministrazione di sostegno può presentare aspetti contenziosi, ed infatti è possibile in tal senso la condanna alle spese. Quindi, ancora una volta permangono dubbi sulla natura, contenziosa o volontaria, del procedimento di cui si discute. Altro aspetto fondamentale riguarda la questione se il procedimento di amministrazione di sostegno sia o meno gratuito e se sia o meno dovuto il pagamento dell'imposta di bollo per la presentazionee per la richiesta di copie di atti. (98) A questo riguardo il dott. De Marzo ricorda come al Tribunale di Pistoia venga richiesto soltanto il pagamento di otto euro per la presentazione del ricorso e il pagamento dei soli diritti di cancelleria per l'estrazione di copie. Quindi, non è necessario pagare l'imposta di bollo per la presentazione di atti successivi all'atto di instaurazione del procedimento (per esempio, non deve essere pagata l'imposta per la presentazione, da parte dell'amministratore, della richiesta di rimborso spese).

Per quanto riguarda la formulazione del decreto di nomina dell'amministratore di sostegno l'intervistato ricorda come "l'indicazione generica può servire se non sono ancora ben chiari, pur sussistendo l'urgenza di provvedere, gli atti attraverso i quali il beneficiario può esporsi a pregiudizio", mentre nel caso opposto si ritiene comunque preferibile una formulazione che indichi gli specifici atti che l'amministratore deve compiere, adattando di conseguenza il decreto alle esigenze del caso concreto.

A tal proposito, il dott. De Marzo ritiene che la volontà del beneficiario nel procedimento e nella scelta dell'amministratore possa avere un ruolo importante, anche se dipende dalla situazione concreta che si può presentare. Infatti, a volte lo stesso giudice se n'è discostato, quando, oltre ai limiti caratterizzanti la capacità di autodeterminazione, emergevano serie questioni di conflitto di interessi. Ad esempio, nel caso in cui fosse indicata la badante (da parte del beneficiario) come possibile amministratrice.

Per quanto attiene, invece, alla frequenza e l'intensità dei rapporti che il giudice deve intrattenere con l'amministratore di sostegno ed, eventualmente, con i servizi sociali, il dott. De Marzo ritiene che ciò dipenda dalle esigenze di protezione, anche se gli stessi devono essere almeno annuali.

Infine, il giudice crede che il nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno possa avere un importante ruolo di reinserimento sociale per il beneficiario della misura di protezione. Infatti, "potrebbe essere notevole il ruolo dell'amministrazione di sostegno, in termini risocializzanti, se si realizzasse un progetto che però richiede capacità di iniziativa dei servizi sociali e dello stesso amministratore". In un caso è capitato, al dott. De Marzo, di sollecitare e curare l'inserimento di un giovane con qualche ritardo cognitivo nel mondo del lavoro. Anche se, ricorda l'intervistato, purtroppo le risorse economiche e di tempo a disposizione sono scarsissime.

Infine, l'ultimo operatore intervistato è il dott. Gatta, giudice tutelare del Tribunale di Firenze.

Innanzi tutto, il giudice Gatta ritiene che i vantaggi dati dalla legge n. 6/2004 sull'amministrazione di sostegno non risiedano soltanto nei minori costi e nella maggior celerità del procedimento di nomina dell'amministratore di sostegno, bensì anche nell'assenza del "marchio dell'interdizione e nella possibilità offerta dal nuovo istituto di afferrare ogni spiraglio di volontà residua per far vivere ed emergere il soggetto in difficoltà". Per questo, a distanza di alcuni anni dall'entrata in vigore della legge 6/2004 non si ravvisano grandi difetti.

Per quanto riguarda la tipologia dei soggetti verso i quali può essere applicata l'amministrazione di sostegno, il dott. Gatta ricorda come sia ormai pacifico che "l'amministrazione di sostegno si applichi a persone il cui stato non sia talmente grave da dar luogo all'applicazione dell'interdizione giudiziale. Inoltre, si ammette anche che le norme relative all'amministrazione di sostegno fanno riferimento a persone prive in tutto o in parte dell'autonomia nell'espletamento delle funzioni della vita quotidiana e alle persone che si trovino nell'impossibilità di provvedere ai propri interessi". Pertanto, "la tipologia di soggetti che possono ricadere sotto l'amministrazione di sostegno è molto variegata: vi rientrano persone affette dal morbo di alzheimer, da ictus cerebrale, persone con problemi psichiatrici, etc.".

Ancora, in assenza di parenti che possano svolgere la funzione di amministratore di sostegno in genere, ricorda l'intervistato, "si prediligono gli avvocati perché si ritengono per competenza professionale persone idonee all'incarico di gestire il patrimonio del beneficiario, nonché idonee a realizzare la cura della persona di quest'ultimo". La legge n. 6/2004 comunque consente l'accesso alle funzioni di amministratore di sostegno ai rappresentanti delle associazioni e fondazioni di volontariato che specificamente si occupino dell'assistenza di soggetti in difficoltà (ONLUS). Va detto però che "non possono svolgere l'attività di amministratore di sostegno gli operatori di servizi pubblici o privati che hanno in cura o in carico il beneficiario".

A proposito poi del controllo esercitato dal giudice tutelare sulle spese del beneficiario, il dott. Gatta ritiene che "questo sia lo stesso che viene esercitato sull'attività svolta dal tutore". Infatti, l'amministratore di sostegno soggiace all'obbligo di rendiconto con la periodicità stabilita dal giudice nel decreto di nomina ai sensi dell'art. 405 n. 6. Quindi, "tutte le spese devono essere approvate dal giudice tutelare al termine di ogni anno di attività svolta dall'amministratore di sostegno".

Per quanto riguarda la determinazione da parte del giudice tutelare del rimborso a vantaggio dell'amministratore di sostegno per l'attività svolta, si precisa come "l'attività di amministrazione di sostegno sia teoricamente gratuita, però è prevista l'assegnazione di un'equa indennità in relazione alla complessità degli atti da compiere. Il giudice tutelare deve pertanto valutare l'attività svolta dall'amministratore di sostegno e determinare un rimborso per quest'ultimo in base alla complessità degli atti compiuti dall'amministratore per la gestione del patrimonio del beneficiario".

Rispetto al problema della necessità o meno di ascoltare il futuro beneficiario dell'amministrazione di sostegno, il giudice Gatta afferma che "quest'ultimo deve essere sempre sentito personalmente, in quanto l'audizione è un presupposto necessario del provvedimento di sostegno al quale può derogarsi solo in caso di irreperibilità del soggetto o di un suo rifiuto a presentarsi dal giudice tutelare. In ogni caso, l'audizione risulta veramente necessaria soltanto quando l'inabile sia in grado di esprimere compiutamente propri bisogni ed esigenze, poiché in caso contrario una sua audizione sarebbe di ostacolo alla definizione in tempi brevi del ricorso e all'adozione tempestiva della misura di sostegno. Di conseguenza, il giudice tutelare può assumere il provvedimento di amministrazione di sostegno anche senza sentire il beneficiario".

Per quanto riguarda la necessità o meno del patrocinio di un difensore per l'instaurazione del procedimento di amministrazione di sostegno e se lo stesso procedimento possa essere qualificato come contenzioso o di volontaria giurisdizione, il dott. Gatta afferma che "a differenza del procedimento di interdizione, il procedimento di amministrazione di sostegno ha natura di volontaria giurisdizione in senso stretto in quanto ha per oggetto non già l'accertamento di rapporti o stati personali, ma la sola gestione di interessi mediante provvedimenti sempre revocabili e modificabili. Inoltre, si è evidenziato che mentre i procedimenti di interdizione e inabilitazione hanno natura contenziosa trattandosi di processi di cognizione, sia pure di natura speciale in quanto procedimenti costitutivi di uno status della persona e pertanto destinati ad incidere stabilmente ed ablativamente sulla capacità del soggetto, tali caratteri mancano nel caso del procedimento di amministrazione di sostegno, ed infatti l'amministrazione di sostegno non è suscettibile di incidere su diritti soggettivi e status personali". Quindi, continua l'interlocutore, "il procedimento di amministrazione di sostegno rientra appieno nella volontaria giurisdizione, con la conseguente non operatività dell'art. 82 cod. proc. civ.".

Il procedimento, ricorda ancora il dott. Gatta, è tendenzialmente gratuito. Occorre pagare la sola l'imposta di otto euro per la presentazione di ogni istanza ed in più sei euro e venti centesimi per il rilascio delle copie di atti. Inoltre, "si deve ricordare che l'art. 46-bis disp. att. cod. civ., introdotto dall'art. 13 della legge n. 6/2004, dispone la generale esenzione per tutti gli atti e provvedimenti in materia di protezione delle persone prive di autonomia da tasse di registrazione e dal pagamento del contributo unificato previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115".

Per quanto concerne invece il decreto di nomina, il giudice Gatta ricorda come "questo debba indicare le generalità del beneficiario, dell'amministratore, la durata dell'incarico e l'oggetto dello stesso, con l'indicazione degli atti che l'amministratore può compiere in nome e per conto del beneficiario ovvero gli atti che possono essere compiuti da quest'ultimo con l'assistenza dell'amministratore". A questo proposito, "è preferibile una formulazione generica degli atti da compiere e poi successivamente, se si renderà necessario ovvero lo richiederà l'amministratore di sostegno nominato, il giudice tutelare potrà rilasciare l'autorizzazione al compimento di altri atti". Ancora, "risulta importante l'indicazione della periodicità con cui l'amministratore deve riferire al giudice circa le attività svolte e le condizioni di vita personale e sociale del beneficiario".

La riforma apportata al nostro ordinamento dalla legge n. 6/2004, ricorda il dott. Gatta, "è stata considerata una vera e propria rivoluzione, che ha confinato in uno spazio residuale gli ormai desueti istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione. In questa logica garantistica per il soggetto debole, che tiene conto delle esigenze di vita, della salute, dei rapporti familiari e sociali di quest'ultimo, va letta anche la disposizione del secondo comma dell'art. 408 cod. civ., ai sensi del quale si afferma che l'amministratore di sostegno può essere designato dallo stesso interessato in previsione di una propria futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata. La ratio di questa disciplina, tutta incentrata sulla tutela della persona e delle sue esigenze esistenziali, autorizza e legittima la constatazione che l'amministrazione di sostegno è nell'attualità un istituto appropriato per esprimere delle disposizioni o direttive anticipate rispetto ai trattamenti sanitari, per l'ipotesi di sopravvenuta incapacità del beneficiario, che vanno sotto il nome di testamento biologico". Inoltre, ricorda ancora l'intervistato, "il secondo comma dell'art. 407 cod. civ. attribuisce al giudice anche il potere di non procedere alla nomina dell'amministratore di sostegno in presenza di un dissenso dell'interessato, sempre che questo appaia giustificato e prevalente rispetto ad ogni altra considerazione". La volontà del beneficiario viene poi rafforzata dalla previsione contenuta dall'art. 716 cod. proc. civ., richiamato dall'art. 720-bis cod. proc. civ., ai sensi della quale il beneficiari mantiene una propria capacità processuale all'interno del procedimento per l'attivazione del provvedimento di amministrazione di sostegno".

Il Giudice Gatta ricorda infine come i rapporti che dovrebbero intercorre tra lo stesso giudice tutelare e il beneficiario siano piuttosto limitati, anche perché i procedimenti per la nomina dell'amministratore di sostegno, a Firenze, sono stati dal 2004 circa 1000 e pertanto le possibilità di incontro tra il giudice tutelare e gli amministratori di sostegno sono piuttosto rare e difficili. Queste difficoltà purtroppo si riscontrano anche con i servizi sociali.

3.4. Conclusioni. Amministrazione di sostegno: una soluzione funzionale?

A questo punto del lavoro si rende necessario svolgere alcune considerazioni conclusive. Occorre domandarsi, infatti, se il nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno sia o meno capace di rispondere appieno alle finalità ed alle esigenze che ne hanno richiesto l'istituzione. Si cercherà quindi di ripercorrere sinteticamente le tappe di questo lavoro, provando a trarre alcune indicazioni utili per capire quale sia il grado di attuazione del nuovo istituto, quali i problemi ancora irrisolti e quali le possibili soluzioni per il futuro, prendendo spunto in particolare e dai resoconti delle interviste effettuate in precedenza ai diversi operatori giuridici e socio-sanitari e dall'esperienza pratica di chi scrive. Inoltre, sarà necessario domandarsi come il nuovo istituto si sia posto e si ponga rispetto alla dimensione giuridica del soggetto debole.

Fin dalla loro origine gli istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione hanno avuto, principalmente, lo scopo di salvaguardare gli interessi di carattere patrimoniale, sia del singolo che del gruppo familiare. In definitiva, tali istituti, più che realizzare una protezione funzionale alla cura effettiva del soggetto debole, hanno contribuito all'isolamento del disabile dalla società e dai traffici giuridici. In particolare, l'interdizione è divenuta una sorta di condanna dell'individuo ad una permanente condizione di inferiorità giuridica, finendo per essere l'approdo obbligatorio per qualunque situazione di disagio relazionale. Ma in un'epoca in cui riprendono vigore quei principi costituzionali che pongono la persona umana all'apice della gerarchia dei valori, l'attenzione va posta non più sull'infermità mentale, ma "sulla sofferenza, che indica una condizione di fragilità, di fatica, di malattia, di handicap, di non autosufficienza, di declino delle forze della vitalità, di vecchiaia, di attesa e di desiderio di morire, condizioni che tutti gli esseri umani incontrano in qualunque momento della loro vita". (99) E' conseguentemente maturata la consapevolezza che, "accanto agli istituti tradizionali, era necessario prevedere una figura che avesse funzione non tanto sostitutiva, ma di sostegno, e che intervenisse non nella totalità degli atti che la persona in difficoltà è chiamata a compiere, e nemmeno in un abito di categoria predefinito, ma solamente in quegli atti per i quali la situazione concreta suggerisce una 'presenza vicariante'". (100) Questa figura, in seguito ad un dibattito durato anni, è stata individuata nell'amministratore di sostegno, quale soggetto che si prenda cura di chi non è autosufficiente, salvaguardandone il patrimonio e riducendo o attenuando la capacità del beneficiario solo in relazione ad alcuni atti, stabiliti di volta in volta dal giudice, ma conservando per tutto il resto intatta la sua capacità ed i suoi diritti. Come infatti è stato affermato, "la filosofia di fondo della riforma è quella di tutelare gli interessi di quei soggetti che, per problemi contingenti, non sono in grado di provvedere alla propria cura e all'amministrazione dei propri beni, o alla soluzione di piccoli problemi amministrativi quotidiani, senza annullare i diritti e la dignità, ma conciliando le diverse esigenze ed evitando le soluzioni estreme dell'interdizione e dell'inabilitazione o dell'abbandono dell'incapace a se stesso, in balia di chiunque". (101)

In base a queste poche osservazioni introduttive, e all'analisi svolta in precedenza, è possibile dare un giudizio sicuramente positivo rispetto al nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno. Tutti gli operatori intervistati concordano, infatti, nel ritenere che tale istituto costituisca un'innovazione profonda del sistema di tutela dei soggetti deboli: sia per la capacità dello stesso istituto di abbracciare una vasta tipologia di soggetti in difficoltà, sia per la rapidità di attivazione e per i minori costi del procedimento, sia per la flessibilità e proporzionalità del provvedimento, ma soprattutto perché adesso si riconosce ai soggetti in difficoltà una nuova dimensione giuridica. (102) Questa riforma trova, del resto, giustificazione nello stesso dettato costituzionale, vista la centralità che in esso assume la dignità della persona. Ed infatti, "ogni uomo è, in quanto tale, titolare di situazioni esistenziali rappresentate nello status personae, delle quali talune, come il diritto alla vita, alla salute, al nome, alla stessa manifestazione del pensiero, prescindono dalle capacità intellettive [...]. Per di più l'uomo in quanto anche cittadino è titolare di situazioni rappresentate nello status civitatis, come il diritto all'educazione, il dovere di contribuzione, il diritto-dovere all'elettorato, etc". (103) Tutto questo richiede appunto una riconduzione del disabile nell'ambito del diritto e un riconoscimento allo stesso, in forza degli artt. 2 e 3 della Cost., di una propria ed incomprimibile soggettività giuridica.

Quindi se, da un lato, si è salutato con favore l'intervento del legislatore, in quanto per la prima volta venivano messi in discussione alcuni paradigmi anacronistici (in primis quello relativo alla contrapposizione tra soggetto sano di mente e soggetto non sano di mente) e si ridava spessore e centralità all'individuo in quanto tale, cioè a prescindere dal suo status mentale, dall'altro, si è osservato come la nuova disciplina dell'amministrazione di sostegno fosse caratterizzata da alcune problematicità. A tal proposito, come del resto ha affermato il giudice tutelare del Tribunale di Pistoia De Marzo, si possono ricordare le difficoltà di coordinamento tra il nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno e quelli dell'interdizione e dell'inabilitazione (che la Corte di Cassazione, con le sentenze nn. 13584 e 25366 entrambe del 2006, non ha chiarito del tutto) e alle difficoltà di coordinamento tra le nuove norme sull'amministrazione di sostegno e quelle dettate in tema di interdizione, richiamate esplicitamente dalla legge n. 6/2004 in quanto compatibili. Si può pensare al dibattito, ancora non concluso, riguardante la riconducibilità o meno del procedimento per l'attivazione (o chiusura) dell'amministrazione di sostegno alla giurisdizione contenziosa o volontaria e se sia o meno necessario il patrocinio di un difensore per l'instaurazione del procedimento riguardante il nuovo istituto. A questo proposito, le posizioni dei giudici intervistati divergono in quanto, da un lato, il Giudice Gatta del Tribunale di Firenze riconduce senza incertezze il procedimento di amministrazione di sostegno nell'alveo della volontaria giurisdizione affermando che, a differenza del procedimento di interdizione, "il procedimento di amministrazione di sostegno ha natura di volontaria giurisdizione in senso stretto in quanto ha per oggetto non già l'accertamento di rapporti o stati personali, ma la sola gestione di interessi mediante provvedimenti sempre revocabili e modificabili. Inoltre, si è evidenziato che mentre i procedimenti di interdizione e inabilitazione hanno natura contenziosa trattandosi di processi di cognizione, sia pure di natura speciale in quanto procedimenti costitutivi di uno status della persona e pertanto destinati ad incidere stabilmente ed ablativamente sulla capacità del soggetto, tali caratteri mancano nel caso del procedimento di amministrazione di sostegno, ed infatti l'amministrazione di sostegno non è suscettibile di incidere su diritti soggettivi e su status personali". Dall'altro, il giudice tutelare del Tribunale di Pistoia De Marzo ritiene che sia necessario il patrocinio di un avvocato per l'instaurazione del procedimento di amministrazione di sostegno, potendo infatti lo stesso procedimento presentare aspetti contenziosi. Pertanto, così come osservato nel corso del lavoro, e così come emerge dalle interviste effettuate, attualmente permangono ancora dubbi sulla riconduzione del procedimento di cui si discute nell'abito della giurisdizione volontaria o contenziosa.

Altro aspetto problematico del nuovo istituto, emerso nel corso del lavoro, riguarda la necessità o meno di prevedere forme remunerative a vantaggio dell'amministratore di sostegno per l'attività svolta ed in base a quali criteri calcolare le stesse. Sul punto sembra che le posizioni dei giudici intervistati si avvicinino, in quanto sia il Giudice Gatta che il giudice De Marzo pongono l'accento sulla necessità di commisurare l'eventuale ristoro alla complessità degli atti posti in essere dall'amministratore. E' evidente però che sul punto rimangono tutti i dubbi sollevati già nella parte del lavoro intitolata "Amministrazione di sostegno: ufficio gratuito?", poiché anche ammettendo in via di principio la possibilità di prevedere, a vantaggio dell'amministratore, un'indennità commisurata all'entità del patrimonio e alle difficoltà dell'amministrazione, le situazioni di gestione del patrimonio possono richiedere un dispendio di energie, fisiche e professionali, difficilmente quantificabili, e può divenire riduttivo legare l'indennità alle condizioni sopra indicate. Occorre dunque porre rimedio ad una situazione di profonda incertezza che vede spesso gli amministratori lasciati (insieme al beneficiario) in balia del sistema giudiziario e dell'atteggiamento più o meno accondiscendente del giudice tutelare. Inoltre, un conto è che l'amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare, sia un parente o un soggetto che ha dei legami pregressi di natura sentimentale con il beneficiario (nel qual caso si rende difficile ipotizzare una forma di "rimborso spese"). Altra, invece, l'ipotesi in cui a ricoprire l'incarico di amministratore di sostegno sia una persona "terza", poiché in questo caso si rende necessario ipotizzare forme di rimborso, magari standardizzate in riferimento alla tipologia di atto da compiere, a meno che non si voglia far ricadere tutto il peso sulle associazioni di volontariato e sullo spirito di altruismo del singolo amministratore.

Inoltre, il problema dell'assistenza si porrà soprattutto per tutte quelle persone che non hanno un cospicuo patrimonio: per tutti questi soggetti, infatti, ci sarà il problema di individuare un amministratore di sostegno, poiché questo incarico si rivelerà ben poco remunerativo e appetibile (vista appunto l'assenza del patrimonio del beneficiario), con il risultato che questi incarichi verranno ricoperti, nella maggior parte delle ipotesi, da qualche parente volenteroso ma poco preparato e, nelle altre ipotesi, da soggetti istituzionali, con il risultato che di fatto ad occuparsi dell'incapace sarà spesso qualcuno che neppure lo conosce. (104)

Dunque, se è vero che l'attività di amministrazione di sostegno deve essere svolta sulla base di un principio costituzionale di solidarietà è anche vero che quando ci si confronta con la realtà emergono contraddizioni a cui un Welfare State moderno non può non dare risposte concrete ed utili. Si pone quindi la necessità di una revisione della normativa o di un'interpretazione evolutiva delle norme che tenga conto delle esigenze concrete di ristoro cui può aspirare, legittimamente, un amministratore di sostegno e che preveda soluzioni più equilibrate e meglio rispettose delle condizioni in cui spesso si trova ad operare chi svolge tale funzione. (105)

Altro aspetto da chiarire è il ruolo che possono ricoprire le associazioni "no profit" nel settore dell'amministrazione di sostegno. Occorre sottolineare che, al di là delle positive osservazioni che si sono riscontrate negli intervistati e che emergono in dottrina, il ruolo che ricoprono le associazioni di volontariato è ancora in divenire. Infatti, oltre ai corsi di formazione ed all'apertura di sportelli di consulenza (per esempio a Firenze) per gli amministratori di sostegno, sembra mancare la presenza di un progetto di lungo respiro, che abbracci le varie soggettività (politiche, sociali, istituzionali, etc.) presenti su un certo territorio, ed a questo proposito sono emblematiche le parole pronunciate da Cendon al convegno fiorentino del novembre del 2008. Infatti, perché tutto questo possa realizzarsi, sostiene Cendon, serve un impegno forte dei servizi, serve uno "sportello" che fornisca informazioni a tutti gli operatori coinvolti. Serve la creazione di "associazioni di amministratori di sostegno", al fine di coordinare gli amministratori e aiutare gli stessi nella loro attività. Serve, secondo Cendon, un impegno maggiore da parte delle istituzioni (magari attraverso contributi economici regionali), affinché gli amministratori vengano gratificati nella loro difficile attività e non abbandonati a se stessi. Purtroppo tutto questo non sempre viene realizzato. (106)

Come emerge pertanto dal lavoro svolto e dal resoconto delle interviste effettuate, il nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno, così come pensato dalla legge n. 6/2004, si presenta come un nuovo strumento di aiuto alle persone in difficoltà capace di restituire dignità e libertà alle stesse, ma ancora bisognoso di interventi migliorativi, i quali non possono che emergere innanzi tutto dalla prassi applicativa. A tre anni dall'entrata in vigore della legge n. 6/2004, infatti, proprio per rispondere alle carenze sopra richiamate, è stato presentato al parlamento, dal prof. Cendon, un progetto di riforma del Codice civile, intitolato "Rafforzamento dell'amministrazione e abrogazione dell'interdizione e dell'inabilitazione", con lo scopo di riformare l'attuale normativa riguardante la tutela del soggetto debole, eliminando i desueti istituti dell'interdizione e dell'inabilitazione, e prevedendo il rafforzamento del nuovo istituto dell'amministrazione di sostegno. Un progetto di riforma che per superare ogni incertezza interpretativa, come abbiamo visto in precedenza, propone la nuova categoria di "inadeguatezza gestionale": una categoria socio-giuridica capace, cioè, di abbracciare la miriade di situazioni di difficoltà dell'individuo; mentre al contempo si riconosce un ruolo sempre maggiore al giudice tutelare, soprattutto, però, nell'ottica di un'estensione di diritti a favore del beneficiario. Un progetto che, come ha affermato lo stesso Cendon al convegno svoltosi a Firenze nel novembre del 2008, ha come fine ultimo quello di "portare il diritto verso il basso", affinché tutto si giochi sul piano concreto. In alto, infatti, si trovano i principi di solidarietà, eguaglianza, etc., ma è sul piano concreto che viene determinata la regolamentazione rispetto alle esigenze del singolo beneficiario. Al contrario di quello che accade per l'interdizione, dove tutto si gioca sul piano sopraelevato del diritto, che è uguale e standardizzato per tutti, con l'amministrazione di sostegno, in alto vi sono alcuni principi, mentre in basso tutto si muove in funzione del sostegno da dare al soggetto, rispetto alle concrete esigenze che possono emergere. Infatti:

i caratteri del diritto attuale mettono in crisi, anzitutto, proprio il concetto giuridico e il modo di costruire la soggettività. La necessità di dare attuazione al principio di eguaglianza sostanziale e la correlativa funzione delle norme di eliminare le diseguaglianze, fa sì che si vengano a creare statuti particolari di singole categorie di soggetti. Il diritto non è più un diritto di 'eguali', ma di 'diseguali' e la regolamentazione giuridica si adegua alle specifiche necessità del soggetto in relazione alle sue qualità e alla sua collocazione nella società. E' necessario, dunque, prescindere dalle astrazioni e riconsiderare, al di là di ogni schermo concettuale, la persona umana nelle sue specifiche esigenze. (107)

Emerge con evidenza, dunque, il cambiamento di prospettiva teorica con cui si guarda oggi all'individuo con difficoltà fisiche o psichiche: un individuo che deve essere ricondotto nell'ambito dell'agire giuridico non come comparsa, ma come attore privilegiato.

Note

1. P. CENDON, Rafforzamento dell'amministrazione e abrogazione dell'interdizione e dell'inabilitazione, cit., pp. 1005-1093.

2. Il testo della "seconda bozza Cendo" è stata presentata in Parlamento nel 2007 come Proposta di legge n. 2972.

3. Ivi, p. p. 1007.

4. Ibid.

5. Ivi, p. 1008.

6. Ivi, p. 1009.

7. Ibid.

8. Ivi, p. 1010.

9. Ibid.

10. P. CENDON, Infermi di mente e altri "disabili" in una proposta di riforma del codice civile, cit., p. 118.

11. P. CENDON, Rafforzamento dell'amministrazione e abrogazione dell'interdizione e dell'inabilitazione, cit., p. 1011.

12. Ibid.

13. Ivi, p. 1012.

14. Ibid. Occorre ricordare come la relazione di accompagnamento alla "seconda bozza cendon" faccia uso dei termini "incapacitato", "incapacitare" e "incapacitazione", in quanto ritenuti funzionali a semplificare il quadro espositivo. Gli stessi, però, non vengono inseriti direttamente nel codice civile, in quanto si ritiene che una tale scelta spetti soltanto al legislatore.

15. Ibid.

16. Ivi, p. 1013.

17. Ivi, p. 1015.

18. Ibid.

19. Ivi, p. 1016.

20. Ibid.

21. Ibid.

22. Ivi, p. 1018.

23. Ivi, pp. 1018-1019.

24. Ivi, p. 1020.

25. Ivi. pp. 1022-1023. Altro aspetto interessante della proposta di riforma consiste nel prevedere importanti modifiche al regime di annullabilità degli atti e dei contratti posti in essere dall'incapace naturale (art. 428 cod. civ.). In particolare, si prevede quale elemento necessario a legittimare l'azione di annullamento del contratto (così come avviene adesso ex art. 428 cod. civ. rispetto agli atti unilaterali) il "pregiudizio per l'incapace", eliminando al contempo l'ulteriore presupposto - attualmente previsto ex art. 428 cod. civ. - della "mala fede" dell'altro contraente (da intendere quale consapevolezza dello stato di incapacità). Questa innovazione consente di superare "il motivo di possibile remora alla contrattazione con l'incapace, rappresentato - nell'assetto vigente - dal rischio di subire un'azione per annullamento del contratto a motivo della propria «mala fede». Soprattutto, diventano annullabili anche i contratti, pregiudizievoli, che siano stati conclusi in circostanze tali da non consentire al partner il riconoscimento dello stato di incapacità. Se il contratto non è stato pregiudizievole, non basterà invece - ai fini dell'annullamento - la dimostrazione dell'essersi il partner avveduto della condizione di incapacità del disabile. Il contraente 'abile' sarà, conseguentemente, portato/tranquillizzato a concludere contratti con un soggetto che egli pur sappia essere incapace, senza (paventare di) rischiare l'annullamento negoziale in ragione di ciò".

26. Ivi, p. 1023.

27. Ibid. Per quanto riguarda la situazione del minore, l'attuale proposta di riforma, così come anche la "prima bozza Cendon", prevede una limitata capacità d'agire, rispetto agli atti della vita quotidiana, nel caso in cui lo stesso dimostri di possedere - da valutarsi in concreto - adeguata capacità di discernimento.

28. Ivi, p. 1025.

29. Ivi, p. 1026.

30. Ibid.

31. Ibid.

32. Ivi, pp. 1026-1027.

33. Ivi, p. 1027.

34. Osservazioni analoghe si rinvengono anche nel recente studio condotto dalla Regione Toscana, intitolato "I servizi per l'attuazione della legge sull'amministrazione di sostegno", 2007, pp. 5-6. Infatti, si osserva come attualmente si assista non soltanto ad una diversa interpretazione della legge 6/2004 da parte dei diversi tribunali, ma anche ad un diverso attivismo dei soggetti interessati a seconda dei territori e dei gruppi sociali rappresentati. Si ritiene, pertanto, necessaria la diffusione di conoscenze e competenze tra gli operatori dei servizi sociali, ed in particolare tra coloro che hanno relazioni dirette con utenti potenzialmente o effettivamente interessati dall'istituto dell'amministrazione di sostegno. In particolare, rivela necessaria la previsione non soltanto di un servizio con la funzione di fornire consulenza agli interessati e agli operatori sociali attivi nel territorio, ma anche procedere ad una reale strutturazione degli stessi servizi presenti sul territorio, che guardino alle persone prive in tutto o in parte di autonomia come potenziali beneficiari finali. Per rispondere a tali esigenze, la Regione Toscana indica i seguenti obbiettivi: 1) diffondere conoscenze sull'amministrazione di sostegno attraverso attività di formazione di operatori sociali e volontari; 2) sviluppare le attività di sensibilizzazione ed orientamento per le persone prive in tutto o in parte dell'autonomia e per i loro familiari; 3) supportare gli amministratori di sostegno nello svolgimento della loro attività. L'obbiettivo è fornire agli operatori nominati dei punti di riferimento informativi, di orientamento e consulenza qualificati per sostenerli nell'esercizio delle loro funzioni; 4) supportare le persone per le quali è stato nominato un amministratore di sostegno o per le quali potrebbe essere presentata istanza al tribunale, promuovendo un'azione di osservazione dei casi di persone che hanno perso in tutto o in parte l'autonomia, o dei loro familiari: - per sollecitare, ove ritenuto necessario, la presentazione di un'istanza al tribunale; - per facilitare le procedure di audizione; - per sostenere il giudice nella sua azione di verifica; 5) sostenere il coordinamento tra l'attività dei servizi sociali e l'attività dei giudici tutelari. A tal riguardo, la Regione Toscana, infatti, come previsto dall'art. 10, comma 1, della legge regionale del 24 febbraio 2005, n. 41, sostiene i Comuni e le Province per l'attivazione dei servizi e interventi di supporto in favore delle persone prive in tutto o in parte delle funzioni della vita quotidiana, di cui al libro I, titolo XII, del codice civile, nonché dei soggetti ai quali sono conferite dall'autorità giudiziaria le funzioni di tutore, curatore, o di amministratore di sostegno, anche in raccordo con altri enti e autorità interessate alla pubblica tutela. In particolare, la Regione Toscana ha previsto un "piano integrato sociale regionale 2007-2010" con il quale definisce la programmazione regionale in materia di amministrazione di sostegno e funzioni di pubblica tutela, individuando tra le priorità del triennio di vigenza la promozione del ruolo di amministratore di sostegno, la cui corretta conoscenza e implementazione va favorita su tutto il territorio toscano.

35. G. SIMONETTI, Ospedale psichiatrico giudiziario: aspetti normativi e sociologici. Il caso di Montelupo Fiorentino, tesi di laurea, Facoltà di giurisprudenza, Università degli Studi di Firenze, 2003.

36. Sul punto F. MANTOVANI, Il problema della criminalità, Padova, 1984, pp. 32-37, il quale ricorda come per molti anni in Italia si siano fronteggiate, in campo penalistico, due correnti di pensiero contrapposte. La Scuola Classica (i cui esponenti furono Carrara, Carmignani, Rossi, etc), maturata nel fermento politico-culturale determinato dall'illuminismo, sofferma la propria attenzione sui presupposti razionali della punibilità contro gli arbitri e la crudeltà dell'epoca. Inoltre, muovendo dal postulato del libero arbitrio, cioè dell'uomo completamente libero nella scelta delle proprie azioni, essa pone a fondamento del diritto penale la responsabilità morale del soggetto quale rimproverabilità per il male commesso e, conseguentemente, la concezione etico retributiva della pena, cioè una pena intesa come retribuzione per il delitto compiuto. Al contrario, la Scuola Positiva (i cui esponenti furono Lombroso, Ferri, etc.), muovendo dal principio di causalità, ritiene che il delitto appaia, nel determinismo universale dei fenomeni, manifestazione necessitata di determinate cause e non già estrinsecazione di una scelta libera ed autonoma del delinquente. Il diritto penale deve pertanto essere disancorato da qualunque premessa metafisica, da ogni contenuto etico di riprovevolezza e, soprattutto dal concetto di libero arbitrio. Muovendo, infatti, dal concetto di determinismo causale la Scuola Positiva pone alla base del diritto penale non più la responsabilità etica, ma la pericolosità sociale del soggetto e la concezione difensiva della pena.

37. G. SIMONETTI, Ospedale psichiatrico giudiziario: aspetti normativi e sociologici. Il caso di Montelupo Fiorentino, tesi di laurea, Facoltà di giurisprudenza, Università degli Studi di Firenze, 2003.

38. Occorre ricordare che il concetto di pericolosità sociale non è un concetto di significato univoco, determinabile in via generale. Esso può dipendere da svariati fattori attinenti, di volta in volta, al carattere, alla natura o al temperamento del soggetto: dall'ambiente in cui il soggetto vive o dalle sue frequentazioni; dalla gravita del reato o dal pericolo cagionato alla persona offesa dal reato; dalla intensità del dolo o dalla gravita della colpa; dai motivi che hanno spinto il soggetto a compiere il reato e dalla condotta del reo; dai precedenti penali e giudiziari; etc. Il giudizio di pericolosità deve essere dimostrato sulla base di queste oggettive circostanze.

39. G. SIMONETTI, Ospedale psichiatrico giudiziario: aspetti normativi e sociologici. Il caso di Montelupo Fiorentino, tesi di laurea, Facoltà di giurisprudenza, Università degli Studi di Firenze, 2003.

40. F. SCARPA, Breve storia dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario, in Ristretti.it. Inoltre, per importanza, occorre ricordare la sentenza della Corte Costituzionale n. 253/2003, che ha spezzato l'automatismo tra misura di sicurezza ed O.P.G., consentendo l'effettuazione della stessa in luoghi alternativi e secondo progettualità da definirsi caso per caso.

41. In pratica, attualmente si assiste ad un suddivisione dei ruoli: un direttore dell'O.P.G. dipendente dell'amministrazione penitenziaria, con compiti di gestione amministrativa della struttura e una figura medica, con compiti di gestione dei servizi sanitari-psichiatrici, ma non più amministrativi e di polizia penitenziaria. L'attuale organizzazione è il frutto della riforma operata tramite la legge finanziaria del 2008 (Legge 244/07 del 24.12.2007) Prima della citata riforma, infatti, la gestione dell'O.P.G. era così articolata: erano previsti medici di Ruolo Direttori (un medico-direttore per O.P.G.), appartenenti al comparto ministeriale del Pubblico Impiego, dipendenti inquadrati nell'VIII Qualifica Funzionale, profilo Medico Direttore, con il compito di Direzione e Coordinamento della struttura sanitaria, con aggiunta delle funzioni di referente comunque del lato Amministrativo (Funzionario Delegato).

42. F. SCARPA, Breve storia dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario, in Ristretti.it.

43. F. SCARPA, Breve storia dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario, in Ristretti.it.

44. F. SCARPA, Breve storia dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario, in Ristretti.it.

45. F. SCARPA, Breve storia dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario, in Ristretti.it.

46. G. SIMONETTI, Ospedale psichiatrico giudiziario: aspetti normativi e sociologici. Il caso di Montelupo Fiorentino, tesi di laurea, Facoltà di giurisprudenza, Università degli Studi di Firenze, 2003.

47. Sulla necessità di una disciplina che regoli la materia del "compenso" dell'amministratore di sostegno: S. PATTI, Una nuova misura di protezione della persona, in Familia, 2005, 221 ss.

48. E. CALO', Amministrazione di sostegno. Legge 9 gennaio 2004, n. 6, cit., pp. 106-107.

49. E. CALO', Amministrazione di sostegno, Legge 9 gennaio 2004, n. 6, cit., pp. 107 s. In questi termini, L. IAPICHINO, Testamento biologico e direttive anticipate, Collana diretta da G. LAURINI, Milano, 2000, pp. 5 ss.; vedi anche G. SALITO, Il testamento biologico nell'ordinamento italiano e di altri paesi, Università Studi Salerno, Dipartimento Rapporti Civili ed Economici Nei sistemi Giuridici Contemporanei, Quaderni diretti da P. STANZIONE, Salerno, 2003, Il testamento biologico: ipotesi applicative, in Notariato, 2004, pp. 196 ss.; L. MILONE, Il testamento biologico (Liviling will), in Vita not., pp. 106 ss.; P. CENDON, I malati terminali e i loro diritti, Milano, 2003, pp. 313 ss. Di recente, si segnalano i contributi di A. SASSI, Equità e interessi fondamentali nel diritto privato, Perugia, 2006, pp. 143 ss.; G. ALPA, Il principio di autodeterminazione e il testamento biologico, in Vita. not., 2007, 3 ss.; D. MALTESE, Il "testamento biologico", in Riv. dir. civ., II, 2006, pp. 525 ss.; E. CALO', Il testamento biologico tra diritto e anomia, in Letture Notarili n. 9, Collana diretta da G. LAURINI, 2008.; G. FERRANDO, Diritto di rifiutare le cure, amministrazione di sostegno e direttive anticipate, in Famiglia e diritto, 2008, pp 924 ss. Infine, si ricordano i contributi apparsi in Testamento biologico. Riflessioni di dieci giuristi, con prefazione di U. VERONESI, Il Sole 24 ore-Fondazione Umberto Veronesi, Milano, 2005 e Il testamento biologico. Verso una proposta di legge, a cura di M. DE TILLA, L. MILITERNI, U. VERONESI, Milano, 2007.

50. Sul punto E. CALO', Il testamento biologico tra diritto e anomia, in Letture Notarili n. 9, Collana diretta da G. LAURINI, 2008, pp.55 ss. In particolare, si veda E. CALO', Amministrazione di sostegno, Legge 9 gennaio 2004, n. 6, cit., pp. 110-114. L'autore ricorda come in altri ordinamenti giuridici, "il testamento biologico è una realtà consolidata". In particolare, si possono ricordare l'esperienza degli Stati Uniti d'America, dove quasi tutti gli ordinamenti statali contengono previsioni in materia di testamento biologico. Fondamentale, al riguardo, risulta la disciplina federale americana, Patient Self-Determination Act (SPDA), in vigore dal 1991, che prevede espressamente la possibilità, accanto al riconoscimento della necessità del consenso informato, il diritto di formulare direttive anticipate (living wills); inoltre, è riconosciuta la facoltà di nominare un procuratore che compirà le scelte più opportune nel caso in cui l'interessato non sia più in grado di farlo direttamente. Anche in Germania, Danimarca, Spagna, Francia, ed in altri paesi, si riconosce, per via normativa o giudiziaria (come per esempio in Gran Bretagna, dove non vi è una specifica legislazione sul testamento biologico, ma vi è ormai una consolidata giurisprudenza in senso favorevole al suo riconoscimento), la legittimità del testamento biologico.

51. G. BONILINI, I presupposti dell'amministrazione di sostegno, in G. BONILINI- F. TOMMASEO, Dell'amministrazione di sostegno, cit., p. 104.

52. Trib. Roma 23 luglio - 17 dicembre 2007, in Nuova giur. civ. commentata, 2008, I, 65 ss., con nota di AZZALINI, Trattamenti life-saving e consenso del paziente: i doveri del medico di fronte al rifiuto di cure. Per un attenta ricostruzione del "caso Welby", si veda G. ALPA, Il principio di autodeterminazione e il testamento biologico, cit., pp. 8-9.

53. Cass. 16 ottobre 2007, n. 21748, in Nuova riv. civ. commentata, 2008, I, pp. 83 ss.

54. G. FERRANDO, Diritto di rifiutare le cure, amministrazione di sostegno e direttive anticipate, cit., p. 925.

55. Ibid.

56. Cass. Pen. 21 aprile 1992, in Dir. fam. e pers., 1993, 441 ss.

57. Corte Cost. 24 maggio 1985, n. 16 e Corte Cost. 18 dicembre 1987, n. 561 cit. in G. FERRANDO, Diritto di rifiutare le cure, amministrazione di sostegno e direttive anticipate, cit., pp. 925 s.

58. G. FERRANDO, Diritto di rifiutare le cure, amministrazione di sostegno e direttive anticipate, cit., p. 926. Vedi inoltre Corte Cost. 22 giugno 1990, n. 307; Corte Cost. 2 giugno 1994, n. 218; Corte Cost. 23 giugno 1994, n. 258; Corte Cost. 18 aprile 1996, n. 118; Corte Cost. 26 febbraio 1998, n. 27.

59. Per una ricostruzione dell'importanza del principio di autodeterminazione, si veda G. ALPA, Il principio di autodeterminazione e il testamento biologico, cit., p. 4, secondo cui il principio di autodeterminazione deve essere inteso nel senso di permettere all'individuo di decidere del proprio corpo, della propria vita, delle terapie che può accettare o rifiutare al fine di alleviare il dolore e di protrarre il corso della vita.

60. Corte Cost. 22 ottobre 1990, n. 471; Corte Cost. 9 luglio 1996, n. 238. Inoltre, v. G. FERRANDO, Consenso informato del paziente e responsabilità del medico. Principi, problemi e linee di tendenza, in Riv. crit. dir. priv., 1998, pp. 37 ss. e G. FERRANDO, Diritto di rifiutare le cure, amministrazione di sostegno e direttive anticipate, cit., p. 926.

61. Art. 5 "Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona abbia espresso un consenso libero ed informato. Alla persona deve essere data una preventiva informazione sullo scopo e la natura del trattamento, sulle sue conseguenze e rischi. La persona interessata può liberamente revocare il consenso in ogni tempo".

62. Art. 3 "Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. Nell'ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: il consenso libero e informato della persona interessata secondo le modalità definite dalla legge".

63. G. FERRANDO, Diritto di rifiutare le cure, amministrazione di sostegno e direttive anticipate, cit., p. 926.

64. Ibid.

65. G. FERRANDO, Diritto di rifiutare le cure, amministrazione di sostegno e direttive anticipate, cit., 926 s.

66. Cass. 16 ottobre 2007, n. 21784, cit.

67. Ad esempio, EUSEBI, Il diritto penale di fronte alla malattia, in L. FIORAVANTI (a cura di), La tutela penale della persona. Nuove frontiere, difficili equilibri, Milano, 2001, pp. 119 ss.; FIORI-IADECOLA, Stato di necessità medica, consenso del paziente e dei familiari, cosiddetto diritto di morire, criteri di accertamento del nesso di causalità, in Riv. it. med. leg., 1996, pp. 331 ss.

68. Cass. Pen. 29 maggio 2002, in Riv. it. med. leg., 2003, 395 ss; Cass. Pen. 9 marzo 2001, in Cass. pen., 2002, 517 ss.

69. Per es., G. FERRANDO, Diritto di rifiutare le cure, amministrazione di sostegno e direttive anticipate, cit., pp. 923 ss. e G. ALPA, Il principio di autodeterminazione e il testamento biologico, cit., pp. 3 ss.

70. G. FERRANDO, Diritto di rifiutare le cure, amministrazione di sostegno e direttive anticipate, cit., p. 927.

71. Pretty c. Regno Unito, 29 aprile 2002, in Foro it., 2003, IV, pp. 57 ss.

72. Caas. Pen. 11 luglio 2001, in Riv. it. med. leg., 2003, 2041 ss.; Cass. Pen. 27 marzo 2001, in Riv. it. med. leg., 2002, 573 ss.; Cass. pen. 21 aprile 1992, in Dir. fam. per., 1993, pp. 441 ss.

73. Cass. pen. 11 luglio 2001, cit; Cass. pen. 29 maggio 2002, cit.

74. G. FERRANDO, Diritto di rifiutare le cure, amministrazione di sostegno e direttive anticipate, cit., p. 927.

75. Cass. Pen. 21 ottobre 2005, n. 38852, cit.

76. Cass. Pen. 2008, n. 11335.

77. Sul punto G. FERRANDO, Diritto di rifiutare le cure, amministrazione di sostegno e direttive anticipate, cit., p. 927, la quale ricorda come la Corte di Cassazione ritenga in linea di principio ammissibile il rifiuto alle trasfusioni, anche se nel caso di specie ritiene che il mutamento del quadro clinico nel corso dell'intervento legittimi la trasfusione operata dal medico. Vedi Cass. 23 febbraio 2007, n. 4211, in Foro it., 2007, I, pp. 1713 ss.

78. App. Trento 19 dicembre 2003, in Nuova giur. civ. comm., 2005, I, 145 pp. ss.

79. Cass. 23 febbraio 2007 n. 4211, cit.

80. G. FERRANDO, Diritto di rifiutare le cure, amministrazione di sostegno e direttive anticipate, cit., p. 928, la quale ricorda come il diritto del paziente di rifiutare la terapia fosse il principale motivo su cui si è fondata la decisione del Trib. Di Roma (23 luglio - 17 dicembre 2007) che ha assolto l'anestesista che ha spento il ventilatore a Welby. Per l'archiviazione del procedimento disciplinare nei confronti dello stesso medico, v. Commissione disciplinare dell'Ordine dei medici di Cremona, 2 febbraio 2007.

81. G. FERRANDO, Diritto di rifiutare le cure, amministrazione di sostegno e direttive anticipate, cit., p. 929.

82. Ibid. Nello stesso senso v. G. BONILINI - F. TOMMASEO, Dell'amministrazione di sostegno, cit., p. 105; E. CALO', Amministrazione di sostegno. Legge 9 gennaio 2004, n. 6, cit., 114.

83. Trib. Vibo Valentia (sez dist. Troppa) 30 novembre 2005, in Riv. it. med. Leg., 2006, pp. 11 ss.; Trib. Roma 21 dicembre 2005; Trib. Treviso 9 febbraio 2006 (i provvedimenti sono riportati in appendice a G. FERRANDO, L. LENTI (a cura di), Soggetti deboli e misure di protezione. Amministrazione di sostegno e interdizione, Torino, 2006).

84. Sul punto G. FERRANDO, Diritto di rifiutare le cure, amministrazione di sostegno e direttive anticipate, cit., p. 929, la quale ricorda che la nomina dell'amministratore di sostegno è stata compiuta al solo fine poter presentare atti ed istanze presso la pubblica amministrazione. Vedi anche Trib. Sassari 16 luglio 2007, in Foro it., 2007, I, p. 3025.

85. G. FERRANDO, Diritto di rifiutare le cure, amministrazione di sostegno e direttive anticipate, cit., p. 929.

86. Art. 35, comma 2, secondo cui "il medico deve intervenire in scienza e coscienza, nei confronti del paziente incapace, nel rispetto della dignità della persona e della qualità della vita, evitando ogni accanimento terapeutico, tenendo conto delle precedenti volontà del paziente".

87. Art 9, secondo cui "le direttive anticipate devono essere tenute in considerazione dal medico".

88. G. FERRANDO, Diritto di rifiutare le cure, amministrazione di sostegno e direttive anticipate, cit., p. 930.

89. Si ricorda il progetto di legge "Marino" (Senato della Repubblica, n. 687, presentato il 27 giugno 2006).

90. G. FERRANDO, Diritto di rifiutare le cure, amministrazione di sostegno e direttive anticipate, cit., p. 930.

91. La Corte di Cassazione, nella sentenza citata, ha formulato il principio di diritto secondo cui "in una situazione cronica di oggettiva irreversibilità del quadro clinico di perdita assoluta della coscienza può essere dato corso, come estremo gesto di rispetto dell'autonomia del malato in stato vegetativo permanente, alla richiesta proveniente dal tutore che lo rappresenta di interruzione del trattamento medico che lo tiene artificialmente in vita, allorché quella condizione caratterizzante detto stato di assenza del sentimento e di esperienza, di relazione e di conoscenza, si appalesi in mancanza di qualsivoglia prospettiva di regressione della patologia lesiva del suo modo di intendere la dignità della vita e la sofferenza della vita". In applicazione di tale principio è stato emesso il decreto n. 88 del 9 luglio 2008 della Corte di Appello di Milano che "accoglie il reclamo proposto dal sig. Beppino Englaro, quale tutore di Eluana Englaro, cui ha aderito la curatrice speciale di quest'ultima, e, per l'effetto, accoglie l'istanza - conformemente proposta da entrambi i legali rappresentanti di Eluana Englaro - di autorizzazione a disporre l'interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale di quest'ultima realizzato mediante alimentazione e idratazione con sondino naso-gastrico".

92. Nel mentre, si è venuta a creare una vera e propria fase di stallo, in quanto, nonostante l'esistenza di due provvedimenti della magistratura che autorizzavano l'interruzione delle terapie di sostegno nei confronti della giovane donna, non era stato possibile individuare una clinica che si assumesse la responsabilità di dare esecuzione al trattamento di fine vita, così come disposto dai provvedimenti giudiziari citati.

93. Il conflitto di attribuzione sorgeva, perché, ad avviso del Parlamento, il principio di diritto formulato dalla Corte di Cassazione può essere o un'interpretazione di una legge che non c'è o un precetto normativo e sul presupposto che l'articolo 70 della Costituzione vieta alla magistratura di scrivere precetti normativi.

94. Si può ricordare come il Governo Italiano abbia varato, in data 6 febbraio 2009, giorno in cui furono interrotte sia l'alimentazione che l'idratazione forzate, un decreto legge nel tentativo di impedire la sospensione delle suddette terapie salvifiche, considerando l'alimentazione e l'idratazione come misure vitali e non come cure mediche. Il Presidente della Repubblica Italiana si è però rifiutato di firmare la normativa d'urgenza, ritenendo che un tema così delicato, come la disciplina dei trattamenti di fine vita, dovesse essere discussa e varata nella sede del Parlamento.

95. Il testo dell'articolo è consultabile su Repubblica.it.

96. U. VERONESI, Il diritto di morire, La libertà del laico rispetto alla sofferenza, Mondadori, Milano, 2006.

97. Sul punto si può ricordare Trib. Reggio Emilia, 30/11/2005, consultabile su ALTALEX, il quale applica la misura dell'amministrazione di sostegno nonostante il soggetto fosse affetto da un grave disturbo psicotico e fosse sottoposto a procedimento penale, con l'accusa di aver ucciso i propri genitori. Il soggetto in questione viene ritenuto affetto da vizio totale di mente e sottoposto alla misura dell'OPG.

98. vedi Dipartimento per gli Affari di Giustizia - Direzione Generale della giustizia Civile - Ufficio n.1 - attraverso il Prot. n. m_dg.DAG. 05/02/2007.14803.U (Giustizia.it - Ministero della Giustizia).

99. S. VOCARUTO, L'amministrazione di sostegno: la dignità dell'uomo al di là dell'handicap, in Riv. not, III, 2004, p. 242.

100. Ibid.

101. Ivi, p. 243.

102. In particolare, è interessante notare, come ricordato da un recente studio condotto dalla Regione Toscana, intitolato "I servizi per l'attuazione della legge sull'amministrazione di sostegno", 2007, pp. 8-9, che nei primi anni di entrata in vigore della legge 6/2004 si registra, nonostante i dati non siano completi, un graduale e costante aumento dei ricorsi per l'istituzione dell'amministrazione di sostegno ed una contemporanea riduzione del ricorso all'interdizione. Infatti, a Milano i procedimenti aperti nel 2003 erano 399, nel 2004 si sono ridotti a 261, nel 2005 a 176 e per il 2006 (fino al 9 marzo) si contano 44 procedimenti). Quanto ai ricorsi per la nomina di amministratori di sostegno sono stati 696 nel 2004, 1169 nel 2005, 199 fino al 15 marzo del 2006. A Como le interdizioni erano 113 nel 2004 e sono scese a 48 nel 2005 e nello stesso anno si registrano 154 ricorsi per l'amministrazione di sostegno. A Genova si sono aperti complessivamente 1308 procedimenti per amministrazione di sostegno. A Bologna i ricorsi per amministrazioni di sostegno sono passati da 37 nel 2004 a 211 nel 2005. Si nota inoltre che in questa sede non si registra una corrispondente diminuzione delle interdizioni, il cui numero resta costante, e pertanto deve dedursi che il nuovo istituto ha fatto emergere situazioni in cui mancava ogni forma di tutela. A Monza i ricorsi per l'istituzione dell'amministrazione di sostegno erano 92 nel 2004, 181 nel 2005 e già 53 nei primi mesi del 2006. Anche presso i Tribunali di Cagliari, Brescia e Roma si registra una tendenziale preferenza per il ricorso all'amministrazione di sostegno. I dati provenienti dalla Regione Veneto mostrano una preferenza per l'amministrazione di sostegno, nonostante alcuni giudici propendano per un'applicazione restrittiva della legge n. 6/2004 (v. i Tribunali di Padova, Dolo e Chioggia). Più contenuta risulta l'applicazione dell'amministrazione di sostegno presso il Tribunale di Torino nel quale, tuttavia, si sono avuti 142 ricorsi nel 2004 e 233 nel 2005. Infatti, la prassi di questo Tribunale, come visto in precedenza, è di non applicare l'amministrazione di sostegno nei casi in cui non residua al soggetto nessuna capacità. Anche a Napoli risulta ridotto il numero di amministrazioni di sostegno, anche se non è chiaro se ciò dipenda da scelte interpretative dei giudici, oppure da carenze dei servizi socio-sanitari o dello stesso ufficio del giudice tutelare. Infine, per ciò che riguarda la Regione Toscana, si può osservare che a Firenze risultano attivi, per il 2005, 256 ricorsi e nel primo semestre del 2006 se ne registrano 165. I dati provenienti invece dalla Procura della Repubblica dello stesso Tribunale, non coincidenti con i precedenti citati, mostrano che nel 2004 si sarebbero avuti 166 ricorsi, nel 2005 308 ricorsi e sino al maggio del 2006 142, con una previsione per fine anno del raggiungimento di 400 ricorsi.

103. P. PERLINGERI, Gli istituti di protezione e di promozione dell'"infermo di mente". A proposito dell'handicappato psichico permanente, in Rass. dir. civ., 1985, p. 52.

104. M. CAPECCHI, Enti no profit e amministrazione di sostegno, in G. FERRANDO (a cura di), L'amministrazione di sostegno. Una nuova forma di protezione dei soggetti deboli, cit., p. 192.

105. Sulla necessità di una disciplina che regoli la materia del "compenso" dell'amministratore di sostegno: S. PATTI, Una nuova misura di protezione della persona, cit., p. 221.

106. Quanto alla tipologia di soggetti nominati, v. Regione Toscana, "I servizi per l'attuazione della legge sull'amministrazione di sostegno", 2007, p. 9. Se, infatti, dalle interviste condotte ai giudici tutelari di Firenze e Pistoia emerge come la tendenza degli stessi sia nel senso di nominare come amministratori di sostegno prevalentemente avvocati, nella convinzione che tali soggetti possano ricoprire meglio l'incarico loro affidato, soprattutto per le competenze professionali possedute, uno studio condotto dalla Regione Toscana mostra, al contrario, come la tendenza, di alcuni Tribunali italiani, sia di nominare come amministratori di sostegno direttamente i familiari. In particolare, lo studio della Regione Toscana ricorda come nel 2006, a Milano, siano stati nominati come amministratori di sostegno soggetti privati, in genere familiari (697), Comuni (110), ASL (96), Aziende ospedaliere (16), avvocati (77). A Como la scelta è caduta di regola sui familiari, ma anche su avvocati e commercialisti. A Cagliari, gli amministratori sono di regola familiari. A Bologna, l'80 per cento delle nomine ha per oggetto familiari, il 20 per cento professionisti, mentre nessuna nomina ha riguardato Comuni o ASL. A Monza sono stati nominati in genere familiari, mentre in rari casi Comuni o Professionisti. Lo studio purtroppo non fornisce, in quanto mancanti, dati sulla prassi dei giudici toscani.

107. E. RUSSO (a cura di), La protezione giuridica dell'insufficiente mentale, in Atti del Convegno su La condizione giuridica del cittadino handicappato psichico, Napoli, 1990, p. 24.