ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Cap. III
La sorveglianza particolare e la legislazione antimafia

Maria Rosaria Calderone, 2005

1. Premessa

Agli inizi degli anni '80 si potevano individuare due forme di differenziazione:

  1. un primo tipo definita orizzontale, che muta le condizioni di detenzione all'interno di un stesso circuito penitenziario, determinando un mutamento quantitativo della pena. Questo tipo di differenziazione veniva attuato attraverso il potere di trasferimento dei detenuti, che permetteva di modificare la condizione in cui si scontava la pena e l'attribuzione dei vari benefici previsti dalla legge 354/75;
  2. un altro tipo di differenziazione era definita verticale, mirava a diversificare le tecniche di gestione del detenuto, a seconda del tipo di reato per cui erano stati condannati. In questo concezione il carcere speciale costituiva il polo estremo di afflittività.

Questi tipi di diversificazione dei circuiti penitenziari, come sottolineato nel capitolo precedente, sono stati creati forzando le disposizioni dell'ordinamento penitenziario e soprattutto attingendo alla legislazione così detta d'emergenza.

Finito il periodo dell'emergenza, si è avvertita la necessità di legalizzare il sistema penitenziario esistente e di adeguarlo alle disposizioni Costituzionali e a quelle delle Convenzioni internazionali.

Le discussioni dottrinali sul regime penitenziario della massima sicurezza toccavano vari punti: il tema più discusso era l'esigenza di dare una collocazione giuridica all'assegnazione dei detenuti nelle carceri di massima sicurezza.

Una parte della dottrina (1) sosteneva che l'assegnazione dei detenuti alle carceri speciali equivaleva a infliggere una pena diversa da quelle per cui erano condannati, naturalmente più afflittiva. Proprio per questo motivo vi era l'esigenza di un dato normativo che regolamentasse l'assegnazione dei detenuti. Altra parte della dottrina (2) sosteneva che l'assegnazione si collocava in un quadro sanzionatorio analogo a quello disciplinare: anche per questi autori l'assegnazione doveva far riferimento a un dato normativo che mirasse a tipizzare le condotte sanzionabili.

Ancora, riconoscendo l'impossibilità di applicare lo stesso regime penitenziario per tutti, così come era previsto dalla riforma penitenziaria, si evidenziava l'esigenza di una tipizzazione delle condotte da sanzionare, ma c'era la necessità di cercare un giusto equilibrio tra le necessità di sicurezza e la garanzia dei diritti dei detenuti. (3)

Alla base di queste divergenze, vi era una visione diversa della strategia penitenziaria. Coloro che sostenevano che la massima sicurezza era in effetti una ulteriore pena, avevano la convinzione che la via del trattamento uguale per tutti fosse l'unica via consentita dalla riforma penitenziaria (4). Da parti diverse si sosteneva che la strategia di differenziazione del trattamento fosse l'unica possibile per arrivare alla creazione di un sistema penitenziario diverso, nuovo, anche se nel segno della legge di riforma dell'ordinamento penitenziario del 1975. Infatti - sempre secondo quest'ultimo orientamento -, la legge 354/75 tracciava le linee istituzionali di cambiamento del sistema penitenziario, che oggi con l'esperienza di questi anni richiedevano un'articolazione delle strutture dalla massima alla minima sicurezza. In tal modo era prospettabile, non solo un irrigidimento delle strutture penitenziarie (come è avvenuto nel caso delle carceri di massima sicurezza), ma soprattutto, una struttura carceraria a misura delle situazioni, che non negava a nessuno la possibilità di recupero sociale, da attuare in situazioni diversificate in relazione alle situazioni stesse (5).

2. Progetto del Comitato Europeo per i problemi criminali

Sempre agli inizi degli anni Ottanta i problema della sicurezza nelle carceri e soprattutto il problema della gestione dei soggetti particolarmente pericolosi è stato oggetto di discussione anche a livello europeo, attraverso il coinvolgimento del Comitato Europeo per i problemi criminali (6). Il Comitato parte dalla constatazione che all'interno del carcere esiste sempre un problema di sicurezza (7). Problema che si accentua, quando all'interno delle carceri vi sono detenuti ritenuti particolarmente pericolosi, o per il tipo di reato che hanno commesso o per comportamenti tenuti durante la detenzione. Il Comitato, per risolvere questo problema invita l'amministrazione penitenziaria centrale a scegliere tra due sistemi di gestione dei detenuti ritenuti particolarmente pericolosi: destinare tali detenuti ad un unico carcere; oppure creare nei vari istituti penitenziari delle sezioni di massima sicurezza dove rinchiudere i detenuti pericolosi.

Il Comitato ha espresso comunque una preferenza per la seconda ipotesi. Questo perché la concentrazione di un gran numero di individui pericolosi in un unico istituto aumenta il pericolo che questi detenuti rappresentano già di per se e può aggravare i problemi di sorveglianza, sicurezza e funzionamento del carcere, nonché gli effetti negativi della detenzione. Inoltre, rinchiudere i detenuti pericolosi in apposite carceri, può favorire la diversificazione dei regimi penitenziari negli altri istituti, ma può anche costituire un marchio per i soggetti reclusi che potrebbe rappresentare un ostacolo al loro reinserimento nella società.

La differenziazione dei detenuti pericolosi deve costituire solo una misura preventiva per tutelare la sicurezza e l'ordine degli istituiti penitenziari, non può mai essere considerata un'ulteriore sanzione. In merito a ciò, il Comitato si preoccupa, anche, di attribuire all'amministrazione penitenziaria l'onere di procedere ad una periodica verifica sulla necessità di mantenere il detenuto in un regime differenziato. Questo perché il fine ultimo di un sistema penitenziario moderno è quello di tendere al futuro reinserimento sociale del reo: un regime differenziato dove le regole del trattamento penitenziario sono affievolite, o addirittura non esistono, potrebbe annientare la personalità del detenuto, annullando le possibilità di recupero dell'individuo.

Nel rapporto sulla detenzione e il trattamento dei detenuti pericolosi, redatto a Strasburgo il 5 marzo 1982, il Comitato di esperti (8) è pervenuto alla conclusione che:

in base ai dati di esperienza generale, solo una minima parte di detenuti, il 5%, possono considerarsi pericolosi. La pericolosità deve essere valutata nel contesto in cui si manifesta, quindi mentre l'opinione generale della società potrebbe soffermarsi sul delitto commesso, diversa deve essere la valutazione del personale dei penitenziari. Questi ultimi, infatti, devono valutare la pericolosità dei detenuti, in rapporto al rischio di evasione, all'aggressività nei confronti degli altri detenuti e del personale penitenziario. Il concetto di pericolosità può essere scisso in due aspetti principali: il rischio per la società e quello per il carcere. Il comitato ristretto ha fornito delle indicazioni generali a proposito della definizione di pericolosità:

Detenuto pericoloso: un detenuto deve considerarsi pericoloso quando il suo comportamento, tenuto conto della natura del delitto di cui si è reso colpevole e del modo in cui l'ha commesso, costituisce una minaccia grave per la società e perché tutto porta a credere che il suo comportamento rischia di turbare l'ordine e la sicurezza dell'istituto penitenziario.

Pericolosità: in questi casi si esige l'incarcerazione, in condizioni di massima sicurezza, dei detenuti che, a causa della gravità dei loro delitti, o del loro comportamento con i detenuti, o per le loro evasioni o tentativi di evasione o per la propria violenza, rappresentano un notevole rischio e per gli altri detenuti e per le persone in genere.

Sempre secondo il Comitato europeo, ai detenuti pericolosi deve sempre essere assicurato il trattamento penitenziario che ricomprende: le misure necessarie per mantenere o ristabilire la salute fisica o mentale dei detenuti, inoltre, ricomprende tutte le attività destinate ad incoraggiare e a promuovere il reinserimento sociale. Quindi, l'amministrazione penitenziaria deve trovare il giusto equilibrio tra le esigenze di sicurezza e le attività di trattamento che devono, in ogni situazione, essere garantite. Il Comitato riconosce la difficoltà di applicare misure individuali, ma sottolineava che per i detenuti particolarmente pericolosi è più necessaria la predisposizione di un programma di trattamento individuale che tenga conto anche delle esigenze di sicurezza all'interno dell'istituto.

3. I progetti di legge di modificazione della legge 354/75

Agli inizi degli anni '80, sulla questione della "massima sicurezza" furono presentati al Parlamento diversi progetti di legge (9), la cui linea comune era quella di legalizzare le "carceri di massima sicurezza" e il regime penitenziario che veniva adottato.

Non si poteva più negare l'esistenza di un regime differenziato all'interno delle carceri e, soprattutto, vi era l'esigenza di una configurazione legislativa di detto sistema, che come abbiamo già evidenziato era lasciato alla completa discrezionalità dell'amministrazione penitenziaria: sia riguardo a chi sottoporvi, sia riguardo alle prescrizioni da attuarsi nel circuito di "massima sicurezza" (10).

I lavori preparatori della legge 663/86 presero in considerazione, solo due dei diversi progetti presentati: il progetto Mannuzzu e il progetto Gozzini (11).

Entrambi i progetti di legge prendevano l'avvio da un'attenta analisi del sistema di "massima sicurezza" esistente all'epoca; da una lettura delle relazioni che accompagnavano i progetti di legge si nota che entrambi giungevano ad una non accettazione della sistema vigente, che veniva definito "dominio riservato della discrezionalità del ministro" e si esortava il Parlamento a legiferare al più presto in tale materia, stabilendo le garanzie essenziali che al momento della discussione delle proposte di legge non esistevano (12). Sempre su questo aspetto la relazione del progetto di legge Mannuzzu, evidenziava che, la discrezionalità amministrativa, nella disciplina concreta del sistema della "massima sicurezza", si muoveva senza criteri sicuri e verificabili; infatti, erano oscuri i criteri di classificazione usati dall'Amministrazione penitenziaria per individuare i detenuti da sottoporre al regime della "massima sicurezza". Inoltre, le restrizioni dei diritti che dovevano applicarsi in detto regime penitenziario erano molto indeterminate e variavano di carcere in carcere. Altro problema era che nei confronti di questi provvedimenti non era previsto alcun tipo di controllo, né giurisdizionale né amministrativo.

Come conseguenza, il regime penitenziario della "massima sicurezza" era applicato con molte approssimazioni, e vi erano assoggettati anche quei detenuti per i quali una tale cautela era superflua (13).

Entrambi i progetti di legge si soffermavano, poi, sull'individuazione dei punti essenziali sui quali introdurre un'attenta regolamentazione legislativa: uno dei primi argomenti fu quello di fissare dei criteri per capire chi doveva essere sottoposto al regime della "massima sicurezza". A tale proposito, vi erano notevoli differenze fra le due proposte di legge.

Il progetto Gozzini prevedeva all'articolo 1, l'inserimento di tre nuovi articoli nella legge 354/75, concernenti la disciplina delle carceri a maggior indice di sicurezza quindi: "dopo l'articolo 14 dell'ordinamento penitenziario, riguardante l'assegnazione, il raggruppamento, le categorie di detenuti e di internati, si prevedeva di inserire l'articolo 14 bis, ter e quater" (14).

Il primo dei suddetti articoli, ovvero l'articolo 14 bis, aspirava a tipizzare i casi in cui il Ministro poteva disporre il trasferimento alle carceri di massima sicurezza: naturalmente, ciò costituiva un'evidente garanzia. Infatti, le circostanze per cui si poteva disporre il trasferimento in un carcere di massima sicurezza secondo la proposta di legge Gozzini si riferivano, soprattutto, a comportamenti riguardanti la vita interna dell'istituto penitenziario: comportamenti incompatibili con le esigenze di ordine, disciplina e sicurezza; comportamenti incompatibili con l'attuazione del trattamento rieducativo. Inoltre, si stabiliva il trasferimento in questi istituti dei soggetti che presentavano un elevato grado di pericolosità: soggetti imputati per reati commessi in carcere (evasioni, sequestro di persona, violenza istigazioni a delinquere, associazione per delinquere); soggetti che hanno subito la reiterata irrogazione delle sanzioni disciplinari di isolamento diurno e notturno e dell'esclusione dell'attività in comune; soggetti che hanno acquisito nell'ambiente carcerario una posizione di preminenza su gli altri detenuti; soggetti che conservano collegamenti con il crimine organizzato all'esterno del carcere; soggetti che esaltano la criminalità diretta a sovvertire l'ordine costituzionale.

Riguardo ai soggetti provenienti dalla libertà, l'assegnazione ad un carcere di massima sicurezza, poteva essere predisposta solo su richiesta motivata dell'autorità giudiziaria.

L'articolo 14 ter fissava ad un anno la durata del provvedimento e stabiliva che alla scadenza, il Ministro doveva riesaminare il caso su parere del consiglio di disciplina, dando comunicazione di ciò all'interessato. Era in ogni caso prevista la possibilità di proroga del provvedimento, per un periodo non superiore a sei mesi. Il provvedimento di proroga poteva essere sottoposto al controllo del Magistrato di Sorveglianza.

L'articolo 14 quater individuava nella prevenzione e nel superamento dell'incompatibilità del soggetto con le regole del trattamento, dell'ordine e della disciplina, le finalità delle carceri di massima sicurezza. Sempre lo stesso articolo stabiliva le misure di sicurezza e di controllo che si dovevano adottare all'interno delle carceri speciali: la limitazione del peculio messo a disposizione dei detenuti; il controllo sulla corrispondenza e la limitazione dei colloqui telefonici e visivi; la sospensione della partecipazione dei detenuti al controllo delle tabelle, alla preparazione del vitto, alla gestione della biblioteca, alla organizzazione della attività culturali, ricreative e sportive. Queste restrizioni erano sintomatiche di comportamenti o situazioni che potevano pregiudicare la sicurezza e l'ordine: infatti, il denaro costituisce uno strumento per ottenere posizioni di preminenza e di vantaggio su gli altri detenuti; con la limitazione dei colloqui si mirava, invece, a stroncare i collegamenti criminali fra il carcere e l'esterno; infine, con la limitazione alla partecipazione di alcune attività del carcere si voleva prevenire la commissione di eventuali attività criminose.

Le osservazioni e le perizie, che per i soggetti ritenuti particolarmente pericolosi dovevano essere svolte all'interno dell'istituto penitenziario; infatti, riguardo alle misure alternative, si proponeva la non concessione per i detenuti che si trovavano nei carceri di massima sicurezza dell'affidamento in prova ai servizi sociali e della semilibertà. (15)

L'articolo 3 e l'articolo 9 del disegno di legge Gozzini, con riferimento, sempre, alla questione delle carceri a maggior indice di sicurezza, rispettivamente abrogano l'articolo 90 e si propongono di riformulare l'articolo 41 dell'ordinamento penitenziario. Quest'ultimo articolo disciplinava l'uso della forza fisica e dei mezzi di coercizione: il progetto di legge inseriva in tale ambito, la facoltà del Ministro di sospendere l'applicazione delle regole di trattamento e dei diritti dei detenuti, quando si verificano atti di violenza, tentativi di evasione o di rivolta e nei casi in cui gli agenti sono autorizzati a portare le armi all'interno dell'istituto. La sospensione doveva riguardare solo l'istituto in questione e durava il tempo necessario a riportarvi l'ordine e la disciplina, salvo l'applicazione contestuale della disciplina prevista all'articolo 14 bis.

La seconda parte del progetto Gozzini era riservata all'ampliamento delle misure alternative.

Diversamente, il progetto di legge Mannuzzu si proponeva di introdurre all'interno dell'ordinamento penitenziario solo due nuovi articoli: dopo l'articolo 15 della legge 354/75, si prevedeva l'inserimento dell'articolo 15 bis e ter (16). Questo disegno di legge non si preoccupava di tipizzare le ipotesi in cui determinati soggetti potevano essere sottoposti al "regime di sorveglianza particolare", si limitava solo a descrive dei criteri generici che spaziavano dalla gravità del reato alla generica pericolosità del soggetto.

Una notevole differenza con il disegno di legge Gozzini era sicuramente la terminologia linguistica: il progetto Mannuzzu definiva il regime penitenziario con il termine di "regime di sorveglianza particolare", il progetto Gozzini faceva riferimento, invece, ad "istituti di massima sicurezza". Questa impostazione linguistica comporta un diverso modo di concepire la differenziazione dei detenuti. Il progetto Mannuzzu, inquadrava l'operazione di classificazione all'interno dei vari regimi detentivi di uno stesso istituto penitenziario. Il progetto Gozzini sembrava prevedere la creazione di carceri da destinare a determinati detenuti, in cui è applicato uno speciale regime detentivo specificando che tale regime di detenzione segue il detenuto anche se temporaneamente assegnato ad istituto diverso, ovvero nell'ipotesi di trasferimento temporaneo per motivi di giustizia o di salute.

Nel progetto Mannuzzu, la sottoposizione allo speciale regime detentivo aveva il termine di un anno, prorogabile più volte, per lo stesso termine, "con provvedimento motivato dell'amministrazione penitenziaria, adottato dal consiglio di disciplina" (17). Inoltre, si dava la possibilità all'amministrazione penitenziaria di disporre il provvedimento, nei casi di particolare urgenza, prima di sentire il parere del consiglio di disciplina, che doveva essere acquisito nei successivi quindici giorni.

Altra differenza con tra i due progetti di legge riguardava il controllo giurisdizionale a cui sottoporre il provvedimento che dispone la "sorveglianza particolare": il progetto Mannuzzu, prevedeva la possibilità di presentare reclamo al magistrato di sorveglianza, contro il provvedimento che disponeva o prorogava il regime di "sorveglianza particolare" nel termine di quindici giorni dalla sua comunicazione. A tale reclamo doveva applicarsi il procedimento di sorveglianza previsto dall'articolo 70 e dal capo II-bis del titolo II e poteva riguardare anche le specifiche restrizioni adottate dall'amministrazione penitenziaria. Si dava così un notevole potere decisionale, anche se successivo all'emanazione del provvedimento, al magistrato di sorveglianza che poteva valutare non solo sull'opportunità o meno del provvedimento, ma anche la necessità delle singole restrizioni.

Il progetto Mannuzzu, non si preoccupa di abolire del tutto l'articolo 90, ma lo riformava. Infatti, era previsto un termine per i provvedimenti sospensivi, prorogabile e non superiore a quindici giorni. Detti provvedimenti, emanati dal Ministro dovevano essere comunicati entro ventiquattro ore al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.

Bisogna sottolineare che un ruolo rilevante nell'elaborazione della l. 663/86 l'hanno avuto i magistrati di sorveglianza. Infatti, durante i lavori preparatori in Parlamento venne richiesta, da parte del Ministro di Grazia e Giustizia, l'audizione di un gruppo di magistrati i sorveglianza (18). La presenza dei magistrati fu molto importante, soprattutto riguardo al ruolo che doveva ricoprire la Magistratura di sorveglianza in merito alla differenziazione dei detenuti.

Il risultato ottenuto con l'emanazione della legge 663/86 dà l'impressione di essere un compromesso fra le richieste dei Magistrati e le intenzioni del Governo (19).

4. Presupposti della sorveglianza particolare

La legge 663/86 colloca la disciplina della sorveglianza particolare nel capo III dell'ordinamento penitenziario, dedicato alle "modalità di trattamento". Questo a dimostrazione che quello che si introduce con gli art. 14 bis, ter, quater è una forma di individualizzazione del trattamento basata sulla personalità del soggetto e sulla sua pericolosità. Con questa collocazione si è voluto sottolineare il suo carattere non punitivo, ma preventivo - cautelare, diretto a salvaguardare l'ordine e la sicurezza in carcere (20).

I presupposti del regime penitenziario della sorveglianza particolare vengono definiti dall'articolo 14 bis o.p. (21), al primo comma stabilisce:

possono essere sottoposti a regime di sorveglianza per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabile anche più volte in misura non superiore a tre mesi, i condannati e gli internati e gli imputati:

che con i loro comportamenti compromettono la sicurezza ovvero turbano l'ordine negli istituti;

che con la violenza o minaccia impediscono le attività degli altri detenuti o internati;

che nella vita penitenziaria si avvalgono dello stato di soggezione degli altri detenuti nei loro confronti.

Innanzitutto, si può evidenziare che tra le novità introdotte dalla novella del '86, c'è il tentativo di fissare legislativamente i presupposti oggettivi del regime penitenziario di sorveglianza particolare, ma l'elencazione dei comportamenti dei soggetti che giustificano la sottoposizione a tale regime presenta, a seconda dei punti di elencazione, un diverso grado di precisione. Quest'aspetto è particolarmente importante se si considera che, da un lato, competente ad emanare il provvedimento è l'amministrazione penitenziaria, dall'altro, è previsto un controllo giurisdizionale sulla legittimità del provvedimento, che troverà nei presupposti applicativi un primo parametro di riferimento.

Riguardo ai presupposti applicativi del regime di sorveglianza particolare si possono individuare due ipotesi:

  • quella ordinaria, prevista al primo comma dell'articolo 14 bis o.p., si riferisce alle ipotesi in cui il soggetto passi dal regime penitenziario ordinario a quello speciale permanendo nello stesso istituto;
  • quella speciale, prevista al quinto comma dell'articolo 14 bis o.p., riferita alle ipotesi in cui il soggetto provenga da un istituto diverso o dalla libertà.

I comportamenti del soggetto per giustificare il regime di sorveglianza speciale, debbono presentare una certa reiterazione in modo da escludere l'occasionalità e l'episodicità delle condotte turbative dell'ordine e della sicurezza (22). Lo stesso legislatore nell'uso del plurale, per indicare i presupposti di tale regime penitenziario, dimostra la volontà di punire non singoli episodi della condotta del soggetto, ma la loro reiterazione. I comportamenti punibili secondo l'articolo in esame, sono quelli capaci di incidere con una certa estensione sulla regolarità della vita del carcere: perché impediscono il rispetto delle regole da parte degli altri detenuti, ovvero si concretizzano in episodi di istigazione o sobillazione a violare le regole penitenziarie; oppure perché rilevano una incapacità del soggetto ad adeguarsi alla vita del carcere (23). Detta interpretazione è conforme anche alla ratio della norma, cioè disporre un regime più gravoso di detenzione per quei soggetti effettivamente pericolosi, non un regime punitivo per singoli episodi di turbativa, quest'ultimi potevano essere contenuti con il regime disciplinare previsto dall'ordinamento penitenziario.

Analizziamo adesso le singole ipotesi che giustificano la sottoposizione a questo particolare regime detentivo.

Alla lettera a) del 1º comma la fattispecie è formulata senza la descrizione dei comportamenti punibili, ma mediante la descrizione dei risultati offensivi: si parla, infatti, "di comportamenti che compromettono la sicurezza, ovvero turbano l'ordine degli istituti".

Per "ordine" si intende lo svolgimento della normale vita quotidiana dell'istituto di pena, in tutti i suoi aspetti, in conformità non solo con il regolamento penitenziario e con il regolamento di esecuzione, ma anche con il regolamento interno del carcere e con le direttive e gli ordini dell'autorità penitenziaria.

Per "sicurezza"si fa riferimento sia all'incolumità dei soggetti che vivono o lavorano all'interno del carcere, sia all'integrità degli oggetti materiali di loro pertinenza, sia all'interesse dell'effettiva esecuzione della sanzione detentiva, pregiudicato dagli episodi di evasione, ma anche da tutto ciò che possa sopprimere il carattere "segregante" del carcere (24).

Il problema interpretativo che si pone, riguardo sempre al punto a), è che il testo letterale può far pensare alla necessità che un'offesa alla sicurezza e all'ordine degli istituti si sia già consumata. Se così fosse, l'applicazione del regime di sorveglianza particolare, sarebbe tardiva, quindi perderebbe il suo carattere preventivo, e si dimostrerebbe aggiuntivo ad altri meccanismi sanzionatori penali o disciplinari (25). Secondo la dottrina (26) a ciò si può obiettare che il verbo "compromettere", riferito soprattutto alla sicurezza, consente un'interpretazione ampia, fino a comprendere comportamenti che determinano solo situazioni di pericolo per la sicurezza interna ed esterna degli istituti (27).

La condotta descritta alla lettera a), come già sottolineato, non descrive precisi comportamenti, ma si riferisce alle conseguenze di determinate condotte; secondo alcuni autori si può definire "relativamente indeterminata" (28), quindi, suscettibile di larga applicazione, ma si riconosce a questa disposizione anche "una funzione sussidiaria" (29) rispetto agli altri comportamenti descritti dal comma 1 dell'articolo 14 bis. L'indeterminatezza di questa disposizione comporta il rischio che la sorveglianza particolare venga utilizzata in aggiunta al regime disciplinare, infatti, alcune condotte integranti una infrazione disciplinare possono facilmente ricondursi anche ai comportamenti indicati dalla lettera a) dell'articolo 14 bis. Questa ipotesi contrasta con la ratio della legge 663/86, in quanto il regime della sorveglianza particolare dovrebbe essere usato come ipotesi eccezionale, ovvero quando il regime disciplinare risulti inefficace. Quanto detto sopra, avrebbe come conseguenza, un annullamento del regime disciplinare ed un eccessivo ricorso ad un regime particolare di detenzione anche solo per contenere i rischi di gestione degli istituti.

Diversamente dall'ipotesi descritta alla lettera a), i comportamenti descritti alla lettera b) dell'articolo 14 bis, sono molto più determinati: si fa riferimento all'uso della violenza o minaccia per impedire le attività degli altri detenuti o internati. La previsione ha una portata delimitata e attiene al profilo della sicurezza interna del carcere. Anche per questa previsione, come per la precedente, ciò che rileva non è la singola condotta, ma la sua reiterazione, in modo da evincere una incompatibilità del soggetto sia con l'ambiente di reclusione sia con le regole in esso vigenti (30).

L'ipotesi delineata alla lettera c), fa riferimento ai comportamenti di quei soggetti che "nella vita penitenziaria si avvalgono dello stato di soggezione degli altri detenuti nei loro confronti", si tratta di un profilo psicologico di difficile accertamento, tale inciso mira a colpire degli atteggiamenti molto diffusi nell'ambiente del carcere. Infatti, lo stato di soggezione difficilmente può essere oggetto di un accertamento diretto, ma si può ricavare dai comportamenti degli altri detenuti che subiscono tali condotte. Secondo l'interpretazione giurisprudenziale della Corte di Cassazione, per questa condizione di soggezione "il legislatore richiede l'effettiva sussistenza di tale situazione, non sono sufficienti, quindi, generiche affermazioni di pericolosità fondate sui reati di cui il detenuto è stato riconosciuto colpevole o per i quali si procede nei suoi confronti, cui si può fare riferimento per una più completa comprensione della pericolosità, ma non possono assumere rilevanza decisiva ai fini dell'adozione del regime di sorveglianza particolare" (31). A questa interpretazione si contrappongono altre decisioni giurisprudenziali della stessa Corte, condivise anche da una parte della dottrina (32) che, al contrario, introducono il concetto di "pericolosità penitenziaria" (33).

La "pericolosità penitenziaria" è un'espressione usata dalla Corte di Cassazione per definire la condotta del soggetto legato ad una valutazione di fatto dei comportamenti del soggetto che possono pregiudicare l'ordine e la sicurezza all'interno del carcere, ma che fa riferimento anche al percorso criminale del detenuto, tenendo in considerazione i reati commessi o episodi imputatigli in precedenti carcerazioni.

Secondo la giurisprudenza della Cassazione la "pericolosità penitenziaria" deve avere in ogni caso il carattere dell'attualità, infatti, solo una capacità di turbativa ed una pericolosità presente possono compromettere e turbare la sicurezza e l'ordine negli istituti ovvero impedire le ordinate attività e far avvalere lo stato di soggezione di altri detenuti. Inoltre, la pericolosità presente e attuale va distinta dalla sua esteriorizzazione, infatti, ciò che rileva ai fini del provvedimento di cui all'articolo 14 bis è una complessità di giudizio della personalità del detenuto che può far riferimento a fatti anteriori e pregressi, dovendosi valutare una certa capacità e probabilità di comportamento del soggetto.

La differenza fra le due interpretazioni della Cassazione è rilevante: il concetto di "pericolosità penitenziaria" amplia l'ambito di applicazione del regime di "sorveglianza particolare", infatti, basando il giudizio, ai fini dell'applicazione del suddetto regime, sull'indole del reato commesso e sul comportamento tenuto durante le precedenti detenzioni, si valuta soltanto l'eventualità che il soggetto ponga in essere una condotta che miri alla soggezione di altri detenuti; invece, attenendosi alla pericolosità attuale della condotta del soggetto, il reato commesso e il comportamento tenuto nelle precedenti detenzioni, costituiscono indici secondari di valutazione che servono a formulare un giudizio complessivo sulla personalità del soggetto.

Altre ipotesi che legittimano l'adozione del provvedimento del regime di sorveglianza particolare, sono quelle descritte al 5º comma dell'art. 14 bis o.p.: questa disposizione risulta molto indeterminata poiché prevede, non comportamenti relativi allo stato di detenzione, ma a condotte riferibili a precedenti carcerazioni o tenute nello stato di libertà, indipendentemente dall'imputazione (34). Tale disposizione, quindi, permette l'applicazione del particolare regime detentivo già dall'ingresso nell'istituto penitenziario.

Decisamente la formulazione di questa disposizione è fortemente imprecisa, compromettendo lo sforzo del legislatore di tipizzare le condotte dei soggetti a cui è applicabile il regime di sorveglianza particolare.

L'ipotesi dei comportamenti del soggetto riferite a precedenti detenzioni non comporta molti problemi interpretativi, sempre che le condotte che si vuole colpire siano riferibili alle ipotesi previste nel 1º comma dell'art. 14 bis (35). Secondo la dottrina (36), il 5º comma dell'art. 14 bis o.p., contiene una presunzione di pericolosità e soprattutto di non rieducabilità nei confronti di quei soggetti che nelle loro precedenti detenzioni hanno tenuto comportamenti lesivi dell'ordine della sicurezza del carcere.

Il successivo inciso, del suddetto comma, mira a colpire con la sorveglianza particolare i comportamenti tenuti dal soggetto quando si trova nello stato di libertà, "indipendentemente dalla natura dell'imputazione". Quindi, anche quelle condotte, che pur non costituendo reato, sono ritenute particolarmente significative ai fini dell'ordine e della sicurezza penitenziaria. Come si può notare l'amministrazione penitenziaria gode di un ambito discrezionale molto ampio nel decidere quali siano i comportamenti, tenuti in libertà, che possono influire sulla decisione di sottoporre il soggetto al particolare regime detentivo. Non far dipendere tale valutazione dalla natura del reato, sicuramente serve a non creare alcun collegamento tra il regime di detenzione e l'imputazione, ma l'indeterminatezza della disposizione rischia di colpire condotte o rapporti personali che solo presumibilmente costituiscono un pericolo per l'ordine e la sicurezza penitenziaria (37).

La previsione del 5º comma dell'art. 14 bis ha comportato diversi problemi, soprattutto nei confronti di quei detenuti sottoposti al un particolare regime detentivo ex art. 90 o.p. Infatti, si era diffusa una prassi amministrativa per cui, questi detenuti, ritenuti presuntivamente pericolosi, venivano sottoposti al regime di sorveglianza particolare, basandosi proprio sul loro trascorso penitenziario o su alcune condotte tenute durate lo stato di libertà. Un chiarimento su queste situazioni è stato dato dalla giurisprudenza dei Tribunali di Sorveglianza, che ha sottolineato l'esigenza che i comportamenti sanzionati con il particolare regime detentivo, debbano essere concretamente lesivi dell'ordine e della sicurezza. Quindi, l'amministrazione penitenziaria deve sempre valutare l'evoluzione della personalità del soggetto, non potendo basare la sua decisione solo su comportamenti passati del detenuto (38).

5. Procedimento di applicazione del regime di sorveglianza particolare

La competenza ad adottare il provvedimento con cui si dispone la sorveglianza particolare è attribuita all'amministrazione penitenziaria, ex articolo 14 bis comma 2, che viene identificata nel Ministro di Giustizia più precisamente nella Direzione generale degli Istituti di Prevenzione e Pena (39). È stata accantonata l'ipotesi di affidare tale decisione alla Magistratura di Sorveglianza (40), ciò in virtù di una implicita separazione di poteri, per cui spetta all'autorità amministrativa la differenziazione del regime esecutivo all'interno del carcere, mentre la magistratura di sorveglianza è competente sui provvedimenti che incidono, anche temporaneamente, sulle libertà personali dei soggetti (41). Il testo della legge non prevede espressamente un potere, attribuito al direttore del carcere, di impulso all'adozione del provvedimento di sorveglianza particolare, ma durante i lavori parlamentari non è stato escluso che sollecitazioni e proposte in tal senso possono provenire dalla direzione dell'istituto di pena o dall'autorità giudiziaria (42).

Il potere di impulso del direttore dell'istituto, all'adozione del provvedimento di "sorveglianza particolare" è confermato dal regolamento di esecuzione (43); inoltre, il direttore fa parte del consiglio di disciplina (44), a cui è demandata la formulazione del parere obbligatorio previsto dall'art. 14 bis O. P. Attribuendo al direttore la competenza ad emanare il provvedimento si verrebbe a creare una certa ambiguità del suo ruolo e della sua posizione (45).

L'adozione del provvedimento di sorveglianza particolare può avvenire con due procedimenti diversi:

  • uno ordinario in cui è necessario acquisire, prima di adottare il provvedimento, il parere del consiglio di disciplina, integrato da due esperti in discipline sociali, pedagogiche, psichiatriche e criminologiche (46), nonché dall'autorità giudiziaria procedente, per gli imputati;
  • uno abbreviato a cui è possibile ricorrere solo in caso di necessità e urgenza. Il procedimento abbreviato non può mai essere usato per prorogare il regime di sorveglianza particolare.

Il parere del Consiglio di Disciplina deve accertare e valutare sia la pericolosità soggettiva del detenuto, con riferimento ai comportamenti descritti dal 1º comma articolo 14 bis, sia l'insufficienza degli strumenti di trattamento a fronteggiare tale pericolosità. Si deve trattare di una valutazione tecnica, mirata ad accertare la necessità di sottrarre il soggetto alle ordinare regole del trattamento, poiché queste ultime si rivelano inidonee alla personalità del soggetto. Il Consiglio di Disciplina deve, inoltre, pronunciarsi sulla capacità del soggetto a sopportare il regime di sorveglianza particolare senza che la sua personalità, fisica e morale, subisca ulteriori danni.

Il parere è obbligatorio, ma non vincolante, infatti, il Ministro di Giustizia, può disattenderlo, ma è in ogni caso tenuto a dare una valutazione autonoma in merito alle esigenze organizzative, di ordine e sicurezza degli istituti penitenziari.

Nell'ipotesi in cui il provvedimento sia adottato nei confronti di un imputato, il parere deve essere richiesto all'autorità giudiziaria procedente. Se il soggetto riveste contemporaneamente lo status di imputato e di condannato, il parere dell'autorità giudiziaria procedente non è necessario. L'autorità giudiziaria dovrà pronunciarsi sulla pericolosità del soggetto, motivata dalla natura dell'imputazione, in modo da consentire al Ministro un'adeguata valutazione sulle esigenze di ordine e sicurezza (47).

I pareri non devono essere solo richiesti, ma devono essere anche acquisiti dall'amministrazione penitenziaria nel termine di dieci giorni, ex art. 14 bis 1º comma e art. 33 reg. esec. (48), pena la nullità del provvedimento.

La mancata risposta del Consiglio di Disciplina o dell'autorità giudiziaria procedente, non può essere equiparata al silenzio assenso, il vizio di forma che colpisce l'atto preparatorio si ripercuote sull'atto definitivo, sotto il profilo della insufficienza e contraddittorietà della motivazione (49).

Come già accennato, il procedimento abbreviato, può essere adottato solo nelle ipotesi di necessità ed urgenza e consente l'adozione di un provvedimento provvisorio. In questa ipotesi, è consentito all'amministrazione penitenziaria adottare subito il provvedimento, prima di acquisire i pareri richiesti dalla legge. Il provvedimento decade se entro dieci giorni dalla sua emanazione non vengono acquisiti i pareri del Consiglio di Disciplina e dell'autorità giudiziaria procedente e si provveda all'adozione del provvedimento definitivo nei successivi dieci giorni.

Tale potere attribuisce un'ampia discrezionalità all'amministrazione penitenziaria, poiché consente di sottoporre un soggetto al regime differenziato per venti giorni senza alcun tipo di controllo. Infatti, solo il provvedimento definitivo è reclamabile davanti al Tribunale di Sorveglianza, pertanto l'unico strumento di controllo, nella situazione appena descritta, si può individuare nell'intervento del magistrato di sorveglianza, limitato alle ipotesi di palese violazioni dei diritti del detenuto ex art. 69 O.P.

Anche nel procedimento speciale i pareri del Consiglio di Disciplina o dell'autorità giudiziaria procedente, devono non solo essere richiesti, ma devono essere acquisiti entro dieci giorni dall'adozione del provvedimento provvisorio. Tale termine, secondo la giurisprudenza di merito è da considerarsi perentorio (50).

Il provvedimento, dispositivo o di proroga del Ministro deve essere sempre motivato. La motivazione deve contenere i presupposti che legittimano l'adozione del provvedimento di disposizione del regime differenziato, inoltre, le restrizioni imposte devono essere strettamente necessarie a fronteggiare il mantenimento dell'ordine e della sicurezza.

L'ultimo comma dell'art. 14 bis, prevede che il provvedimento che dispone la sorveglianza particolare, deve essere comunicato al magistrato di sorveglianza "ai fini dell'esercizio del suo potere di vigilanza".

6. Il procedimento di giurisdizionalizzazione

La giurisdizionalizzazione del regime di sorveglianza particolare, ha avuto per conseguenza la previsione di un controllo, sul provvedimento dell'amministrazione penitenziaria, da parte del Tribunale di Sorveglianza. Tale controllo può essere più o meno incisivo, poiché la legge 663/86 prevede due tipi di controlli: il magistrato di sorveglianza, ai sensi dell'articolo 14 bis o.p., 6º comma, 33, 7º comma, reg. esec. (51), deve essere informato del provvedimento di disposizione al particolare regime detentivo, per poter esercitare il suo potere di vigilanza sul rispetto dei diritti dei detenuti; l'articolo 14 ter ha introdotto la procedura di reclamo del provvedimento che dispone la sorveglianza particolare davanti al Tribunale di Sorveglianza.

Il magistrato di sorveglianza, secondo l'articolo 69 o.p. e l'articolo 5 reg. esec. (52), esercita un'attività di vigilanza e di controllo sull'esecuzione della pena, quindi anche sull'operato dell'amministrazione penitenziaria. Sembrerebbe un controllo molto ampio, ma non altrettanto incisivo poiché non è attribuito al magistrato di sorveglianza alcun potere coercitivo nei confronti dell'amministrazione penitenziaria. Il solo potere a sua disposizione è quello di prospettare eventuali violazioni dei diritti dei detenuti al Ministro della Giustizia (53). Riguardo ai provvedimenti di sorveglianza particolare, si può obiettare che il Magistrato di Sorveglianza indicherebbe le eventuali violazioni allo stesso organo competente ad emanare il provvedimento. Come già sottolineato, la competenza ad emanare il provvedimento è affidata alla Direzione Amministrativa Penitenziaria, mentre il magistrato di Sorveglianza rivolge le sue osservazioni direttamente al Ministro di Giustizia.

Il potere di vigilanza del Magistrato di Sorveglianza può essere rilevante nell'eventualità in cui il soggetto non possa ricorrere al reclamo: ovvero nell'ipotesi in cui l'amministrazione penitenziaria reiteri il provvedimento provvisorio di sorveglianza particolare sulla base delle condizioni di necessità ed urgenza, oppure nell'ipotesi in cui non si provveda alla revoca quando vengono meno i presupposti (54).

Più incisivo è il controllo esercitato dal Tribunale di Sorveglianza attraverso il diritto di reclamo. L'articolo 14 ter o.p attribuisce espressamente all'interessato il diritto di proporre reclamo, "avverso il provvedimento che dispone o proroga il regime di sorveglianza particolare", nel termine di dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento definitivo. Resta privo di tutela il provvedimento provvisorio di sottoposizione al regime di sorveglianza particolare, adottabile in via di urgenza. (55)

Il procedimento di reclamo, ex articolo 14 ter - comma 4 -, è regolato secondo le disposizioni del procedimento di sorveglianza, quelle previste al capo II - bis, TITOLO II dell'ordinamento penitenziario. Tale previsione normativa ha presentato alcuni problemi interpretativi dopo l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, che ha provveduto a disciplinare autonomamente il procedimento di sorveglianza (56), ma se consideriamo la previsione dell'articolo 236 disp. coord. c.p.p. traspare l'intenzione del legislatore di applicare, al procedimento di reclamo, ex 14 ter o.p., la disciplina codicistica (57).

Questa interpretazione è stata sostenuta anche dalla Corte Costituzionale, nella sentenza 53/93, che dichiarò l'incostituzionale dell'articolo 239, comma 2, disp. coord. c.p.p. e dell'articolo 14 ter, nella parte in cui non prevedevano l'applicazione dell'articolo 666 c.p.p., rafforzando, così, le garanzie giurisdizionali del procedimento di reclamo (58). Questa sentenza della Corte Costituzionale chiarisce molti aspetti del procedimento di reclamo ex art. 14 ter. Nella sua formulazione l'articolo attribuisce la facoltà di presentare reclamo all'interessato, il quale può presentare memorie, ma non può partecipare all'udienza. La partecipazione del soggetto alla camera di consiglio è subordinata, secondo questa procedura, alla richiesta del presidente del Tribunale di Sorveglianza di sentire direttamente l'interessato (59). Riguardo proprio alla presenza dell'interessato alla camera di consiglio, la Corte Costituzionale ha ritenuto manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale dell'art. 14 ter nella parte in cui non consente "l'autodifesa dell'interessato mediante comparizione personale davanti al Tribunale" (60). Infatti, secondo la Corte, l'autodifesa è garantita dalla possibilità, data all'interessato e al suo difensore, di presentare memorie. Applicando il procedimento di sorveglianza previsto dal codice di procedura penale (61), questo problema è stato risolto, infatti, l'art. 666, 4º comma, prevede la partecipazione personale dell'interessato all'udienza, ove ne faccia richiesta. La possibilità di presentare memorie è concessa anche al Ministro, che può delegare tale atto al provveditore regionale o al direttore.

Il reclamo non sospende il provvedimento dell'amministrazione penitenziaria.

Il Tribunale di sorveglianza decide, con ordinanza motivata, entro dieci giorni dalla ricezione del reclamo (tale termine non deve considerasi perentorio). Infatti, il Tribunale decide sia sulla base del reclamo presentato dall'interessato, sia delle informazioni contenute nella cartella personale del detenuto, che viene inviata insieme alla copia del provvedimento di sorveglianza particolare, nonché sulle memorie presentate dal pubblico ministero e dalla difesa. Se le informazioni acquisite risultano insufficienti, il Tribunale potrà svolgere ulteriori accertamenti, ovvero acquisire nuovi documenti e in via eccezionale assumere altre prove, testimonianze o altre informazioni (62).

Riguardo alla decisione del Tribunale di Sorveglianza non è chiaro se possa, non solo annullare o confermare il provvedimento, ma modificare il suo contenuto.

Su tale questione si sono sviluppati due filoni di pensiero. Alcuni tribunali di sorveglianza affermano la loro competenza a modificare il provvedimento (63). La Corte di Cassazione, pur ammettendo il sindacato di merito, nega la possibilità per il Tribunale di Sorveglianza di modificare le prescrizioni imposte. Infatti, la competenza deve limitarsi alla verifica dei presupposti applicativi del regime di sorveglianza particolare e ad eventuali violazioni dei diritti essenziali del detenuto (64). La Corte Costituzionale, come vedremo nei successivi paragrafi, chiamata a giudicare la costituzionalità del regime particolare di detenzione ex art. 41 bis, 2º comma O. P., ha al contrario ammesso la sindacabilità del tribunale si sorveglianza sulle singole disposizioni del provvedimento amministrativo applicativo del regime particolare di detenzione (65).

L'ordinanza emessa dal tribunale di sorveglianza è ricorribile in Cassazione per violazione di legge, tale possibilità è attribuita esplicitamente dall'articolo 71 ter o.p. all'amministrazione penitenziaria, ma l'applicazione codicistica del procedimento di sorveglianza attribuisce tale facoltà, anche all'interessato (66).

7. Contenuti del regime di sorveglianza particolare

L'art. 14 quater o.p. fornisce delle indicazioni su come deve essere attuato il regime di sorveglianza particolare, sicuramente questo costituisce un'ulteriore garanzia per il soggetto che viene destinato a detto regime penitenziario.

Al 1º comma dell'art. 14 quater, si afferma che le restrizioni devono essere "strettamente necessarie per il mantenimento dell'ordine e della sicurezza", tale previsione costituisce un primo sbarramento alla discrezionalità dell'amministrazione penitenziaria. Le restrizioni imposte al soggetto, con il particolare regime detentivo devono essere finalizzate e motivate al mantenimento dell'ordine e della sicurezza degli istituti penitenziari. L'individuazione del fine delle singole restrizioni deve essere utilizzata dall'amministrazione per valutare quali siano i mezzi più idonei per limitare la pericolosità del soggetto, quindi attuare un'attenta individualizzazione del trattamento penitenziario (67).

Per individuare le singole restrizioni opportune per il caso concreto si deve fare riferimento al sistema disciplinare previsto dall'ordinamento penitenziario, poiché l'articolo in esame non fa esplicito riferimento alle sanzioni che possono adottarsi (68). Le infrazioni devono essere particolarmente gravi o abituali e comunque tali da non poter essere arginate dagli strumenti disciplinari.

Al 4º comma dell'art. 14 quater si stabiliscono le materie che non possono essere oggetto di restrizioni con l'adozione del provvedimento di sorveglianza particolare: vitto, l'igiene, l'assistenza sanitaria.

Si tratta di condizioni che mirano a salvaguardare la civiltà all'interno del carcere (69), la loro compressione incide sul senso di umanità che deve uniformare ogni forma di trattamento penitenziario (70).

La prima restrizione, riguarda la permanenza all'aperto dei detenuti, le così dette "ore di passeggio". L'articolo 10 o.p. (71), richiamato dall'art. 14 quater o.p., prevede la possibilità di un'eventuale restrizione, per motivi eccezionali, ma non deve essere inferiore ad un'ora giornaliera, la modalità di esecuzione, di detta attività, è lasciata alla discrezionalità organizzativa dell'amministrazione penitenziaria.

Altro diritto che deve essere garantito ai detenuti, anche se sottoposti al regime di sorveglianza particolare, è quello dei colloqui con i familiari. Le restrizioni in questo caso possono riguardare sia il numero di colloqui concessi nel corso del mese, ovvero la possibilità di usufruire di colloqui con terze persone, estranee alla famiglia o con operatori volontari che operano negli istituti.

L'articolo 37, 8º comma del reg. esc., fissa la frequenza dei colloqui nel numero di sei al mese, inoltre prevede una limitazione dei colloqui per i detenuti condannati per uno dei delitti previsti al primo periodo del primo comma dell'art. 4 bis O. P., ma nulla dice riguardo alla limitazione dei colloqui per i detenuti sottoposti al regime di "sorveglianza particolare" (72). Lo stesso articolo del regolamento stabilisce l'autorità che deve autorizzare la concessione dei colloqui: è stabilito che per gli imputati sia l'autorità giudiziaria procedente, mentre dopo la condanna in primo grado la competenza passa al direttore dell'istituto.

Sulla natura giuridica dell'attività di concessione dei colloqui si è molto dibattuto in dottrina (73), la tesi prevalente è quella di riconoscere la sua natura amministrativa. Tale asserzione è stata sostenuta anche dalla Corte di Cassazione che ha affermato la natura amministrativa dei permessi di colloquio, considerando tali permessi un interesse legittimo e non un diritto del detenuto (74). Questa concezione ha dato la possibilità alle autorità competenti alla concessione dei colloqui di restringere la loro frequenza per le persone considerate particolarmente pericolose: non essendo previsto alcun limite dal regolamento, la decisione sul numero di colloqui di cui possono usufruire i detenuti sottoposti al regime di sorveglianza particolare è lasciata all'arbitrio dell'amministrazione penitenziaria.

I colloqui con il difensore devono essere sempre garantititi per salvaguardare il rispetto del diritto di difesa ex art. 24 della Costituzione. Questi colloqui, non possono subire alcun tipo di restrizione e non sono soggetti ad alcun tipo di autorizzazione (75).

Altre restrizioni che può disporre il provvedimento di sorveglianza particolare riguardano: la ricezione di pacchi; le comunicazioni telefoniche; la lettura di periodici e riviste; la detenzione in cella di oggetti normalmente consentiti dal regolamento. Indubbiamente, anche queste restrizioni devono essere motivate con riguardo al pregiudizio che possono arrecare alla sicurezza interna dell'istituto di pena.

Le attività interne al carcere, ovvero tutte quelle attività che vengono concepite come funzionali e/o integranti il trattamento penitenziario, es: scuola, attività culturali, ricreative e sportive, sono di fatto escluse dal circuito della sorveglianza particolare. Infatti, se la ratio della legge 663/86 è quella di applicare il regime di sorveglianza particolare a quei soggetti che rifiutano ogni forma di trattamento, gli operatori penitenziari, durante l'applicazione di tale regime, dovranno limitare le loro attività soltanto ad osservare la personalità del soggetto e alla verifica della sua pericolosità.

L'esclusione dall'attività lavorativa per i soggetti sottoposti a sorveglianza particolare è espressamente prevista all'art. 20, 6º comma o.p.

7.1. Ultime considerazioni

Ultima osservazione sul regime di sorveglianza particolare riguarda la possibilità, ex art. 14 quater, riconosciuta all'amministrazione penitenziaria di trasferire il detenuto, ritenuto pericoloso, in altro in altro istituto penitenziario.

In questo caso l'amministrazione deve dimostrare che il regime di sorveglianza particolare non può essere attuato nell'istituto dove si trova ristretto il detenuto; il provvedimento deve essere motivato e deve essere attuato in modo da arrecare il minimo pregiudizio alla difesa e ai familiari. Tale provvedimento deve essere comunicato al magistrato di sorveglianza che può riferire al Ministro su eventuali casi di infondatezza dei motivi posti a base del trasferimento.

8. Gli interventi della legislazione antimafia nell'ambito penitenziario: l'articolo 4 bis O.P.

Agli inizi degli anni '90 il processo di riforma del sistema penitenziario subisce nuovamente un'interruzione a causa di alcuni interventi normativi destinati a combattere in maniera più efficace la criminalità organizzata di matrice mafiosa. Infatti, numerosi fatti di cronaca hanno provocato un allarme sociale e di conseguenza la necessità di contrastare il fenomeno mafioso. La decretazione d'urgenza degli anni '90 imprimevano un nuovo carattere alle scelte di politica penitenziaria del legislatore che si ponevano in antitesi con le riforme precedenti. Queste nuove scelte di politica penitenziaria portarono ad una nuova classificazione dei detenuti, non più basata sulla valutazione della loro personalità e delle loro reali possibilità di rieducazione, ma bensì basata sul tipo di reato commesso (76). Questi interventi legislativi sono dovuti anche alle gravi critiche mosse alla legge Gozzini, accusata di essere eccessivamente garantista e di privilegiare l'aspetto special preventivo della pena ed anche di avere sottovalutato la potenzialità criminale di determinati detenuti. (77)

Le novità apportate dalla normativa antimafia, si muovono secondo precise direttive che mirano a differenziare i detenuti a seconda della gravità del reato commesso, schematizzando:

  • si rideterminano i presupposti per usufruire dei permessi-premio, del lavoro all'esterno e delle misure alternative in funzione penalizzante per gli autori di gravi crimini;
  • vengono aumentati i limiti di pena per l'acceso ai benefici previsti dalla legge 356/75;
  • vengono esclusi dalla concessione dei benefici di cui all'ordinamento penitenziario alcune categorie di detenuti;
  • viene attribuito al governo, nella persona del ministro di giustizia, il potere di sospendere le ordinarie regole di trattamento per alcuni detenuti a cui viene attribuita una sorta di pericolosità presunta, a prescindere dalla loro condotta detentiva.

Gran parte di questi provvedimenti è frutto dell'emergenza della lotta alla criminalità mafiosa, molti dei decreti legislativi, che si susseguono nei primi anni novanta, non arrivano alla conversione in legge al parlamento, proprio a causa delle polemiche sull'asprezza dei loro contenuti (78).

8.1. Decreto legislativo 13 maggio 1991 n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991 n. 203

L'articolo 1 del d.l. 152/91, convertito nella l. 203/91 introduce l'articolo 4 bis nell'ordinamento penitenziario; con esso si prevede che per determinate categorie di detenuti l'accesso ai permessi premio, al lavoro all'esterno ed alle misure alternative alla detenzione sia condizionato all'accertamento della insussistenza di legami attuali con la criminalità organizzata o eversiva. Per coloro che si trovano in esecuzione pena per delitti riconducibili all'area della criminalità organizzata politica o comune, occorre la prova positiva dell'assenza dei collegamenti con l'organizzazione criminale di appartenenza. Per coloro condannati per gravi reati, ma non riconducibili ad alcuna forma di organizzazione criminale, era sufficiente la prova negativa della mancanza dei collegamenti con la criminalità organizzata.

La collocazione di quest'articolo al capo I dell'ordinamento penitenziario riguardante i principi direttivi del trattamento penitenziario, evidenzia la volontà del legislatore di creare una linea di confine tra detenuti "comuni" e i detenuti "per particolari delitti", ovvero quelli indicati nell'art. 4 bis (79).

I delitti previsti da questo articolo sono divisi in due fasce, a seconda del grado di pericolosità ad essi attribuito. L'inclusione nell'una o nell'altra fascia, comporta rilevanti conseguenze in sede di accertamento probatorio. Per i condannati ai delitti di cui alla prima fascia, la concessione dei benefici penitenziari è disposta quando sono acquisiti "elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva"; riguardo ai condannati ai delitti previsti nella seconda fascia, i benefici possono essere concessi" solo se non vi sono elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva". In entrambi i casi il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza deve richiedere dettagliate informazioni al Comitato Provinciale per l'ordine e la sicurezza del luogo di dimora del detenuto (80).

I condannati, per delitti commessi per finalità di terrorismo ed eversione dell'ordine costituzionale, delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis c.p. o al fine di agevolare le associazioni mafiose, delitti di associazione a delinquere di tipo mafioso, sequestro di persona a scopo di estorsione, associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, possono essere ammessi al lavoro all'esterno ai permessi premio, alle misure alternative ed alla liberazione condizionale soltanto se sono stati acquisiti elementi tali da escludere l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. La prova dell'inesistenza di tali collegamenti spetta al condannato.

Nella seconda fascia sono compresi i condannati per i delitti di omicidio volontario, rapina aggravata, estorsione aggravata, produzione e traffico illecito in quantità ingente di stupefacenti; che possono essere ammessi ai benefici solo se non sussistono elementi tali da far ritenere inesistenti i collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva. In quest'ipotesi il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza, prima di concedere i benefici è obbligato a chiedere dettagliate informazioni, sul soggetto verso cui si procede, al comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica. Il parere del comitato non vincola il giudice che può addirittura prescinderne quando il comitato non risponde entro trenta giorni dalla richiesta (81).

Un irrigidimento alla normativa del trattamento penitenziario, si ha con la previsione del 6º comma, art. 1 l. 203/91, infatti si introduce una serie di divieti temporali alla concessione dei benefici penitenziari, nei confronti dei condannati ai delitti di cui all'art. 4 bis, che hanno posto in essere una condotta punibile ex art. 345 c.p., ovvero quando nei loro confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa alla detenzione. Inoltre, per i condannati ai delitti di cui all'art. 289 bis e 630 c.p. che abbiano cagionato la morte del sequestrato, la concessione dei benefici è subordinata all'espiazione dei due terzi della pena irrogata o, nel caso di condanna all'ergastolo, di almeno ventisei anni.

Invece, il 5º comma prevede una deroga, alle limitazioni descritte, nell'ipotesi che i condannati, per uno dei delitti di cui al 1º comma dell'art. 4 bis O.P., dopo la condanna si siano adoperati per evitare conseguenze ulteriori all'attività delittuosa o abbiano aiutato concretamente l'autorità giudiziaria o l'autorità di polizia nella raccolta di elementi decisivi alle indagini.

L'art. 2 del d.l. 152/92 estende le prescrizioni descritte all'istituto della liberazione condizionale.

8.2. Decreto legge 8 giugno 1992 n. 306, converto nella legge 7 agosto 1992 n. 356

Il D. L. 8 giugno 1992 n. 306 modifica l'art. 4 bis O.P., cercando una formula di compromesso tra carcere inteso come difesa sociale e carcere inteso come mezzo di rieducazione. In questa prospettiva viene modificata anche la stessa rubrica dell'articolo: infatti, mentre prima ci si riferiva esclusivamente al "divieto di concessione di benefici per gli appartenenti alla criminalità organizzata"; adesso l'articolo è rubricato "divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti".

Il primo comma dell'art. 4 bis, viene completamente riscritto. Mentre la vecchia norma faceva riferimento all'esclusione di tutte le misure alternative previste al capo VI dell'ordinamento penitenziario, la novella esclude dal trattamento di rigore la liberazione anticipata. Infatti, si riteneva illogico che per determinati detenuti si rinunciasse alla liberazione anticipata, in quanto la prospettiva della concessione di tale beneficio serve ad assicurare che il soggetto si uniformi al trattamento penitenziario.

I tribunali di sorveglianza avevano sostenuto, sin dall'introduzione dell'art. 4 bis, che stante la natura dell'istituto della liberazione anticipata, non fosse possibile considerarla una misura alternativa alla detenzione e ritenevano possibile la sua concessione anche in assenza di una specifica indagine circa i collegamenti del condannato con la criminalità organizzata. La Corte di Cassazione era rimasta ancorata, invece, ad un'interpretazione letterale del dato normativo, ribadendo che il richiamo a quella parte della legge penitenziaria, avrebbe reso indispensabile applicare alla liberazione anticipata la stessa disciplina prevista per le misure alternative. Successivamente la Corte di Cassazione ha escluso l'applicabilità dell'articolo 4 bis nel caso della concessione del beneficio della liberazione anticipata (82). Questa tesi è stata sostenuta, in un momento successivo, anche dalla Corte Costituzionale che ha affermato che la disciplina introdotta dall'art. 4 bis O.P. contrasterebbe con l'art. 27, 2º comma Cost., se non garantisse al condannato "non collaborante", quando la sua condotta in carcere lo giustifichi, la concessione della liberazione anticipata (83).

Altra novità introdotta dalla novella del 1992 è stata la subordinazione della concessione dei benefici penitenziari - per i condannati ai delitti "di cui agli articoli 416bis e 630 c.p. ed all'articolo 74 d.p.r. 309/90, nonché i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'articolo 416 bis c.p. ovvero posti in essere per agevolare l'attività di tali associazioni (84)- alla condizione che collaborino con la giustizia a norma dell'articolo 58 ter o.p., si adoperino per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero aiutino concretamente l'autorità di polizia o giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei reati".

Nel fare riferimento alla collaborazione come condizione per l'accesso ai benefici penitenziari, si è dovuto tenere conto del fatto che non tutti i condannati sono nelle condizioni di fornire la collaborazione di cui all'articolo 58 ter o.p., quindi, per evitare trattamenti ingiusti, l'articolo 15 d.l. 306/92 ha previsto che:

"qualora tale collaborazione risulti oggettivamente irrilevante, i benefici penitenziari possono essere egualmente accordati, purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere con certezza l'attualità del collegamento con la criminalità organizzata e sia stata applicata dal detenuto una delle circostanze attenuanti di cui all'articolo 62 n. 6 c.p. ovvero le disposizioni di cui agli articoli 114 o 116 c.p."

Accanto ai condannati per i delitti menzionati, vi è un'altra categoria per la quale non è richiesta, come condizione per l'applicazione dei benefici penitenziari, né la condizione della collaborazione di cui all'articolo 58 ter, né la prova positiva dell'assenza di collegamenti con la criminalità organizzata:

"per chi si trova detenuto o internato per una condanna per delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale, ovvero a causa di una condanna per i delitti di cui agli articoli 575, 628 comma 3, 629 comma 2 c.p., 73 d.p.r. 309/90 (nell'ipotesi aggravante ex articolo 80, comma 2 d.p.r. 309/90), è sufficiente che non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva".

Mentre il D.L. 152/91 subordinava la concessione dei benefici penitenziari solo alla prova positiva dell'insussistenza dei collegamenti con l'organizzazione criminale, il D. L. 309/92 subordina la concessione alla condizione che i soggetti collaborino con la giustizia. Nel subordinare la concessione dei benefici alla collaborazione con la giustizia si è tenuto conto che non tutti i condannati possono fornire un'utile collaborazione. Quindi, per evitare ingiusti trattamenti, il decreto del '92 prevede che quando la collaborazione risulti irrilevante, i benefici possono essere concessi, purché siano acquisiti elementi da escludere con certezza l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata e sia stata riconosciuta una delle circostanze attenuanti di cui all'art. 62 n. 6, 114 e 116, 2º comma c.p. Altra novità è l'esclusione dalla preclusione dei benefici della liberazione anticipata, infatti per quest'istituto continuano a valere le regole ordinarie. Infine, si può notare una declassificazione dei reati di terrorismo ed eversione: nel del decreto del '91 questo tipo di reati era ricompreso nella prima fascia dell'art. 4 bis O. P., mentre nel decreto del '92 è compreso nella seconda fascia.

Invece come era previsto dal D. L. 306/92 la valutazione circa la sussistenza dei collegamenti con la criminalità organizzata spetta ai magistrati di sorveglianza competenti in relazione al luogo dove i condannati sono reclusi, mentre, le informazioni circa la sussistenza dei collegamenti con il crimine organizzato sono attribuite al comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione del condannato (85). Il giudice di sorveglianza è tenuto a rivolgersi al suddetto organo per ottenere un parere riguardo alla pericolosità attuale del condannato, ma se non riceve alcuna risposta entro trenta giorni, la decisione sui benefici deve essere ugualmente adottata, il termine può essere prorogato di ulteriori trenta giorni, qualora il comitato ravvisi particolari esigenze di sicurezza ovvero ritenga l'esistenza di collegamenti in ambito non locale o, addirittura, extranazionale. Dal tenore letterale del decreto sembrerebbe che il parere richiesto al comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza, non obblighi in alcun modo il giudice di sorveglianza nella sua decisione finale (86).

Da questa procedura si prescinde, a norma del comma 3 bis dell'articolo 4 bis, nell'ipotesi in cui il procuratore nazionale antimafia, ovvero quello distrettuale, renda noto al magistrato di sorveglianza l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. In questo caso il decreto sembrerebbe vincolare il giudice di sorveglianza, che non solo è obbligato a ricevere le informazioni, ma anche, stando all'interpretazione letterale dell'articolo, a non disattendere il parere del Procuratore Antimafia sulla concessione o meno dei benefici penitenziari. Questa disposizione, sembra si voglia sottrarre alla magistratura di sorveglianza qualunque libertà di apprezzamento. Dal testo dell'articolo 4 bis, si può dedurre la volontà di escludere un'autonomia di giudizio del magistrato di sorveglianza; infatti, mentre il contenuto dell'informativa del procuratore distrettuale o nazionale antimafia si limita alla comunicazione della "attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata", il comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, cui il magistrato di sorveglianza inoltra le sue richieste, deve rispondere fornendo "dettagliate informazioni".

In diverse pronunce la Corte di Cassazione ha dichiarato che le "dettagliate informazioni", cui fa riferimento il comma 2 dell'articolo 4 bis o.p., così come modificato dall'art. 15 D.L. 306/92, non devono ridursi a semplici pareri in merito all'esistenza di collegamenti tra il condannato e la criminalità organizzata, né alla pura e semplice affermazione dell'esistenza di detti collegamenti. Il comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza deve fornire al giudice di sorveglianza reali elementi di valutazione, oppure comunicare, ove non abbia acquisito tali elementi, le indagini disposte e le informazioni eventualmente assunte (87). Escludendo espressamente nell'ultimo periodo del comma 3 bis l'operatività delle procedure di cui ai commi 2 e 3 dell'articolo 4 bis o.p., non viene neanche richiamato il periodo centrale del primo capoverso che autorizza il giudice a decidere autonomamente, in assenza di una risposta dell'autorità interpellata. Ci troviamo di fronte ad una sorta di prova legale di cui la magistratura di sorveglianza è obbligata a prendere atto, senza alcun giudizio discrezionale.

La Corte di Cassazione chiamata a pronunciarsi sul merito della questione (88), chiarisce che, riconoscendo natura vincolante alla comunicazione della procura antimafia, si violerebbero alcuni fondamentali principi costituzionali (89). La magistratura di sorveglianza è riconosciuta come organo giudiziario già da tempo, quindi anche a detto organo si applica l'articolo 101 comma 2 della Costituzione: nell'esercizio delle loro funzioni anche tali magistrati non potranno incontrare altri limiti se non quelli derivati dal rispetto della legge. Inoltre, la natura giurisdizionale del procedimento di sorveglianza, di cui agli articoli 678 e 666 c.p.p., attribuisce rilievo a due fondamentali principi costituzionali: l'obbligo di motivazione ed il diritto di difesa. In base al primo principio, il giudice ai sensi dell'articolo 111, comma 1, della Costituzione dovrà esplicitare le ragioni di fatto e di diritto che lo hanno indotto ad assumere quella decisione. L'interessato inoltre dovrà vedere rispettato, anche in sede di procedimento di sorveglianza, il diritto riconosciutogli dall'articolo 24, comma 2, della Costituzione, ovvero dovrà conoscere gli elementi su cui si fonderà la decisione del giudice, potendo, anche, chiedere ed ottenere l'ammissione di nuove prove. Riconoscendo un'efficacia vincolante alla comunicazione del procuratore antimafia, si finirebbe col condizionare la decisione finale, "ad un accertamento compiuto nel caso singolo, in veste autoritativa, da un organo non giurisdizionale", sostiene la Cassazione, che ravvisa in tale interpretazione della norma una palese violazione dell'articolo 101 comma 2 della Costituzione (90).

È ancora la Corte di Cassazione, nella sentenza su citata, a fornire una lettura del comma 3 bis dell'articolo 4 bis, conforme ai principi costituzionali e al contempo rispettosa delle esigenze di prevenzione generale che costituiscono la ratio della norma. Secondo il giudice di legittimità, il legislatore ha introdotto questa norma per inibire la concessione dei benefici penitenziari ad alcune categorie di detenuti, considerati particolarmente pericolosi per la loro appartenenza ad un tessuto delinquenziale, allorché il procuratore nazionale o distrettuale antimafia fornisca la prova dei legami intrattenuti dall'interessato con la criminalità organizzata. Ciò che rileva non è il mero dato formale dell'intervenuta comunicazione dell'organo di accusa, bensì la fondatezza delle asserzioni in essa contenute, che dovranno essere valutate ed apprezzate dal giudice, anche alla luce degli elementi desunti da altre fonti, incluse quelle acquisite su istanza dell'interessato. Concludendo, la Corte di Cassazione afferma che la verifica della sussistenza delle condizioni di accesso ai benefici penitenziari è di "esclusiva ed inderogabile competenza della magistratura di sorveglianza", alla quale si deve riconoscere il potere di dissentire dalle informazioni acquisite per il tramite di altri organi. (91)

La prova richiesta per l'eventuale concessione dei benefici penitenziari, può diventare una probatio diabolica, infatti, si richiede di fornire non la prova positiva dell'esistenza di collegamenti tra l'interessato istante e la criminalità organizzata, ma piuttosto quella negativa dell'esclusione di tali legami. Per gli autori dei reati menzionati nella prima fascia del primo comma dell'articolo 4 bis, risulterà impossibile fornire la prova della cessazione dei collegamenti con il crimine organizzato, dal momento che tali legami risalgono ad anni prima o a rapporti mai effettivamente provati, in quanto supportati da semplici indizi. Inoltre l'organo, a cui è dato il compito di indagare e riferire circa i collegamenti con l'organizzazione criminale, è naturalmente portato a considerare pericoloso qualunque condannato per gravi delitti. Risulta, quindi, difficile fare una distinzione netta fra i detenuti che effettivamente mantengono legami attuali con una organizzazione dedita al crimine, e invece quelli che o non hanno mai intrattenuto tali legami; o, piuttosto, hanno commesso delitti che, per le modalità di esecuzione o per le loro conseguenze agevolatrici di una certa organizzazione criminale, vengono assoggettati al regime del 4 bis. Per questi ultimi in particolare sarà difficile prestare una qualsiasi collaborazione con la giustizia - ai sensi del 58 ter - sufficiente a dimostrare l'assenza di questi legami. La soluzione proposta dalla legge per questa categoria di detenuti è quella di ricorrere alle forme di collaborazione con la giustizia o comunque dimostrare l'impossibilità o la non necessità della collaborazione.

Gli interventi legislativi degli anni '91-'92, introducendo severe restrizioni all'applicazione della legge penitenziaria per numerose categorie di detenuti, hanno portato ad una giustizia diseguale e speciale (92). Naturalmente l'esenzione dai benefici penitenziari o la subordinazione della loro concessione ad una attività collaborativa, vanificava ogni tentativo di partecipazione alle attività trattamentali per una buona parte della popolazione detenuta, soprattutto per coloro che avevano commesso i crimini più gravi. "È vero che una parte dei condannati per i reati più gravi, particolarmente coloro che erano legati alla criminalità organizzata, avevano fruito e fruito malamente dei benefici penitenziari" - come sostenuto anche dagli stessi magistrati di sorveglianza (93)- ma questa non era una buona ragione per escluderli completamente dai benefici penitenziari, poiché così facendo si ignorava la varietà delle fattispecie penali. Sempre secondo lo stesso orientamento, provocare ad ogni costo l'attività collaborativa, potrebbe costituire anche un efficace strumento alla lotta al crimine organizzato, ma per ottenere ciò è sufficiente stabilire un adeguato regime premiale: non è comprensibile la scelta di porre la collaborazione con la giustizia come condizione per la concessione dei benefici. Così facendo, una larga fascia di detenuti, trovandosi in galera ormai da anni e non avendo a suo tempo prestato una collaborazione nel processo, venivano esclusi dall'attività di trattamento prevista dall'ordinamento penitenziario.

Nell'aprile '93, un nuovo decreto legge, cercava di rendere più dura la disciplina dei precedenti provvedimenti. In esso si attribuiva la competenza a decidere sui benefici penitenziari non agli uffici di sorveglianza del luogo ove gli interessati erano detenuti (94), ma a quello del luogo in cui erano stati condannati. Era, ancora una volta, il modo per rendere più rigide le decisione degli uffici di sorveglianza in materia di concessione dei benefici, eliminando il rapporto diretto che si suppone debba sussistere fra detti uffici giudiziari e gli interessati. In ogni caso tale decreto non venne mai convertito in legge.

Ancora, nel 2001 due leggi, 4/2001 e 92/2001, ampliano il gruppo di soggetti a cui può essere applicata l'esclusione dai benefici ex art. 4 bis. Infatti, vengono inseriti nella prima fascia del 1º comma i detenuti condannati per il reato di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri ex art. 291 quater D.P.R. n. 43 del 1973; inoltre vengono inclusi nella seconda fascia del 1º comma i detenuti ed internati per il reato di contrabbando aggravato ai sensi dell'art. 291 ter D.P.R. 43/73 e per il reato di associazione a delinquere ex art. 416 c.p. realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dal libro II, titolo XII, capo III, sez. I e dagli art. 609 bis, quater, quinquies e octies c.p.

Concludendo, mi sembra opportuno delineare alcuni problemi interpretativi sollevati dall'art. 4 bis O. P. Innanzitutto, un questione dibattuta è stata l'applicabilità dell'esclusione dei benefici penitenziari nell'ipotesi di condanna per tentativo di uno dei reati previsti nella prima fascia del primo comma dell'art. 4 bis, O. P. L'orientamento espresso dalla Corte di Cassazione è stato quello di un'interpretazione restrittiva delle ipotesi delittuose previste dall'art. 4 bis: la Corte ha affermato che costituendo il delitto tentato una fattispecie autonoma di reato, ai condannati per tale delitto non può applicarsi l'esclusione dai benefici penitenziari (95). In una più recente pronuncia la Corte ha riconfermato l'esclusione del delitto tentato dall'elenco delle fattispecie incriminatrici che comportano l'esclusione dai benefici penitenziari, ma ha affermato che nell'ipotesi dei delitti tentati "commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis c. p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste", il divieto di concessione dei benefici deve essere applicato, poiché per queste fattispecie criminose ciò che rileva è rispettivamente la modalità di esecuzione del reato e lo scopo di agevolare l'associazione criminale (96).

Altri problemi interpretativi sono stati posti in merito all'ipotesi del cumulo materiale di pene concorrenti inflitte per una pluralità di reati, in questi casi occorre individuare la disciplina da applicare al reato ostativo. In dottrina (97) l'orientamento adottato è stato di attribuire la pena espiata, al fine della valutazione della concessione dei benefici, al reato ostativo, in pratica il reato che comporta maggiori restrizioni per il soggetto viene considerato come il primo da scontare. La Corte di Cassazione dopo un primo orientamento che propendeva per l'inscindibilità del cumulo, ha cambiato indirizzo alla luce, anche, della sentenza 361/94 della Corte Costituzionale che affermava la possibilità di scindere il cumulo quando si era in presenza di diversi istituti che, per la loro applicazione, richiedono la separata considerazione dei titoli di condanna e delle relative pene. Alla luce di questa pronuncia l'orientamento della Corte di Cassazione è stato quello di considerare il cumulo di pene un beneficio per il condannato e in quanto tale se dovesse tradursi in un danno per il soggetto è consentito scioglierlo e prendere in considerazione le singole condanne. Naturalmente, secondo il principio del favor rei, vanno considerate come scontate per prime le condanne che ostano alla concessione dei benefici penitenziari (98).

Un'interpretazione, simile a quella sopra descritta, è stata data dalla Corte di Cassazione nell'ipotesi di cumulo giuridico di pene per il reato continuato. Anche in questo caso, avvalendosi della pronuncia della Corte Costituzionale (99), la Cassazione ha affermato: "la scindibilità del cumulo giuridico delle pene irrogate per il reato continuato al fine della fruizione dei benefici penitenziari, in riferimento ai reati che non ostano tale concessione e sempre che il condannato abbia espiato la pena relativa ai delitti ostativi" (100). La competenza ad operare la scissione, del cumulo delle pene in esecuzione secondo l'interpretazione della Cassazione, spetta al magistrato di sorveglianza.

8.3. La giurisprudenza costituzionale

La Corte costituzionale si è pronunciata più volte sull'art. 4 bis O.P. cercando di mediare le restrizioni di quest'articolo con la funzione rieducativa della pena ex art. 27 Cost.

Un'importante sentenza è la n. 306 del 1993, in cui oltre a dichiarare l'incostituzionalità dell'art. 15 d.l. 8 giugno 1992 n. 306, convertito in legge 7 agosto 1992 n. 356, nella parte in cui prevede che la revoca della misura alternativa alla detenzione sia disposta per i condannati di cui al 1º comma dell'art 4 bis O.P. che non collaborano a norma dell'art. 58 ter, anche non quando sia sta accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Chiarisce il rapporto che deve esserci tra collaborazione e finalità rieducativa della pena.

Bisogna sottolineare che tale sentenza della Corte era stata sollecitata con numerose ordinanze di remissione su molti punti del d.l. 306/92, ma la Corte ha ritenuto fondato solo il contrasto dell'art. 15 con l'art. 25 Cost., ove è sancito il principio di irretroattività della legge penale meno favorevole al reo.

Infatti, la Corte con riguardo al questione della revoca di una misura alternativa concessa, se non viene prestata la collaborazione, afferma che la concessione del suddetto beneficio crea l'aspettativa nel soggetto a veder riconosciuto l'esito positivo della risocializzazione, inoltre, alla base della concessione della misura sta il riconoscimento giudiziale che la pericolosità sociale del reo è diminuita in modo da consentire un parziale acquisto della libertà personale.

In più sentenze la Corte ha stabilito che l'effetto della revoca di un beneficio penitenziario deve essere proporzionato alla gravità oggettiva e soggettiva del comportamento che ha portato alla revoca (101). La revoca della misura alternativa, così come concepita dall'art. 15 d.l. 306/92, si caratterizza per l'assenza di motivi di infrazione da parte del soggetto e la mancata collaborazione deve far presumere l'esistenza di collegamenti con il crimine organizzato, soprattutto quando detti collegamenti sono stati esclusi dalle informazioni fornite dalle autorità di polizia. Quindi, la mancata collaborazione non può essere assunta come indice di pericolosità del soggetto, mentre le informazioni che attestano l'attualità dei collegamenti con il crimine organizzato possono "ragionevolmente" autorizzare la revoca, in quanto può essere imputabile al soggetto "una effettiva carenza del processo di risocializzazione".

Questa decisione della Corte è stata più volte ribadita in altre pronunce, portando anche alla declaratoria di incostituzionalità dell'art. 4 bis O.P., riguardo ai detenuti che abbiano raggiunto, prima dell'entrata in vigore del d.l. 306/92, un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto e per i quali non sia accertata la sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata (102).

Inoltre, la corte Costituzionale ha sancito che l'at. 4 bis O.P., va interpretato in conformità al principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., ovvero possono essere concessi i benefici penitenziari ai condannati quando essi abbiano espiato per intero il reato ostativo e stiano espiando reati meno gravi che non ostano alla concessione dei benefici. (103)

Riguardo invece ai dubbi di costituzionalità sollevati in merito al contrasto con la finalità rieducativa della pena, ex art. 27 3º comma Cost. e con il principio di uguaglianza, ex art. 3 Cost., i giudici rimettenti sottolineavano come la stessa Corte Costituzionale, in diverse pronunce (104) avesse ribadito che dal disposto costituzionale sorge il diritto del condannato a che venga verificato, con valide garanzie giurisdizionali, se la quantità di pena espiata abbia assolto il fine rieducativo. A questo proposito i giudici rimettenti osservano che la mancanza della "collaborazione con la giustizia" rende irrilevante il percorso rieducativo compiuto dal soggetto interessato, quindi non ha più alcuna rilevanza la valutazione relativa al fatto che la pena espiata abbia almeno assolto il suo fine rieducativo. I giudici rimettenti facevano, in particolare, osservare che la collaborazione è prestata di solito prima della condanna, durante il processo ed è condizionata dall'andamento delle indagini e del processo stesso, mentre la rieducazione consiste "in un percorso di rivisitazione dei propri valori, delle proprie condizioni di vita che scaturisce nella creazione di valori e condizioni che favoriscono un corretto reinserimento sociale".

I giudici remittenti facevano, inoltre, notare che vi sono situazioni in cui la collaborazione risulta impossibili, ovvero quando la ricostruzione dei fatti abbia già portato al completo chiarimento delle responsabilità e alla rimozione delle loro conseguenze; oppure quando la partecipazione al delitto del soggetto è minima e non gli permette di conoscere fatti e condotte degli altri partecipanti; ancora quando l'ingresso del soggetto nel processo è successivo, e le sue conoscenze non hanno più rilevanza. La censura era, quindi, fondata sul fatto che la norma non distingue, tra chi sceglie di non assumere un atteggiamento di collaborazione e chi, invece, non può collaborare. Per valutare se il soggetto può prestare meno la sua collaborazione si dovrebbe procedere ad un esame nel merito delle questioni che consenta di determinare l'effettiva pericolosità dei soggetti.

La Corte ha dichiarato non fondate le censure di incostituzionalità riferite all'art. 27 2º comma Cost.

La Corte ha ricordato che tra le finalità che la Costituzione assegna alla pena, da un lato quelle di prevenzione generale e difesa sociale dall'altro quelle di prevenzione speciale e di rieducazione, non si può stabilire a priori una gerarchia che valga in ogni condizione (105). Il legislatore può di volta in volta far prevalere l'una o l'atra finalità della pena a patto che nessuna delle due risulti annullata.

Il D. L. 306/90 è frutto di scelta di politica criminale che si muovono in diverse direzioni:

La prima scelta consiste nell'elencazione di una serie di fattispecie delittuose che sono espressione del fenomeno della criminalità organizzata, ai condannati per tali reati non sono concedibili i benefici penitenziari con l'esclusione della liberazione anticipata. La scelta del legislatore a causa del grave allarme sociale creatosi, ha ritenuto doveroso privilegiare la finalità di prevenzione generale e quella di tutela della sicurezza collettiva.

La seconda scelta è stata quella di limitare la concessione dei benefici penitenziari ai detenuti che collaborano con la giustizia. Questa differenziazione è espressione non di una politica penitenziaria, ma piuttosto una scelta di politica criminale. In quanto la collaborazione è considerato uno dei metodi più efficaci per contrastare il crimine organizzato.

In riferimento alla scelta della collaborazione si deve sottolineare che dall'impostazione del decreto legislativo si poteva presumere la volontà del legislatore di considerare pericoloso chiunque non presti la collaborazione. La legge di conversione ha mitigato questa concezione, prevedendo la possibilità della concessione della liberazione anticipata a coloro che non collaborano, ma che hanno mantenuto in carcere un comportamento incensurabile.

Quindi, la finalità rieducativa rimane compressa per le misure alternative extramurarie, e il principio rieducativo risulterebbe violato solo nei casi di collaborazione impossibile. La Corte ha assimilato per identità di ratio i casi in cui la collaborazione risulta impossibile ai casi di collaborazione irrilevante previsti dalla legge di conversione del decreto legislativo. In questi casi, ovvero quando la partecipazione del soggetto al fatto criminoso risulta secondaria o la sentenza ha accertato le responsabilità, per la concessione dei benefici il magistrato di sorveglianza dovrà accertasi dell'assenza di legami con il crimine organizzato, inoltre, che in sentenza ci sia il riconoscimento di una delle circostanze attenuanti ex art. 62 n. 6 c.p., o le diminuzioni di pena di cui agli art. 114 e 116 c. p., ovvero che dopo l'accertamento giudiziale si sia provveduto al risarcimento del danno.

Sempre sul punto della collaborazione impossibile la Corte Costituzionale si pronunciò con la sentenza n. 357 del 1994. In questa sentenza la Corte ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4 bis O.P., 1º comma, secondo periodo, in contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte in cui non prevedeva che i benefici penitenziari potevano essere concessi, quando la limitata partecipazione al fatto criminoso, come accertata nella sentenza di condanna, rendeva impossibile un'utile collaborazione con la giustizia, sempre che siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata. La Corte motivava la decisione affermando che la volontà del legislatore, nel subordinare la concedibilità dei benefici penitenziari alla collaborazione, risiedeva nella convinzione che per i soggetti facenti parte di un'organizzazione criminale, potevano dimostrare la loro volontà di risocializzarsi, e quindi il distacco dall'organizzazione criminale, solo attraverso la collaborazione con la giustizia.

A proposito, il d.l. 306/92, prevedeva che la prova dell'inesistenza di collegamenti con il crimine organizzato poteva essere raggiunta se l'interessato prestava la collaborazione, ex art. 58 ter. In quanto la collaborazione viene concepita come prova dell'inesistenza di tali collegamenti, essa può valere, ai fini della concessione dei benefici penitenziari, anche se oggettivamente irrilevante a causa della marginale partecipazione (106) al crimine o in altri indici legali (107). Secondo la Corte gli indici per definire la marginale partecipazione al fatto criminoso del soggetto sono "fattispecie normativamente ristrette", quindi la valutazione circa l'irrilevanza della collaborazione deve essere effettuata anche fuori da questi parametri legali, facendo riferimento all'accertamento della responsabilità definita con la sentenza di condanna.

Questo orientamento della Corte Costituzionale è confermato in altra sentenza n. 68/1995, in cui viene dichiarata, anche, "l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, 1º comma, d.l. 152/91, convertito nella l. 203/91, nella parte in cui non prevede che i condannati per i delitti indicati al 1º comma dell'art. 4 bis O.P, possano essere ammessi alla liberazione condizionale anche nel caso in cui l'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile renda impossibile un'utile collaborazione con la giustizia, previ accertamento dei collegamenti con il crimine organizzato". In una sentenza precedente (108) la Corte aveva affermato che le restrizioni imposte all'art. 15 1º comma d.l.306/92 sono applicabili anche alla liberazione condizionale, in virtù del rinvio formale all'art. 4 bis O.P. contenuto nell'art. 2, 1º comma l. 203/91.

Altra censura ha riguardato il contrasto con il diritto di difesa, ex at 24 2º comma Cost., in quanto la normativa in esame condizionando il diritto del soggetto, al riesame degli effetti rieducativi prodotti dall'esecuzione della pena, alla collaborazione, vincola il soggetto ad una determinata linea difensiva, negandogli la possibilità di scelta. La Corte ha dichiarato tale questione inammissibile, poiché, per costante giurisprudenza della stessa Corte, il diritto di difesa opera nei limiti della norma sostanziale che disciplina il diritto fatto valere, quindi se la norma pone limiti o condizioni il diritto di difesa deve praticarsi in quest'ambito.

Altri dubbi di costituzionalità dell'art. 15 d.l. 306/92 riguardavano la subordinazione della revoca della misura alternativa in seguito alle comunicazioni dell'autorità di polizia che i soggetti "non si trovano nelle condizioni per l'applicazione dell'art. 58 ter". In merito si rilevava la violazione oltre con l'art. 25 Cost., ma anche con gli art. 101, 109 e 111 Cost, in quanto la discrezionalità dell'autorità di polizia subordinerebbe la motivazione della revoca solo alle informazioni dalla stessa autorità inviate, quindi si verificherebbe un rovesciamento del rapporto tra organo giudiziario decidente, soggetto solo alla legge, e organo informativo di polizia.

Su quest'ultima questione la Corte ha ritenuto la questione di incostituzionalità infondata, poiché la disposizione del decreto stabilisce solo un obbligo di comunicazione dell'autorità di polizia della non collaborazione del soggetto e ciò non ostacola la discrezionalità della magistratura di sorveglianza sulla revoca della misura alternativa. Ha, quindi, stabilito che il magistrato di sorveglianza non è vincolato alle informazioni dell'autorità di polizia.

8.4. Le novità introdotte dalla legge 279/2002

L'articolo 1 della legge 279/2002, intervenendo sulla disciplina contenuta nell'articolo 4 bis O.P., da un lato adegua le fattispecie criminose alle nuove esigenze di politica criminale, dall'altro introduce le numerose indicazioni emerse in alcune pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione. Tale legge si rivolge ai detenuti condannati per "delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell'ordinamento democratico, mediante il compimento di atti di violenza; delitti di cui all'art 416 bis c.p. delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal suddetto articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste; nel caso di detenuti condannati per i delitti previsti agli articoli 600,601, 602 e 630 del codice penale, all'articolo 291 quater del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 23/1/1973 n. 43, e all'articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti". (109) Per questo tipo di delitti, la novella del 2002 subordina l'accesso ai benefici penitenziari alla presenza di un'utile collaborazione con la giustizia a norma dell'articolo 58 ter e all'accertamento di "elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva". La prima novità introdotta da questa legge è rappresentata indubbiamente dal richiamo alla normativa speciale per i collaboratori di giustizia (110). Inoltre, sono introdotti nel primo periodo dell'articolo 4 bis o.p. anche i delitti di terrorismo, nazionale e internazionale, e di eversione dell'ordine democratico commessi con atti di violenza, nonché i reati di "riduzione in schiavitù" (111), di "tratta e commercio di schiavi" (112) e di "alienazione e acquisto di schiavi". (113)

L'introduzione di queste nuove fattispecie di reato, dimostra ancora una volta, come la legislazione si adegua alla sensibilità dell'opinione pubblica. Infatti, i reati di terrorismo ed eversione erano originariamente ricompresi nelle ipotesi di esenzione dai benefici penitenziari, ma una volta cessato l'allarme della lotta al terrorismo tali ipotesi delittuose vengono sentite come meno pericolose dall'opinione pubblica e di conseguenza anche dal legislatore.

Negli ultimi anni possiamo affermare che la lotta al terrorismo è diventato uno degli obbiettivi principali dei moderni regimi democratici occidentali, quindi secondo il legislatore a coloro che commettono questo tipo di reati va applicata la disciplina più rigida a disposizione nell'ordinamento giuridico.

L'obiettivo evidente dei legislatori che si sono avvicendati è stato, e rimane, quello di riuscire a dotarsi, di fronte al giudizio dell'opinione pubblica, di un'immagine di istituzione impegnata nella lotta dei fenomeni criminali che destano particolare allarme sociale.

Altro profilo su cui interviene la legge 279/2002 è quello relativo alla cosiddetta "collaborazione irrilevante", con la quale si cerca di definire in quali casi la presenza di collegamenti con l'organizzazione di appartenenza - non solo l'associazione di tipo mafioso ma anche quella di natura terroristico eversiva - possa comunque portare alla concessione dei benefici, prescindendo dal requisito della collaborazione utile ai sensi dell'articolo 58 ter dell'ordinamento penitenziario. Nella formula originaria dell'articolo 4 bis o.p., l'ambito di operatività di tale previsione era circoscritto ai casi in cui l'interessato avesse rivestito un ruolo marginale nel contesto dell'organizzazione criminale o si fosse in presenza di indici obbiettivi che escludevano qualsiasi collegamento con l'organizzazione. E' proprio l'aspetto della marginalità del ruolo che nel vecchio regime non veniva chiarito e che la nuova legge, invece, ha il merito di descrivere dettagliatamente, specificando i casi in cui si è in presenza di una collaborazione impossibile o oggettivamente irrilevante:

"caso di una limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile, rendendo comunque impossibile un'utile collaborazione con la giustizia [...]"

La sistemazione di questa previsione normativa all'interno dell'ordinamento penitenziario evidenzia lo scopo del legislatore: in primo luogo l'assoggettamento di coloro che si trovano in espiazione pena per particolari delitti ad un regime speciale, in quanto non governato dai principi della flessibilità della pena e del trattamento rieducativo; in aggiunta a questo, un eventuale inasprimento della loro detenzione nell'ipotesi di emanazione, verso gli stessi, del provvedimento ministeriale ex comma 2 art. 41 bis.

D'altra parte, si è voluto affiancare a tale espiazione rigida della pena la prospettiva di un recupero delle regole ordinarie, condizionato dal venir meno dei rapporti tra il detenuto e la criminalità organizzata, attraverso la sua collaborazione con la giustizia.

Durante l'iter parlamentare che ha preceduto il varo della legge n. 279/2002, nel corso della discussione svolta in sede di commissione, è stato affermato che l'opzione della definitività dell'istituto regolato nell'articolo 41-bis, commi 2 e 2-bis avrebbe prodotto "l'incentivazione di possibili collaborazioni con la giustizia proprio da parte di chi a quel regime sarebbe destinato, permanendo i suoi collegamenti con la criminalità organizzata" (114).

Molte sono le perplessità manifestate dalla giurisprudenza e dalla dottrina riguardo ad una disciplina così congegnata; infatti, un'offerta trattamentale riservata a coloro che collaborano, detenuti per i quali il legislatore impone una presunzione quasi assoluta di pericolosità, introduce un elemento dissonante che mal si concilia con la finalità rieducativa della pena (115).

Nonostante le modifiche introdotte, nella sentenza n. 135 del 2003, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi ancora una volta sulla costituzionalità della subordinazione della concessione della liberazione condizionale alla sussistenza della collaborazione ex art. 58 ter. La questione è stata dichiarata non fondata poiché la scelta del legislatore è stata quella di assumere la collaborazione come criterio legale di valutazione che deve necessariamente concorrere ai fini dell'accertamento del sicuro ravvedimento del condannato.

9. Due classi di detenuti

Come abbiamo avuto modo di osservare le modifiche introdotte dalla l. 279/2002, sono minime e si è cercato solo di uniformare la disciplina dell'art. 4 bis o.p. alle numerose sentenze della Corte Costituzionale. Con questa legge si ha, invece, la conferma della volontà del legislatore di istaurare un doppio regime penitenziario, che non si limita solo alla preclusione delle misure alternative alla detenzione per i soggetti ritenuti particolarmente pericolosi, ma si riflette anche nella gestione interna del carcere.

Il quadro sintetico che è prospettato dalla legge 279/2002 è il seguente:

I condannati per i reati elencati al primo periodo dell'art. 4 bis o.p., ovvero i reati commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, eversione dell'ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, delitti di cui all'art. 416 bis c. p., delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, delitti di cui agli art. 600, 601, 602, e 630 c. p., art. 291 quater del testo unico in materia doganale D. P. R. n. 437/73 e all'art. 74 D.P.R. 309/90, se voglio usufruire dei benefici penitenziari, escluso sempre la liberazione anticipata, devono collaborare con la giustizia a norma dell'art. 58 ter o.p. Non è soggetto a questa disciplina l'affidamento in prova al servizio sociale previsto dall'art. 94 D.P.R. 309/90, in quanto quest'istituto non è contemplato nell'elenco delle misure alternative contenuto nell'art. 4 bis O. P., quindi dal tenore letterale della norma, si deduce che questo beneficio non può essere escluso per i detenuti condannati per uno dei reati di cui all'art. 4 bis O.P. (116).

Agli stessi soggetti su menzionati, nell'ipotesi in cui gli elementi acquisiti escludono l'attualità di collegamenti con il crimine organizzato, ovvero nella sentenza, divenuta definitiva, di condanna è stato accertato la limitata partecipazione al fatto criminoso, ovvero nella stessa sentenza vi è stato l'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, oppure nei confronti dei condannati è stata applicata una delle circostanze attenuanti previste all'art. 62 n. 6 c.p., anche quando il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall'art. 114 e 116 c.p.

In questi casi per l'applicazione dei benefici occorrono due condizioni: la dichiarazione che la collaborazione con la giustizia che potrà risultare oggettivamente irrilevante; e l'acquisizione di informazioni che escludono l'attualità dei collegamenti con il crimine organizzato.

Nell'ipotesi di condannati per i reati previsti agli articoli elencati nel secondo periodo, del 1º comma dell'art. 4 bis o.p., l'unica condizione posta per l'accesso ai benefici penitenziari è la mancanza di elementi che fanno presumere l'attualità dei collegamenti con il crimine organizzato

Un'altra categoria, comprende i condannati per delitti dolosi, per i quali il Procuratore nazionale antimafia o il Procuratore distrettuale, comunichi di sua iniziativa o tramite segnalazione del Comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica, l'attualità dei collegamenti con il crimine organizzato.

Questo è il quadro prospettato dall'art. 4 bis o.p. per quel che riguarda il trattamento penitenziario extramurario, nei prossimi paragrafi cercheremo di capire come quest'articolo ha influito nella differenziazione del trattamento all'interno del carcere.

10. I circuiti penitenziari

Come già detto l'amministrazione penitenziaria ha sempre cercato di differenziare gli istituti e i detenuti (117). Ad iniziare dagli anni '90 si è adottato il metodo della classificazione delle strutture penitenziarie in "circuiti penitenziari", in base al livello di sicurezza richiesto. Proprio in questi anni, l'amministrazione penitenziaria si pone il problema di distinguere dalla massa dei detenuti coloro "che richiedono particolari o addirittura eccezionali cautele, ossia attenzioni custodiali" (118).

Nel 1991 il direttore generale Niccolo Amato inviava un messaggio (119) in cui invitava tutte le carceri "per una nuova amministrazione", a conformarsi ai tre livelli di istituti penitenziari:

Istituti penitenziari a normale livello di sicurezza, destinati ai detenuti e agli internati non pericolosi o con pericolosità ridotta;

Istituti a particolare livello di sicurezza, destinati ai detenuti e agli internati ritenuti pericolosi;

Istituti ad alto livello di sicurezza, destinati ai detenuti e agli internati ritenuti molto pericolosi.

Con una successiva circolare n. 3359/5809 del 21 aprile 1993 - titolata "Regime penitenziario. Impiego del personale di polizia penitenziaria. Gestione decentrata democratica e partecipata dell'amministrazione penitenziaria"- per la prima volta venne introdotta la nozione di "circuiti penitenziari", distinguendo tra:

Circuito penitenziario di primo livello, alta sicurezza, destinato ai detenuti più pericolosi;

Circuito penitenziario di secondo livello, media sicurezza, destinato alla maggior parte dei detenuti, che non presentano particolari indici di pericolosità;

Circuito penitenziario di terzo livello, custodia attenuata, destinato ai detenuti tossicodipendenti non particolarmente pericolosi.

Prima di fare un'attenta analisi sul circuito di alta sicurezza, facciamo un breve accenno agli altri due circuiti penitenziari.

Il circuito di media sicurezza, secondo quanto disposto dalla suddetta circolare, presuppone un giusto equilibrio fra le esigenze di sicurezza e le esigenze trattamentali. Infatti, pur garantendo la sicurezza l'ordine e la disciplina, si devono progettare, incentivare e realizzare le attività scolastiche, le attività professionali, lavorative, culturali, religiose, sportive e ricreative. A tali scopi la circolare raccomanda di incentivare e sviluppare i rapporti con le regioni e gli enti locali e con tutti i settori istituzionali e locali, incoraggiando e favorendo l'ingresso e il contributo della comunità esterna e del volontariato.

Il circuito di custodia attenuata è destinato ai detenuti tossicodipendenti non particolarmente pericolosi, ossia più recuperabili. Per i detenuti tossicodipendenti il Testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti (120) prevede che la pena detentiva inflitta venga scontata in "Istituti idonei per lo svolgimento di programmi terapeutici e socio-riabilitativi". Nel 1991, alcuni carceri vennero trasformati in Istituti a Custodia Attenuata per il Trattamento della Tossicodipendenza.

Questo tipo di penitenziario dovrebbe offrire al tossicodipendente detenuto la possibilità non solo rieducativa, ma anche di cura, attraverso l'assistenza di un'equipe di professionisti con i quali elaborare un serio progetto di reinserimento sociale e rieducativo. Come si può capire, in questo circuito penitenziario è l'attività di trattamento a prevalere, rispetto alle esigenze di ordine, disciplina e sicurezza.

10.1. L'Alta Sicurezza

La circolare n. 3359/5809 del 1993 (121) stabilisce una separazione dei detenuti ritenuti pericolosi da quelli ricompresi nel circuito di media sicurezza, predisponendo un regime penitenziario di "Alta sicurezza". Inizialmente questo circuito era destinato ai condannati o imputati per i delitti di cui all'art. art. 416 bis e 630 c.p. o all'art. 74 del T.U. 309/90, successivamente è stato esteso, riconducendovi i detenuti per reati di cui all'art. 4 bis, 1º comma.

La circolare specifica che tale scelta di differenziazione è basata proprio sull'art. 4 bis, in quanto detta disposizione esclude la fruizione di benefici per coloro che hanno fatto "una scelta criminale di tipo professionale", per questi soggetti si può ipotizzare il ravvedimento solo se abbandonano la loro scelta criminale e collaborano con la giustizia.

Questa differenziazione, naturalmente non può implicare una differenza del regime penitenziario e dell'eventuale possibilità di applicare le regole e gli istituti del trattamento penitenziario. Invece, tale differenziazione deve comportare l'uso di strutture sicure, cui destinare i detenuti pericolosi, dal punto di vista edilizio con la predisposizione di apparati elettronici e meccanici per la sorveglianza dei soggetti.

La stessa circolare si preoccupa di raccomandare che nel circuito di "alta sorveglianza" ci sia il rispetto della dignità personale dei detenuti, evitando mortificazioni e vessazioni, inoltre, l'uso della forza nei confronti degli stessi detenuti deve sempre rispettare le ipotesi e le limitazioni imposte dalla legge.

La circolare fissa alcune regole riguardo alla gestione del circuito di "alta sorveglianza":

le assegnazioni e i trasferimenti dei detenuti sono di competenza dell'Ufficio IV del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria; i detenuti pericolosi devono essere assegnati o trasferiti sempre in istituti che comprendono una sezione di "alta sorveglianza", inoltre, i così detti capi o gli esponenti di maggior spicco del crimine organizzato, devono essere assegnati o trasferiti in istituti lontani dalle regioni di provenienza.

Unica eccezione, a queste regole, è l'ipotesi in cui il detenuto debba essere trasferito per assistere ad un processo a suo carico, e nella prossimità della località ove si svolge il processo non è situato alcun istituto o sezione di esso classificato come "alta sorveglianza". In questi casi il detenuto può essere assegnato all'istituto del luogo ove ha sede il processo, predisponendo tutte le misure idonee, avendo cura che la permanenza duri lo stretto necessario.

È prevista la permanenza di questi detenuti all'interno della sezione, senza alcun contatto con gli altri detenuti rinchiusi in diversi circuiti: quindi non hanno accesso ad altre zone del carcere comprese quelle destinati ai colloqui, ai passeggi. Quest'ultime attività, se la struttura edilizia del carcere non permette la differenziazione rispetto a quelle usate dai detenuti ordinari, devono svolgersi in giorni e ore diverse.

Nonostante che nel circuito di "Alta sicurezza" devono garantirsi le esigenze di ordine e sicurezza, non possono escludersi, anzi, sono auspicabili la presenza di attività scolastiche, lavorative, culturali, religiose, sportive e ricreative, ovviamente nei limiti in cui tali attività non pregiudicano le suddette esigenze. Questo perché tali attività hanno non solo finalità rieducative, ma rendono più umana e vivibile la condizione penitenziaria.

Riguardo alle condizioni di vita all'interno della sezione di "Alta sicurezza", devono essere assegnati alla cella uno o al massimo due detenuti, occorre evitare che stiano insieme i detenuti che possono sfruttare la loro vicinanza per fini criminali, inoltre, occorre evitare che stiano insieme detenuti fra loro incompatibili, in modo da evitare situazioni di tensione: minacce, violenze o aggressioni. Per l'accertamento dell'incompatibilità fra i detenuti si deve valutare non solo il loro comportamento all'interno del carcere, ma si deve attingere anche alle informazioni dell'autorità di polizia e giudiziaria.

La custodia dei soggetti, ristretti nel circuito di "alta sorveglianza", deve essere affidata a personale di polizia penitenziaria con provate capacità ed esperienza ed affidabilità. Nei servizi a più diretto contatto con i detenuti deve rispettarsi con attenzione il principio della rotazione, quindi si esclude che l'esercizio di detto servizio possa essere esercitato da un unico operatore. Questo per evitare eventuali pressioni ed intimidazioni da parte dei detenuti.

Inoltre, la circolare si preoccupa di dare delle direttive, agli operatori penitenziari, sulla predisposizione delle relazioni riguardanti la liberazione anticipata. Infatti, si raccomanda che l'osservazione collegiale del G.O.T. valuti non solo la buona condotta del soggetto, ma anche la sua partecipazione alle attività di trattamento. Si raccomanda, ancora, alle direzioni un'attenzione scrupolosa nella valutazione sulla concessione dei colloqui con terze persone, i quali devono essere adeguatamente motivati. Anche i colloqui con psicologi, assistenti sociali ed educatori devono avvenire soltanto nei limiti dell'attività di trattamento rieducativo, mentre non possono essere ammessi colloqui con assistenti volontari.

Una successiva circolare, del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del 1998 (122), ribadisce la validità della differenziazione introdotta con le precedenti circolari delineando anche il quadro normativo su cui si fonda tale procedimento. Infatti, la previsione dell'individualizzazione del trattamento rieducativo ex art. 13 O.P.; le modalità di assegnazione ex art. 14 O.P.; nonché le disposizioni del regolamento di esecuzione, art. 31 e 32 (123), in cui si raccomanda per l'assegnazione e il raggruppamento dei detenuti l'organizzazione di sezioni che contengano un numero limitato di soggetti e, per i detenuti il cui comportamento richieda maggiori cautele devono essere assegnate in sezioni adatte ad agevolare e contenere la loro pericolosità. L'ordinamento penitenziario raccomanda, inoltre, che i condannati e ammessi al regime di semilibertà siano assegnati in istituti o sezioni diverse rispetto a quelle dell'istituto ordinario (124). Tutte le disposizioni richiamate, aggiunte a quelle che prevedono la differenziazione degli istituti penitenziari (125), secondo la circolare danno l'opportunità di raggruppare i detenuti e gli internati per categorie.

L'amministrazione penitenziaria, con questa circolare, dimostra di essere consapevole della difficoltà degli istituti di attuare una netta separazione fra i detenuti comuni e quelli ristretti in "Alta sorveglianza", infatti, oltre a invitare gli istituti ad apportare le dovute modifiche affinché le attività svolte dai detenuti pericolosi si svolgono all'interno della sezione, precisa che, ove ciò non sia possibili, non devono essere sospese le attività di trattamento per tali detenuti, ma le attività con le dovute cautele possono svolgersi fuori dal circuito di "Alta sorveglianza". Stabilisce che per motivi eccezionali il suddetto divieto di incontro può essere derogato, questo perché "le esigenze tutelate con il circuito dell'alta sicurezza sono diverse da quelle che vuole assicurare l'art. 41bis": in particolari circostanze è consentita la presenza congiunta di detenuti di diversi livelli.

La circolare, inoltre, raccomanda la non soppressione in detto circuito delle attività trattamentali, poiché proprio la partecipazione del soggetto al percorso rieducativo è l'utile strumento di verifica per il direttore di una sua eventuale declassificazione, che deve avvenire con provvedimento motivato.

La circolare del 1998 da nuove direttive per la gestione del circuito di "Alta sorveglianza": riguardo all'assegnazione dei detenuti e alle informazioni sul loro gruppo di appartenenza, sono fornite sempre dall'Ufficio Centrale Detenuti e Trattamento. Circa la valutazione dei casi di condanna con l'aggravante ex art. 7 l. 203/91 - ovvero avvalendosi delle condizioni previste o agendo al fine di agevolare al fine di agevolare le associazioni previste dall'art. 416 bis c.p. - si esclude l'inserimento nel circuito di "Alta sorveglianza" dei detenuti condannati per delitti aggravati da tale circostanza. Quest'ultimo tipo di detenuto è considerato dalla circolare, come un soggetto che non è parte integrante dell'organizzazione criminale, ma per aumentare il suo potenziale intimidatorio millanta l'appartenenza ad organizzazioni mafiose. L'inserimento di questi soggetti nel circuito di "Alta sorveglianza potrebbe portare ad un consolidamento del rapporto con l'organizzazione criminale, quindi si raccomanda l'inserimento di questi detenuti nel circuito di "media sicurezza". Si raccomanda, in ogni caso, di valutare singolarmente le posizioni del singolo detenuto prescindendo dall'aggravante ex art. 7 l. 203/91, ma salvo le eccezioni ad essi deve essere applicato il trattamento riservato ai detenuti "comuni". A quest'ultima categoria di detenuti come anche, nel caso di detenuti che non hanno commesso reati che comportano l'automatico inserimento nel circuito di "alta sicurezza", ci riferiamo ai reati previsti al 1º comma art. 4 bis o.p., quando ci sono fondati motivi per ritenere la sussistenza di legami tra questi soggetti e il crimine organizzato deve valutarsi scrupolosamente, attraverso le informazioni ottenute dagli organi giudiziari e di polizia, la loro assegnazione nel circuito di "media sicurezza". A tale proposito la circolare si preoccupa di fare un elenco di casi che reputa più frequenti:

  • i soggetti detenuti nei cui confronti taluni reati di cui agli art. 416 bis e 630 c.p. e 74 D.P.R. 309/90 sia stato contestato a "piede libero", ovvero nei cui confronti l'ordinanza di custodia cautelare sia stata revocata o annullata pur proseguendo il procedimento;
  • soggetti detenuti per altro, scarcerati per decorrenza termini in relazione alla custodia cautelare per taluno dei reati sopra indicati;
  • Soggetti detenuti per altro ma notoriamente ritenuto aver ruolo di rilievo nell'ambito della criminalità organizzata (è il caso di noti "boss" talora detenuti per reati secondari quali il contrabbando, la calunnia, ecc...).

In queste ipotesi, l'assegnazione al circuito di "Alta sicurezza" deve avere carattere eccezionale e deve essere operata e valutata dall'Ufficio centrale detenuti e trattamento, allo stesso ufficio resterà attribuita la competenza della gestione di questi detenuti.

10.2. Circuito ad Elevato Indice di Vigilanza

La circolare del D.A.P. del 1998 si preoccupa di istituire un nuovo circuito per quei detenuti, che pur non essendo condannati per reati che permettono l'assegnazione al circuito di "Alta sorveglianza", presentano un indice di pericolosità molto alto da rendere inopportuno il loro inserimento in "media sicurezza". Tale circuito secondo quanto affermato dalla stessa circolare, si può definire come la continuazione storica delle sezioni in cui in passato fu applicato l'abrogato art. 90 o.p.

La circolare interviene a disciplinare una prassi ormai diffusa nelle carceri, infatti, i detenuti che pur non essendo condannati per un titolo di reato ex 4 bis o.p., ma ritenuti pericolosi per la notorietà dei loro gesti criminosi o per l'allarme che tale reato ha suscitato nell'opinione pubblica, venivano assegnati ai circuiti di "Alta sorveglianza" o sezioni organizzate con le stesse disposizioni di quest'ultimo circuito.

Proprio per la notorietà criminale dei detenuti assegnati al circuito di E.I.V., la circolare dispone che la decisine sull'assegnazione o la declassificazione di questi detenuti spetta all'amministrazione penitenziaria centrale e non ai singoli direttori dell'istituto penitenziario. Precisando la competenza ad assegnare e declassificare i detenuti assegnati a questo particolare circuito penitenziario è demandata all'Ufficio Centrale Detenuti e Trattamento e deve essere esercitata sempre con provvedimento motivato (126).

Invece, per l'organizzazione di queste sezioni denominate di Elevato Indice di Vigilanza, si rimanda in linea generale alle disposizioni dettate per il circuito di "Alta sorveglianza": non sono ammessi contatti con i detenuti di altre sezioni e la vigilanza deve essere intensa.

Riguardo sempre all'assegnazione e alla declassificazione dei detenuti ristretti in E. I. V., la circolare lamenta la mancanza di una disciplina organica che fissi precisi criteri a cui l'amministrazione penitenziaria deve attenersi. Infatti, per individuare i soggetti da assegnare a detto circuito penitenziario si fa riferimento solo ai gesti criminosi commessi e non si individuano criteri che permettono all'amministrazione penitenziaria di individuare un ravvedimento o un mutamento della personalità del soggetto di modo da procedere ad una revisione della sua posizione penitenziaria. Al contrario, la circolare esprime il timore che in tale circuito siano ristretti i così detti "killers delle carceri", senza che per tali detenuti si sia provveduto ad un procedimento di revisione della loro pericolosità.

Riguardo di detenuti da assegnare al circuito E.I.V.C., la circolare individua due categorie: coloro che appartengono ad organizzazioni terroristiche ed eversive, nazionali o internazionali; coloro che per la natura del reato o per il numero di reati commessi si suppone siano caratterizzati da un alto indice di pericolosità, ancora coloro che hanno commesso fatti di violenza nei confronti di altri detenuti o degli operatori penitenziaria ovvero coloro per cui si presume un alto pericolo di evasione.

In linea di principio, la sottoposizione al circuito E.I.V., riguarda i detenuti comuni, ma una prassi penitenziaria è quella di assegnare a tale circuito coloro a cui non è stato rinnovato il D.M. con cui si applicano le restrizioni ex art. 41, 2º comma O.P. Questo perché, una volta operata la declassificazione dal regime detentivo ex art. 41 bis O. P. è preferibile non assegnare i detenuti direttamente ai circuiti di media sicurezza, ma non è raccomandabile assegnarli al circuito di "Alta sorveglianza", poiché potrebbero ricrearsi all'interno di quest'ultimo circuito penitenziario quei contatti con il crimine organizzato, troncati con l'applicazione del precedente regime detentivo.

In merito alle disposizioni per i movimenti dei detenuti per motivi di giustizia, salute e fruizione di permessi, vengono applicate le direttive impartite per il regime speciale di cui all'art. 41 bis O.P.

La circolare, inoltre, ritiene di predisporre le sezioni di E.I.V., dato il numero esiguo di detenuti, solo nelle carceri di Novara, Trani, Latina, Livorno e Nuoro, raccomanda però i direttori delle carceri di far pervenire, entro 20 giorni dall'emissione della circolare, un prospetto dettagliato sui detenuti sottoposti a tale circuito, per riesaminare la pericolosità di ogni singolo detenuto.

11. Problemi giuridici

Sicuramente le circolari, riportate nel paragrafo precedente, sono servite a fornire un primo chiarimento sulla differenziazione dei detenuti dopo l'intervento della legislazione d'urgenza degli anni '90, ma i problemi creati da tale differenziazione sono molti.

La prima impressione, esaminando queste circolari è quella di una regressione al passato, infatti, come sottolineato nei precedenti paragrafi (127), la legge Gozzini introducendo il regime di sorveglianza particolare ex art. 14 bis e ss. intendeva limitare il potere discrezionale dell'amministrazione penitenziaria in materia di trattamento dei detenuti pericolosi. L'intervento dei decreti legge degli anni '90, evidenziano le convinzioni che gli strumenti predisposti non sono sufficienti ad arginare la potenzialità criminale di alcuni detenuti. Fino agli anni '90 si è parlato di una "pericolosità penitenziaria", quindi, inerente alla vita del carcere e proprio il regime penitenziario della "sorveglianza particolare" mirava a fornire un adeguato strumento per arginare tale pericolosità dei detenuti. Invece, la decretazione d'urgenza degli anni '90, fa riferimento ad un diverso tipo di pericolosità, che come già sottolineato, non poteva essere arginata con gli strumenti offerti dall'ordinamento penitenziario.

Fin dove può spingersi il potere discrezionale dell'amministrazione penitenziaria?

A questa domanda sicuramente ha risposto la Corte Costituzionale che nell'esaminare la costituzionalità del regime di rigore ex art. 41 bis, 2º comma O. P., ha previsto che le limitazioni imposte dall'amministrazione penitenziaria non devono essere contrarie alla finalità rieducativa e ai principi di umanità della pena ex art. 27 Cost. e possono riguardare solo il regime di sorveglianza penitenziario in senso stretto (128). Inoltre, le limitazioni devono fare riferimento ad un dato normativo che attribuisce all'amministrazione penitenziaria il potere di limitare il diritto previsto dall'ordinamento penitenziario.

Nell'ipotesi dei circuiti di "Alta sicurezza" ed "Elevato indice di vigilanza" si deve presumere che le limitazioni possono riguardare il divieto di incontro con i detenuti diversamente classificati, la limitazione dei colloqui, telefonici o visivi, con i familiari o con terze persone, le ore d'aria e infine la limitazione alla partecipazione alle attività rieducative svolte all'interno del carcere.

Riguardo ai colloqui con i familiari è il regolamento di esecuzione che prevede espressamente che: "quando si tratta di detenuti o internati per taluno dei delitti previsti dal primo periodo del primo comma dell'articolo 4 bis della legge e per i quali si applichi il divieto di benefici ivi previsto, il numero di colloqui non può essere superiore a quattro al mese" (129), inoltre in merito alla corrispondenza telefonica con i congiunti o i parenti, lo stesso regolamento stabilisce, per i suddetti detenuti, che il numero di colloqui non può essere superiore ai due al mese (130). Come si può notare il regolamento fa specifico riferimento ai condannati o internati che hanno commesso uno dei delitti previsti al primo periodo del primo comma dell'art. 4 bis O. P., quindi è sicuramente applicabile ai detenuti ristretti nel circuito di "Alta sicurezza", ma deve presumersi che siano applicabili anche ai detenuti ristretti nel circuito di "Elevato indice di vigilanza". La ratio della previsione è quella di limitare, per quanto possibile, i contatti dei detenuti con l'ambiente esterno al carcere, in modo da recidere i contatti con l'organizzazione criminale di appartenenza e, quindi, sicuramente è giustificata per i detenuti ristretti in "Alta sorveglianza", ma non trova giustificazione per i detenuti ristretti nel circuito E.I.V., in quanto, almeno che non si tratti di detenuti ai quali non è stato rinnovato il decreto applicativo del regime ex 41 bis, tali soggetti non hanno legami con il crimine organizzato, ma per l'indole del reato o per la loro "carriera criminale" sono considerati pericolosi. In questi casi né l'ordinamento penitenziario, né il regolamento prevedono specificatamente le restrizioni da adottare, quindi, la decisione è lasciata al totale arbitrio dell'amministrazione penitenziaria.

Inoltre, come ricordato, non è previsto nessun intervento dell'autorità giudiziaria, sia in merito alla decisioni su chi assegnare a questi circuiti particolari, sia riguardo ad un'eventuale declassificazione dei detenuti. Non solo, il magistrato di sorveglianza non ha alcun controllo sulla gestione di questi circuiti particolari, salvo quello previsto all'art. 69, 6º comma O. P. che può essere attivato tramite il diritto al reclamo ex art. 35 O. P.

Riguardo all'intervento del magistrato di sorveglianza come garante dei diritti dei detenuti, attraverso il reclamo ex art. 35 O. P., la Corte Costituzionale è intervenuta lamentando la scarsa giurisdizionalizzazione del mezzo di gravame (131).

Prima di esaminare questa sentenza della Corte, bisogna fare alcune precisazioni sulle modalità con cui vengono assegnati i detenuti ai circuiti particolari esaminati.

Le circolari, esaminate al paragrafo precedente, raccomandano che l'assegnazione, sia nell'ipotesi di Alta sorveglianza sia nell'ipotesi di E. I. V., deve avvenire con provvedimento motivato, rispettivamente del direttore dell'istituto o dell'Ufficio centrale detenuti e trattamento, in modo che il detenuto conosca le ragioni di tale assegnazione, ma anche in funzione di un'attivazione del controllo giudiziario su tale assegnazione. Si deve rilevare che, molto spesso, tale provvedimento manca, soprattutto per l'assegnazione al circuito di Alta sorveglianza. Infatti, la previsione di assegnare a tale circuito dei detenuti che hanno commesso reati previsti al primo periodo del primo comma dell'art. 4 bis, ha instaurato la prassi di un'assegnazione automatica dei detenuti. Quindi, il detenuto si trova nella posizione di non poter reclamare al magistrato di sorveglianza alcun provvedimento amministrativo, salvo che le restrizioni apportate non siano effettivamente lesive di diritti incomprimibili, ma anche in quest'ultima ipotesi, è difficile dimostrare la compressione dei diritti.

Anche, riguardo all'assegnazione al circuito E. I. V. deve osservarsi la mancanza di un esplicito provvedimento amministrativo (132).

11.1. La tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi dei detenuti

Analizzando le garanzie offerte al detenuto nell'ipotesi di violazioni dei diritti, abbiamo già accennato alla procedura di reclamo ex art. 35 O. P., quest'articolo prevede una generica forma di reclamo indirizzate a diverse autorità, anche non giurisdizionali. Considerando l'ipotesi del reclamo rivolto al magistrato di sorveglianza nella veste di garante dei diritti dei detenuti, si può notare che tale procedimento non essendo previste regole in ordine ai tempi e ai modi della decisione, e non trattandosi, inoltre, di decisione giurisdizionale, non è garantita da alcuna forma di controllo (133).

La Corte Costituzionale è intervenuta, con la sentenza 26/99, affermando che Il procedimento che si instaura attraverso l'esercizio del generico diritto di reclamo ex art. 35 e 69 O. P. è privo dei requisiti minimi necessari perché lo si possa ritenere sufficiente a fornire un mezzo di tutela qualificabile come giurisdizionale. Secondo la Corte:

"nulla è previsto circa le modalità di svolgimento della procedura o l'efficacia delle decisioni conseguenti. Solo per il reclamo a coloro i quali, rispetto all'esecuzione delle pene, sono investiti di una specifica responsabilità - l'amministrazione penitenziaria e il magistrato di sorveglianza - è previsto un obbligo di informazione, verso il detenuto che ha presentato il reclamo, "nel più breve tempo possibile ... dei provvedimenti adottati e dei motivi che ne hanno determinato il mancato accoglimento" (134), un obbligo generico cui non corrisponde alcun rimedio in caso di violazione e che, comunque, è fine a se stesso, non essendo preordinato all'esercizio conseguente di un diritto di impugnativa da parte dell'interessato".

La decisione del magistrato secondo consolidata giurisprudenza è presa con un procedimento "de plano", al di fuori di ogni formalità processuale e di ogni contraddittorio. Inoltre, la decisione che accoglie il reclamo si risolve in una segnalazione o in una sollecitazione all'amministrazione penitenziaria, senza forza giuridica cogente e senza alcuna specifica stabilità e avverso la decisione del magistrato di sorveglianza non sono ammessi ulteriori reclami al tribunale di sorveglianza e neanche il ricorso per cassazione. Tutto ciò è sicuramente contrario alle garanzie che la costituzione prevede nel caso della violazioni di diritti. La Corte pur riconoscendo "un'incostituzionale carenza di mezzi di tutela giurisdizionale dei diritti di coloro che si trovano ristretti nella loro libertà personale", non accoglie l'indicazione del giudice rimettente, rivolta a estendere al reclamo ex art. 35 O. P. il procedimento ex art. 14-ter. Richiama, invece, l'attenzione del legislatore ad esercitare la potestà legislativa che gli compete in attuazione dei principi costituzionali.

Dopo questa sentenza della Corte Costituzionale, la Corte di Cassazione ha ritenuto opportuno individuare, in assenza di un intervento legislativo, nella legislazione vigente un utile mezzo di tutela dei diritti dei detenuti. Con la sentenza delle Sezioni unite, 26 febbraio 2003 n. 25079 (135), la Corte di Cassazione afferma che i provvedimenti dell'amministrazione penitenziaria in materia di colloqui telefonici e visivi dei detenuti e degli internati, in quanto incidenti su diritti soggettivi, sono sindacabili in sede giurisprudenziale mediante reclamo al magistrato di sorveglianza che decide con ordinanza ricorribile per cassazione secondo la procedura indicata nell'art. 14 ter O. P. Questa decisione è importante sotto molti aspetti: in primo luogo si riconosce alla sentenza 26/99 della Corte costituzionale un valore "additivo di principio", in quanto riconosce allo status di detenuto posizioni soggettive connesse al trattamento che necessitano per la loro tutela di un procedimento giurisdizionalizzato; in secondo luogo si riconosce un vero e proprio diritto del detenuto ai colloqui visivi e telefonici, diritto che deve essere coperto da riserva di giurisdizione.

Il mezzo di tutela dei diritti dei detenuti è individuato dalla Cassazione nel procedimento ex art. 14 ter e 69 O.P. poiché risulta il procedimento più celere e meno complesso, che si adatta meglio a corrispondere un'effettiva tutela delle situazioni soggettive che hanno origine da un atto dell'amministrazione penitenziaria lesivo dei diritti dei detenuti. Il procedimento si istaura con reclamo del soggetto interessato entro dieci giorni dalla ricezione del provvedimento amministrativo e consente una piena cognizione del magistrato di sorveglianza investito della questione, ma non ha effetto sospensivo.

La Corte di Cassazione chiarisce che la riserva di giurisdizione, riconosciuta dalla Corte Costituzionale, opera solo in presenza di un atto dell'amministrazione penitenziaria. Nell'ipotesi di lesione di situazioni soggettive per le quali non è possibili risalire ad un atto dell'amministrazione penitenziaria il soggetto può fare ricorso al procedimento de plano ex art. 35 O. P.

Quindi, con questa decisione la Cassazione da un lato aumenta le garanzie procedurali dei diritti dei detenuti, in presenza di un atto amministrativo che lede le situazioni soggettive, dall'altro in assenza di un atto amministrativo lesivo dei diritti mantiene in vita il procedimento di reclamo privo di garanzie giurisdizionali (136).

Di notevole interesse, proprio riguardo alla tutela dei detenuti ristretti nel regime penitenziario dell'Elevato indice di vigilanza, è una recente pronuncia della Corte Europea dei diritti dell'Uomo. Nella decisone Musumeci contro Italia (137), la Corte Europea ha rilevato la violazione dell'art. 6 della convenzione, in quanto il ricorrente non ha goduto della possibilità di contestare la sottoposizione al regime E.I.V. infatti, nonostante la Corte riconosca la discrezionalità amministrativa in tema di assegnazione e raggruppamento dei detenuti, afferma che deve essere garantita in ogni caso la possibilità al detenuto di attivare un controllo giurisdizionale effettivo sui provvedimenti che ingeriscono sui suoi diritti anche se di natura civile.

12. L'articolo 41 bis o.p.: "La sospensione delle ordinarie regole di trattamento"

L'art 41 bis o.p., legge 26 luglio 1975, n. 354 è stato introdotto nell'ordinamento penitenziario dall'art. 10, legge 10 ottobre 1986, n. 663 contenente modifiche alla legge penitenziaria. Il secondo comma della stessa disposizione è stato aggiunto dall'art. 19, d. l. 8 giugno 1992 n.306 in tema di criminalità organizzata, convertito con modificazione dalla legge 7 agosto 1992 n. 356.

Nello stesso decreto all'art. 29 veniva stabilito che le disposizioni di cui all'art. 19 dovevano avere una durata limitata nel tempo; in particolare, esse avrebbero cessato di avere effetto trascorsi tre anni dall'entrata in vigore della legge di conversione del decreto (138). Tale termine è stato più volte prorogato (139), fino all'emanazione della legge 23 dicembre 2002, n. 279, che ha reso definitivo il regime penitenziario previsto all'art. 41 bis o.p.

L'introduzione dell'art. 41 bis O. P. è stata accolta dalla dottrina (140), come una rilettura del problema della sicurezza penitenziaria, infatti, l'introduzione di quest'articolo ha scavalcato il regime di sicurezza particolare disciplinato dall'art. 14 bis O. P., il riferimento, contenuto dal 2º comma dell'art. 41 bis O. P., ai "gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica" costituisca un elemento estraneo alla vita del carcere. La sospensione delle regole di trattamento, così come prevista dall'art. 41 bis O. P. trova la sua ratio nella lotta alla criminalità organizzata, quindi, è uno strumento non per garantire la sicurezza interna del carcere, ma, per motivi di sicurezza della società (141).

L'art. 41 bis, 2 º comma O. P. affermava che:

quando ricorrono gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell'interno, il Ministro di grazia e giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma 1 dell'art. 4 bis, l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possono porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza.

I destinatari del provvedimento del Ministro ex art. 41 bis O. P. sono individuati nei detenuti che hanno commesso i reati menzionati all'art. 4 bis, 1º comma O.P., infatti, tali soggetti, in quanto facenti parte di un nucleo criminale organizzato, sono considerati particolarmente pericolosi per la società. Questi detenuti subiscono le restrizioni imposte dal provvedimento ministeriale solo sulla base del titolo di reato ad essi attribuito, indipendentemente da eventuali comportamenti che possono costituire indice di particolare pericolosità. Per loro è considerata inutile la portata rieducativa dell'ordinamento penitenziario, viene, quindi, ribaltata la portata normativa dei regime di rigore, che invece di rappresentare l'eccezionalità, rappresentano la normalità (142).

Riguardo all'individuazione dei detenuti, la giurisprudenza dei tribunali di sorveglianza è intervenuta per fornire una precisazione: per i detenuti condannati per taluno dei delitti di cui alla prima parte dell'art. 4 bis 1º comma O.P., la sospensione delle regole del trattamento può essere applicata sulla base del reato per il quale il soggetto si trova detenuto; nell'ipotesi di detenuti condannati per reati di cui all'ultima parte della suddetta disposizione, non basta il titolo di condanna, ma bisognerà valutare la presenza di elementi tali da presumere l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata (143). Bisogna aggiungere che una volta scontata la pena riferibile al reato ostativo, il provvedimento di sospensione ex art. 41 bis O.P. perde la sua efficacia, quando non si presuma l'attualità dei collegamenti con il crimine organizzato. (144)

12.1. Contenuti del provvedimento ministeriale

L'art. 41 bis, 2º comma O. P. attribuisce al Ministro un'ampia discrezionalità decisionale su chi sottoporre a detto regime ed anche sugli istituti dell'ordinamento penitenziario che possono essere sospesi. Infatti, nella disposizione non vi era alcun rinvio ai contenuti del regime di sorveglianza particolare ex art. 14 quater, che determina i limiti delle restrizioni, ed individua un nucleo di disposizioni incomprimibili (145).

Dopo l'emanazione del D.L. 306/92, la circolare D.A.P. 21 aprile 1993, n. 3359/5809, come già detto, si è preoccupata di impartire disposizioni in merito alla differenziazione dei diversi circuiti penitenziari.

Riguardo ai detenuti sottoposti allo speciale regime detentivo ex art. 41 bis O. P. affermava che "questi soggetti sono gli esponenti di maggiore rilievo criminale, quindi più pericolosi", per questa ragione la scelta legislativa è stata di restringere ulteriormente i diritti previsti dall'ordinamento penitenziario e le regole di trattamento.

Per questi detenuti, tutte le restrizioni imposte dal circuito di "alta sicurezza" devono essere applicate "con maggiore rigore", e si esclude qualsiasi forma di trattamento penitenziario, ovvero: "non è ipotizzabile un giudizio negativo per quanto riguarda la liberazione anticipata ed i colloqui e le telefonate premiali". Non sono, neanche, ammissibili i colloqui con assistenti sociali, educatori e psicologi e, ancor più, non sono ammessi colloqui con volontari o ingressi della società esterna.

Si raccomandava di assegnare i detenuti sottoposti al regime ex art. 41 bis, 2º comma "alle apposite sezioni degli istituti di Asinara, Pianosa, Cuneo, Ascoli Piceno e Spoleto" e si escludeva che essi potessero essere custoditi insieme ai detenuti di primo livello.

Come si può notare, neanche la circolare ha chiarito quali sono i contenuti di questo speciale regime detentivo. La dottrina (146) ha sempre affermato che il provvedimento di sospensione non può spingersi fino alla compressione delle posizioni giuridiche del soggetto, quindi, il detenuto conserva un nucleo di diritti che soddisfano l'esigenza di adeguare la pena al principio di umanità e rieducazione sancito all'art. 27, 3º comma Cost. Tali diritti sono: il rispetto della dignità ed integrità personale; il diritto all'igiene e alla salute; il diritto a professare liberamente la propria religione; il diritto a mantenere i contatti con la propria famiglia; il diritto alla difesa, garantendo i regolari colloqui con l'avvocato.

La Corte Costituzionale è stata chiamata più volte a pronunciarsi sulla costituzionalità dell'art. 41 bis, 2º comma O.P. e nonostante non abbia accolto le istanze di incostituzionalità sollevate, considerando tale disposizione un "male necessario", ha cercato di dare delle interpretazioni di detta disposizione conformi ai principi costituzionali.

Ancora prima della Corte costituzionale, i Tribunali di Sorveglianza (147) si sono preoccupati di integrare l'art. 41 bis O.P., sia in merito ai contenuti del provvedimento di sospensione sia in merito alla giurisdizionalizzazione di un reclamo contro tale provvedimento di sospensione.

Secondo la giurisprudenza dei tribunali di sorveglianza, l'esigenza dell'art. 41 bis, 2º comma O.P. è nata da ripetuti fatti di cronaca riferibili ad azioni coordinate da pericolose organizzazioni criminali alla cui organizzazione avrebbero partecipato anche soggetti detenuti, che nonostante il loro stato di restrizione mantenevano saldamente i loro contatti con l'organizzazione criminale. Nei confronti di questi detenuti si è costatata anche l'inutilità della sorveglianza particolare, ex art. 14 bis O. P., in quanto "i detenuti che hanno consistenti interessi da curare all'esterno, tanto più se illeciti, si attengono con il massimo scrupolo alle regole di ordinaria convivenza in carcere" (148). Quindi, c'è stata l'esigenza di un intervento normativo, diretto a disporre un regime di custodia più intenso, articolato attraverso inibizioni o riduzioni delle regole di trattamento, che consentisse un rigido controllo sui soggetti collegati al crimine organizzato in modo da limitare la loro operatività criminale.

Inoltre, la giurisprudenza di merito sottolineava come la vaghezza della norma poteva suscitare il dubbio che la volontà del legislatore fosse quella di lasciare "carta bianca all'Esecutivo". Infatti, riguardo ai contenuti del provvedimento ministeriale, l'unico limite alle restrizioni appare la tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica. Quindi, possono essere apportate tutte le restrizioni che sono motivate alla tutela di tali esigenze. Ancora, si osservava, come riguardo sia alle selezione dei soggetti verso cui destinare il provvedimento, sia riguardo alla corrispondenza del provvedimento alle esigenze di sicurezza, la disposizione suddetta non predispone alcun controllo giurisdizionale, ma solo un controllo politico.

Proprio in merito alle decisioni dei Tribunali di Sorveglianza, l'amministrazione penitenziaria interviene nei procedimenti con una nota n. 9725/477765 del 1/3/1993 in cui afferma che:

l'art. 41 bis, 2º comma O. P. non prevede per il detenuto la possibilità di esperire mezzi di impugnazione presso il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza;

che non appare possibile procedere in via analogica applicando l'art, 14 ter O. P. relativo all'istituto della sorveglianza particolare che ha diversi presupposti e contempla casi specifici;

che se il legislatore avesse voluto prevedere l'intervento della magistratura di sorveglianza, avrebbe dettato una disciplina specifica per l'impugnazione dei provvedimenti di sottoposizione al regime speciale, o quanto meno avrebbe richiamato l'applicazione dell'art. 14 ter O. P. in quanto compatibile;

che se ne deve dedurre che il legislatore, proprio in relazione ai presupposti, alla natura ed alla provenienza del provvedimento di cui all'art. 41 bis O. P., non ha espressamente voluto sottoporre l'atto alla verifica, nel merito, della magistratura di sorveglianza, e neppure varrebbe in tal senso il richiamo all'art. 69 n. 2 O. P. che consente al magistrato di sorveglianza di vagliare unicamente la conformità formale del provvedimento che applica il regime speciale, alla legge che prevede l'esercizio di tale facoltà;

che sicuramente rimane per il detenuto la facoltà di adire il T. A. R. secondo i principi generali che regolano la giustizia amministrativa (149).

Il tribunale di sorveglianza di Firenze, richiamando la sentenza n. 53/93 della Corte Costituzionale (150), si riconosce come giudice naturale e individua il reclamo ex art. 14 ter O. P. come il mezzo attraverso cui il detenuto può sollevare doglianze al tribunale di sorveglianza, avverso le ulteriori restrizioni della libertà rispetto a quelle ordinarie.

La Corte Costituzionale con la sentenza n. 349/93 è intervenuta proprio a chiarire le questioni sopra esposte. Pur dichiarando infondata, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 41 bis, 2º comma O. P. - sollevata in riferimento agli art. 13, 1º e 2º comma, 27, 3º comma, 97, 1º comma e 113, 1º e 2º comma della Cost. - detta alcuni principi interpretativi per rendere conforme il suddetto articolo alla Costituzione.

La Corte affermava che anche ai soggetti sottoposti a legittime restrizioni della libertà personale va garantita la tutela dei diritti fondamentali dell'uomo, in particolare l'inviolabilità della libertà personale sancita all'art. 13 Cost. (151). Quindi, l'adozione di eventuali provvedimenti che introducono ulteriori restrizioni, ovvero modificano il grado di privazione alla libertà personale, devono rispettare le garanzie della riserva di legge e di giurisdizione espresse dall'art. 13 Cost.

Inoltre, l'amministrazione penitenziaria non può adottare provvedimenti sull'esecuzione della pena che tendono a violare ulteriormente la libertà personale dei soggetti sottoposti a restrizioni, ovvero contrari al senso di umanità e al diritto di difesa. Ancora, i provvedimenti dell'amministrazione penitenziaria devono uniformarsi ai principi di proporzionalità e individualizzazione della pena, sanciti all'art. 27, 1ºe 3º comma e all'art. 3 Cost.

Alla luce di questi principi la Corte affermava che l'art. 41 bis, 2º comma O. P. deve essere interpretato come segue (152):

  • il provvedimento di sospensione del ministro deve riguardare solo quegli istituti dell'ordinamento penitenziario che appartengono alla competenza dell'amministrazione penitenziaria e che si riferiscono al regime di detenzione in senso stretto. Il contenuto del provvedimento ministeriale può eventualmente portare ad un regime di detenzione maggiormente affittivo, ma ciò deve giustificarsi sia dalle necessità di rieducazione del detenuto, sia dalle necessità di tutela della sicurezza e dell'ordine;
  • il provvedimento ministeriale, anche in assenza di una specifica previsione legislativa, deve essere motivato per ciascuno dei detenuti cui è rivolto, in modo da consentire all'interessato un'effettiva tutela giurisdizionale. Infatti, il provvedimento è soggetto al sindacato del giudice ordinario che, in caso di reclamo, dovrà esercitare il controllo giurisdizionale che l'ordinamento penitenziario gli attribuisce sull'operato dell'amministrazione penitenziaria o in generale sui provvedimenti concernenti l'esecuzione della pena.

In una successiva sentenza n. 410/93, la Corte specifica che la procedura di reclamo di ex art. 14 ter O. P. è applicabile, non solo ai fini del controllo sull'applicazione della "sorveglianza particolare", ma anche, ai fini del controllo giurisdizionale del tribunale di sorveglianza sui provvedimenti del ministro che dispongono il regime detentivo ex art. 41 bis O. P. Questa indicazione interpretativa è stata poi accolta dal legislatore che con la l. 7 gennaio 1998, n. 11 (153), ha introdotto il comma 2 bis all'art. 41 bis O. P. ove si prevedeva che:

avverso i provvedimenti del Ministro di grazia e giustizia emessi a norma del comma 2 è competente a decidere il tribunale di sorveglianza che ha giurisdizione sull'istituto cui il condannato, l'internato o l'imputato è assegnato; tale competenza resta ferma anche nel caso di trasferimento disposto per uno dei motivi indicati all'art. 42.

La Corte Costituzionale, nella sentenza 410/93 aveva omesso di specificare su cosa poteva incidere il controllo del tribunale di sorveglianza: ovvero se il sindacato doveva esprimersi solo sulla legittimità del provvedimento ministeriale; oppure il sindacato del tribunale poteva spingersi fino a modificare le singole disposizioni sospensive del provvedimento.

A tale proposito interviene, ancora una volta, la giurisprudenza dei tribunali di sorveglianza (154) che ritenne che il sindacato sul provvedimento di sospensione ex art. 41 bis O. P. debba incidere non solo sull'opportunità del provvedimento, ovvero "la riconoscibilità di un collegamento tra il detenuto e la situazione che si intende tutelare con l'atto amministrativo", ma anche sulle singole disposizioni del regime restrittivo, quando le restrizioni imposte non possano essere giustificate con il fine perseguito dal provvedimento ministeriale.

La Corte di Cassazione, diversamente ha disconosciuto la possibilità che il sindacato del tribunale di sorveglianza possa incidere sul contenuto del provvedimento di sospensione delle ordinarie regole di trattamento, in quanto detto provvedimento è un atto amministrativo sia per l'autorità che lo emana sia per il suo contenuto. Quindi, il sindacato dei tribunali di sorveglianza, che incide sulle singole disposizioni dei provvedimenti, invade una sfera riservata all'amministrazione penitenziaria, mentre l'autorità giudiziaria può procedere solo ad un controllo di legittimità (155).

A sciogliere tutti i dubbi è intervenuta un'altra sentenza la 351/96 della Corte Costituzionale, ove si afferma che con il provvedimento di sospensione ex art. 41 bis O. P. non possono "disporsi misure che per il loro contenuto non siano riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l'ordine e la sicurezza, o siano palesemente inidonee e incongrue rispetto alle esigenze di ordine e sicurezza che motivano il provvedimento". La Corte, inoltre, affermava che l'incongruità delle restrizioni, rispetto alle esigenze da tutelare con il provvedimento ministeriale, aveva come significato un'ingiustificata deroga all'ordinario regime carcerario "con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale". Questo controllo, secondo la Corte, deve essere esercitato dal tribunale di sorveglianza, che nei casi opportuni può disapplicare, in tutto o in parte, il provvedimento ministeriale. Infatti, "il tribunale di sorveglianza non esercita, nei confronti del provvedimento ministeriale, una giurisdizione di impugnazione dell'atto, ma semplicemente si pronuncia sui diritti e sul trattamento del detenuto sulla base delle norme legislative e regolamentari applicabili" (156).

Dopo quest'ultima sentenza della Corte Costituzionale, il Ministro di giustizia emana il D. M. 4 febbraio 1997 e la circolare n. 5931938 del 7 febbraio 1997, in entrambi i provvedimenti si raccomanda all'amministrazione penitenziaria una riorganizzazione delle sezioni relative al regime ex art. 41 bis, 2º comma O. P. alla luce delle sentenze della Corte Costituzionale (157). Con questi provvedimenti si dispone che i detenuti sottoposti allo speciale regime detentivo possono intrattenere una conversazione telefonica mensile sottoposta a registrazione con i familiari e i conviventi. Questa autorizzazione è limitata ai soli detenuti che nel corso del mese non svolgano i colloqui visivi consentiti. Il colloquio telefonico è in ogni caso considerato sostitutivo del colloquio visivo concesso al detenuto, quindi dopo l'effettuazione della telefonata nell'arco del mese il detenuto non potrà usufruire dei colloqui visivi. Inoltre, vi è l'esigenza di verificare che l'interlocutore telefonico del detenuto sia effettivamente tra i congiunti abilitati ai colloqui. A tale proposito, la circolare dispone che il colloquio telefonico non avvenga direttamente presso il domicilio dei familiari, ma quest'ultimi, per ricevere la telefonata, dovranno recarsi nel luogo designato dall'amministrazione penitenziaria abilitato a ricevere la telefonata, con valido documento di riconoscimento. Sempre in attuazione delle sentenze costituzionali, al fine di rendere più rispondenti le limitazioni imposte al principio del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e alla salvaguardia delle attività di osservazione e trattamento è concesso: di ricevere un ulteriore pacco mensile, nonché due pacchi annuali straordinari; di utilizzare fornelli personali per la preparazione di bevande e riscaldare cibi già cotti somministrati dall'amministrazione penitenziaria. Inoltre, si riconosce il potere del tribunale di sorveglianza di sindacare le singole disposizioni dal provvedimento amministrativo, in quanto è previsto che le ulteriori disposizioni più favorevoli imposte dal tribunale di sorveglianza, adottate in sede di reclamo devono essere applicate. Quindi, il tribunale di sorveglianza non può solo disapplicare il provvedimento ministeriale di sottoposizione allo speciale regime restrittivo ex art. 41 bis O.P., ma può modificare le singole disposizioni che ledono i diritti dei detenuti.

In una successiva sentenza 376/97 la Corte afferma che l'applicazione del regime differenziato non può comportare, né la soppressione o la sospensione delle attività di osservazione e trattamento previste dall'art. 13 O. P., né la preclusione alle altre attività volte alla rieducazione della personalità del detenuto, che dovranno essere organizzate con modalità idonee ad impedire contatti con altri detenuti ed, anche, in modo da non favorire i collegamenti con l'organizzazione criminale.

Riguardo a quest'ultima sentenza della Corte, la circolare D.A.P. n. 543884/1/1 del 6 febbraio 1998 sottolinea come dopo gli interventi della Corte Costituzionale il numero di soggetti ristretti nelle sezioni speciali si era notevolmente ridotto, inoltre, nella stessa sezione, o addirittura in celle contigue si potevano trovare detenuti con un trattamento penitenziario notevolmente diverso, senza che esistessero oggettive differenze di pericolosità. Questa situazione incideva profondamente sulla gestione dell'istituto, quindi vi era la necessità di rideterminazione delle direttive per l'applicazione del regime penitenziario ex art. 41 bis, 2º comma O. P.

Per controllare questa situazione la circolare del '98 stabilisce alcune direttive che dovevano essere comuni per tutti i detenuti ristretti nello speciale regime detentivo: si prevede la permanenza all'aperto per quattro ore giornaliere, di cui due da svolgersi nelle sale di biblioteca, palestra, ecc....., al fine di consentire l'osservazione e il trattamento. Le regole di svolgimento della permanenza all'aperto sono dettagliatamente descritte dalla circolare, ovvero la predisposizione di piccoli gruppi di soggetti fra loro compatibili. Inoltre, si raccomanda la predisposizione di sale per lo svolgimento dell'attività comune, all'interno della sezione. Riguardo alle attività sportive, sono considerate elementi del trattamento, quindi se non è possibile attrezzare le sezioni speciali con apposite strutture sportive, devono essere utilizzate quelle esistenti nelle altre sezioni del carcere. Si raccomanda che la mobilità dei detenuti sottoposti al regime ex 41 bis O. P., sia disciplinata con appositi ordini di servizio, in modo da evitare il più possibile contatti con i detenuti comuni.

Per quanto riguarda i colloqui visivi, la circolare in esame riafferma l'importanza di limitarli, poiché così facendo si limita la possibilità per il detenuto di comunicare con l'esterno e di conseguenza viene limitato il proprio potere criminale. I colloqui devono essere effettuati in apposite sale munite di vetro divisorio, in modo da non consentire il passaggio di oggetti non consentiti.

Sempre la circolare del '98 vieta ai detenuti ristretti in 41bis di acquistare generi alimentari al sopravitto o riceve genere alimentari dall'esterno; è vietato anche il possesso e l'uso di apparecchi radio, in quanto possono costituire strumento di comunicazione con l'esterno.

12.2. La Corte europea dei diritti dell'uomo

La Corte europea dei diritti dell'uomo è stata interpellata più volte sulla conformità dell'articolo 41 bis, 2º comma, alla Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (158).

Nelle diverse pronunce, la corte si è orientata nel valutare le misura disposte con l'applicazione dell'art. 41 bis O. P. in base ai requisiti della congruità e della proporzionalità rispetto allo scopo perseguito dalla disposizione esaminata. Secondo la Corte europea, le misure imposte con l'applicazione del suddetto articolo devono essere proporzionate alla gravità del reato commesso dal soggetto che subisce il provvedimento ministeriale (159). Inoltre, non tutte le misure disposte nei confronti dei detenuti sottoposti al regime ex art. 41 bis, 2º comma O. P. possono ritenersi conformi alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (160). Infatti, le limitazioni disposte nei confronti dei detenuti costituiscono un'ingerenza della pubblica autorità su un diritto garantito dalla Convenzione e possono considerarsi legittime solo se sono previste dalla legge ed inoltre devono essere proporzionate al fine che si intende raggiungere (161).

Le restrizioni imposte con il regime detentivo ex art. 41 bis, 2º comma O. P., secondo la Corte europea, appaiono necessarie e legittime nella misura in cui tendono a recidere i legami esistenti tra il soggetto e la criminalità organizzata. Le misure restrittive possono, quindi, giustificare la limitazione dei colloqui con i familiari o la censura della corrispondenza, se tali limitazioni riducano al minimo il rischio dell'utilizzazione dei contatti criminali per mantenere i legami con il crimine organizzato.

Nella sentenza Messina/Italia la Corte europea, mette in rilievo tre aspetti della norma che non sono adeguate alle garanzie giurisdizionali ex art 13 C.E.D.U., in quanto quest'ultima disposizione mira a garantire che nel diritto interno sia predisposto un ricorso effettivo per la tutela dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla Convenzione. Nell'esaminare la questione proposta la Corte sottolinea come i ritardi nelle decisioni sui reclami formulati dal ricorrente abbiano privato di efficacia il ricorso da questi avanzato avverso l'atto di proroga dello speciale regime detentivo. Il diritto al reclamo è sostanzialmente garantito, ma come lamentava il ricorrente, la non perentorietà del termine di dieci giorni, stabilito per la decisione del tribunale di sorveglianza, porta a notevoli ritardi nella decisione e, avendo i decreti applicativi del regime detentivo una durata temporanea di sei mesi, gli eventuali ricorsi alla Corte di Cassazione non vengono esaminati per mancanza di interesse ad agire, poiché l'originario provvedimento ministeriale ha perso la sua efficacia. Inoltre, il Ministro di giustizia non è vincolato da un'eventuale decisione del tribunale di sorveglianza che revoca parzialmente o integralmente le disposizioni del provvedimento e alla scadenza di questo può ripristinare le limitazioni revocate con un nuovo provvedimento di sospensione (162). Proprio alla luce di queste ultime decisioni della Corte Europea, la Corte di Cassazione cambia orientamento interpretativo, infatti nella sentenza delle Sezioni Unite 24/3/1995 n. 200819 si affermava l'autonomia del decreto ministeriale che rinnovava l'applicazione del regime penitenziario ex art. 41 bis, rispetto al decreto rimasto privo di efficacia. In una recente pronuncia la Cassazione afferma che nonostante la scadenza del termine di efficacia del decreto ministeriale impugnato, il detenuto mantiene intatto l'interesse, concreto e attuale, a che si stabiliscano le situazioni a lui favorevoli, adottate dal tribunale di sorveglianza che abbia accolto parzialmente il reclamo. Infatti, alle decisione dei tribunali di sorveglianza va riconosciuta un'efficacia diretta e immediata sulla validità dei decreti ministeriali successivi (163).

12.3. L'articolo 41-bis, modificato dalla legge 279/2002

L'art. 2 della l. 279/02 ha riformulato il comma 2 e il comma 2 bis dell'originaria disposizione normativa, introducendo una disciplina organica dell'istituto; l'art. 3 ha disposto inoltre l'abrogazione dell'articolo 29, decreto-legge 8 giugno 1992 n. 306, determinando così la stabilità dell'istituto.

Il primo comma del novellato art. 41 bis O.P. rimane invariato quindi "in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro di giustizia ha la facoltà di sospendere nell'istituto interessato o in parte di esso l'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l'ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto".

Al secondo comma il legislatore con la l. 279/02 ha voluto introdurre una sorta di limite al potere attribuito al Ministro di giustizia. È previsto che "quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche su richiesta del Ministro dell'interno, il Ministro della giustizia ha la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti previsti al primo periodo del comma 1 dell'art. 4 bis, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un'associazione criminale, terroristica ed eversiva, l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla l. 354/75 che possano porsi in contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza". La novità in questo comma è sicuramente l'estensione del regime del così detto "carcere duro" anche ai soggetti imputati o condannati per reati diversi da quelli dell'associazione per delinquere di stampo mafioso. I provvedimenti di cui al comma 2 art. 41 bis sono adottati, secondo quanto previsto dal comma 2 bis dello stesso articolo, con decreto motivato del Ministro della Giustizia. Lo scopo del legislatore è quello di determinare un freno al potere conferito all'esecutivo, da un lato enucleando la duplice finalità cui deve tendere la sospensione delle regole del trattamento; e prevedendo che in nessun caso possono essere previste restrizioni in misura superiore a quella resa necessaria dal raggiungimento delle finalità suddette nel caso concreto. Nella motivazione del decreto che dispone il particolare regime penitenziario, il ministro deve chiarire la necessità di ogni singola restrizione con riferimento al grado di pericolosità sociale espressa dal detenuto in rapporto ai legami instaurati dallo stesso con la criminalità organizzata e al ruolo rivestito all'interno dell'organizzazione criminale.

Altra importante novità, introdotta nel comma 2 bis, è la previsione di una complessa istruttoria che il Ministro deve compiere prima di emanare il decreto "i provvedimenti emessi ai sensi del comma 2 sono adottati con decreto motivato del Ministro della giustizia, sentito l'ufficio del pubblico ministero che procede alle indagini preliminari ovvero quello presso il giudice che procede ed acquista ogni altra necessaria informazione presso la Direzione nazionale antimafia e gli organi di polizia centrali e quelli specializzati nell'azione di contrasto alla criminalità organizzata, terroristica o eversiva, nell'ambito delle rispettive competenze". Il legislatore nello stesso comma determina la durata minima e massima del provvedimento restrittivo, non inferiore ad un anno e non superiore ai due anni, fatta salva la facoltà di proroga per periodi mai superiori ad un anno. Venute meno le condizioni che determinarono il Ministro all'adozione del provvedimento, questi, anche d'ufficio, procede alla revoca con una decisione che assume sempre la forma di un decreto motivato. (164)

I commi 2 quinquies e 2 sexies disciplinano il regime d'impugnabilità del provvedimento emesso dal Ministro: "Il reclamo può essere proposto dal detenuto o dall'internato ovvero dal difensore nei confronti del quale è stata disposta o confermata l'applicazione di cui al comma 2. Il reclamo deve essere proposto entro dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento". Competente a decidere sul reclamo è il Tribunale di Sorveglianza avente giurisdizione sull'istituto di pena in cui l'interessato è assegnato. La competenza a decidere non muta in seguito a trasferimento del detenuto o dell'internato da parte dell'amministrazione penitenziaria, il legislatore ha voluto così porre l'accento sulla protezione delle regole d'individuazione del giudice naturale, precostituito per legge, evitando che il detenuto o l'internato possa scegliere il giudice del reclamo, attendendo l'effettuazione del trasferimento in altro istituto di pena.

Con riferimento all'impugnabilità del provvedimento di sottoposizione al regime ex art. 41 bis, in passato la Corte di Cassazione (165) ha rilevato che non è immediatamente ricorribile per cassazione, mentre tale ricorso è proponibile unicamente dopo l'esaurimento del grado di giudizio dinanzi al Tribunale di Sorveglianza. Il ricorso non sospende l'esecuzione del provvedimento impugnato, con ciò il legislatore sottolineando così le esigenze di prevenzione speciale attribuite al provvedimento ministeriale.

Il tribunale di sorveglianza decide sul reclamo, contro il provvedimento di sottoposizione al regime di cui al 41 bis O.P., "nelle forme previste dagli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale" ovvero sulle disposizioni che in generale disciplinano il provvedimento di sorveglianza. Può accadere che gli stessi soggetti legittimati a proporre ricorso per cassazione, chiedano al Tribunale di Sorveglianza di sospendere l'esecuzione del provvedimento impugnato (166). Il tribunale dovrà valutare la sussistenza di un fumus boni iuris con riferimento alla fondatezza dei motivi del ricorso rispetto alla motivazione adottata in sede di reclamo e ravvisare un periculum in mora, che in questo caso è implicito.

Nel caso in cui il tribunale di sorveglianza rigetta il reclamo del detenuto con ordinanza, l'eventuale accoglimento della sospensione ai sensi del comma 7 dell'art. 666 c.p.p. non può produrre alcun effetto modificativo. Si può notare in questo caso una carenza di interesse del detenuto all'ottenimento del provvedimento di sospensione.

Quando, invece, il tribunale accoglie il reclamo, ed in forza di tale provvedimento il detenuto deve transitare dal regime differenziato e quello ordinario, un eventuale accoglimento dell'istanza di sospensione dell'esecuzione dell'ordinanza, legata alla proposizione del ricorso per Cassazione, avanzato dal Procuratore generale presso la Corte di Appello, comporterebbe una permanenza del detenuto al regime differenziato e maggiormente restrittivo durante il giudizio di legittimità.

Il riferimento legislativo, contenuto nella novella del 2002, agli art. 666 e 678 c.p.p. consente di applicare a questo procedimento di reclamo dinanzi al Tribunale di Sorveglianza un'altra disposizione importante, contenuta nel comma 5 dell'art. 666 c.p.p., in forza della quale il giudice può esercitare d'ufficio poteri istruttori integrativi, acquisendo informazioni e documenti che reputi necessari ed ove occorra può assumere prove purché proceda in udienza nel rispetto del contraddittorio.

Nel caso di accoglimento del reclamo da parte del Tribunale di sorveglianza che dispone la revoca del provvedimento ministeriale, il Ministro della giustizia se intende disporre un nuovo provvedimento ai sensi del comma 2 art. 41 bis, deve tendo conto della decisione del Tribunale, evidenziare elementi nuovi o non valutati in sede di reclamo. Con le stesse modalità il Ministro deve procedere nel caso di accoglimento parziale del reclamo, per la parte accolta.

La Corte costituzionale ha più volte affermato che il sindacato esercitato dal Tribunale di sorveglianza, sui provvedimenti di sottoposizione al regime differenziato ex 41 bis, ha natura di legittimità (167). Tale sindacato deve riguardare i tradizionali parametri di competenza, della violazione di legge e dell'eccesso di potere, verificando, in particolare con riguardo a quest'ultimo vizio, se dalla motivazione del provvedimento o nel suo complesso o nelle singole statuizioni, appare funzionale alle finalità di pubblico interesse ad esso assegnate dalla legge e consistenti essenzialmente nella salvaguardia delle esigenze di ordine e sicurezza, nonché di impedire i collegamenti con l'associazione criminale. Il Tribunale deve anche verificare che determinate restrizioni non inaspriscano il regime carcerario al punto da ledere diritti essenziali della persona umana, costituzionalmente garantiti, o che si traducano in trattamenti contrari al senso d'umanità. (168) Il sindacato di legittimità del Tribunale di Sorveglianza può portare, secondo i principi generali, in caso di riscontrata esistenza dei vizi, non all'annullamento dell'atto, ma ad una pronuncia di disapplicazione delle restrizioni contrari ai principi su detti. Tale disapplicazione potrà riguardare o l'intero provvedimento, qualora i vizi accertati riguardino la sussistenza dei gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica o alla valutazione della pericolosità del detenuto e quindi alla possibile permanenza dei collegamenti con l'associazione criminale di appartenenza, o a tutte le limitazioni del normale trattamento penitenziario; oppure potrà riferirsi a singole statuizioni relative a specifiche limitazioni del normale trattamento senza estendersi ad altre. (169) Il sindacato di legittimità del tribunale di sorveglianza non può spingersi fino a modificare l'atto amministrativo, ciò comporterebbe una sostituzione dell'autorità giudiziaria ai poteri di apprezzamento della pubblica amministrazione, gli effetti che si determinano si traducono nel dichiarare l'atto amministrativo illegittimo, disporne la disapplicazione e determinarne in tutto o in parte l'inefficacia, con conseguente ricostituzione nei confronti del detenuto del regime carcerario ordinario.

Il comma 2 quater ex art. 41 bis, riassume in un'elencazione da intendersi come tassativa, le conseguenze derivanti dall'applicazione del regime differenziato, comportanti l'adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna al fine di prevenire i contatti con l'organizzazione criminale di appartenenza. Le singole misure da adottare non sono tipizzate e possono variare a seconda del grado di pericolosità sociale del condannato o del ruolo dallo stesso assunto all'interno dell'organizzazione criminale; "i colloqui vengono determinati in un numero non inferiore ad uno e non superiore a due al mese da svolgersi con intervalli determinati e in luoghi attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti. Sono vietati i colloqui con persone diverse dai familiari e conviventi, salvo casi eccezionali determinati di volta in volta dal direttore dell'istituto ovvero, per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, dall'autorità giudiziaria competente ai sensi del comma 2 dell'art. 11 O.P.". Può essere autorizzato, con provvedimento motivato del direttore o dall'autorità giudiziaria procedente, solo dopo i primi sei mesi d'applicazione del regime differenziato un colloquio telefonico mensile con i familiari e i conviventi della durata massima di dieci minuti sottoposto a registrazione. Queste disposizioni non si applicano ai colloqui con i difensori, che sono manifestazioni in concreto del diritto di difesa, costituzionalmente garantito all'art. 24, comma 2 Cost.

E' limitata la disponibilità di beni, oggetti e somme di denaro ricevuti dall'esterno, non vi è specificazione del quantum, quindi tali limitazioni variano da caso a caso. La permanenza all'aperto durante le ore d'aria, non può svolgersi in gruppi superiori a cinque persone, con una durata non superiore a quattro ore il giorno.

I detenuti o gli internati sottoposti al regime di cui all'art. 41 bis O.P., sono esclusi dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati previste all'art. 9 l. 354/75. La limitazione della corrispondenza, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia, può essere disposta solo dall'autorità giudiziaria competente ai sensi dell'art. 18 O.P., non potendo l'esecutivo autonomamente disporre in detta materia in forza della duplice riserva di legge e giurisdizione posta dall'art. 15, comma 2 Cost. (170) L'applicazione del regime differenziato non può mai comportare la sospensione dell'attività di osservazione e trattamento individualizzato previste dall'art. 13 O.P., né determinare la preclusione alla partecipazione del detenuto ad attività culturali, ricreative, sportive e di altro genere, volte alla rieducazione della personalità, fine previsto dall'art. 27 O.P., dette attività dovranno essere organizzate, per i detenuti soggetti a tale regime, "con modalità idonee ad escludere o a ridurre al minimo i rischi dei contatti o dei collegamenti che il provvedimento ministeriale tende a prevenire. Tutto questo per valutare la partecipazione del detenuto all'opera di rieducazione ai fini della liberazione anticipata".

Note

1. F. Greco, Le mura delle prigioni si alzano, atti del Seminari di Magistratura democratica: Carceri: massima e minima sicurezza, in La nuova città n. 4. pp. 67, Quaderni della Fondazione Giovanni Michelucci, La Nuova Italia Opus libri, Fiesole, 1984.

2. E. Gironi, Alla luce dei diritti Costituzionali, atti del Seminari di Magistratura democratica: Carceri: massima e minima sicurezza, in La nuova città n. 4. pp. 62, Quaderni della Fondazione Giovanni Michelucci, La Nuova Italia Opus libri, Fiesole, 1984.

3. A. Margara, Una cultura per superare la contraddizione, atti del Seminari di Magistratura democratica: Carceri: massima e minima sicurezza, in La nuova città n. 4. pp. 57, Quaderni della Fondazione Giovanni Michelucci, La Nuova Italia Opus libri, Fiesole, 1984.

4. F. Greco, Le mura delle prigioni si alzano, in atti del Seminari di Magistratura democratica: Carceri: massima e minima sicurezza, in La nuova città n. 4. pp. 67, Quaderni della Fondazione Giovanni Michelucci, La Nuova Italia Opus libri, Fiesole, 1984.

5. Premessa a cura Alessandro Margara, atti del seminario di Magistratura Democratica: Carceri: massima e minima sicurezza, in La nuova città n. 4. pp. 55, Quaderni della Fondazione Giovanni Michelucci, La Nuova Italia Opus libri, Fiesole, 1984.

6. Il Comitato europeo per i problemi criminali è costituito in seno al Comitato dei Ministri de Consiglio d'Europa, per lo studio di determinate problematiche.

7. Progetto di rapporto sulla detenzione dei detenuti pericolosi, Strasburgo, 5 marzo 1982.

8. Composto da: M. H. Gonsa (Austria); M.E. Corves (Germania); M.R. Mac Conchradha (Irlanda); M.R. Segre (Italia); M.L. Daga (Italia); M.C. Amilon (Svezia); M.M.T. Yucel (Turchia); M.Y. Altay (Turchia).

9. Citandone solo alcuni: il progetto Darida, Mannuzzo, Gozzini e altri.

10. A tale proposito c'è da ricordare, l'ordine del giorno 11 settembre 1986 della commissione giustizia della camera, in sede di approvazione della l.663/86: "la IV commissione giustizia, riunita in sede legislativa per la votazione della legge 3831: rilevato che sono di fatto in vigore istituti o sezioni di massima sicurezza, nonché regimi di particolare sorveglianza per alcuni detenuti; ritenuto che questi istituti o regimi appaiono attualmente privi di una base legale e non possono sussistere se non attraverso le procedure e i provvedimenti previsti dalla legge ora in votazione; impegna il governo ad abolire i regimi di massima sicurezza che siano in contrasto con la nuova normativa prevista dalla proposta di legge 3831 una volta approvata".

11. Il progetto Mannuzzu fu pubblicato nella rivista La nuova città, n. 4, luglio 1986. Il progetto Gozzini fu pubblicato nella predetta rivista, al n. 2, aprile 1986.

12. Relazione Gozzini e altri ad un proprio disegno di legge concernente modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, sull'ordinamento penitenziario. In Atti Parlamentari Senato della Repubblica, IX legislatura.

13. Relazione Mannuzzu, alla proposta di legge presentata alla Camera il 9 novembre 1983, Disciplina del regime di sorveglianza particolare dei detenuti e modifica dell'articolo 90 della legge 26 luglio 1975, n. 354, sull'ordinamento penitenziario. In Atti Parlamentari Camera dei deputati, IX legislatura.

14. Disegno di legge Gozzini, in Atti Senato, IX legislatura, stampato n. 23.

15. Disegno di legge Gozzini, in Atti Senato, IX legislatura, relatore on. M. Gallo.

16. Disegno di legge Mannuzzu, in Atti Camera dei deputati, IX legislatura, articolo 1.

17. articolo 1 disegno di legge Mannuzzu.

18. Atti Senato, Giunte e Commissioni, seduta del 16/1/1985.

19. E. Somma, in Commento alla legge 663/86. Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in Legislazione penale, 1987, pp. 79 ss. A. Bernasconi, La sicurezza penitenziaria, Milano, 1991, pp.137.

20. E. Fassone, T. Basile, G. Tuccillo, La riforma penitenziaria, Jovene, Napoli, 1987, pp. 103.

21. Introdotto dalla legge 663/86.

22. Vedi G. Torrebuono, La riforma dell'ordinamento penitenziario, Roma, pp. 27, 1986.

23. F. C. Palazzo, Commento alla legge 663/86. Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in Legislazione penale, 1987, pp. 101.

24. L. Cesaris Commento all'art. 14 bis O.P., a cura di V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Ordinamento penitenziario, Padova, Cedam, 2000, pp. 150 ss.

25. Nel testo originario della legge Gozzini, i presupposti applicativi del regime speciale erano costruiti su un rapporto di strettissima interdipendenza con gli illeciti disciplinari e penali. Venivano assoggettati al regime di sorveglianza particolare anche i detenuti e gli internati:

  1. che fossero imputati di aver commesso nell'istituto penitenziario un delitto punibile con la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni ovvero di altri reati specificatamente indicati;
  2. che avessero reiteratamente subito le più gravi sanzioni disciplinari.

26. F. C. Palazzo, Commento alla legge 663/86. Modifiche alla legge sll'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in Legislazione penale, 1987, pp. 101.

27. Un esempio di atteggiamenti punibili con il regime di sorveglianza particolare - riconducibili all'articolo 14 bis, comma 1, n. 1 - potrebbero essere gli atteggiamenti minatori tenuti all'interno dell'istituto di pena ovvero rapporti personali o epistolari o colloqui che siano sintomi in equivoci di un proposito di evasione. Non possono, invece ricondursi a questa disposizione, né il tipo di imputazione o condanna.

28. F. C. Palazzo, Commento alla legge 663/86. Modifiche alla legge sll'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in Legislazione penale, 1987, pp. 101. V. Grevi, L'ordinamento penitenziario dopo la riforma, a cura di Grevi, Padova, Cedam, 1988.

29. T. Padovani, Il regime di sorveglianza particolare: ordine e sicurezza negli istituti penitenziari all'approdo della legalità, in AA. VV., L'ordinamento penitenziario tra riforma ed emergenza, a cura di V. Grevi, Padova, Cedam, 1994, pp. 157.

30. L. Cesaris Commento all'art. 14 bis O.P., a cura di V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Ordinamento penitenziario, Padova, Cedam, 2000, pp. 150 ss.

31. Cassazione 11-6-87, Mambro, Foro italiano, II, 1988, pp.152.

32. T. Padovani, Il regime di sorveglianza particolare: ordine e sicurezza negli istituti penitenziari all'approdo della legalità, in AA. VV., L'ordinamento penitenziario tra riforma ed emergenza, a cura di V. Grevi, Padova, Cedam, 1994, pp. 157.

33. Tribunale di Sorveglianza di Roma 29.4.87, Piunti, Foro Italiano, II, 1988, pp. 159.

34. Articolo 14 bis, 5º comma, o.p. "possono essere sottoposti a regime di sorveglianza particolare, fin dal momento del loro ingresso in istituto, i condannati, gli internati e gli imputati, sulla base di precedenti comportamenti penitenziari o di altri concreti comportamenti tenuti, indipendentemente dalla natura dell'imputazione, nello stato di libertà. L'autorità giudiziaria segnala gli eventuali elementi a sua conoscenza all'amministrazione penitenziaria che decide sull'adozione dei provvedimenti di sua competenza".

35. L. Cesaris, In margine all'art. 14 bis, comma 5 O.P., in Cassazione penale, 1989, I, pp. 155. F. C. Palazzo, Commento alla legge 663/86. Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in Legislazione penale, 1987, pp. 101.

36. T. Padovani, Il regime di sorveglianza particolare: ordine e sicurezza negli istituti penitenziari all'approdo della legalità, in AA. VV., L'ordinamento penitenziario tra riforma ed emergenza, a cura di V. Grevi, Padova, Cedam, 1994.

37. F. C. Palazzo, Commento alla legge 663/86. Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in Legislazione penale, 1987, pp. 101.

38. Tribunale di Sorveglianza di Roma 20-3.87, Senzani, in Giurisprudenza di Merito, 1988, pp. 1113.

39. Cassazione 25-1-1988, in Giustizia penale 1988, III.

40. I Cappelli, Il carcere controriformato, in Il carcere dopo le riforme a cura di Magistratura democratica, pp. 11 ss., 1978.

41. F. C. Palazzo, Commento alla legge 663/86. Modifiche alla legge sll'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in Legislazione penale, 1987, pp. 101.

42. Parere della Commissione affari Costituzionali del Senato reso 11/10/1983, in Atti Senato IX legislatura, relazioni e documenti, stamp. 23-423-A.

43. Articolo 33 D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230.

44. Articolo 40, comma 2 O.P.

45. T. Padovani, Il regime di sorveglianza particolare: ordine e sicurezza negli istituti penitenziari all'approdo della legalità, in AA. VV., L'ordinamento penitenziario tra riforma ed emergenza, a cura di V. Grevi, Padova, Cedam, 1994, pp. 157.

46. L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 80, (Personale dell'amministrazione degli istituti di prevenzione e di pena).

  1. Presso gli istituti di prevenzione e di pena per adulti, oltre al personale previsto dalle leggi vigenti, operano gli educatori per adulti e gli assistenti sociali dipendenti dai centri di servizio sociale previsti dall'articolo 72.
  2. L'amministrazione penitenziaria può avvalersi per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento, di personale incaricato giornaliero, entro limiti numerici da concordare annualmente con il Ministero del tesoro.
  3. Al personale incaricato giornaliero è attribuito lo stesso trattamento ragguagliato a giornata previsto per il corrispondente personale incaricato.
  4. Per lo svolgimento delle attività di osservazione e di trattamento, l'amministrazione penitenziaria può avvalersi di professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica, corrispondendo ad essi onorari proporzionati alle singole prestazioni effettuate.
  5. Il servizio infermieristico degli istituti penitenziari previsti dall'art. 59, è assicurato mediante operai specializzati con la qualifica di infermieri.
  6. A tal fine la dotazione organica degli operai dell'amministrazione degli istituti di prevenzione e di pena, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 31 marzo 1971, n. 275, emanato a norma dell'articolo 17 della legge 28 ottobre 1970, n. 775, è incrementata di 800 unità riservate alla suddetta categoria. Tali unità sono attribuite nella misura di 640 agli operai specializzati e di 160 ai capi operai.
  7. Le modalità relative all'assunzione di detto personale saranno stabilite dal regolamento di esecuzione.

47. F. C. Palazzo, Commento alla legge 663/86. Modifiche alla legge sll'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in Legislazione penale, 1987, pp. 101.

48. D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, art. 33, (Regime di sorveglianza particolare).

  1. Il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, quando, di propria iniziativa, o su segnalazione o proposta della direzione dell'istituto o su segnalazione dell'autorità giudiziaria, ritiene di disporre o prorogare la sottoposizione a regime di sorveglianza particolare di un detenuto o di un internato ai sensi dell'articolo 14 bis, primo comma, della legge, richiede al direttore dell'istituto la convocazione del consiglio di disciplina, affinché esprima parere nel termine di dieci giorni.
  2. L'autorità giudiziaria deve far pervenire i pareri di cui al terzo comma dell'articolo 14 bis della legge al Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria entro il termine di dieci giorni.
  3. La direzione dell'istituto chiede preventivamente alla autorità giudiziaria competente ai sensi del secondo comma dell'articolo 11 della legge l'autorizzazione ad effettuare il visto di controllo sulla corrispondenza in arrivo ed in partenza, quando tale restrizione è prevista nel provvedimento che dispone o proroga il regime di sorveglianza particolare. Il provvedimento dell'autorità giudiziaria viene emesso entro il termine di dieci giorni da quello in cui l'ufficio ha ricevuto la richiesta.
  4. Del provvedimento che dispone in via provvisoria il regime di sorveglianza particolare e delle restrizioni a cui il detenuto o l'internato è sottoposto, è data comunicazione al medesimo, che sottoscrive per presa visione.
  5. I provvedimenti che dispongono in via definitiva o che prorogano il regime di sorveglianza particolare sono comunicati dalla direzione dell'istituto al detenuto o internato mediante rilascio di copia integrale di essi e del provvedimento con cui in precedenza sia stata eventualmente disposta la sorveglianza particolare in via provvisoria.
  6. Dei provvedimenti che dispongono o prorogano il regime di sorveglianza particolare e dei reclami proposti e del loro esito è presa nota nella cartella personale.
  7. La direzione dell'istituto provvede, di volta in volta, ad inviare al magistrato di sorveglianza le copie di ciascuno dei predetti provvedimenti e degli eventuali reclami proposti dall'interessato.
  8. Quando il detenuto o internato sottoposto al regime di sorveglianza particolare viene trasferito, anche temporaneamente, in altro istituto posto nella giurisdizione di un diverso ufficio di sorveglianza, la direzione dell'istituto di destinazione ne dà comunicazione a tale ufficio, trasmettendogli anche le copie dei provvedimenti e dei reclami di cui ai commi precedenti.
  9. Il trasferimento ad altro istituto idoneo viene disposto quando nell'istituto in cui il detenuto o l'internato si trova non sia disponibile una sezione nella quale il regime di sorveglianza particolare possa essere attuato senza comportare pregiudizio per la popolazione detenuta o internata e senza pregiudicare l'ordine o la sicurezza. Ove sia necessario, il detenuto o internato sottoposto a regime di sorveglianza può essere trasferito in uno degli istituti o in una delle sezioni di cui all'articolo 32.

Quest'articolo ha sostituito, senza apportare modifiche l'art. 32 bis del D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431, inserito nel regolamento di esecuzione dall'art. 7 del D.P.R. 18 maggio 1986, n. 248.

49. Tribunale di Sorveglianza di Roma 20/3/1987, Senzani, Giurisprudenza di Merito 1988, n. 6, pp. 1113.

50. Tribunale di Sorveglianza di Roma 20/3/1987, Senzani, Giurisprudenza di Merito 1988, n. 6, pp. 1113.

51. L'art. 32 bis D.P.R. 29 Aprile 1976 n. 431, al 7º comma prevedeva: "la direzione dell'istituto provvede, di volta in volta, ad inviare al magistrato di sorveglianza le copie di ciascuno dei predetti provvedimenti e degli eventuali reclami proposti all'interessato". L'art. 33, 7º comma D.P.R. 30 giugno 200, n. 230 ha riportato nel nuovo regolamento di esecuzione la dicitura.

52. D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, art. 5, (Vigilanza del magistrato di sorveglianza sulla organizzazione degli istituti).

  1. Il magistrato di sorveglianza, nell'esercizio delle sue funzioni di vigilanza, assume, a mezzo di visite e di colloqui e, quando occorre, di visione di documenti, dirette informazioni sullo svolgimento dei vari servizi dell'istituto e sul trattamento dei detenuti e degli internati.

Quest'articolo ha sostituito l'art. 5 del D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431, senza alcuna modifica.

53. Articolo 69, 1º comma, ordinamento penitenziario.

54. E. Rubiola, Commento alla legge 663/86. Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in Legislazione penale, 1987, pp 115.

55. T. Padovani, Il regime di sorveglianza particolare: ordine e sicurezza negli istituti penitenziari all'approdo della legalità, in AA. VV., L'ordinamento penitenziario tra riforma ed emergenza, a cura di V. Grevi, Padova, Cedam, 1994.

56. Art. 666 Cod. Proc. Pen., (Procedimento di esecuzione).

  1. Il giudice dell'esecuzione procede a richiesta del pubblico ministero (655), dell'interessato o del difensore (reg. 29).
  2. Se la richiesta appare manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge ovvero costituisce mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi, il giudice o il presidente del collegio, sentito il pubblico ministero, la dichiara inammissibile con decreto motivato (125), che è notificato entro cinque giorni all'interessato. Contro il decreto può essere proposto ricorso per cassazione (606).
  3. Salvo quanto previsto dal comma 2, il giudice o il presidente del collegio, designato il difensore di ufficio all'interessato che ne sia privo, fissa la data dell'udienza in camera di consiglio (127) e ne fa dare avviso alle parti e ai difensori (att. 653). L'avviso è comunicato o notificato (148 ss.) almeno dieci giorni prima della data predetta. Fino a cinque giorni prima dell'udienza possono essere depositate memorie in cancelleria.
  4. L'udienza si svolge con la partecipazione necessaria del difensore e del pubblico ministero. L'interessato che ne fa richiesta è sentito personalmente; tuttavia, se è detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice, è sentito prima del giorno dell'udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo, salvo che il giudice ritenga di disporre la traduzione.
  5. Il giudice può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno; se occorre assumere prove, procede in udienza nel rispetto del contraddittorio (att. 185).
  6. Il giudice decide con ordinanza. Questa è comunicata o notificata senza ritardo alle parti e ai difensori, che possono proporre ricorso per cassazione. Si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni sulle impugnazioni e quelle sul procedimento in camera di consiglio davanti alla Corte di cassazione (611).
  7. Il ricorso non sospende l'esecuzione dell'ordinanza, a meno che il giudice che l'ha emessa disponga diversamente (588).
  8. Se l'interessato è infermo di mente, l'avviso previsto dal comma 3 è notificato anche al tutore o al curatore (424 c.c.); se l'interessato ne è privo, il giudice o il presidente del collegio nomina un curatore provvisorio. Al tutore e al curatore competono gli stessi diritti dell'interessato.
  9. Il verbale di udienza è redatto soltanto in forma riassuntiva a norma dell'art. 140 comma 2.

Art. 678 Cod. Proc. Pen., (Procedimento di sorveglianza).

  1. Il tribunale di sorveglianza nelle materie di sua competenza, e il magistrato di sorveglianza nelle materie attinenti alla rateizzazione (6603; 133 ter c.p.) e alla conversione delle pene pecuniarie (660; 136 c.p.), alla remissione del debito, ai ricoveri previsti dall'art. 148 del codice penale, alle misure di sicurezza (199 ss. c.p.), alla esecuzione della semidetenzione e della libertà controllata e alla dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato (102-105 c.p.) o di tendenza a delinquere (108 c.p.), procedono, a richiesta del pubblico ministero, dell'interessato, del difensore o di ufficio, a norma dell'art. 666. Tuttavia, quando vi è motivo di dubitare della identità fisica di una persona, procedono a norma dell'art. 667.
  2. Quando si procede nei confronti di persona sottoposta a osservazione scientifica della personalità, il giudice acquisisce la relativa documentazione e si avvale, se occorre, della consulenza dei tecnici del trattamento.
  3. Le funzioni di pubblico ministero sono esercitate, davanti al tribunale di sorveglianza, dal procuratore generale presso la corte di appello e, davanti al magistrato di sorveglianza, dal procuratore della Repubblica presso il tribunale della sede dell'ufficio di sorveglianza (att. 189).

57. A. Presutti, Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, Cortina, Milano, 1994.

58. Vitello, Cassazione penale 1993, in Commento all'ordinamento penitenziario, a cura di Grevi 2000, pp. 159 ss.

59. L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 71, (Norme generali).

  1. Per l'adozione dei provvedimenti di competenza del tribunale di sorveglianza espressamente indicati nei commi 1 e 2 dell'articolo 70, nonché dei provvedimenti del magistrato di sorveglianza in materia di remissione del debito, di ricoveri di cui all'articolo 148 del codice penale, di applicazione, esecuzione, trasformazione o revoca anche anticipata delle misure di sicurezza e di quelli relativi all'accertamento dell'identità personale ai fini delle dette misure, si applica il procedimento di cui ai commi e agli articoli seguenti.
  2. Il presidente del tribunale o il magistrato di sorveglianza, a seguito di richiesta o di proposta ovvero di ufficio, invita l'interessato ad esercitare la facoltà di nominare un difensore. Se l'interessato non vi provvede entro cinque giorni dalla comunicazione dell'invito, il difensore è nominato di ufficio dal presidente del tribunale o dal magistrato di sorveglianza. Successivamente il presidente del tribunale o il magistrato di sorveglianza fissa con decreto il giorno della trattazione e ne fa comunicare avviso al pubblico ministero, all'interessato e al difensore almeno cinque giorni prima di quello stabilito.
  3. La competenza spetta al tribunale o al magistrato di sorveglianza che hanno giurisdizione sull'istituto di prevenzione o di pena in cui si trova l'interessato all'atto della richiesta o della proposta o all'inizio d'ufficio del procedimento.
  4. Se l'interessato non è detenuto o internato, la competenza spetta al tribunale o al magistrato di sorveglianza che hanno giurisdizione nel luogo in cui l'interessato ha la residenza o il domicilio. Nel caso in cui non sia possibile determinare la competenza secondo il criterio sopra indicato, si applica la disposizione del secondo comma dell'articolo 635 del codice di procedura penale.
  5. Le disposizioni contenute nel capo I del titolo V del libro IV del codice di procedura penale (633 ss. c.p.p.) sono applicabili in quanto non diversamente disposto dalla presente legge. L'articolo 641 del codice di procedura penale resta in vigore limitatamente ai casi di cui all'articolo 212 dello stesso codice.

60. Cassazione 11/12/88, Vallanzasca, in Cassazione penale 1990, I.

61. Articolo 666 c.p.p. e articolo 678 c.p.p.

62. Articolo 71, ultimo comma, o.p.

63. Tribunale di Sorveglianza Roma 29/4/87, Concutelli, Senzani, in Foro Italiano, 1988.

64. Cassazione17/7/87, Piunti, Mambro, in Cassazione penale, 1988.

65. Corte costituzionale sentenze, 349/93, 410/93, 351/90, 376/97.

66. M. Canepa - S. Merlo, Manuale di diritto penitenziario, 4º ed., Milano, ed. Giuffrè, pp. 457.

67. L. Cesaris Commento all'art. 14 quater O.P., a cura di V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Ordinamento penitenziario, Padova, Cedam, 2000, pp. 159.

68. E. Rubiola, Commento alla legge 663/86. Modifiche alla legge sll'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in Legislazione penale, 1987, pp. 115.

69. E. Fassone, La pena detentiva dall'800 alla riforma penitenziaria, il Mulino, Bologna, 1980.

70. Regole minime per il trattamento dei detenuti dell'O.N.U.

71. Articolo 10 O.P.

72. L'art. 37 D.P.R. 30 giugno 2000 n. 230 "Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà", ha sostituito l'art. 35 D. P. R. 29 aprile 1976 n. 431. L'unica modifica al vecchio testo del regolamento consiste nell'inserimento di dell'ottavo comma dell'art. 37, in cui è previsto che: "i detenuti e gli internati usufruiscono di sei colloqui al mese. Quando si tratta di detenuti o internati per uno dei delitti previsti al primo periodo del primo comma dell'articolo 4 bis della legge e per i quali si applica il divieto di benefici ivi previsto, il numero di colloqui non può essere superiore a quattro al mese".

73. L. Cesaris Commento all'art. 14 quater O.P., a cura di V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Ordinamento penitenziario, Padova, Cedam, 2000, pp. 165 ss.

74. Cassazione 9/12/95, in Cassazione penale, 1996.

75. Concutelli, Tribunale di Sorveglianza di Roma, in Giurisprudenza di merito, 1988. R. Kostoris, isolamento del detenuto in custodia cautelare tra sistema penitenziario e nuovo processo penale, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 1990, IV, pp. 1391.

76. A. Presutti, Criminalità organizzata e politiche penitenziarie, Milano, Cortina, 1994.

77. O. Vocca, Il carcere linee di politica criminale, ed. Liguori, Napoli, 2003, pp. 165.

78. D.l. 13/11/1990 n. 324: tale decreto, la cui emanazione era da collegarsi alla notevole recrudescenza del fenomeno della criminalità organizzata nonché al sempre maggiore allarme sociale legato alla commissione di reati, da parte di condannati ammessi a licenze premio o a misure alternative alla pena, non fu convertito a causa dei rilevanti contrasti che, in parlamento, si determinano sul tema della retroattività degli irrigidimenti normativi in tema di ordinamento penitenziario. Attenuato questo aspetto, il Governo provvedeva ad adottare un nuovo testo, d.l. 12/1/1991 n.5, che comunque non differiva nei contenuti dal precedente decreto legislativo. Ancora una volta si fece ricorso alla reiterazione, intervenuta con d.l. 13/3/1991 n. 76; decaduto anche quest'ultimo, si arrivava alla adozione del d.l. 152791, che veniva convertito nella l. 203/91.

79. F. C. P. Iovino, Legge penitenziaria e lotta alla criminalità organizzata. Brevi note sul D.L. 13 maggio 1991, n. 152 convertito con modificazioni nella legge 12 luglio 1991, n. 203, in Cassazione penale, 1992, n. 290, pp. 438.

80. Il comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica è costituito, ex articolo 20 comma 2 l. 125/81 n. 125, dal prefetto che lo presiede, dal questore, dai comandanti provinciali dell'Arma dei carabinieri e dal Corpo della Guardia di finanza. Può essere chiamato a partecipare al comitato il direttore dell'istituto penitenziario in cui il condannato è detenuto.

81. D. Mazione, Una normativa "d'emergenza" per la lotta alla criminalità organizzata e la trasparenza e il buon andamento dell'attività amministrativa (D. L. 152/91 e L. 203/91): uno sguardo d'insieme, in Legislazione penale, 1992, pp. 843. Cassazione, sezione I, 10 febbraio 1993. M. Pavarini, Codice commentato dell'esecuzione, I, a cura di B. Guazzaloca, Torino, Utet, 2002.

82. Cassazione penale, sez.I, 16/1/1992 (c.c. 21/11/1991, n. 4404), La Rocca.

83. Corte Costituzionale sentenza 306/93.

84. Questa fattispecie appare di non facile lettura, se intesa di delitti collegati con nesso teleologico al delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, poteva essere espresso con maggiore chiarezza, se il riferimento è al modus operandi con il quale è stato commesso il reato, senza il rapporto alcuno con il delitto previsto dall'articolo 416 bis c.p. Il giudice di sorveglianza per accertarlo è chiamato a rivedere tutti i procedimenti che accusato l'interessato e ad emettere un giudizio di merito.

85. Era preferibile la disposizione dei precedenti decreti legge che prevedevano la competenza del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica del luogo di abituale dimora del detenuto, dove presumibilmente possono acquisirsi maggiori dati di conoscenza. La modifica è stata apportata per agevolare la partecipazione del direttore dell'istituto ove l'interessato è detenuto.

86. A. Martini, Commento all'art. 15 D. L. 8/6/1992 n. 306, in Legislazione penale 1993, 187 ss. G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, 1997, 56 ss. V. Grevi, verso un regime penitenziario progressivamente differenziato: tra esigenze di difesa sociale ed incentivi alla collaborazione con la giustizia, in L'ordinamento penitenziario tra riforma ed emergenza, a cura di V. Grevi, Padova, Cedam, 1994.

87. Cassazione, sezione I, 25 maggio 1992, Romano, in Rivista Penale, 1993, pp. 353; Cassazione, sezione I, 13 aprile 1992, Giampaolo, in Cassazione Penale, 1992, pp. 2818.

88. Cassazione, sezione I, 10 febbraio 1993.

89. Sentenza n. 4 del 14 gennaio 1986, Corte costituzionale, in Giurisprudenza Costituzionale, 1986, I, p. 81 ss.; D.p.r. n. 449/88, che modificando l'articolo 1 dell'ordinamento giudiziario, ha inserito il giudice di sorveglianza e il tribunale di sorveglianza tra le autorità che esercitano la giurisdizione penale.

90. Corte costituzionale, sentenza n. 40 del 23 maggio 1964, in Giurisprudenza Costituzionale, 1964, pp. 522.

91. Sentenza Corte di Cassazione, Sezione I, Palladino, 10 febbraio 1993, n. 1466, in Cassazione penale 1993, pp. 2384 n. 1466.

92. A. Margara, Quale giustizia? Reperita non iuvant: ancora sulla pena e sul carcere, in Questione Giustizia 2002, pp.1031.

93. A. Margara, Memorie di trent'anni di galera. Un dibattito spento, un dibattito acceso, in Il Ponte 1995, pp. 112 ss.

94. La competenza del magistrato di sorveglianza e del tribunale di sorveglianza è individuata dall'art. 677, 1º comma c.p.p.

95. Cassazione sezione I, 23 luglio 1993, n. 2417, Scialpi. Cassazione sez. II, 10 luglio 2001, n. 28765, Di Dio.

96. Cassazione., sezione I, 22 Aprile 2004.

97. Di Ronza, Manuale di diritto dell'esecuzione penale, 4 ed., Cedam, Padova, 371 ss. F. C. Palazzo, C. E. Paliero, Commentario breve alle leggi penali complementari, Cedam, Padova, 2004, pp. 1434.

98. Cassazione sez. I, 22 marzo 1999, Parisi, in Rivista penale 1999. Cassazione sez. I 6 novembre 2002, in Cassazione penale, 2003, n. 1168. Cassazione, sez. I, 22 febbraio 2000, in Cassazione penale, 2001, n. 813.

99. Corte Costituzionale sentenza 361/94.

100. Cassazione sezioni unite, 30 giugno 1999, in Cassazione penale, 2000, n. 350, pp. 570.

101. Corte Costituzionale sentenza n.343/87, n.282/89.

102. Corte Costituzionale sentenza 445/97, sentenza 504/95, sentenza 137/99.

103. Corte Cost. sentenza 361/94.

104. Corte Costituzionale sentenza 204/74.

105. Corte Costituzionale sentenza 282/89.

106. Art. 114 Cod. Pen., (Circostanze attenuanti).

  1. Il giudice, qualora ritenga che l'opera prestata da taluna delle persone che sono concorse nel reato a norma degli articoli 110 e 113 abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell'esecuzione del reato, può diminuire la pena (65).
  2. Tale disposizione non si applica nei casi indicati nell'articolo 112.
  3. La pena può altresì essere diminuita per chi è stato determinato a commettere il reato o a cooperare nel reato, quando concorrono le condizioni stabilite nei numeri 3 e 4 del primo comma e nel terzo comma dell'articolo 112.
  4. Art. 116 Cod. Pen., (Reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti). Qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde, se l'evento è conseguenza della sua azione od omissione (423).
  5. Se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita (65) riguardo a chi volle il reato meno grave.

107. Art. 62 Cod. Pen, (Circostanze attenuanti comuni). Attenuano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze attenuanti speciali (633), le circostanze seguenti:

  1. l'avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale;
  2. l'aver reagito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui (599);
  3. l'avere agito per suggestione di una folla in tumulto, quando non si tratta di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall'Autorità, e il colpevole non è delinquente o contravventore abituale (102-104) o professionale (105), o delinquente per tendenza (108);
  4. l'avere, nei delitti contro il patrimonio (624 ss., 1135 ss. c.n.), o che comunque offendono il patrimonio, cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità, ovvero, nei delitti determinati da motivi di lucro, l'avere agito per conseguire o l'avere comunque conseguito un lucro di speciale tenuità, quando anche l'evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità;
  5. l'essere concorso a determinare l'evento, insieme con l'azione o l'omissione del colpevole, il fatto doloso della persona offesa;
  6. l'avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni (185); o l'essersi, prima del giudizio e fuori del caso preveduto nell'ultimo capoverso dell'articolo 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato.

108. Corte costituzionale sentenza 39/94.

109. Delitti previsti nel primo periodo del primo comma dell'articolo 4 bis o.p.

110. Articoli 16-nonies e 17-bis del DL 15 gennaio 1991 n. 82.

111. Art. 600 Cod. Pen., (Riduzione in schiavitù). Chiunque riduce una persona in schiavitù, o in una condizione analoga alla schiavitù, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni (9, 10, 604).

112. Art. 601 Cod. Pen., (Tratta e commercio di schiavi).

  1. Chiunque commette tratta o comunque fa commercio di schiavi o di persone in condizione analoga alla schiavitù è punito con la reclusione da cinque a venti anni (602; 1152, 1153 c.n.).
  2. Chiunque commette tratta o comunque fa commercio di minori degli anni diciotto al fine di indurli alla prostituzione è punito con la reclusione da sei a venti anni.

113. Art. 602 Cod. Pen., (Alienazione e acquisto di schiavi). Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, aliena o cede una persona che si trova in stato di schiavitù (600) o in una condizione analoga alla schiavitù, o se ne impossessa o ne fa acquisto o la mantiene nello stato di schiavitù, o nella condizione predetta, è punito con la reclusione da tre a dodici anni (604).

114. Atto Senato n. 1487, esaminato dalla II Commissione Giustizia, in sede referente, il 73, 23 luglio 2002.

115. Costituzione articolo 27, comma 3.

116. Cassazione sezione I, Buzzone, 17 aprile 1998, n. 1774.

117. Vedi capitoli precedenti.

118. Protocollo n. 606895 del 20 aprile 1991, inviato dall'Ufficio detenuti e trattamento del D. A. P. alle direzioni delle carceri.

119. Protocollo n.107372/3-670 31 agosto 1991 "Messaggio a tutto il personale: per una nuova amministrazione". C. Brunetti e M. Ziccone, Manuale di diritto penitenziario, La tribuna, Piacenza, 2004, pp.429.

120. D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 95. (L. 26 giugno 1990, n. 162, artt. 24, comma 2, e 30). (Esecuzione della pena detentiva inflitta a persona tossicodipendente).

  1. La pena detentiva nei confronti di persona condannata per reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendente deve essere scontata in istituti idonei per lo svolgimento di programmi terapeutici e socio-riabilitativi.
  2. Con decreto del Ministro di grazia e giustizia si provvede all'acquisizione di case mandamentali ed alla loro destinazione per i tossicodipendenti condannati con sentenza anche non definitiva.

121. Circolare D.A.P. 21 aprile 1993 n. 3359/5809.

122. Circolare D.A.P. 9 luglio 1998, n. 3479/5929.

123. D.P.R. 29 aprile 1976 n. 431.

124. L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 48, Regime di semilibertà).

  1. Il regime di semilibertà consiste nella concessione al condannato e all'internato di trascorrere parte del giorno fuori dell'istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale.
  2. I condannati e gli internati ammessi al regime di semilibertà sono assegnati in appositi istituti o apposite sezioni autonome di istituti ordinari e indossano abiti civili.

125. art. 59-65 O.P. e 97-99 reg. esec. D.P.R. 29 aprile 1976 n. 431.

126. Così come raccomandato dalla Circolare D.A.P. 9 luglio 1998, n.3479/5929.

127. Vedi paragrafo n.1 e 3 cap. III.

128. Corte Costituzionale sentenza n. 349/93.

129. Art. 37, 8º comma, D.P.R. 30 giugno 2000 n. 230 "Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà", che ha sostituito l'art 35 D.P.R. 29 aprile 1976, n. 431.

130. Art. 39, 2º comma, D.P.R. 30 giugno 2000 n. 230 "Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà", che ha sostituito l'art 37 D.P.R. 29 aprile 1976, n. 430.

131. Corte costituzionale sentenza n. 26/99.

132. Sulla mancanza del provvedimento di assegnazione dei detenuti nel circuito di "elevato indice di vigilanza" si vedano le osservazioni del magistrato di sorveglianza di Pavia, decreto 21/2000, in Rassegna penitenziaria e criminologia, 1-3, 2000, pp. 253 ss.

133. R. Mura, Le sezioni unite assicurano la garanzia giurisdizionale anche agli interessi legittimi del detenuto, ma mantengono in vita il procedimento de plano, in Cassazione penale 2004, n. 470.

134. Art. 70, quarto comma, del D.P.R. n. 431 del 1976, sostituito dall'art. 75, quarto comma, D.P.R. n. 230 del 2000.

135. Cassazione penale, 2003, p. 2941, n. 843.

136. R. Mura, Le sezioni unite assicurano la garanzia giurisdizionale anche agli interessi legittimi del detenuto, ma mantengono in vita il procedimento de plano, in Cassazione penale 2004, n. 470.

137. Corte Europea dei diritti dell'uomo, sez. IV, 11 gennaio 2005, ricorso n. 33695/96, traduzione non ufficiale in Guida al diritto - Il Sole 24 Ore, n. 2, 2005, pp. 82.

138. La disposizione aveva durata fino all'8 agosto 1995.

139. L'art. 1 della l. 16 febbraio 1995, n. 36, prorogava il termine di applicazione dell'art. 41 bis O. P. fino al 31 dicembre 1999, in seguito la l. 26 novembre 1999, n. 446, prorogava al 31 dicembre 2000, infine il d. l. 341/2000, convertito nella l. 19 gennaio 2001, n. 4, prorogava al 31 dicembre 2002.

140. O. Vocca, Il carcere, linee di politica criminale, Napoli, Liguori, 2003, pp. 165.

141. L. Cesaris, art. 41 bis o.p., in AA. VV. Ordinamento penitenziario, a cura di V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, Cedam, Padova, 2000, p. 151.

142. M. Ruotolo, Diritti dei detenuti e costituzione, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 213.

143. Tribunale di Sorveglianza di Firenze, ordinanza n. 1324/93.

144. Tribunale di Sorveglianza di Perugina, ordinanza n.927/2001.

145. A. S. Giambruno, La sicurezza e la disciplina penitenziaria, in AA. VV., Manuale dell'esecuzione penitenziaria, a cura di P. Corso, ed. Monduzzi, Bologna 2000, p. 171 ss.

146. A. Martini, Sospensione delle normali regole di trattamento, in Legislazione penale, 1993, pp. 207.

147. In merito a tale questione, vengo prese in esame le sentenze del Tribunale di Sorveglianza di Firenze negli anni che precedono le decisioni della Corte Costituzionale.

148. Tribunale di sorveglianza di Firenze ordinanza n. 1324/93.

149. Nota contenuta nell'ordinanza n. 1324/93 del tribunale di sorveglianza di Firenze.

150. Nella sentenza n. 53/93 la Corte Costituzionale riconosce che la fase esecutiva della pena deve essere sorretta da garanzie di giurisdizionalità consistenti nella necessità del contraddittorio e nella impugnabilità dei provvedimenti.

151. Sulla tutela dei diritti inviolabili si vedano anche le sentenze della Corte Costituzionale n.204/74 - 185/85 - 312/85 - 374/87 - 53/93.

152. Corte Costituzionale sentenza 349/93.

153. La l. 11/98 prorogava l'applicazione dell'art. 41 bis, 2º comma O.P. fino al 31 dicembre 2000.

154. Tribunale di Sorveglianza di Firenze ordinanza n. 3150/94, ordinanza n. 2580/94.

155. Corte di Cassazione, sezione I, Salerno, 31 marzo 1995, in Giustizia penale, III, 1996, pp. 7.

156. Corte Costituzionale sentenza 351/93.

157. Le disposizioni della circolare del Ministro di giustizia sono interamente riportate nella circolare D.A.P. 30 aprile 1997, n. 538429-1-1. Organizzazione delle sezioni ove sono ristretti detenuti sottoposti al regime speciale di cui all'art. 41 bis, secondo comma, O.P.- disposizioni attuative.

158. Corte europea 6 aprile 2000, Lambita/Italia. Corte europea, 28 settembre 2000, Messina/Italia. Corte europea 11 gennaio 2005, Musumeci/Italia.

159. A proposito vedi, anche Commissione europea dei diritti dell'uomo, 18 maggio 1998, Natoli/Italia, in Foro Italiano, IV, 1998, pp. 321, con nota di G. La greca, Diritti dell'uomo e regime dell'art. 41 bis ord. Penit.

160. In particolare corte europea dei diritti dell'uomo, 6 aprile 2000, Lambita/Italia. In questa decisione la Corte europea sottolinea l'ingerenza sul diritto al rispetto della vita privata determinata dalla disposizione del visto di controllo sulla corrispondenza, ritenuto lesivo dell'art. 8 C.E.D.U., anche nell'ipotesi di applicazione dell'art. 41 bis O. P., per l'assenza del necessario fondamento legale.

161. Corte europea, 28 settembre 2000, Messina/Italia, in Guida al diritto, 2001, n. 6, pp.133 ss.

162. Corte europea 11 gennaio 2005, Musumeci/Italia.

163. Cassazione, sez. I, sentenza 29 gennaio - 5 febbraio 2005 n. 4599, in Guida al diritto, n. 8 pp. 71.

164. Art. 41 bis o.p., comma 2-ter.

165. Cassazione, Sez. 1, sentenza 21 settembre 1995, n. 4079.

166. Art. 41 bis, comma 7 c.p.p.

167. Corte. Costituzionale sentenza 351/96.

168. Corte Costituzionale sentenza 376/97.

169. Cass., Sez I, sentenza 12 febbraio 1996, n. 6873; Cass., Sez. I, sentenza 1 marzo 1996, n. 684; Cass., Sez. I, sentenza 6 giugno 1996, n. 1543.

170. Corte costituzionale sentenza 376/97.