ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Cap. 4: Il Settecento riformatore

Tommaso Buracchi, 2004

Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo, che non retrocede, le azioni già consumate? (1)

1: Continuità e trasformazione

Fino alla metà del Settecento, le concezioni della pena e della società introdotte dalla mentalità mercantilistica continuarono a dominare incontrastate; nessun cambiamento di rilievo, rispetto alla situazione che abbiamo esaminato nel capitolo appena concluso, è rilevabile nel periodo che precede la feconda attività dei riformatori Illuministi. In maniera analoga al secolo precedente "la tortura giudiziaria, nel secolo XVIII, funziona in questa strana economia in cui il rituale che produce la verità va di pari passo col rituale che impone la punizione. Il corpo interrogato nel supplizio è il punto di applicazione del castigo e il luogo di estorsione della verità" (2). Come la presunzione è un solido elemento dell'inchiesta ed un frammento di colpevolezza, così la sofferenza regolata dalla tortura è insieme una atto istruttorio ed una misura per punire. Nel corso dell'esecuzione della pena il corpo del condannato è elemento essenziale nel cerimoniale del castigo pubblico. "Tocca al colpevole portare in piena luce la sua condanna e la verità del crimine che ha commesso. Il suo corpo, mostrato, portato in giro, esposto, suppliziato, deve essere come il supporto pubblico di una procedura che era rimasta finora nell'ombra; in lui, su di lui, l'atto della giustizia deve divenire visibile per tutti" (3). Questa pubblica manifestazione del potere dello Stato persegue finalità diverse. Prima di tutto, fare del colpevole il pubblico ufficiale della propria condanna. "Lo si incarica, in qualche modo, di proclamarla e di attestare così la verità di quello che gli è stato addebitato; ... che si trattasse semplicemente della gogna oppure del rogo o della ruota, il condannato rende pubblici il suo crimine e la giustizia che gli è resa, portandoli fisicamente sul suo corpo" (4). In secondo luogo, perseguire la scena della confessione; "doppiare la forzata proclamazione della confessione pubblica con un riconoscimento spontaneo" (5). La cerimonia penale, se ciascuno degli attori interpretava il suo ruolo secondo i canoni previsti, aveva l'efficacia di una lunga confessione pubblica. In terzo luogo, congiungere il supplizio al delitto, stabilendo tra l'uno e l'altro relazioni decifrabili (6). "Il corpo costituisce l'elemento che attraverso tutto un gioco di rituali e di prove confessa che il crimine ha avuto luogo, afferma che lo ha commesso lui stesso (il condannato), mostra che egli lo porta inscritto in sé e su di sé, sopporta l'azione del castigo e manifesta, nella maniera più clamorosa, i suoi effetti" (7). Infine, la lentezza del supplizio, le sue peripezie, le grida e le sofferenze del condannato giocano, alla fine del rituale giudiziario, il ruolo di un'ultima prova. "Come ogni agonia, quella che si svolge sul patibolo dice una certa verità: ma con maggiore intensità, nella misura in cui il dolore la serra; con maggiore rigore poiché essa è esattamente nel punto di giunzione fra il giudizio degli uomini e il giudizio di Dio; con maggiore splendore perché si svolge in pubblico" (8). Le sofferenze provocate dal supplizio prolungano quelle della tortura preparatoria, ma adesso la morte è sicura; si tratta di salvare l'anima. "Il gioco eterno è già cominciato: il supplizio anticipa le pene dell'aldilà. Mostra ciò che esse sono, è il teatro dell'inferno" (9). Ma i dolori sofferti in questo mondo possono anche valere come penitenza per alleggerire il castigo dell'aldilà. "Di qui la straordinaria curiosità che preme gli spettatori intorno al patibolo e alle sofferenze che dà in spettacolo; vi si decifrano il delitto e la innocenza, il passato e il futuro, il terreno e l'eterno" (10). Il supplizio costituisce un rituale per ricostituire la sovranità, per un istante ferita. L'esecuzione pubblica si inserisce in tutta una serie di grandi rituali adottati dal potere; "il suo scopo è meno di ristabilire un equilibrio, che non di far giocare, fino al suo punto estremo, la disimmetria fra il suddito che ha osato violare la legge e l'onnipotente sovrano che fa valere la legge" (11). L'esecuzione della pena è fatta per dare non lo spettacolo della misura, ma quello dello squilibrio e dell'eccesso; deve esserci, in questa liturgia della pena, un'affermazione enfatica del potere e della sua superiorità intrinseca (12). "Nella prima metà del secolo XVIII la giustizia penale porgeva in Europa il più triste spettacolo: incertezza e confusione nelle leggi e nella interpretazione di esse, rigore ed atrocità delle pene, esagerata incriminazione. ...Gli eccessi erano portati al colmo" (13). "Le principali caratteristiche della giustizia criminale erano a quel tempo confusione e crudeltà" (14); la confusione era dovuta alle varie influenze che nel corso dei secoli avevano modificato i codici penali. "Le fonti legislative erano varie e confuse: convivevano in una specie di ibrido connubio - senza un quadro di gerarchia e di correlazioni -" (15) varie leggi, che costituivano un groviglio di regole di diversa provenienza, di differente struttura e di difficile coordinamento. Il diritto penale, per citare una affermazione di Voltaire, sembrava 'pianificato per rovinare i cittadini'; esso era "la traduzione giuridica dei poteri dispotici dell'assolutismo monarchico, della Chiesa e dell'aristocrazia, era la negazione dei diritti dell'individuo" (16). L'arbitrio e l'incertezza caratterizzavano tutti i settori dell'ordinamento penale, dal diritto sostanziale al processo, dall'attività giurisdizionale in senso stretto a quella relativa all'esecuzione delle pene. "La mancanza di regolari codici e di precise direttive riguardanti le pene era causa di inevitabile arbitrarietà da parte dei giudici" (17). "Non solo i reati erano definiti in maniera generica dalle leggi penali, ... ma si poteva essere incriminati anche per fatti che nemmeno erano previsti dalla legge come reato" (18). Per certi delitti non era specificata la pena, ed il giudice era autorizzato a sceglierne una fra le pene previste per altri delitti; in altri casi la pena era precisata, ma il giudice aveva il diritto di aumentarla o diminuirla in considerevole misura a seconda delle circostanze; l'unica limitazione consisteva nel non potere inventare pene completamente nuove. Nei casi di prove non piene, la terribile invettiva della prassi aveva condotto alla introduzione della pena straordinaria (19). "Le differenze di casta incidevano nell'amministrazione della giustizia e si proiettavano anche nella esecuzione, essendo previsto un diverso modo perfino di eseguire la stessa pena di morte in relazione alla classe sociale a cui apparteneva il condannato" (20). Ricevevano inoltre larga attenzione i delitti di opinione, che attenevano esclusivamente alla coscienza personale, alla sfera delle mere intenzioni, senza tradursi in comportamenti materiali esterni, quali gli illeciti contro la religione e lo Stato, classificati come reati di lesa maestà divina ed umana. Quanto alla crudeltà, "in base a una ristretta interpretazione della Bibbia, era considerato doveroso applicare letteralmente la legge del taglione, legge che, essendo di origine divina, non poteva ammettere modifiche o attenuazioni" (21). La superstizione manteneva un posto di rilievo nel campo della giustizia, ed ancora nel diciottesimo secolo avvenivano processi per stregoneria ed impiego di arti magiche, e le 'streghe' continuavano ad essere date alle fiamme. Era ancora in vigore il diritto di asilo, grazie al quale i criminali potevano trovare rifugio in una chiesa o altro luogo sacro. "Questo privilegio ecclesiastico portava alle situazioni più assurde; per esempio alcune chiese, oltre a dar protezione ai criminali, davano ricetto alla loro refurtiva. Non era poi raro il caso di banditi ricercati dalla polizia che, per affermare il loro diritto d'asilo, uccidevano un passante alla soglia di una chiesa e poi si precipitavano all'interno per chiedere protezione" (22). Non il carcere, ma la condanna a morte e le mutilazioni corporali erano le pene prescritte per la maggioranza dei delitti. "Per infrazioni anche lievi si procedeva non solo alla fustigazione, ma spesso al taglio della lingua, del naso, delle orecchie, della mano. La berlina era la pena consueta per i colpevoli di falso giuramento o di corruzione; questi congegni erano solitamente eretti nelle piazze, e la sofferenza dei condannati era accresciuta dagli scherni e dagli insulti degli spettatori" (23). La pena di morte era inflitta in vari modi: la condanna al rogo era applicata di regola ai colpevoli di eresia, mentre per gli altri delitti le forme più usate erano l'impiccagione, lo squartamento e la ruota. In caso di crimini particolarmente efferati e gravi i giudici potevano prescrivere pene di morte di tipo speciale (24). In Inghilterra la pena di morte mediante impiccagione era inflitta con facilità incredibile anche per furti di lieve entità. "Una pena atroce era poi riservata ai colpevoli di alto tradimento, i quali venivano trascinati sul luogo del supplizio legati per i piedi alla coda di un cavallo, con un graticcio sotto la testa per impedire che sbattesse sulle pietre; il condannato veniva quindi impiccato, e dal suo corpo ancora in vita venivano strappati i visceri e gettai nel fuoco; dopo di che si procedeva al taglio della testa e allo squartamento del corpo" (25). Sebbene l'Inghilterra non avesse mai adottato la procedura inquisitoria (26), sviluppatasi nell'Europa continentale sotto l'influenza della Chiesa cattolica e di sovrani dispotici, e basata sull'uso di mezzi segreti per scoprire il colpevole e sull'impiego della tortura per ottenerne la confessione, tuttavia ciò non impedì il prodursi di aspetti crudeli ed arbitrari. "Un accusato non poteva essere giudicato se non confermava espressamente di accettare il processo. Se l'accusato rifiutava di pronunciare la formula prescritta, il processo non poteva avere luogo. In tal caso, per obbligarlo a parlare, si ricorreva alla cosiddetta peine forte et dure, per cui l'accusato veniva steso sul dorso e gli venivano posti sopra pesi tali da lasciarlo appena in vita. Rimaneva così finché spirava o pronunciava le parole prescritte" (27). In tutta l'Europa, fine del processo penale non era la ricerca della verità, "bensì ispirare il terrore per il delitto e contrapporre allo scandalo che da questo emerge, l'olocausto della giustizia sociale con lo spettacolo della punizione" (28). All'insegnamento dei giuristi romani, in base al quale è preferibile che il delinquente rimanga impunito, piuttosto che l'innocente venga condannato, si sostituì l'opposto principio secondo il quale, affinché il reo non si salvi, vale la pena condannare qualche innocente. Di conseguenza, "la ripugnanza (indubbiamente legittima) per l'errore giudiziario portava ad accettare la tortura" (29) come normale procedura per scoprire la verità. Per tutta la prima metà del Settecento, quindi, ed anche per buona parte della seconda metà, l'universo penale rimase sostanzialmente immutato rispetto alla situazione che abbiamo descritto relativamente al periodo mercantilista. Tuttavia, le premesse di un imminente cambiamento stavano già cominciando a manifestarsi in maniera sempre più intensa. A partire dal secolo XVIIIº il crimine cominciò a dividersi in due tipi distinti. "Era ancora presente, in misura notevole, la precedente, tradizionale criminalità associata alle strutture sociali e economiche del mondo feudale. ... ma in questo periodo si assistette anche all'emergenza di nuove forme di criminalità che riflettevano la transizione in atto alla vita industriale" (30). Questi nuovi tipi di crimine si verificavano con più frequenza nelle regioni direttamente a confronto con gli effetti della modernizzazione; talvolta all'interno della stessa popolazione coesistevano sia il vecchio sia il nuovo tipo di crimine. Tuttavia "c'era una continuità di fondo relativamente all'esistenza di fattori sociali e economici fondamentali che provocavano la criminalità" (31). La prima causa della criminalità fu, sia nel periodo precedente che in quello contemporaneo, l'incremento demografico; non solo i livelli demografici aumentarono in modo spettacolare, ma la mobilità geografica della popolazione europea crebbe costantemente per quantità ed ampiezza. "Molta gente viaggiava più di prima con regolarità, e città recenti e più grandi si riempirono rapidamente di un numero molto maggiore di immigrati dalla campagna" (32). La conseguenza immediata di tale sviluppo fu un aumento enorme dell'ampiezza della popolazione povera. "In una certa misura, lo sviluppo economico aveva alleviato alcune delle sofferenze più immediate causate dalla sovrappopolazione. Ma nel corso del secolo XVIII gli effetti positivi dello sviluppo economico furono ridotti dall'inesorabile pressione demografica" (33). Durante la prima metà del secolo, la popolazione continuava a crescere lentamente, determinando una stabilizzazione delle condizioni delle classi più povere; ma già a partire dal 1750 la situazione stava cominciando a cambiare drasticamente. "Il tenore di vita delle classi inferiori declinò in questo periodo e i poveri apparivano più numerosi che mai" (34). L'incremento demografico e l'impoverimento generalizzato di buona parte delle classi svantaggiate ebbero seri effetti sul modo di vita nel settore urbano e in quello rurale. "Il Settecento assistette all'eliminazione definitiva dei resti dello spirito comunitario rurale" (35). I caratteri essenziali della comunità feudale erano stati possibili nel contesto di una popolazione limitata e statica, che permetteva alla comunità locale di svilupparsi in modo autosufficiente; "ma queste caratteristiche non potevano sopravvivere quando la popolazione crebbe nettamente più del prodotto della terra" (36). Inoltre l'incremento demografico superava di gran lunga la capacità dei centri urbani di assorbire le eccedenze, con il risultato che una povertà generale e diffusa divenne una caratteristica del paesaggio rurale. Le campagne erano "minacciate da grandi bande di vagabondi disoccupati, molti dei quali erano poveri nomadi che viaggiavano da un luogo all'altro alla ricerca di cibo per l'indomani" (37). Anche nelle città, la popolazione era cresciuta ad un ritmo straordinario, provocando la comparsa di un numero sempre maggiore di poveri. Inoltre, la povertà nel contesto urbano cominciava ad assumere un carattere nuovo; fino ad ora aveva costituito "un problema ciclico, che si riduceva entro limiti tollerabili nei periodi di sviluppo economico e si aggravava nei periodi di depressione" (38). Le prime città moderne avevano sempre ospitato un numero rilevante di poveri, ma il loro livello complessivo tendeva a variare direttamente a seconda delle condizioni economiche di breve periodo. Nel corso del Settecento, invece, "nacque un substrato umano di povertà, che si diffuse a livello di massa in ampie zone e si rivelò refrattario sia alle richieste del mercato del lavoro sia alla minaccia di sanzioni penali" (39). Proprio all'interno di questo gruppo, in seguito definito Lumpenproletariat, sarebbero cominciate ad emergere nuove forme di crimine; mentre la popolazione povera tradizionale continuava a ricorrere al crimine come mezzo per integrare le sue misere finanze nel corso dei periodi negativi (40), il crimine cominciava a svolgere una funzione assai diversa per i membri di questa nuova classe, molti dei quali lo consideravano l'unico loro mezzo di sopravvivenza. "Perciò tipi e tendenze di queste forme più recenti di criminalità erano affatto diversi dal quadro del crimine associato alle popolazioni povere del passato" (41). Il secondo fattore fondamentale che aveva sempre influenzato il corso della criminalità europea era lo sviluppo economico. Nel periodo storico esaminato si assiste al "lento affermarsi della produzione industriale, preceduto dalla commercializzazione dell'agricoltura e accompagnato da un aumento enorme del commercio regionale, nazionale e internazionale. Il passaggio graduale dalla bottega alla produzione di fabbrica avrebbe determinato alla fine la scomparsa della precedente divisione sociale della popolazione lavoratrice" (42). Al posto della divisione tripartita tra popolazione mercantile, commerciale e dei servizi, si impose lentamente una divisione bipolare tra borghesia e classi lavoratrici. La popolazione urbana cominciava a manifestare le caratteristiche di una nuova divisione sociale, un cambiamento che si verificò accanto alla scomparsa di numerose occupazioni. Nel settore rurale l'agricoltura di sussistenza fu sostituita da sistemi agricoli commerciali. La composizione sociale delle campagne subì così un profondo rivolgimento. La società rurale si divise in due gruppi: proprietari terrieri da un lato, e dall'altro lavoratori privi di terra. "Come nel caso delle città, il settore rurale assistette alla graduale scomparsa del ceto 'medio' dei piccoli proprietari, dei piccoli allevatori e dei contadini artigiani" (43). La grande maggioranza dei piccoli agricoltori e dei commercianti rurali fu attirata verso il basso, tanto che è impossibile distinguerne la condizione da quella della grande massa di contadini impiegati come lavoratori a giornata nelle fattorie più grandi. "Le strutture economiche e sociali dell'Ancien règime cominciavano a scomparire" (44). Il lavoro di fabbrica creò una serie diversa di ritmi lavorativi. "Adesso l'orario di lavoro era regolare, ed anche se le interruzioni del lavoro erano ancora frequenti, non facevano più parte come prima del ciclo di lavoro vero e proprio. Lavoro e inattività diventarono distinti l'uno dall'altra, come la fabbrica e la casa" (45). Ciò determinò un cambiamento enorme nelle relazioni familiari e sociali, e influenzò ogni attività, crimine compreso. Questo ci porta al terzo fattore che influenzò la criminalità europea; la politica cominciò a svolgere un ruolo cruciale nella nuova forma della criminalità. Come abbiamo rilevato nel capitolo precedente, "la prima causa politica di crimine era la guerra quasi ininterrotta in Europa, con il risultato della formazione e dello spiegamento di eserciti permanenti in quasi tutti gli Stati europei" (46). La popolazione si trovava costretta ad affrontarne gli enormi costi; quelli diretti, che consistevano in tasse, imposte di solito sui prodotti base, e quelli indiretti, relativi al dirottamento dei prodotti dal mercato interno alle truppe sul campo ed a blocchi ed altri tipi di embargo economico, che privavano le classi inferiori dei prodotti necessari e creavano difficoltà commerciali e produttive che sfociavano inevitabilmente nella crescita della disoccupazione. Inoltre, al ritorno dalle guerre, i veterani militari si trovavano di fronte ad una impossibilità oggettiva di reperire un posto di lavoro, e finivano per ingrossare le fila dei disoccupati, ricorrendo necessariamente al crimine per sopravvivere. In tutta Europa si verificò "un'assoluta coincidenza cronologica tra i periodi immediatamente seguenti le guerre e i periodi di elevata criminalità" (47). Sintetizzando, i fattori fondamentali che causavano il crimine mostrano chiaramente che l'ambiente sociale della criminalità era mutato in misura considerevole. "Dove un tempo c'erano stati insediamenti rurali isolati e molto piccoli e qua e là una cittadina, esisteva adesso una società urbanizzata e relativamente popolosa che cambiava ogni giorno. Il ritmo della vita diventava sempre più veloce e con esso i rapporti sociali ed economici diventavano ancor più complessi e vari" (48). Il problema di fondo era costituito, comunque, dall'insostenibile incremento delle masse di poveri e diseredati. In riferimento a queste ultime categorie sociali, abbiamo esaminato, nel precedente capitolo, la formazione ed il funzionamento delle case di correzione e di lavoro nate nel corso dell'epoca mercantilistica, ed il ruolo che esse ricoprivano all'interno dell'universo sociale, politico, economico e penale. Per un certo lasso di tempo il sistema funzionò, ma poi venne poco alla volta meno. Tra la fine del 1600 e l'inizio del 1700 "il lavoro nelle case di correzione cominciò a scarseggiare, si ricominciò a punire i vagabondi con la frusta e con il marchio anziché con l'internamento; tuttavia la pratica della casa di correzione fece sì che sempre più comunemente la punizione predisposta fosse di tipo detentivo" (49), e questa assorbì poco a poco la vecchia prigione di custodia, come vedremo tra breve. "Mentre le radici del sistema carcerario affondano nell'epoca del mercantilismo, la promozione e l'elaborazione teorica di esso furono i compiti assolti dall'Illuminismo" (50). Ancora nel secolo XVIIIº le case di correzione ospitavano, senza alcuna distinzione, condannati, vagabondi, orfani, anziani, pazzi; quasi nessuna discriminazione veniva posta in essere nel rinchiudere la gente, e ogniqualvolta veniva introdotta la pena del carcere, chi deteneva il potere la usava allo scopo di allontanare gli indesiderabili. "Spesso non esisteva alcuna procedura definita, cosicché prigioni e galere erano piene di diseredati i quali riuscivano a scoprire di quale reato erano accusati solo dopo esser stati imprigionati e spesso solo dal tipo di pena che era loro inflitta" (51). La confusione sulla natura e sugli scopi del carcere rese possibile imprigionare tutti coloro che in qualche modo venivano ritenuti indesiderabili dai vicini o dai superiori; distinguere la giustizia dal capriccio individuale divenne tanto difficile che l'amministrazione penale finì per perdere ogni prestigio agli occhi del popolo. "Non v'era alcun criterio definito per fissare la durata della pena, perché non v'era un concetto adeguato del rapporto necessario tra il delitto e la pena, cosicché essa era talvolta assurdamente breve e molto più spesso assurdamente lunga, sempre che venisse in qualche modo indicata" (52). Mentre c'era una continua pressione per mettere i poveri al lavoro, tuttavia la sempre maggiore affinità della casa di correzione con il vecchio carcere di custodia fece tornare sostanzialmente l'istituzione penale al periodo tardo-medievale, per quanto riguarda il regime interno. "Il lavoro scomparve completamente dalla prigione, si tornò alla pratica esiziale del profitto privato del guardiano, scomparve ogni tipo di classificazione e differenziazione, per quanto grossolana potesse essere stata praticata in precedenza. Le sezioni femminili del carcere erano bordelli gestiti dal carceriere" (53). Si venne così a creare quella situazione che avrebbe in seguito mosso l'opera e gli scritti di tanti riformatori della seconda metà del Settecento. "La tendenza storica che non muta, quindi, e che viene anzi consolidata e affermata in questo periodo, è la sostituzione delle vecchie pene corporali e di morte con la detenzione. Una detenzione, tuttavia, che è sempre più inutile e dolorosa per gli internati" (54). Il motivo di tale progressiva decadenza va ricercata nelle grandi trasformazioni della seconda metà del secolo. Una eccezionale accelerazione del ritmo di sviluppo economico, il fenomeno della rivoluzione industriale, viene a sconvolgere tutti i tradizionali equilibri sociali precedenti. "Un repentino inclinarsi della curva dell'incremento demografico, insieme all'introduzione di macchine e al passaggio dal sistema manifatturiero al vero e proprio sistema di fabbrica, vengono a segnare contemporaneamente l'età d'oro del giovane capitalismo insieme al periodo più buio della storia del proletariato" (55). La notevole accelerazione della penetrazione del capitale nelle campagne, e la conseguente espulsione da queste della classe contadina, portano a presentare sul mercato del lavoro una offerta di manodopera senza precedenti; non fu più necessario ricorrere al lavoro coatto di criminali e vagabondi, e la fabbrica cominciò a rimpiazzare definitivamente la casa di correzione. Mentre quest'ultima richiedeva spese troppo alte per l'amministrazione ed il mantenimento della disciplina, il lavoro libero produceva di più, meglio ed a costi più bassi. L'urbanesimo, la pauperizzazione e la criminalità crebbero in misura prima sconosciuta. "La silenziosa coazione dei rapporti economici viene a sostituire la violenza statuale" (56). È un attimo che ha corta durata; presto la violenza immediata, extraeconomica, dovrà essere invocata contro i primi tentativi di organizzazione del proletariato. Il delitto, le rivolte, gli incendi dolosi sono la risposta necessaria e spontanea della parte più povera della popolazione ad una situazione in cui non si sa ancora reagire attraverso la lotta di classe organizzata. Al grande incremento del pauperismo si risponde dapprima con l'assistenza pubblica, che deve svilupparsi rincorrendo la crescente povertà. Ma "alla critica tradizionale e ricorrente che tali forme di assistenza incoraggiassero l'ozio e il rifiuto del lavoro e tenessero così alti i salari, si sovrapponeva ora la visione malthusiana della popolazione" (57): l'assistenza permetteva la sopravvivenza e la riproduzione di una popolazione in sovrannumero, inutile e anzi dannosa per lo sviluppo economico. I problemi sociali che cominciarono a sorgere a seguito del prolungato incremento demografico furono rilevati dalla saggistica contemporanea, di cui l'esempio più celebre sono, appunto, gli scritti di Thomas Malthus. La prima edizione di An Essay on the Principle of Population fu pubblicata nel 1798, e dette vita ad un dibattito prolungato che sarebbe proseguito nel secolo successivo. "Per quanto Malthus possa apparire impietoso e duro ai lettori moderni, è bene ricordare che egli scriveva avendo alle spalle i risultati di quasi cent'anni di ininterrotto incremento demografico" (58). La soluzione adottata e pienamente accolta dalla borghesia inglese, che si trovava a dovere fronteggiare per prima i nuovi problemi introdotti dalla rivoluzione industriale, già nel 1770, fu la deterrent workhouse, la casa di lavoro terroristica o 'casa del terrore'; cioè la sostituzione di qualsiasi assistenza fuori dalle case di lavoro con l'internamento ed il lavoro obbligatorio in esse. "Le condizioni di vita e di lavoro nella casa erano tali da far sì che nessuno, se non spinto da una necessità estrema, avrebbe accettato di farsi internare in essa" (59). Il fine era quello di fare sì che il povero si offrisse a qualunque datore di lavoro a qualunque condizione (60). "L'internamento nella casa di lavoro ha effetto sul mercato, in questo caso, non tanto, come era avvenuto in precedenza, perché un settore della produzione funziona con un costo della forza lavoro forzatamente compresso, ma per il suo carattere dichiaratamente terroristico, perché il lavoratore è spinto ad evitare di finire nella istituzione, costi quel che costi" (61). All'interno delle case, il lavoro che viene imposto agli internati è in genere inutile, insignificante, pensato assai più per esigenze di disciplina che per il rendimento produttivo. Se la politica dell'assistenza ai poveri è sempre più contestata in nome dell'introduzione delle case di lavoro, si assiste ad un ritiro del lavoro dalle carceri, che decadono profondamente, quantomeno nel regime di vita interno che peggiora notevolmente. "Con il pauperismo crescente dell'età della rivoluzione industriale, crescono anche il delitto e la ribellione. ... In questo primo periodo, è la reazione individuale del delitto e della violenza la sola arma con cui le masse impoverite riescono ad esprimere la propria opposizione. ... Non è strano quindi che voci si alzino a chiedere un ritorno al vecchio metodo di trattare con la delinquenza, alla frusta, alla forca e così via" (62). Tale reazione non porterà, come vedremo in seguito, ad un ritorno a forme punitive precarcerarie, ma piuttosto ad un irrigidimento e ad una aumentata punitività del carcere stesso; l'aumento eccezionale dell'offerta di lavoro rendeva infatti del tutto obsoleta la vecchia formula del lavoro carcerario, per privilegiare invece il momento intimidativo e terroristico della casa di lavoro e tantopiù del carcere. "Il lavoro in carcere non veniva scartato a priori, solo emergeva in primo piano il carattere punitivo, disciplinante del lavoro, prima che la sua immediata valorizzazione economica" (63). Ciò anche perché il livello di impiego di capitali non poteva più essere condotto se non nella prospettiva di forti perdite; l'abbondanza di forza-lavoro libera era tale che il lavoro forzato non adempiva più in alcun modo a quella funzione calmieratrice dei salari esterni che gli era stata propria nel periodo mercantilista. In ogni caso, il ritorno ad una penalità incentrata esclusivamente sui supplizi era, ormai, del tutto inattuabile. "Il movimento per la riforma del diritto penale assunse realmente importanza nel corso della seconda metà del diciottesimo secolo; ... E tuttavia accadde che proprio nel medesimo periodo venne poco alla volta meno la ragione stessa dell'apparire del nuovo sistema punitivo, il bisogno di forza lavoro" (64). Il movimento riformatore aveva trovato un terreno fertile perché i principi umanitari cui si ispirava coincidevano con le necessità dell'economia dell'epoca; ora, mentre ci si sforzava di dare espressione pratica a queste nuove concezioni, il fondamento da cui esse erano sorte aveva, in parte, già cessato di esistere. Questa situazione si riflesse nelle condizioni della vita carceraria, come si può vedere dalle descrizioni effettuate dal filantropo inglese John Howard durante le sue visite alle carceri, quando poté osservare la miseria impressa sui volti dei detenuti. "Non vi era un numero sufficiente di istruttori né mercati adeguati per le merci prodotte in carcere, mentre la mancanza di spazio costringeva ad ammassare i detenuti" (65). Gli storici sono concordi nel riconoscere che era tramontato, per le case di correzione, il momento di maggior gloria, quando erano pulite, ordinate e ben amministrate e che, dopo essersi diffuso in tutta Europa, il sistema gradualmente andò decadendo. Se è vero che "verifichiamo lo stabilirsi di case di correzione in numero crescente fra la metà del diciassettesimo secolo e la fine del diciottesimo e l'estendersi continuo della detenzione al posto delle pene corporali e della pena capitale sino a divenire, sul finire del Settecento, la forma punitiva dominante, allo stesso tempo è vero anche che si fa strada la deplorevole tendenza ad affidare alle case di correzione le funzioni di istituti di carità e di case per poveri, a distoglierle dal loro scopo fondamentale per attribuire loro anche le funzioni di orfanotrofi e di ospizi di ogni genere, nei quali si affollavano insieme gli elementi più eterogenei" (66). La negligenza, l'intimidazione ed il tormento dei detenuti divennero regola giornaliera, mentre il lavoro assumeva una funzione meramente afflittiva. "La casa di correzione era stata creata e si era sviluppata in una situazione sociale nella quale le condizioni del mercato del lavoro erano favorevoli alle classi inferiori, ma questa situazione cambiò: la domanda di lavoratori fu soddisfatta e andò anzi producendosi un sovrappiù di forza lavoro" (67). I padroni delle fabbriche non dovevano più dar la caccia alla manodopera; erano al contrario i lavoratori costretti a darsi da fare per trovare un impiego. In questa situazione, l'introduzione delle macchine produsse effetti catastrofici. In precedenza solo quelle imprese che ricevevano una certa assistenza governativa potevano sostenersi, ma ora chiunque disponesse di un capitale minimo era in grado di intraprendere qualche tipo di attività economica. "I ceti borghesi in via di formazione cominciarono a sentirsi seriamente ostacolati da quei gruppi privilegiati che facevano uso dei diritti di monopolio e di altri vantaggi per escluderli dal mercato e cominciarono a richiedere dunque libertà di produrre e di commerciare" (68). Si diffuse il principio secondo il quale la libera concorrenza è garanzia dello stato armonico tra gli interessi in conflitto; le teorie di Adam Smith avevano aperto la strada all'agitazione contro il vecchio sistema di regolazione statale. Poiché il mercato del lavoro era sovralimentato, i lavoratori si trovarono decisamente più oppressi di quanto lo fossero mai stati, ed i salari stazionavano a livelli assai bassi. Il numero degli estremamente ricchi e quello degli estremamente poveri cresceva a danno dei ceti medi, che andavano sempre più restringendosi. "Le classi dominanti non avevano più alcun bisogno delle misure coercitive adottate nel periodo mercantilista per sostituire la mancanza di pressione economica sulla classe operaia; l'ampio sistema di leggi e di regolamenti studiato per fronteggiare una situazione di salari crescenti divenne obsoleto" (69). Sebbene la concezione secondo la quale la povertà era uno degli sproni più efficaci per costringere a lavorare duramente cominciasse ad essere posta in discussione, ogni tentativo di fissare minimi salariali a beneficio dei lavoratori finì nel nulla. Un tempo era reato punibile con la detenzione offrire o ricevere salari più alti di quelli stabiliti per legge; ora parlare di regolazione dei salari era divenuto tabù, poiché essi dovevano essere determinati dalle leggi naturali del mercato (70). "La concezione malthusiana nella sua forma più tarda, la cosiddetta 'legge ferrea dei salari', si spinse ancora oltre e sostenne l'impossibilità e l'insensatezza di ogni intervento sul salario: questo deve essere mantenuto al mero livello della sussistenza, poiché, nel momento in cui lo si supera, si produrrà un indebito accrescimento demografico e quindi una situazione di concorrenza nell'offerta di lavoro che costringerà nuovamente il salario a scendere" (71). L'intera politica demografica del mercantilismo venne abbandonata; si riteneva che la popolazione andasse rapidamente crescendo sino al punto in cui milioni di uomini in sovrannumero sarebbero stati spinti dalla fame sulla strada del crimine e di ogni altro vizio; si sostenne che l'interferenza nei sacri rapporti della vita costituiva un dispotismo insopportabile che riduceva gli uomini al livello di animali, e che tutte le misure introdotte per incoraggiare i poveri al matrimonio potevano solo riempire la terra di mendicanti ed indigenti. "Non fu più necessario erigere barriere artificiali contro l'emigrazione, e tutta la normativa diretta a restringere la libertà di movimento fu ritirata" (72). Tutto il sistema dell'assistenza pubblica decadde; si prevedeva, per mettere i poveri al lavoro, che le case per poveri fondassero esse stesse fabbriche e scuole industriali per i fanciulli. Le principali case di correzione avevano un deficit che doveva inesorabilmente lievitare per l'introduzione di macchine che erano in grado di svolgere il lavoro di parecchi uomini. "Anche gli Hopitaux gènèraux francesi, alla vigilia della rivoluzione, di fronte ad una situazione delle classi inferiori che andava rapidamente deteriorandosi, non furono più in grado di svolgere il loro compito e divennero inutili sia come prigioni sia come case per poveri" (73). Nonostante questa situazione stesse rivelandosi evidente, la formula secondo cui ogni uomo desideroso di trovare lavoro era in grado di trovarlo rimase uno slogan molto popolare anche nei primi anni del diciannovesimo secolo. "Aspre invettive si levavano ancora contro i pigri, che avrebbero voluto essere mantenuti nel loro ozio per mezzo dell'assistenza" (74). Ciò che si tende a sottolineare ora, non è più la possibilità infinita di lavoro, ma la necessità di considerare la classe operaia come parte del sistema sociale, sottoposta quindi, senza alcuna protezione, ai rischi a questo inerenti. "Anche la questione del carattere criminale della mendicità subì una trasformazione significativa: logicamente, infatti, si sarebbe dovuto ritenere che mendicare costituisca un reato solo quando è comportamento volontario" (75). Si insistette sulla necessità di non considerare l'atto di mendicare come atto criminoso. "L'umanitarismo non poteva nascondere il fatto che erano stati il nuovo sistema economico e la pressione di una popolazione crescente ad avere profondamente rivoluzionato tutta la questione dell'assistenza ai poveri. Sia l'assolutismo, sia il suo successore politico, la democrazia nazionale sovrana, reagirono allo stesso modo, dichiarando che è dovere dello Stato assistere i poveri e che è quindi suo diritto, ciò fatto, procedere penalmente contro la mendicità" (76). In questa situazione, appunto, fece ingresso la dottrina di Malthus, secondo la quale il tenore di vita dei poveri poteva essere alzato solo a spese degli altri settori della classe operaia, accusando le leggi sui poveri di condurre ad un aumento demografico controproducente. "E tuttavia neppure Malthus concluse mai che la gente in miseria potesse esser lasciata affamata com'era (77), ... cosicché il pauperismo crescente delle masse fu accompagnato da un più benevolo trattamento dei poveri" (78). La conseguenza fu una tremenda crescita del numero dei poveri, e conseguentemente del costo dell'assistenza pubblica; le classi proprietarie cominciarono a ribellarsi contro questa spesa eccessiva. Si giunse alla conclusione che tutta l'assistenza ai fisicamente abili, al di fuori delle istituzioni, doveva essere abolita in favore dell'assistenza in case di lavoro, in modo tale che l'assistenza fosse meno desiderabile della situazione del lavoratore libero dello strato più basso. La fabbrica rimpiazzò la casa di correzione, perché questa richiedeva costi troppo alti per l'amministrazione e la disciplina; il lavoro libero riusciva a produrre molto di più ed evitava lo spreco di capitale proprio delle case di correzione. "In altre parole, la casa di correzione decadde perché erano state trovate migliori fonti di profitto e perché, con la scomparsa della casa di correzione come strumento di sfruttamento redditizio, scomparve anche la possibile influenza correttiva di quel lavoro regolare che vi si praticava" (79). In questa situazione economico-sociale, si inserì la questione della riforma del sistema penale. "La protesta contro i supplizi la troviamo ovunque, nella seconda metà del secolo XVIII; proviene dai filosofi e dai teorici del diritto; da giuristi, uomini di legge, parlamentari" (80). Si afferma l'idea che sia necessario punire diversamente, abolire lo scontro fisico del sovrano col condannato, sciogliere il corpo a corpo che si svolge tra la vendetta del principe e la collera contenuta del popolo, intermediari il suppliziato e il boia. "Improvvisamente, il supplizio è divenuto intollerabile. Rivoltante quando si guardi dal lato del principe, dove tradisce la tirannia, l'eccesso, la sete di vendetta, il crudele piacere di punire. Vergognoso quando si guardi dal lato della vittima, che viene ridotta alla disperazione" (81). Pericoloso, in quanto è sì una sfida che il potere lancia, ma che potrà un giorno essere rilanciata: abituato a vedere sgorgare il sangue, il popolo impara presto che non può vendicarsi che col sangue. "I riformatori del secolo XVIII denunciano quanto eccede ... l'esercizio legittimo del potere. ... Bisogna che la giustizia criminale, invece di vendicarsi, finalmente punisca" (82). Questa necessità di castigo senza supplizio viene formulata come un grido del cuore o della natura indignata; anche il peggiore degli assassini ha diritto al rispetto della sua umanità (83). L'uomo viene opposto alla barbarie dei supplizi come limite al diritto, come "frontiera legittima del potere di punire" (84). È l'epoca di "grandi scandali per la giustizia tradizionale, epoca di innumerevoli progetti di riforme; nuova teoria della legge e del crimine, nuova giustificazione morale o politica del diritto di punire; abolizione delle antiche ordinanze, scomparsa del diritto consuetudinario" (85). Fra tante modificazioni, la sparizione dei supplizi. In pochi decenni è scomparso il corpo come principale bersaglio della repressione penale. "Tra la fine del secolo XVIII e l'inizio del XIX, la lugubre festa punitiva si va spegnendo" (86). Da un lato si assiste alla scomparsa dello spettacolo della punizione: il cerimoniale della pena tende ad entrare nell'ombra, per non essere altro che un nuovo atto procedurale ed amministrativo. "La punizione cessa, a poco a poco, di essere uno spettacolo. E tutto ciò che poteva comportare di esibizione si troverà ormai ad essere segnato da un indice negativo" (87). Quel rito che concludeva il crimine, eliminando fisicamente il criminale, viene sospettato di mantenere con questo losche parentele: di eguagliarlo, se non sorpassarlo, nell'essenza selvaggia, di abituare gli spettatori ad una ferocia da cui si voleva invece distoglierli, di invertire all'ultimo momento i ruoli, di fare del suppliziato un oggetto di pietà o di ammirazione. "La punizione tenderà dunque a divenire la parte più nascosta del processo penale. Le conseguenze sono numerose: essa lascia il campo della percezione quotidiana, per entrare in quello della coscienza astratta: la sua efficacia deve derivare dalla sua fatalità, non dalla sua intensità visibile. La certezza di essere puniti: questo, e non più l'obbrobriosa rappresentazione, deve tener lontani dal delitto" (88). La giustizia non si addossa più pubblicamente la parte di violenza che è legata al proprio esercizio. Nel castigo-spettacolo, un confuso orrore sgorgava dal patibolo, avviluppava insieme boia e condannato: e se questo orrore era sempre pronto a trasformare in pietà o in gloria l'onta che veniva inflitta al suppliziato, ritorceva regolarmente in infamia la violenza legale del carnefice. "Si vedeva chiaramente che il grande spettacolo delle pene rischiava di essere sovvertito da quelli stessi cui era diretto. Lo spavento dei supplizi accendeva in effetti focolai d'illegalità: nei giorni delle esecuzioni, il lavoro si interrompeva, le osterie si riempivano, si insultavano le autorità, si lanciavano ingiurie o pietre al boia, agli ufficiali di polizia, ai soldati; si cercava di impadronirsi del condannato, sia per salvarlo, sia per ucciderlo meglio; ci si picchiava, e i ladri non avevano migliori occasioni dei parapiglia e della curiosità intorno al patibolo". (89) Le processioni volevano rendere di pubblico dominio il destino che attendeva i criminali. "In pratica il rituale veniva diretto dalla folla e trasformato in una festa per i ladri e un carnevale per i poveri" (90). Le processioni erano ormai divenute una farsa del terribile esercizio della legge, e la stessa scena finale aveva perso ogni senso di terrore; invece di dare una lezione di moralità agli spettatori, tendeva ad incoraggiare il vizio. E soprattutto, mai quanto in questi rituali che avrebbero dovuto mostrare abominevole il crimine ed invincibile il potere, il popolo si sentiva vicino a quelli che subivano la pena, mai esso si sentiva, quanto loro, minacciato da una violenza legale che era senza equilibrio né misura. "Oramai lo scandalo e la luce si divideranno altrimenti, è la condanna stessa a marchiare il delinquente del segno negativo ed univoco: pubblicità, quindi, dei dibattiti e della sentenza; quanto all'esecuzione, essa è come una vergogna supplementare che la giustizia si vergogna ad imporre al condannato" (91). Non toccare più il corpo, o comunque toccarlo il meno possibile. La prigione, la reclusione, i lavori forzati, il bagno penale, la deportazione, sono sì pene fisiche che incidono sul corpo, ma il rapporto castigo-corpo è assai diverso da quello che esisteva nei supplizi. "Il corpo qui si trova in posizione di strumento o di intermediario; se si interviene su di esso rinchiudendolo o facendolo lavorare, è per privare l'individuo di una libertà considerata un diritto e insieme un bene" (92). La sofferenza fisica non è più elemento costitutivo della pena. Il castigo è passato da un'arte di sensazioni insopportabili ad una economia di diritti sospesi; quindi scomparsa dello spettacolo e annullamento del dolore. Riguardo alle pene capitali, la morte deve durare un solo istante, l'esecuzione tocca la vita, non più il corpo (93). Non si attuano più quelle lunghe procedure per cui la morte viene insieme ritardata da interruzioni ben calcolate e moltiplicata da una serie di insulti successivi. Abbiamo elencato, nel precedente capitolo, le procedure rituali che venivano poste in atto, per tutto il Seicento e buona parte del Settecento, relativamente a tempi e luoghi, durante una esecuzione pubblica; ed abbiamo visto come il rituale dell'esecuzione fosse strutturato intorno a tre momenti essenziali (94). Alla fine del Settecento, la situazione era già notevolmente modificata. I luoghi e l'ora delle rappresentazioni erano gli stessi; come nel passato, l'ora era scelta in modo da consentire un notevole afflusso di pubblico. Tuttavia, il clima umano e culturale che si respirava era totalmente differente, e rendeva diverse tra loro le esecuzioni capitali comminate in età classica e quelle comminate nel tardo Illuminismo. Come nel passato, il percorso dal luogo di detenzione al patibolo veniva allungato enormemente. Ma i cortei adesso, pur attraversando le strade più popolose della città, evitavano di toccare i quartieri 'eleganti', nelle quali abitava la maggior parte dell'aristocrazia settecentesca; essa veniva tenuta fuori dal triste spettacolo che continuava ad essere offerto al resto della popolazione. "Era una decisione che confermava un atteggiamento da parte della classe dirigente ... di ripulsa verso uno spettacolo, che doveva essere offerto solo al popolo, il quale evidentemente ne aveva bisogno, oltre che soddisfazione" (95). I cortei adesso attraversavano le strade molto velocemente. In passato, si verificavano varie soste, durante le quali al condannato venivano inflitti supplizi che richiamavano il crimine da lui commesso: ad esempio, come abbiamo visto, agli assassini veniva amputata la mano che aveva dato la morte alla vittima. Adesso, invece, l'amputazione sarebbe stata solo apparente, mediante finti colpi di coltello. L'antico spettacolo di morte, tipico della prima età moderna, veniva sì replicato, ma si trattava di una imitazione che coglieva solo la superficie dell'azione drammatica. "Il pubblico pare assente, certamente non protagonista. È evidente la differenza con le grandi, solenni e coinvolgenti processioni del passato. Alla maestà della cerimonia della prima età moderna, crudele, efferata, si contrappose quella della tarda età dei lumi, che pretendeva di percorrere vecchi itinerari, ma con una terribile fretta" (96). Si uccideva, sì, facendo passare il corteo di morte attraverso i quartieri più popolari, come avveniva due o tre secoli prima. In realtà, "si ripetevano antichi riti, ma svuotati della loro essenza, fatta certamente di azioni tecniche ripetitive, ma anche di determinati climi umani, a loro volta intessuti di passioni violente e collettive" (97). Lo spettacolo, seppure molto più raro che in passato, coinvolgeva assai meno di prima. "Le strade, si è detto, erano attraversate velocemente. Le lunghe pause di sacrificio, le poste della via crucis, durante le quali il rito aveva assunto nell'età classica toni di lata drammaticità e in cui si manifestava con estrema concretezza di linguaggio la capacità e la volontà del Principe di colpire ciascun criminale con modalità rispecchianti la qualità e le modalità dei crimini commessi (le mani degli assassini o degli untori recise nei luoghi dove era stato commesso il crimine), appaiono del tutto assenti" (98). L'antica cerimonia di violenza, lentamente, andò perdendo, nell'età dei lumi, alcune delle sue connotazioni che riguardavano la sfera delle emozioni collettive. I vecchi riti erano ripetuti senza alcuna enfasi e con una aderenza solo formale ai modelli tradizionali. "In attesa di sopprimere definitivamente la teatralità, la si riduceva attraverso la contrazione degli spazi dedicati alle passioni collettive e alla partecipazione popolare" (99). È sintomatica la diversità dei giudizi sul comportamento della folla che assisteva alle esecuzioni; dall'età dell'Illuminismo in poi i giudizi sulle intemperanze degli spettatori (100) furono sempre di grande severità. Le intemperanze del pubblico durante le esecuzioni capitali, che continuavano in talune, rare circostanze a mantenere quel carattere di fiera che avevano avuto un tempo, nel secolo dei lumi venivano severamente bollate come irragionevoli ed inumane. Abbiamo considerato, nel precedente capitolo, il ruolo assunto dalle confraternite religiose nel confortare i condannati a morte. Già all'inizio del Settecento la funzione della conforteria diventava sempre più di stretto convincimento religioso. Un vademecum del confortatore, redatto agli inizi del Settecento, raccomandava vivamente di non fare il 'missionario' con il condannato, e di non tormentarlo ricordandogli in pubblico i suoi peccati. Il carnefice, diversamente da quanto era avvenuto sino a quel momento, doveva serbare un atteggiamento modesto, evitare di denudare i cadaveri e mantenere un atteggiamento caritatevole nello svolgere il suo compito. Inoltre i 'pazienti' dovevano essere sempre bendati e seppelliti immediatamente per non lasciarli in balia della sfrontatezza e della ferocia del popolo. "Si manifestava in questo modo una volontà di confortare al di fuori e contro le intemperanze del pubblico, al di fuori e contro il lungo e cruento rito di un tempo con il suo corollario di violenze ritenute gratuite, al di fuori e contro una concezione della misericordia come ostentazione e come spettacolo" (101). Già all'inizio del secolo gli avvertimenti dei capi ecclesiastici ai confortatori testimoniano una volontà di rendere più intimo e decisamente meno spettacolare il momento del conforto; si invita con forza a concentrare tutta l'opera di conforto sul condannato, rendendogli quanto meno duratura e angosciosa possibile l'attesa della morte, e non concedendo nulla alla platea. Si afferma così una nuova e diversa concezione del conforto, "che si inquadra in quel clima religioso settecentesco più proteso rispetto al passato all'affermazione di una devozione più intima e personale, nonché più attenta ai valori della persona e della ragionevolezza" (102); il tutto all'interno di un clima culturale generale tendente a sminuire da un lato l'importanza sociale del genere macabro, dall'altro l'ostentazione religiosa. Le concezioni della pietà e della morte non erano più condizionate da visioni macabre e violente, ma dalla spiritualità fondata sulla pratica incondizionata della misericordia. A volere la morte di un assassino o di un innocente non era più Dio, ma lo Stato in prima persona; le ragioni dell'anima erano ormai scisse da quelle del sangue e del corpo. I confortatori spesso si lamentavano del comportamento selvaggio della folla, che mostrava una partecipazione eccessiva, irriverente verso il dramma che si stava consumando. "Di tutt'altro tenore le cronache seicentesche. Esse facevano riferimento ai grandi concorsi di folla, all'emozione o anche alla soddisfazione collettiva di fronte a determinate esecuzioni" (103). La critica Illuministica alla ferocia dell'età classica contribuì a far giudicare tutto ciò come frutto di follia, di fantasia malvagia. D'altra parte è indubbiamente vero che alla fine del Settecento cadaveri squartati, corpi tagliati o bruciati, membra strappate sembrano ormai un ricordo del passato. Quello che veniva definito il grado di esemplarità non riguardava più la manipolazione dei corpi, ma piuttosto della persona. L'estremo supplizio, a seconda della natura e della gravità dei reati per il quale era stato disposto, poteva avvenire con diversi gradi di pubblico esempio, scanditi da rituali e formalità abbastanza complesse e collegate a princìpi e valori che talora sfuggono al moderno interprete. Nel regno delle Due Sicilie il primo grado di esemplarità consisteva nel celebrare l'esecuzione nel luogo del crimine o vicino ad esso; il secondo nel trasporto del condannato nel luogo della esecuzione, a piedi nudi, vestito di giallo, con un cartello in petto su cui era scritto, a lettere cubitali, il misfatto compiuto; il terzo nel trasporto del reo nel luogo della esecuzione, a piedi nudi, vestito di nero, con un velo nero che gli copre il volto; il quarto nel trasporto del condannato verso il luogo della sua esecuzione, a piedi nudi, vestito di nero e con un velo nero a nascondergli il volto, trascinato su una tavola con piccole ruote, e con un cartello in petto in cui veniva scritto, sempre a lettere cubitali: l'uomo empio. Ora, l'ultimo supplemento alla morte penale è un velo da lutto. Il condannato non deve più essere visto. "L'ultima traccia dei grandi supplizi ne è anche l'annullamento: dei veli per nascondere un corpo" (104). Alla fine del Settecento la messa in scena della morte di Stato, pur conservando molte delle sue antiche motivazioni, aveva cominciato a distogliere molta della sua antica attenzione dal corpo. Restava tuttavia la necessità di stabilire una serie di gerarchie di ordine simbolico. "Se nei primi secoli dell'età moderna era la manipolazione del corpo a segnalare i crimini e i criminali, nella tarda età moderna erano le modalità con cui ci si approssimava al patibolo. I vestiti, i loro colori, l'apparire del volto e del corpo erano destinati a far conoscere il grado di infamia del delitto commesso. Il nero e il giallo con cui erano vestiti i condannati rispettivamente del terzo e del quarto grado di infamia rappresentavano e rappresentano tuttora, nella simbologia cromatica dell'Occidente cattolico, i colori negativi. Il giallo era l'odio, l'infamia, la malvagità. Il nero il male in assoluto" (105). Nell'età classica, invece, l'attenzione era incentrata essenzialmente sul corpo, poco sulla persona. Nei secoli passati, l'esercizio assoluto e personale del potere da parte del sovrano era naturalmente accettato da tutti. Il condannato restava oggetto del tutto passivo dell'economia del rito; egli era il 'paziente', 'l'afflitto'. La scena cambiò radicalmente a partire dalla fine del Settecento. "La cultura neoclassica e poi romantica hanno consegnato alla letteratura una serie di personaggi, che offrivano il loro corpo al carnefice, ma rivendicando fino in fondo i propri gesti, le proprie ragioni sentimentali e politiche" (106). Le nuove esecuzioni di questo periodo segnarono l'inizio di una lunga stagione di un rito nella condanna a morte di sovversivi, ribelli, patrioti, contrassegnata da un'attiva partecipazione degli stessi, che smisero di essere semplici pazienti o afflitti. "L'esecuzione capitale diveniva così un ulteriore momento della lotta politica. ... Il potere accusa, ma è a sua volta accusato. Le esecuzioni capitali lo consentivano. I condannati arrivavano al patibolo fisicamente integri dal momento che la tortura e qualsiasi altra forma di supplizio era stata di fatto abolita, se non per estorcere confessioni e delazioni" (107). La bella morte, esemplare come quella di un martire cristiano o di un eroe cavalleresco, farà parte degli stereotipi delle lotte di liberazione nazionale del XIXº secolo. La produzione letteraria, l'iconografia, fissarono le immagini della morte eroica. Anche la posizione del boia subisce profondi rivolgimenti nel tardo Settecento. Si assiste ad una burocratizzazione del mestiere ed al "totale superamento di qualsiasi ambiguità nella concezione e nello stereotipo del boia da parte delle classi colte" (108). Il fascino-orrore che aveva emanato per secoli il patibolo, l'ambigua e psicologicamente complessa figura del boia, appaiono del tutto scomparse. Smussati i toni psicodrammatici, il boia appare sempre più "come sostegno, di tipo burocratico esecutivo e sempre più subalterno, delle istituzioni civili, militari e politiche" (109). Siamo ormai lontani dagli splendori di quell'età classica in cui il carnefice non è semplicemente colui che applica la legge, ma colui che adopera la forza, l'agente di una violenza che viene applicata, per dominarla, alla violenza del crimine, di cui egli è, materialmente, fisicamente l'avversario. Nel corso del secolo XVIIIº, dunque, se è vero che si assiste ad un aumento generalizzato della criminalità, è anche vero che si assiste ad una diminuita tensione nel sistema penale. Questo grazie ad un "doppio movimento per cui, durante questo periodo, i crimini sembrano perdere parte della loro violenza, mentre le punizioni, reciprocamente, si alleggeriscono di una parte della loro intensità, ma a prezzo di interventi che si moltiplicano" (110). Dalla fine del secolo XVIIº si nota una considerevole diminuzione dei delitti di sangue e delle aggressioni fisiche. "I delitti contro la proprietà sembrano dare il cambio ai crimini violenti" (111). La diffusa delinquenza, occasionale ma frequente, delle classi più povere è sostituita da una delinquenza limitata e specializzata. Anche l'organizzazione della delinquenza si modifica; le grandi bande di malfattori tendono a dissolversi. "Senza dubbio si dà loro meglio la caccia ed essi sono obbligati a farsi più piccoli per passare inosservati, ... si contentano di operazioni più furtive, con un minimo di spiegamento di forze e minimi rischi di massacro" (112). Rileviamo quindi un movimento globale che "fa deviare l'illegalismo dall'attacco al corpo verso lo stornamento più o meno diretto dei beni; e dalla 'criminalità di massa' verso una 'criminalità di frange e di margini', riservata in parte a dei professionisti" (113). Si verifica un addolcirsi dei crimini, prima dell'addolcirsi delle leggi. Questa trasformazione deriva anche da "una modificazione del gioco delle pressioni economiche, da un innalzamento generale del livello di vita, da un forte incremento demografico, da una moltiplicazione delle ricchezze e delle proprietà e dal bisogno di sicurezza che ne è conseguenza" (114). Si constata un appesantirsi della giustizia, le cui norme divengono più severe, e un esercizio più rigoroso e meticoloso della giustizia, che tende a prendere in considerazione tutta una piccola delinquenza che in altri tempi si lasciava più facilmente sfuggire. "Lo spostamento da una criminalità di sangue ad una criminalità di frode fa parte di tutto un complesso meccanismo, in cui figurano lo sviluppo della produzione, l'aumento delle ricchezze, una valorizzazione giuridica e morale più intensa dei rapporti di proprietà, i metodi di sorveglianza più rigorosi, un più stretto controllo della popolazione, tecniche più avanzate di individuazione, di cattura, di informazione: lo spostarsi delle pratiche illegali è correlativo ad una estensione e ad un affinamento delle pratiche punitive" (115). Ciò che ne deriva, è senza dubbio meno un nuovo rispetto per l'umanità dei condannati, comunque presente, che non una tendenza verso una giustizia più sottile e più acuta, verso un più stretto controllo di polizia del corpo sociale. "L'intolleranza ai delitti economici aumenta, i controlli si fanno più pesanti, gli interventi penali più tempestivi e insieme più numerosi" (116). Ma prima di esaminare le conseguenze, analizziamo i motivi che hanno dato luogo a questo mutamento di sensibilità e di atteggiamento nei confronti della pena e della criminalità. Ciò che i riformatori Illuministi attaccano, nella giustizia tradizionale, prima di stabilire i principi di una nuova penalità, è l'eccesso dei castighi: ma un eccesso che è legato più ad una irregolarità, che ad un abuso del potere di punire. "La giustizia penale è irregolare prima di tutto per la molteplicità delle istanze che sono incaricate di assicurarla, senza mai costituire una piramide unica e continua. Anche lasciando da parte le giurisdizioni religiose, bisogna tener conto di discontinuità, di scavalcamenti e di conflitti fra le differenti giustizie; quelle signorili, che sono ancora importanti per la repressione dei delitti minori; quelle reali che sono anch'esse numerose e mal coordinate...;quelle che, di diritto o di fatto, vengono assicurate da istanze amministrative ... o di polizia; a cui bisognerebbe aggiungere ancora il diritto che il re o i suoi rappresentanti possiedono di prendere decisioni di internamento o di esilio, al di fuori di ogni procedura regolare" (117). Queste istanze multiple si neutralizzano a vicenda, e non riescono a coprire il corpo sociale in tutta la sua estensione; il loro aggrovigliarsi rende la giustizia penale oltremodo lacunosa, a causa delle differenze di consuetudini e procedure, dei conflitti interni di competenza, degli interessi particolari che ogni istanza è portata a difendere, e degli interventi del potere reale che può impedire, tramite grazie o pressioni dirette sui giudici, il regolare corso della giustizia. "Piuttosto che di debolezza o di crudeltà, è di una cattiva economia del potere che si tratta nella critica dei riformatori. Troppo potere nelle giurisdizioni inferiori, che possono - favorite dall'ignoranza e dalla povertà dei condannati - trascurare gli appelli di diritto e far eseguire senza controllo sentenze arbitrarie; troppo potere da parte di un'accusa, cui sono dati, quasi senza limite, mezzi per perseguire, mentre l'accusato è disarmato di fronte ad essa, il che induce i giudici ad essere talvolta troppo severi, talaltra, per reazione, troppo indulgenti; troppo potere ai giudici che possono accontentarsi di prove futili, quando siano 'legali' e che dispongono di una libertà piuttosto vasta nella scelta della pena;... troppo potere infine esercitato dal re, che può sospendere il corso della giustizia, modificarne le decisioni" (118). Il vero obiettivo della riforma non è tanto fondare un nuovo diritto di punire partendo da principi più equi, quanto di stabilire una nuova economia del potere di punire, di assicurarne una migliore distribuzione, di fare in modo che esso non sia troppo concentrato in alcuni punti privilegiati, né troppo diviso tra istanze che si contrappongono. Si vuole ottenere una giustizia più regolare, efficace e costante, e meglio dettagliata nei suoi effetti. "In una parola, far sì che il potere di giudicare non dipendesse più dai molteplici privilegi, discontinui, contraddittori talvolta, della sovranità, ma dagli effetti, distribuiti con continuità, del potere pubblico" (119). Si vuole, cioè, fare della punizione e della repressione degli illegalismi una funzione regolare, suscettibile di estendersi a tutta la società; non punire meno, ma punire meglio; punire con una severità forse attenuata, ma per punire con maggiore universalità e necessità. "La congiuntura che ha visto nascere la riforma, non è dunque quella di una nuova sensibilità (o almeno, non solamente), ma quella di un'altra politica nei confronti degl'illegalismi" (120). Sotto l'ancien règime, i diversi strati sociali avevano ciascuno il proprio margine di illegalismo tollerato: la non-applicazione della regola, l'inosservanza degli innumerevoli editti o ordinanze erano condizione del funzionamento politico ed economico della società. L'illegalismo era profondamente radicato e necessario alla vita di ogni strato sociale; talvolta rivestiva una forma statuaria, divenendo, da illegalismo, una regolare esenzione, come nel caso dei privilegi accordati agli individui ed alle comunità; talvolta assumeva la forma di inosservanza generale di massa; altre volte si trattava di desuetudine progressiva. Per gli strati più sfavoriti della popolazione, questo spazio di tolleranza, conquistato con la forza o con l'ostinazione, era una condizione indispensabile di esistenza. Questo illegalismo necessario, "nelle sue regioni inferiori, raggiungeva la criminalità da cui gli era difficile distinguersi, giuridicamente se non moralmente" (121). La criminalità cioè si fondava su un illegalismo più vasto, da cui gli strati popolari dipendevano; e inversamente questo illegalismo era un fattore perpetuo di aumento della criminalità. Di qui l'ambiguità degli atteggiamenti popolari: da una parte il criminale era eroicizzato e valorizzato quale simbolo della lotta al potere dispotico; ma dall'altra parte "colui che, protetto da un illegalismo accettato dalla popolazione, commetteva dei delitti a spese di questa, ... diveniva facilmente oggetto di un odio particolare: egli aveva voluto ritorcere contro i più sfavoriti un illegalismo che era integrato alle loro condizioni di esistenza" (122). Tra questo illegalismo popolare e quello dei ceti sociali più elevati non esisteva né una completa convergenza, né una opposizione di fondo. I differenti illegalismi propri a ciascun gruppo mantenevano fra loro rapporti che erano insieme di rivalità, di concorrenza, di conflitti d'interesse, di appoggio reciproco, di complicità; "il gioco reciproco degli illegalismi faceva parte della vita politica ed economica della società" (123). Ma nel corso del XVIIIº secolo il processo tende ad invertirsi; "con l'aumento generale della ricchezza, ma anche a motivo della grande spinta demografica, il bersaglio principale dell'illegalismo popolare tendono ad essere, in prima linea, non più i diritti, ma i beni: le ruberie, i furti, tendono a sostituire il contrabbando e la lotta armata contro gli armigeri della finanza. E in questa dimensione, contadini, fattori, artigiani si trovano spesso ad essere le vittime principali" (124). Possiamo senza dubbio affermare che nel corso del Settecento si era progressivamente aperta una crisi dell'illegalismo popolare. In più, se buona parte della borghesia aveva accettato senza troppi problemi l'illegalismo dei diritti, lo sopportava invece male quando si trattava di quelli che essa considerava come suoi diritti di proprietà; "l'illegalismo dei diritti che assicurava spesso la sopravvivenza dei più poveri, tende, col nuovo status della proprietà, a divenire un illegalismo di beni. Bisognerà allora punirlo. ... Il modo in cui tende ad essere investita la ricchezza, secondo scale quantitative del tutto nuove, in merci ed in macchinari, presuppone una repressione sistematica e armata dell'illegalismo" (125). Si impone dunque la necessità di controllare e ricodificare tutta l'universo di queste pratiche illecite. È necessario che le infrazioni siano ben definite e sicuramente punite, che in questa massa di irregolarità tollerate e sanzionate in modo discontinuo, vengano determinate quelle che sono infrazioni non tollerabili, e che queste subiscano un castigo cui sia impossibile sfuggire. Con lo sviluppo della società industriale, viene ridefinito anche tutto il sistema degli illegalismi (126). "La riforma penale è nata nel punto di giunzione tra la lotta contro il superpotere del sovrano e quella contro l'infrapotere degl'illegalismi conquistati e tollerati" (127). La forma della sovranità monarchica, pur ponendo dalla parte del sovrano il sovraccarico di un potere splendente, illimitato, personale, irregolare e discontinuo, lasciava, dalle parte dei sudditi, il posto libero ad un costante illegalismo, che era come il correlativo di quel potere. Così, attaccare le diverse prerogative del sovrano, corrispondeva ad attaccare, contemporaneamente, il funzionamento degli illegalismi. "Si capisce come la critica dei supplizi abbia avuto una tale importanza nella riforma penale: era infatti la figura dove venivano a congiungersi, in modo visibile, il potere illimitato del sovrano e l'illegalismo sempre vigile del popolo" (128). Se, in apparenza, la nuova legislazione criminale si caratterizza per un alleggerimento delle pene, una codificazione più netta, una notevole diminuzione dell'arbitrarietà, essa è sottesa da un rovesciamento nell'economia tradizionale degli illegalismi e da una rigorosa costrizione per mantenere il loro nuovo assetto. Si è dovuto rendere l'esercizio del potere più sottile, più serrato, e fare sì che si formasse, a partire dalla decisione presa a livello centrale, arrivando fino all'individuo, un tessuto reticolare il più continuo possibile. "Di colpo, i grandi rituali del castigo costituiti dai supplizi, destinati a provocare effetti di terrore esemplari ma a cui molti colpevoli sfuggivano, spariscono di fronte all'esigenza di una universalità punitiva che si concretizza nel sistema penitenziario" (129). Vediamo attraverso quali nuove idee e nuove concezioni dell'uomo, della religione e della società i pensatori ed i filosofi Illuministi sono riusciti a compiere questa 'rivoluzione' delle modalità punitive.

2: L'opera dei riformatori

Quello compreso tra la seconda metà del XVIIIº secolo e la prima metà del XIXº fu un periodo chiave per l'evoluzione della penalità, caratterizzato da forti spinte ideologico-umanitarie, concretizzatesi nell'opera dei pensatori Illuministi, da importanti avvenimenti politico-militari, quali la rivoluzione francese ed il crollo dell'Ancien Règime, e da fondamentali stravolgimenti economico-sociali, come la rivoluzione industriale, che ribaltò le tecnologie ed i rapporti interni al mondo del lavoro. Si fece una critica, indiretta ma efficace, del diritto vigente. "Considerando poi la legislazione come il prodotto di una libera convenzione fra gli uomini, si aperse la via alle più ardite riforme" (130). Sino ad allora, si era registrato un secolare immobilismo, che aveva pressoché escluso il diritto penale da ogni processo di riforma (131). L'Illuminismo, l'opera di Cesare Beccaria, le proposte dei riformatori quaccheri inglesi, ispirate dalla loro profonda, quasi maniacale religiosità, furono i fattori scientifici e umanitari che dettero il primo impulso alla trasformazione" (132). Le punizioni corporali naufragarono sotto il peso della loro sconcertante varietà; ma causa principale del declino non fu tanto la loro crudele disumanità, quanto la evidente inutilità sociale ed economica. La nuova cultura Illuministica attua una radicale, spietata revisione di tutta l'eredità del passato. "Stato e società, autorità, fede, tradizione, sono sottoposte al vaglio delle nuove dottrine, delle nuove 'scoperte' del secolo, la Natura e la Ragione" (133). L'uomo Illuminista è un soggetto complesso; è prodotto dai costumi e si costruisce tanto sull'esperienza quanto sulla ragione. Come un calcolatore utilitarista, egli è in grado di governare razionalmente sia il dolore, sia il piacere. Di più, egli è un individuo morale, guidato dalla facoltà del senso morale. Non ci si accontenta più di esercitazioni letterarie, si discute di filosofia e di scienza, di politica e di economia. "E se ne discute con un entusiasmo prima sconosciuto, con un fervore quasi religioso, con una mistica fede nella nuove religione del secolo, la religione del progresso" (134). È l'aperta polemica fra il nuovo e l'antico. Il bersaglio è la tradizione, il passato, il vecchio regime con i suoi privilegi, la vecchia società con le sue ingiustizie. "L'homo novus dell'Illuminismo ha ripudiato ogni mediazione ecclesiastica. ... libertà e diritto si fondono e si completano a vicenda: la loro scaturigine è la natura che rimanda sia alla coscienza umana inalienabile, sia alla ripulsa di ogni altra norma, consuetudinaria o imposta. La libertà di ciascuno deve essere, perciò, libertà di tutti: uguaglianza, fraternità legalità rampollano da un'unica fonte: il contratto sociale, il quale, a sua volta, discende dalla morale comune" (135). La concezione del diritto e, di conseguenza, le misure attuate dallo Stato contro coloro che lo infrangono non potranno, d'ora in poi, che seguire questa parabola ideologica, sempre più coincidente con l'ascesa dei diritti pubblici ed il declino di quelli privati. Il monarca non è più visto come il padrone, ma come il servitore del popolo, al quale è stato affidato il comando perché guidi il popolo al benessere ed alla felicità. "Gli ultimi 25 anni del XVIII secolo furono quelli in cui si avviò decisamente a conclusione il processo evolutivo della pena, ... che sarebbe infine sfociato - quantomeno per i crimini di piccola e media entità - nel definitivo abbandono delle sanzioni corporali e nella loro sostituzione con quella detentiva: un fenomeno che comportò, quali necessari corollari, la costruzione di apposite strutture e la elaborazione di sistemi penitenziari ispirati da una filosofia della pena e da un modo di concepire il trattamento carcerario dei criminali completamente nuovi" (136). "Prima del 1775, l'idea che la sanzione detentiva potesse soppiantare la pena di morte per i crimini di maggiore gravità, e le punizioni corporali o la deportazione e la galera per i delitti di media e piccola entità, era ancora ben lontana dalla mente di quasi tutti i governanti d'Europa" (137). Nel 1764, a Livorno, era stato pubblicato, clandestinamente ed in forma anonima, per non incorrere negli strali della giustizia (138), un libretto, poco più che un opuscolo, intitolato Dei delitti e delle pene. L'opera suscitò clamorose reazioni e polemiche (139) negli ambienti giuridici e letterari, ottenendo, esaltata e commentata da Voltaire, un enorme successo; altre due edizioni vennero pubblicate in brevissimo tempo e traduzioni in varie lingue comparvero in diversi paesi. Il suo autore, Cesare Bonesana, marchese di Beccaria, era un giovane aristocratico milanese, formatosi nel cenacolo culturale dei fratelli Verri (140), l'Accademia dei Pugni, che discuteva le opere scritte dai philosophes francesi (141). La sua opera costituì il progresso decisivo fatto dall'Illuminismo nel campo della procedura penale. Dei delitti e delle pene non era affatto la prima opera sulla giustizia penale pubblicata in Europa, però aveva imboccato una strada assolutamente nuova. "Diversamente dai saggi precedenti, che erano per lo più commentari alle leggi esistenti, l'approccio di Beccaria risaliva più di essi alle radici del problema e al tempo stesso aveva una portata più universale" (142). Il suo trattato aveva influito grandemente sull'atteggiamento di popoli e governi nei riguardi della legislazione criminale; numerosi erano i libri e gli opuscoli sulle leggi penali che venivano pubblicati nei vari paesi. "I dibattiti provocati da tutte queste pubblicazioni contribuirono a porre la legislazione penale in primo piano fra i problemi correnti e a diffondere la convinzione che erano assolutamente necessarie delle riforme" (143). Beccaria delineò, anche se non in maniera totalmente cosciente e mirata, i valori del carcere moderno nelle sue caratteristiche essenziali: tassatività e predeterminazione delle pene (funzione esclusivamente preventiva e non punitiva); rieducazione e non afflizione del reo. Il nucleo del testo era abolire la pena di morte e sostituirla con una capace di far pagare ai delinquenti il terribile debito contratto con la società. "Ma quale pena poteva ottenere lo stesso risultato? Sul frontespizio della terza edizione del trattato, nel 1765, apparve la risposta iconografica a tale dilemma. La giustizia in veste di Minerva esprimeva un gesto di orrore verso il sangue e il boia che le offriva un truculento tributo di teste mozze. Lo sguardo illuminato della giustizia si volgeva altrove, verso un viluppo di strumenti di lavoro, zappe, seghe, martelli, intrecciati e misti a catene e manette. Il lavoro coatto era la risposta. Nasceva così la prima vera teorizzazione del carcere di recupero" (144). La pena deve trasformarsi in dissuasione dal reato, superando la punizione esemplare, la morte, che non rieduca poiché distrugge l'oggetto stesso della condanna. La tortura medievale è parte di una procedura rituale, che affligge il corpo per mettere alla prova l'anima, per strappare al condannato un consenso al verdetto predeterminato. Nel XVIIIº secolo, essa appare un inutile e barbaro anacronismo. "Non addestra il corpo, non lo assoggetta, né può costringerlo, una volta passata la prova, ad un regime duraturo di sottomissione fisica ed economica alle mansioni produttive imposte. Dunque è inutile e ideologicamente controproducente, per le fosche immagini che suscita nella tradizione e nella coscienza popolare" (145). Le teorie di Beccaria sulla giustizia penale possono essere divise in cinque parti generali: scopo, procedura, pena, responsabilità e prevenzione. "Quanto allo scopo generale del diritto penale, Beccaria pensava che la legge non doveva servire a proibire certi comportamenti, ma era solo un mezzo della società per regolamentare certe attività necessarie; questo segnava una netta rottura con il passato, quando la riforma aveva sempre comportato un'estensione degli statuti fino a coprire ogni situazione immaginabile" (146). Circa la procedura penale, il marchese rovesciava il concetto tradizionale che aveva costituito la pietra angolare del diritto penale nell'Ancien Règime, insistendo sull'innocenza dell'accusato fino a prova contraria. "Tale principio lo portò a denunciare tutti gli eccessi procedurali, ... cioè interrogatori segreti, testimonianze non comprovate, prove false e soprattutto la tortura. Gli statuti utilizzati in ogni sistema di giustizia penale dovevano essere chiari e prevedere sentenze inalterabili per ogni crimine, stabilendo in tal modo la sovranità della legge sul magistrato del tribunale (e sul monarca) e eliminando gran parte dell'arbitrarietà della procedura penale" (147). Inoltre si doveva tenere una documentazione completa e pubblica di tutte le leggi. La pena doveva servire per punire, e la forma più opportuna di punizione era, per vari motivi, l'incarcerazione. Innanzitutto, essa era l'unica forma di pena adeguabile al crimine con esattezza, graduando la lunghezza della condanna. "Era anche un metodo sicuro per uniformare la pena tra coloro che avevano i mezzi per pagare un'ammenda e coloro che non li avevano, dato che i primi sarebbero stati soggetti alle stesse condizioni dei secondi" (148). Inoltre era una forma certa di pena, e questo era l'aspetto cruciale del sistema di Beccaria. "La pena non solo doveva essere sancita in modo chiaro per ogni reato, ma doveva anche essere distribuita prontamente e con intransigenza. L'imputato, se riconosciuto colpevole, doveva scontare la pena; non doveva esserci possibilità di appello o di sospensione" (149). "È la certezza della pena piuttosto che la sua severità che viene ... sottolineata nelle conclusioni di Beccaria, poiché la nascente società borghese era assai più interessata alla completezza, alla rapidità e alla sicurezza della giustizia penale che non alla sua severità" (150). All'epoca, l'amministrazione della giustizia era dominata da una legislazione ad hoc, costellata di intrichi e di scappatoie che non favorivano certo il rispetto della legge. "Allo stesso tempo, minima era la flessibilità nella scelta delle pene, essendo la morte o la deportazione la regola quasi generale, cosicché questa estrema durezza e crudeltà andava ad aumentare l'insicurezza generale della giustizia penale poiché le corti spesso si ritraevano di fronte alle pene severe imposte dalla legge e preferivano non imporne alcuna" (151). All'epoca, la legittimità e la necessità dell'estremo supplizio erano pacificamente riconosciute da tutte le legislazioni europee, quanto meno per i più gravi reati di lesa maestà e di lesa nazione, e per gli omicidi più turpi. Riguardo alla responsabilità, Beccaria rifiutava ogni considerazione morale nel giudicare il criminale, e non intendeva tenere conto di elementi personali ed ambientali nel decidere il grado di colpevolezza o la pena necessaria per ogni crimine particolare (152). Relativamente alla prevenzione del crimine, l'autore dichiarava la sua piena fiducia in un sistema legale e procedurale equo e razionale, non solo come mezzo per punire i criminali, ma anche come il deterrente più efficace del crimine. "Anche se il rifiuto di creare un corpo di polizia può sembrare totalmente irrazionale, ... tale posizione era in sintonia con il pensiero settecentesco. Beccaria considerava con scetticismo la polizia, non potendo credere che ... fosse fedele ad altri che alla corona. Inoltre, esitava a concedere un'autorità poliziesca incontrollata a un'istituzione i cui membri si erano sempre rivelati pronti a violare la lettera e lo spirito della legge: queste violazioni erano state la caratteristica dei metodi polizieschi durante l'Ancien Règime" (153). All'epoca, infatti, la 'polizia' era stata formata dai torturatori, e aveva utilizzato tutti i metodi iniqui e immorali di vigilanza e detenzione aborriti dagli Illuministi. I diritti della comunità, contrapposti a quelli del sovrano, erano divenuti la questione filosofica e politica del XVIIIº secolo. Di conseguenza, quando i teorizzatori politici e morali studiavano la società dal punto di vista dell'uguaglianza per tutti i cittadini, il sistema di giustizia penale era tra i primi obiettivi delle loro critiche. "Diventò chiaro ben presto che i diritti della comunità potevano essere garantiti solo se si limitava il potere incontrollato del sovrano, un potere che si manifestava in modo lampante nel diritto" (154). Tra i principali bersagli dei riformatori c'era il grave abuso della tortura, che agli occhi di Montesquieu e altri rispecchiava nel modo più vistoso il dispotismo assolutista; le teorie di Montesquieu e Voltaire attaccavano l'assolutismo e ne censuravano i metodi di amministrazione del diritto penale. "Nel tentativo di razionalizzare la procedura penale, però, i riformatori dell'Illuminismo si trovarono di fronte un serio problema. Anche se una revisione dei codici penali richiedeva l'applicazione della dottrina dell'uguaglianza per avere successo, questa non poteva essere estesa fino a abolire le distinzioni di classe" (155). Al contrario, un sistema di giustizia penale umano ed efficiente era considerato un mezzo perfetto per garantire l'armonia in una società immutabilmente fondata su differenze concrete di status e di ricchezza. Il richiamo al progresso ed alla libertà dell'uomo non servirono a diminuire la sproporzione degli effetti dell'applicazione dei princìpi Illuministi tra le classi sociali. Aumentarono certo le garanzie generali, ma continuarono a restare profonde differenze. I ceti inferiori non riuscivano ad avvalersi delle nuove garanzie processuali per indisponibilità finanziaria e difetto di conoscenza; i vantaggi non si contarono, invece, per aristocratici e borghesi, che furono risparmiati dall'intrusione nella loro libertà di movimento e nelle loro attività lucrative. "Da un lato, c'era l'evidente necessità di creare un sistema che servisse da efficace deterrente alla criminalità crescente delle masse; dall'altro, era necessario evitare di abusare di questo deterrente fino a violare i diritti umani fondamentali che si cominciavano appena a concedere alla borghesia" (156). Era perciò assolutamente necessario mantenere il sistema di giustizia penale lungo linee classiste, anche se le esigenze politiche del tempo imponevano ai liberali di invocare l'abolizione delle manifestazioni più grossolane e lampanti di giustizia di classe. "Quindi non era la natura di classe del sistema a turbare i pensatori del Settecento. Erano piuttosto i vari abusi del sistema, che si erano verificati quando il diritto feudale era stato riformato per adeguarsi alle esigenze dello Stato assoluto. La dottrina dell'uguaglianza di fronte alla legge esigeva un'amministrazione della giustizia su una base razionale, efficace (157), a prescindere dal fatto che la legge costituiva la pietra angolare del privilegio di classe" (158). Per i filosofi del Settecento, la posizione liberale enunciata da Beccaria forniva la risposta a questo annoso problema. "Beccaria offrì la sintesi vitale, affiancando a una minore severità della pena il concetto di responsabilità individuale negli atti criminosi. Era questa la sostanza della massima 'giustizia uguale di fronte alla legge'. Questa tesi ipotizzava una parità di trattamento, ma soprattutto una parità di circostanze sociali. Il sistema moderno di giustizia penale aveva così escogitato una finzione sociale per mascherare le sue finzioni legali" (159). Mentre la questione della natura della pena concerneva le classi inferiori, "il problema di una definizione più precisa del diritto sostanziale e di strumenti di procedura legale più avanzati venne posto al centro del dibattito da parte delle forze borghesi, che non avevano ancora vinto la loro battaglia per il potere politico e che andavano ricercando una struttura di garanzie giuridiche a presidio della loro stessa sicurezza" (160). I pionieri della riforma erano quindi soprattutto preoccupati di limitare la potestà punitiva dello Stato, creando norme tassativamente determinate e assoggettando le autorità a rigidi controlli. Non dobbiamo minimizzare gli effetti positivi del pensiero di Beccaria, neppure per quanto riguarda il trattamento dei delinquenti abituali; i suoi scritti furono un fattore importante nella riforma di alcuni codici penali. In una certa misura, le sue idee riflettevano il corso reale degli eventi: la tortura veniva abolita in numerosi paesi europei, l'evoluzione della moderna legge basata sulla prova la rendeva inutile nella procedura penale. "Tuttavia, come nel caso di tanti trattati intellettuali, la reazione pubblica all'opera di Beccaria fu di gran lunga superiore alla sua influenza concreta. In effetti, al tempo in cui egli scriveva, i criminali si trovarono forse di fronte il sistema di pene più severo e brutale nella storia della criminalità europea. A partire dalla fine del Seicento, ma anche per parte del Settecento, la condanna a morte fu estesa a ogni sorta di reati, anche quelli di minore gravità" (161). Però, mentre cresceva il numero di crimini passibili di pena capitale, il numero di criminali effettivamente messi a morte rimase stazionario o diminuì in termini assoluti; in rapporto alla crescita costante di articoli di legge che prevedevano la condanna a morte, il numero di esecuzioni capitali declinò per gran parte del Settecento. Questo perché stava crescendo la popolarità di altri tipi di pena. "Nel primo Settecento la crescita dell'economia occidentale, il bisogno di manodopera dello Stato nazionale e la nascita di imperi oltremare determinarono un bisogno di manodopera che poteva essere in parte soddisfatto ricorrendo al lavoro forzato. Quindi certe forme di punizioni, quali l'incarcerazione in case di lavoro, la schiavitù sulle galere e la deportazione in desolate regioni coloniali, svolgevano un ruolo molto più razionale dell'esecuzione capitale" (162). Nei primi decenni del Settecento, in seguito all'aggravarsi della criminalità e all'aumento dei costi dell'assistenza ai poveri, vennero approvate leggi che autorizzavano la costruzione di ospizi e l'uso delle case di correzione quale mezzo per arginare l'aumento dei prezzi. "Queste istituzioni avrebbero dovuto costringere i poveri a osservare un orario di lavoro; a trattenersi dallo spendere i propri scarsi guadagni in rivendite di alcolici e birrerie a danno della propria salute; ad essere di assistenza reciproca in caso di malattia o di necessità provocate dalle infermità della vecchiaia; ed a evitare le tentazioni di rubacchiare e scassinare per soddisfare i propri bisogni" (163). La maggior parte erano vecchie case in cui i poveri erano messi a lavorare e costretti a filare e tessere in condizioni di rigida disciplina; tali istituzioni però naufragarono per le difficoltà incontrate nel far lavorare i reclusi, e alla metà del secolo erano tornate sonnolenti rifugi per anziani, pazzi e orfani. In Inghilterra, tra il 1750 ed il 1770 si edificarono nuove immense case; "costruite in un periodo in cui l'aumento del costo dell'assistenza ai poveri generava preoccupazione, esse rappresentarono il tentativo più ambizioso del XVIII secolo di sfruttare il lavoro degli indigenti" (164). L'organizzazione di queste case di lavoro anticipò il regime coatto di isolamento e di lavoro forzato che sarebbe stato adottato in modo assai più completo nei penitenziari. "Al suo arrivo il povero era fatto spogliare, quindi lavato e rivestito di un'uniforme; la giornata all'interno di queste istituzioni procedeva in base ad attività e scadenze fisse; le porte erano tenute chiuse e i poveri avevano il permesso di uscire solo se autorizzati dal direttore" (165). Vi erano stanze e celle riservate alla detenzione dei più incorreggibili. La forma moderna di bando, la deportazione, diventò un aspetto importante della pena nel XVIIIº secolo, in particolare nei paesi che cominciavano a creare sistemi coloniali all'estero. "Il bisogno di manodopera a buon mercato nelle colonie, insieme con la sovrappopolazione all'interno, determinò il frequente ricorso alla deportazione nei sistemi di pena nel secolo XVIII" (166). Il numero dei deportati era assai superiore a quello dei condannati a morte, che spesso si vedevano commutare la pena capitale in deportazione. "Quantunque la pena capitale fosse utilizzata in pratica molto meno spesso di quanto previsto dalle leggi, tuttavia occasionalmente un'esecuzione capitale svolgeva una serie di funzioni importanti" (167). In un periodo in cui i dirigenti della società giudicavano le masse insubordinate e bisognose di disciplina, un'esecuzione pubblica serviva a ricordare con forza l'autorità dello Stato, che si manifestava nella sua capacità di imporre la sanzione finale ad uno dei suoi cittadini. "Alla fine del Settecento l'orrore toccò il suo apice, perché l'indisciplina della folla intorno al patibolo esigeva la presenza di un gran numero di soldati sulla scena. La presenza dell'esercito in alta uniforme conferiva un tono ancor più cupo all'evento" (168). "Nei decenni precedenti l'opera di Beccaria, il pensiero Illuminista aveva già scosso l'Europa, preparando il terreno a grandi sconvolgimenti socio-politici" (169). In Inghilterra, Hobbes e Locke (170) avevano fondato la teoria secondo la quale la società è il prodotto di un patto tra gli uomini per passare dallo stato di natura allo stato sociale (171). In base alla teoria generale del contratto sociale, si presume che il cittadino abbia accettato, una volta per tutte, insieme alle leggi della società, anche quella stessa che rischia di punirlo. "Il criminale appare allora come un essere giuridicamente paradossale: egli ha rotto il patto, dunque è nemico dell'intera società, e tuttavia partecipa alla punizione che subisce. Il minimo delitto attacca tutta la società; e tutta la società - ivi compreso il criminale - è presente anche nella minima punizione. Il castigo penale è dunque una funzione generalizzata, coestensiva al corpo sociale e a tutti i suoi elementi" (172). L'infrazione oppone l'individuo all'intero corpo sociale. Lotta ineguale: da una sola parte tutte le forze, tutta la potenza, tutti i diritti. Si crea così un formidabile diritto di punire, poiché il reo diviene il nemico comune; anzi, peggio di un nemico, poiché è dall'interno della società stessa che egli commette il suo crimine, il suo tradimento. Diviene così un 'mostro', su cui la società rivendica un diritto assoluto. Il criminale, designato come il nemico di tutti, che tutti hanno interesse a perseguire, cade fuori dal patto, si squalifica come cittadino; "egli appare come lo scellerato, il mostro, forse il pazzo, il malato" (173). E a questo titolo egli rientrerà un giorno nel campo di un'oggettivazione scientifica e del trattamento correlativo. Dall'altro lato, "la necessità di misurare dall'interno gli effetti del potere punitivo prescrive tattiche d'intervento su tutti i criminali, attuali o eventuali: l'organizzazione di un campo di prevenzione, il calcolo degli interessi, la circolazione di rappresentazioni e di segni, la costituzione di un orizzonte di certezza e di verità, l'aggiustamento delle pene a variabili sempre più sottili: tutto ciò, conduce di nuovo ad una oggettivazione dei criminali e dei crimini" (174). Il diritto di punire, nel corso del Settecento, è stato spostato dalla vendetta del sovrano alla difesa della società. Ma si trova allora composto da elementi così forti da divenire più temibile; "si è strappato il malfattore ad una minaccia, per natura, eccessiva, ma lo si espone ad una pena di cui non si vede alcun possibile limite. Ritorno di un superpotere terribile. Necessità, allora, di porre alla potenza del castigo un principio moderatore" (175). Ed è qui che si inserisce l'opera dei successivi riformatori Illuministi. Il corpo, l'immaginazione, la sofferenza, il cuore da rispettare, non sono in effetti quelli del criminale da punire, ma quelli degli uomini che, avendo sottoscritto il patto, hanno il diritto di esercitare contro di lui il potere di unirsi. "Le sofferenze che l'addolcimento delle pene deve escludere, sono quelle dei giudici e degli spettatori, con tutto ciò che possono portare con sé di indurimento, di ferocia indotta dalla abitudine, o, al contrario, di pietà non dovuta, di indulgenza poco fondata" (176). Ciò che è necessario regolare e calcolare sono gli effetti di ritorno del castigo sull'istanza che punisce e sul potere che pretende di esercitare. "Se la legge deve trattare umanamente colui che è 'fuori natura' (mentre la giustizia d'altri tempi trattava in modo inumano il 'fuorilegge'), la ragione non si trova in una umanità profonda che il criminale nasconderebbe in se stesso, ma dalla necessaria regolazione degli effetti del potere" (177). Hobbes era inoltre giunto a definire compiutamente la separazione del diritto dalla morale, "ed una stretta formulazione giuridica del concetto di colpevolezza penale attraverso la rigorosa connessione con un fatto giuridicamente definito" (178). A lui è attribuibile anche la prima formulazione del concetto di irretroattività della legge. L'Illuminismo fu un movimento dal carattere essenzialmente pragmatico. "Lungi dall'essere una filosofia sistematica, una semplice tendenza culturale o una mentalità di fondo, esso ebbe come momento più rilevante la filosofia pratica e soprattutto la tendenza alla riforma delle principali istituzioni giuridiche e politiche" (179). Uno dei suoi maggiori risultati fu il rivolgimento del diritto penale, che ruotò intorno al problema e del fondamento e dell'ampiezza del diritto di punire da parte dello Stato. Gli Illuministi cessarono di considerare il diritto penale come un dato scontato, come una struttura normale ed ovvia della società civile, per iniziare a considerarlo in termini problematici, domandandosi per quali ragioni il potere statale potesse e dovesse invadere la sfera di azione dei cittadini mediante la comminazione della pena, e quali fossero i limiti entro cui la potestà punitiva potesse trovare applicazione (180). "Primo carattere fondamentale della rivoluzione Illuministica in ambito giuridico-penale fu quello della cosiddetta secolarizzazione del diritto, fenomeno sintetizzabile nell'assunzione di una posizione di distacco del diritto dalla religione, attraverso una distinzione netta dei concetti di peccato e di delitto, da un lato, e di castigo o espiazione e di pena, dall'altro" (181). Si cominciarono a concepire come reati, ovvero come azioni meritevoli di punizione giuridica da parte dello Stato, solo i comportamenti suscettivi di danneggiare la società ed i suoi membri. "Alla luce del nuovo modo di intendere la penalità, i delitti sarebbero stati, cioè, puniti non a causa della loro intrinseca immoralità, ... ma perché fatti pericolosi per la convivenza civile o dannosi di diritti e interessi altrui" (182). Diretta conseguenza di tale profonda rivoluzione fu che tutta una serie di azioni fino ad allora penalmente rilevanti, come il suicidio, l'eresia e l'omosessualità, cessarono di esserlo; la secolarizzazione condusse ad una maggiore tutela delle convinzioni interiori dell'uomo, alla tolleranza civile e religiosa, all'ampliamento della sfera delle libertà della persona (183). Il secondo carattere dell'Illuminismo fu la progressiva umanizzazione del complessivo sistema delle sanzioni criminali, strettamente collegata all'affermarsi dei principi di proporzionalità e di adeguatezza della pena rispetto al delitto. "Il concetto di proporzionalità venne concretizzato in una gamma di pene, giuridicamente definite in relazione alla gravità del reato, il che divenne, fra l'altro, uno degli argomenti più efficaci nella lotta contro l'uso troppo frequente della pena di morte" (184). Gran parte dello sforzo teorico venne concentrato nello sviluppo di un elaborato sistema normativo in grado di riconoscere ogni più sottile distinzione tra i vari motivi e le varie modalità di esecuzione del medesimo reato. "L'Illuminismo si pose come primo obiettivo quello di rinnegare totalmente i tormenti che erano soliti accompagnare le esecuzioni capitali. In secondo luogo, propugnò l'esclusione della pena di morte per alcuni crimini sino ad allora considerati di estrema gravità morale come la magia o l'eresia. Infine, si batté perché non ne fossero passibili - come all'epoca frequentemente accadeva - reati di media o lieve entità, quali ad esempio il furto o la rapina" (185). Terzo carattere della rivoluzione Illuminista fu quello relativo allo scopo della pena. Era fortemente radicata in tutti gli autori l'avversione per l'idea di retribuzione, ritenuta anacronistico retaggio dell'esigenza di vendetta che singoli e società soddisfano col veder inutilmente soffrire il colpevole. La dottrina Illuministica oscillò, invece, nella costruzione di un modello alternativo, tra la prevenzione generale e quella speciale, e l'emenda del reo. Beccaria, ad esempio, afferma: "Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. ...Il fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini, e di rimuovere gli altri dal farne uguali" (186). Quarto carattere dell'Illuminismo giuridico-penale fu la battaglia contro gli abusi del potere giudiziario, combattuta in difesa della legalità e della certezza del diritto. "Corollario fondamentale ne fu l'affermazione dell'esigenza di emanare poche leggi, ma chiare e semplici, tali da garantire i cittadini contro i rischi connessi all'attribuzione ai giudici di troppo ampi poteri discrezionali, al mancato riconoscimento della irretroattività delle norme penali, alla loro eventuale interpretazione analogica" (187). I principi basilari affermati dalla dottrina Illuministica assunsero grande importanza non solo teorica, ma anche pratica, perché dettero impulso al processo di abolizione di tutto un sistema di pene e di supplizi crudeli e disumani. "Ma la realtà che ne seguì rimase ben lontana dagli ideali, nel senso che, in definitiva, la rivoluzione culturale avviata dai giuristi e dai pensatori Illuministi non produsse in pieno gli effetti sperati" (188). E ciò non solo a causa degli avvenimenti politico-militari che sconvolsero l'Europa a cavallo tra il XVIIIº e il XIXº secolo, ma anche per via delle incongruenze ed incertezze che continuavano a permanere circa gli scopi della pena (189). Fu comunque merito dell'Illuminismo l'avere introdotto tre concetti fondamentali, oggi ritenuti ovvi, ma che per molti secoli furono disconosciuti. "Il primo concetto risiede nella giuridica determinazione di ciò che sia reato, nel senso che non torni lecito di irrogar pene contro alcuno per fatti che non siano espressamente preveduti come infrazioni dalla legge: onde il canone, nullum crimen sine lege che veniva a togliere l'odioso arbitrio concesso ai giudici di qualificare essi, in luogo del legislatore, i delitti" (190). Il secondo concetto è che la legge, dopo aver statuito quali azioni od omissioni costituiscano reato, deve anche fissarne la corrispondente pena, "conferendo al giudice la sola facoltà di spaziare, a tenore delle circostanze, nei limiti della misura legale" (191); da qui la nota formula nulla poena sine lege. Il terzo concetto, complemento e dialettica degli altri due, afferma che nessuno può subire una condanna senza un regolare giudizio: nemo damnetur nisi per legale iudicium. Vengono così delineate una serie di regole per stabilire se sia stata commessa la violazione della legge e, in caso affermativo, per irrogare la giusta pena. In altri termini, la funzione penale può essere legittimamente esercitata soltanto entro la cornice dello Stato di diritto; la legittimità della pena è legata all'osservanza del principio della legalità e della certezza del diritto. "La formalizzazione sia del diritto sostanziale che di quello procedurale costituì uno degli obiettivi fondamentali dei riformatori, ... contro ogni forma arbitraria di amministrazione della giustizia penale. ... La passione del tempo per le scienze matematiche si combinò con il desiderio borghese di sicurezza nell'identificare la giustizia con la possibilità di calcolo, ... fino a giungere alla formulazione estremamente dettagliata della correlazione tra reato e pena" (192). In Francia Montesquieu aveva inaugurato con il suo Spirito delle leggi un esame storico-critico delle istituzioni politiche (193), e con le sue Lettres persanes aveva richiesto l'abolizione delle arretrate condizioni in cui versava la penalità contemporanea; Rousseau, con i suoi paradossi, aveva posto le fondamenta al dogma della sovranità popolare; Voltaire (194) aveva scritto a Federico II di Prussia (195) che era giunta l'ora di mettere il mondo sotto l'impero della filosofia. "Ma nessuno aveva ancora osato censurare apertamente le istituzioni della giustizia penale, ponendo in dubbio il diritto del sovrano di disporre della vita, del corpo e della libertà dei propri sudditi, in nome di un potere arbitrario e indiscutibile: in ciò risiedeva la principale novità del pensiero di Beccaria" (196). Accogliendo i voti del marchese lombardo, nel 1786, il granduca Pietro Leopoldo varò in Toscana la Riforma della legislazione criminale. "Il codice leopoldino rappresenta, con ogni probabilità, l'opera legislativa più ardita del secolo dei lumi: sia pure per un brevissimo periodo (197), venne abolita la pena di morte, sostituita dai lavori forzati a vita, mentre furono stabilmente introdotte rilevanti novità nella disciplina processuale" (198). In Inghilterra, malgrado fosse in atto l'esperimento delle case di correzione e di lavoro per i poveri e gli sbandati socialmente pericolosi, la detenzione continuava ad essere riservata solo agli autori di reati minori. "E anche la deportazione, la fustigazione e la gogna continuavano a trovare ampia applicazione nella prassi giudiziaria, improntata a un acuto senso della teatralità e della scelta del momento dell'esecuzione, fattori da cui dipendevano, in massima parte, gli effetti deterrenti del rito punitivo" (199). Sino alla metà del Settecento, si insiste sul carcere come luogo di custodia, o di correzione, ma non di pena, effetto questo dell'ancora assai diffuso ricorso alla condanna alle galere come pena principale. A partire dalla prima metà del '700, l'evoluzione nella progettazione dei velieri rese il remo obsoleto; la pena della galera andò così perdendo il suo significato, venne accantonata e lasciò spazio ad altre forme di lavori forzati, da svolgersi in pubblico od in apposite strutture, quali i bagni penali nei porti. Parallelamente, un primo serio colpo alle ragioni della deportazione fu dato dallo sviluppo del mercato degli schiavi, trasportati nelle Americhe dall'Africa; essi infatti costituivano una riserva di lavoro più economica e meno controllata da parte degli Stati. "Lo scoppio della rivoluzione e della guerra di secessione americana provocò, nel 1775, l'improvvisa sospensione delle deportazioni nelle tredici colonie inglesi e una quasi completa paralisi delle istituzioni preposte all'amministrazione della giustizia, le quali dovettero, quindi, escogitare pene alternative per i delitti di media gravità e per quelli contro il patrimonio" (200). Inizialmente le autorità britanniche, poco inclini a trasformazioni radicali del sistema punitivo, fecero ricorso ad un espediente temporaneo: il riadattamento di un certo numero di navi da guerra in disarmo (gli hulks) da trasformare in prigioni galleggianti ancorate nel Tamigi, sulle quali sfruttare il lavoro forzato dei condannati per opere di pubblica utilità, come l'estrazione di terra, sabbia e ghiaia. Ma il governo non era soddisfatto del lavoro svolto in questi battelli in cui i detenuti venivano alloggiati (201). Howard visitò queste navi in diverse occasioni, e condannò quale circostanza pregiudiziale alla morale lo stato di promiscuità in cui era costretto a vivere un numero così elevato di criminali. "Nuovi progetti favorevoli alla reintroduzione della deportazione si dovettero scontrare con le reazioni di coloro che temevano che in questo modo si potesse determinare uno spopolamento del paese" (202). Gli hulks erano diventati nient'altro che serbatoi di criminali, e stavano pertanto creando difficoltà crescenti; d'altra parte, le nuove istituzioni carcerarie cui accennavano i riformatori non potevano certo essere costruite nell'immediato futuro. Le navi-prigione non erano mai state destinate a sostituire definitivamente la deportazione (203), dato che potevano accogliere solo la metà dei condannati; il resto doveva essere rinchiuso nelle carceri. "Dopo il 1775, ... quasi nel giro di una notte, la detenzione divenne la pena di ripiego comminata per tutti i delitti minori contro la proprietà, mentre in passato era stata la punizione occasionale per i delitti più gravi" (204). Inizialmente si comminavano lunghi periodi di carcere, sovente accompagnati dalla fustigazione, finché ci si rese conto che essi equivalevano a condanne a morte, data la pessima condizione in cui si trovava la maggior parte delle prigioni. Si cominciò quindi a ridurre la durata delle condanne. "Il ricorso improvviso alla detenzione costituì un elemento di ulteriore aggravio per le istituzioni carcerarie che già avevano mostrato segni di sovraffollamento ancor prima del 1775" (205). La crescente pressione demografica e l'aumento del tasso di criminalità esercitavano gravi tensioni sulle strutture carcerarie. I magistrati non si erano mai resi conto delle implicazioni che potevano derivare dal comminare condanne al carcere. Le istituzioni carcerarie erano ancora gestite come luoghi di detenzione provvisoria, ed in molte di esse non era prevista alcuna razione di cibo per i detenuti, costretti a dipendere dalla carità incerta degli amici. "Altrettanto allarmante era la constatazione che le misure repressive non riuscivano a porre freno all'ondata di criminalità" (206); alcuni sostennero, visto che le esecuzioni di massa non ottenevano l'effetto deterrente sperato, che l'unico mezzo disponibile era l'adozione di pene ancor più dure e inflessibili. Tali consigli non vennero, fortunatamente, seguiti, anche perché avrebbero significato la definitiva distruzione del mito già precario della misericordia e umanità della legge (207). Inoltre si temeva che un aumento delle esecuzioni avrebbe incoraggiato i criminali, abituando la popolazione a gesti di brutalità e sminuendo il valore della vita umana. "Queste difficoltà, unitamente alla deteriorata situazione economica, ... posero l'accento sulla necessità di un'esecuzione inflessibile e imparziale della legge e condannarono l'uso indiscriminato e crescente dell'amnistia e della commutazione della pena come fenomeni che non potevano che indebolire l'intera struttura legale" (208). Dal 1786 la prassi della deportazione oltreoceano dei condannati riprese vigore, questa volta verso l'Australia. Lo stesso Howard si schierò contro questo tipo di pena, sostenendo che distruggeva ogni possibilità di riabilitare i delinquenti, e che non era affatto di esempio, visto che le pene sofferte dai rei rimanevano ignote alla popolazione. "Siccome le imprese appaltatrici venivano pagate in funzione dei detenuti imbarcati e non in rapporto al numero di coloro che effettivamente giungevano a destinazione, il tasso dei decessi durante i trasporti erano elevatissimi" (209). Comunque vennero adottate alcune forme di indulgenza: la pena poteva essere sospesa anticipatamente per buona condotta, era possibile il rimpatrio ed il perdono condizionale; inoltre vennero fatte concessioni gratuite di terra ai prigionieri liberati, cui vennero donati anche sementi, attrezzi e cibo per un periodo predeterminato. Molti prigionieri così, una volta tornati liberi, riuscirono a trovare sul posto una buona sistemazione ed a rifarsi una vita. La politica liberale della concessione gratuita di terra dette l'opportunità ai deportati di trasformarsi in contadini, non diversamente da coloro che si erano recati volontariamente nelle colonie. Le opportunità di coloro che erano riusciti in qualche modo a sopravvivere alla deportazione ed alla violenza degli imprenditori privati e del personale di sorveglianza nei lavori di pubblica utilità furono di gran lunga migliori di quelle esistenti nella madrepatria. Ma in seguito la condizione degli ex-deportati subì un radicale mutamento. "Se in passato, infatti, essi avevano avuto la possibilità di divenire liberi coloni, sempre che fossero riusciti ad apprendere qualche mestiere durante l'esecuzione della pena, ora, con il venir meno di terre ancora libere, erano esclusi dall'acquisto di quei fondi che, se non fosse stato per il loro lavoro, sarebbero rimasti per molto tempo ancora incolti" (210). Così molti ex-deportati, avendo perso ogni speranza di diventare piccoli proprietari, abbandonarono le fattorie per riversarsi nelle città, dove era più facile trovare una occupazione meno faticosa e più remunerata. "I lavoratori liberi ... dovettero lottare contro il lavoro a buon mercato dei detenuti" (211), ed arrivarono a chiedere l'abolizione della deportazione. "Nel periodo in cui iniziò la deportazione in Australia la classe operaia inglese viveva comparativamente meglio di quanto non si vivesse nelle colonie, ma con il passare del tempo la situazione economica si deteriorò a tal punto che ... le classi povere in Inghilterra erano ormai costrette alla miseria" (212). Se, quindi, durante il primo periodo, il lungo e tedioso viaggio per una destinazione sconosciuta e l'esilio a vita erano visti di per sé come un castigo, specialmente per i deportati di estrazione contadina, per i quali - come mostrò l'esperienza - il brusco sradicamento dalla cultura di origine fu sentito come ulteriore sofferenza, col tempo, man mano che il lungo viaggio diveniva più familiare e le classi povere cominciavano ad avere parenti ed amici residenti nella colonia, il semplice fatto dell'esilio veniva a perdere molto del suo terrore iniziale. "Se in Inghilterra un lavoratore libero incontrava difficoltà quasi insuperabili, anche nelle aree più industrializzate, nella ricerca di un comune lavoro manuale, ciò non avveniva in Australia ove le condizioni erano oramai più favorevoli" (213). L'efficacia deterrente della deportazione era così progressivamente venuta meno (214); il concetto stesso di less elegibility stava venendo disatteso. Non vi era più alcuna proporzione tra reato e pena, e venne a mancare ogni finalità di prevenzione generale (215). Le continue proteste spinsero ad abolire questo sistema, nel 1839, vista la sua inefficacia deterrente ed il fallimento della finalità rieducativa. Inoltre i coloni stavano esercitando forti pressioni, lamentandosi della riduzione salariale dovuta proprio al bassissimo costo della manodopera dei condannati e degli emancipati, e cominciarono ad opporsi strenuamente alla deportazione. Ma torniamo alle innovazioni introdotte dalla cultura Illuministica. Secondo le nuove concezioni contrattualistiche, il torto che il crimine fa al corpo sociale è il disordine che vi introduce: lo scandalo che suscita, l'esempio che dà, l'incitamento a ricominciare se non viene punito, la possibilità di generalizzazione che porta in sé. Per essere utile il castigo deve avere come obiettivo le conseguenze del delitto, intese come la serie di disordini che è capace di generare. L'influenza che un crimine ha sull'ordine sociale "non è forzatamente in proporzione diretta alla sua atrocità; un crimine che spaventa la coscienza ha spesso minor effetto di un misfatto che tutti tollerano e si sentono pronti ad imitare a loro volta. Rarità dei grandi crimini; pericolo, in cambio, di piccoli misfatti famigliari che si moltiplicano" (216). La pena cioè viene calcolata non in funzione del crimine, ma della sua possibile ripetizione. Non si mira all'offesa passata, ma al disordine futuro. "Punire sarà dunque un'arte degli effetti: piuttosto che opporre l'enormità della pena all'enormità dell'errore, bisogna adattare l'una all'altra le due serie che seguono il delitto: gli effetti propri e quelli della pena. Un delitto senza dinastia non richiede alcun castigo" (217). Che la punizione riguardi l'avvenire e che una almeno delle sue funzioni principali sia prevenire era, da secoli, una giustificazione del diritto di punire. Ma la differenza è che la prevenzione che ci si attendeva come effetto del castigo e della sua risonanza, tende a divenire ora il principio della sua economia e la misura delle sue giuste proporzioni. Bisogna punire esattamente abbastanza per impedire. "In una penalità di supplizio, l'esempio era la replica del crimine: doveva ... mostrarlo e mostrare nel medesimo tempo il potere del sovrano che lo dominava; in una penalità calcolata a misura dei suoi effetti, l'esempio deve rinviare al delitto, ma nel modo più discreto possibile" (218). L'esempio non è più un rituale che manifesta, ma un segno che ostacola. La nuova ideologia che sottende il potere di punire si articola, fondamentalmente, nei seguenti punti principali. In primo luogo si ritiene che un delitto venga commesso perché procura dei vantaggi; legando all'idea del delitto l'idea di uno svantaggio un po' più grande, esso cesserebbe di essere desiderabile. Si deve creare un nesso tra pena e delitto, "ma non più sotto la forma antica, in cui il supplizio doveva equivalere al crimine in intensità, con un supplemento che segnava il 'più di potere' del sovrano che compiva la sua legittima vendetta" (219). In secondo luogo, dato che il motivo di un delitto è il vantaggio che ci si rappresenta, l'efficacia della pena risiede nello svantaggio che ci si attende. "Ciò che fa della 'pena' il cuore della punizione non è la sensazione di sofferenza, ma l'idea di un dolore, di un dispiacere, di un inconveniente - la 'pena' dell'idea della 'pena'. Dunque la punizione non deve porre in opera il corpo, ma la rappresentazione" (220). Ciò che deve essere massimizzato è la rappresentazione della pena, non la sua realtà corporale. Terzo, la pena deve produrre gli effetti più intensi presso coloro che non hanno commesso l'errore (221); "al limite, quando si potesse essere certi che il colpevole non possa ricominciare, sarebbe sufficiente far credere agli altri che è stato punito" (222). Ciò conduce inevitabilmente al paradosso per cui, nel calcolo delle pene, l'elemento meno interessante è ancora il colpevole, salvo quando sia suscettibile di recidiva. "L'Illuminismo sembrava segnare la fine di un incubo per milioni di persone sottoposte a uno strumento processuale persecutorio e inesorabile. ... Ma ... l'ideologia di cui Montesquieu in Francia e Beccaria in Italia erano stati portatori, si traduceva in una tale regolamentazione dei delitti, del processo e delle pene, da allontanare l'indagine e l'interesse processuale dalla persona, per renderla oggettiva, verificabile" (223). In questo modo il fatto diviene il nuovo centro del processo, il presupposto di ogni condanna; esso è rigorosamente descritto in fattispecie astratte, cui ogni comportamento umano dovrà riferirsi. Quarto, bisogna che all'idea di ogni delitto e dei vantaggi che ci si attendono, sia associata l'idea di un determinato castigo, con gli inconvenienti precisi che ne risultano. Il legame deve essere considerato come necessario, e niente deve essere in grado di spezzarlo. Ciò implica che le leggi siano perfettamente chiare, che siano pubblicate ed accessibili liberamente a tutti. E che "il monarca rinunci al suo diritto di grazia, perché la forza che è presente nell'idea della pena non sia attenuata dalla speranza di questo intervento" (224); le leggi devono essere inesorabili, e gli esecutori infallibili, per non fomentare la speranza di impunità. Si vuole cioè essere non più severi, ma più vigilanti (225): nessun delitto deve sfuggire allo sguardo di coloro che devono rendere giustizia, perché "niente rende più fragile l'apparato delle leggi che la speranza dell'impunità" (226). Contestualmente, è anche necessario che le procedure non siano più segrete, che le ragioni per le quali un accusato è stato condannato o assolto siano di dominio pubblico, e che ciascuno possa individuare le ragioni della punizione o della assoluzione. Secondo l'Illuminismo, la norma, come la proprietà, scaturisce direttamente dalla natura, è oggettiva. Il giudice adesso è solo "un funzionario designato dalla società civile cui compete la traduzione pratica dei regolamenti, i quali, intelligibili come i fenomeni della natura, non si prestano all'interpretazione soggettiva. Le corti giudicanti non devono far altro che applicare le formule già predisposte: a ogni mancanza corrisponde un'ammenda immediatamente quantificabile" (227). Chi trasgredisce le norme della convivenza viene privato di un quantum di libertà pari al danno arrecato, viene obbligato a risarcire la società attraverso il lavoro produttivo. "Il lavoro carcerario è obbligatorio e svolge due funzioni contemporanee: è strumento pedagogico perché inculca la disciplina salariata, è fonte di accumulazione perché è sottopagato o non retribuito affatto" (228). Veniamo ad un altro punto fondamentale delle critiche Illuministe rivolte al vecchio sistema penale; l'antico sistema delle prove legali, l'uso della tortura, l'estorsione della confessione, l'utilizzazione del supplizio, del corpo e dello spettacolo per la riproduzione della verità, avevano portato ad un sistema in cui mezze prove e mezze verità facevano mezzi colpevoli, in cui frasi strappate con la sofferenza avevano valore di autentificazione, in cui una presunzione generava un grado di pena. Ma con questi caratteri, non sarebbe stato possibile legare in modo assoluto nello spirito degli uomini l'idea del delitto e quella del castigo, dato che la realtà del castigo non seguiva la realtà del misfatto. Ne conseguiva che la verifica del delitto doveva cominciare ad obbedire ai criteri generali di ogni verità. "Dunque, abbandono delle prove legali; rifiuto della tortura, necessità di una dimostrazione completa per ottenere una verità giusta, annullamento di ogni correlazione tra i gradi del sospetto e quelli della pena. Come una verità matematica, la verità del delitto potrà essere ammessa solo quando interamente provata" (229). L'inchiesta si spoglia dell'antico modello inquisitoriale, per accogliere quello della ricerca empirica. Altra questione, "è necessario che tutte le infrazioni siano qualificate, classificate, riunite in specie" (230). Un codice è dunque necessario, e deve essere sufficientemente preciso affinché ogni tipo di infrazione possa esservi presente in modo chiaro. "Nel silenzio della legge, non bisogna possa sedimentare la speranza dell'impunità" (231). È necessario un codice esaustivo ed esplicito, che definisca i delitti, fissando le pene. Ma l'idea di un medesimo castigo non ha la stessa forza per tutti: l'ammenda non è temibile per il ricco, né l'infamia per chi vi è già stato esposto; "poiché il castigo deve impedire la recidiva, bisogna pur che tenga conto di quello che è nella sua natura profonda il criminale, il grado presumibile della sua cattiveria, la qualità intrinseca della sua volontà" (232). Insieme alla necessità di una classificazione parallela dei delitti e dei castighi vediamo sorgere la necessità di una individualizzazione delle pene, conforme ai caratteri peculiari di ogni criminale (233). Si cerca di fare in modo che ogni infrazione particolare, ed ogni individuo punibile, possano cadere, senza alcun arbitrio, sotto il dominio di una legge generale (234). In questa epoca prende corpo anche la nozione di recidiva, che tende ora a divenire una qualificazione del delinquente stesso, suscettibile di modificare la pena inflitta (235). "Attraverso la recidiva, ciò che si prende di mira non è l'autore di un atto definito dalle legge, è il soggetto delinquente, è una certa volontà che manifesta il suo carattere intrinsecamente criminale" (236). Lo scopo primario è dunque quello di classificare esattamente gli illegalismi, di generalizzare la funzione punitiva e di delimitare, per controllarlo, il potere di punire. Alla fine del '700 la razionalizzazione punitiva è a tal punto avanzata da ricordare il contemporaneo trattamento differenziato. "Gli anglosassoni, primi a comminare pene individuali in conformità ai tratti caratteriali del reo e alla natura dell'infrazione, imparano rapidamente a classificare i detenuti secondo criteri rigorosi. Nel 1790 sono quattro le categorie di prigionieri: quelli che per carattere e per condotta fanno credere di non essere delinquenti abituali, quelli che nel corso della reclusione manifestano morale depravata e disposizioni pericolose. Quelli che in prigione hanno perseverato nell'abitudine al delitto, e infine coloro che, non avendo ancora evidenziato una personalità dai tratti peculiari, vengono tenuti in disparte e sottoposti a un periodo aggiuntivo di osservazione" (237). Gli stessi reati vengono classificati, le pene tarate, a ogni delitto viene applicato un codice distintivo convenzionale. La punizione viene determinata scientificamente, dopo la consultazione di un meticoloso formulario. "Pericolosità sociale e offesa alle norme vengono tradotte in danno materiale, monetizzabile, e questo convertito in quantità temporale di segregazione. La pena diventa remunerativa. Il lavoro carcerario estingue, con le merci prodotte, il debito del condannato verso la società civile che lavora" (238). Secondo le nuove teorie Illuministe, dunque, "trovare per un delitto il castigo che gli conviene, è trovare lo svantaggio di cui l'idea sia tale da rendere definitivamente priva di attrazione l'idea di un misfatto. ... Si tratta di costruire coppie di rappresentazioni con valori opposti, di instaurare differenze quantitative tra le forze in presenza, di stabilire un gioco segni-ostacoli che possa sottomettere il movimento delle forze ad un rapporto di potere" (239). Per funzionare, tale impostazione necessitava la presenza di numerose condizioni. Innanzitutto essere il meno arbitrari possibile. "È vero che è la società a definire, in funzione dei propri interessi, ciò che deve essere considerato delitto. ...Ma se si vuole che la punizione possa, senza difficoltà, presentarsi allo spirito dal momento che si pensa al delitto, bisogna che dall'uno all'altra il legame sia il più immediato possibile" (240). Bisogna dare alla pena tutta la possibile conformità con la natura del delitto; la punizione ideale sarà il trasparente del crimine che sanziona. "Così, per colui che la contempla, sarà infallibilmente il segno del delitto che essa castiga e per colui che si immagina il delitto, la sola idea del misfatto risveglierà il segno punitivo" (241). Prendendo la forma di una successione naturale, la punizione non appare più come l'effetto arbitrario di un potere umano (242); ed ogni volta che la pena sia determinata sulla base della natura particolare del crimine, allora cesserà ogni trattamento arbitrario. I riformatori Illuministi presentarono una varietà sconfinata di pene che rappresentassero, nella loro forma, il contenuto del crimine (243). Non si oppone più l'atroce all'atroce in un duello di potere; non è più la simmetria della vendetta, la legge del contrappasso, ma la trasparenza del segno rispetto a ciò che esso significa (244). "Questo gioco di segni deve incidere sulla meccanica delle forze: diminuire il desiderio che rende attraente il delitto, accrescere l'interesse che fa sì che la pena sia temibile; invertire il rapporto di intensità, fare in modo che la rappresentazione della pena e dei suoi svantaggi sia più viva di quella del crimine coi suoi piaceri" (245). La dolcezza appare come economia calcolata del potere di punire. Si ha uno spostamento nel punto di applicazione di questo potere: "non più il corpo, col gioco rituale delle sofferenze eccessive e dei segni risplendenti nel rituale dei supplizi; lo spirito, invece, o piuttosto un gioco di rappresentazioni e di segni circolanti ... nello spirito di tutti" (246). Altro elemento fondamentale delle nuove teorie settecentesche è il concetto di utilità, in relazione ad una modulazione temporanea della punizione. La pena trasforma, modifica. "Quale sarebbe la sua utilità se dovesse essere definitiva? Una pena che non avesse termine sarebbe contraddittoria: tutte le costrizioni che impone al condannato e di cui, ridivenuto virtuoso, non potrebbe mai profittare, non sarebbero più altro che supplizi; e lo sforzo fatto per riformarlo sarebbero pena e costo perduti da parte della società. Se esistono degli incorreggibili, bisogna risolversi ad eliminarli. Ma per tutti gli altri le pene non possono funzionare altro che a termine" (247). Inoltre, il ruolo della durata doveva essere integrato all'economia della pena: i supplizi nella loro violenza rischiavano di avere questo risultato: più il crimine era grave, meno il castigo era lungo. Bisogna invece introdurre il tempo, come operatore della pena. Un susseguirsi prolungato di privazioni penose non solo risparmia all'umanità l'orrore delle torture, ma colpisce assai più il colpevole che non un istante di passeggero dolore. È opportuno che la pena si attenui insieme agli effetti che produce. "Può essere fissa, certamente, nel senso di essere determinata, per tutti e nello stesso modo, dalla legge; è il suo meccanismo interno che dev'essere variabile" (248). Altra questione affrontata dai riformatori, concerne il fatto che il colpevole non è che uno dei bersagli del castigo: questo riguarda soprattutto gli altri, i possibili colpevoli. I castighi dovrebbero essere considerati come una retribuzione data dal colpevole a ciascuno dei suoi concittadini per il delitto che li ha lesi tutti. "L'ideale sarebbe che il condannato apparisse come una sorta di proprietà redditizia: uno schiavo messo al servizio di tutti. Perché la società dovrebbe sopprimere una vita e un corpo di cui potrebbe appropriarsi?" (249). Nell'antico sistema il corpo del condannato diveniva cosa del re, sulla quale il sovrano imprimeva il proprio marchio e abbatteva gli effetti del proprio potere. Ora diverrà piuttosto bene sociale, oggetto di una appropriazione collettiva ed utile. "Di qui il fatto che i riformatori hanno quasi sempre proposto i lavori pubblici come una delle migliori pene possibili" (250). E i lavori pubblici avevano un valore doppio: interesse collettivo alla pena del condannato e carattere visibile. "Il colpevole paga due volte: col lavoro che fornisce e coi segni che produce" (251). Il supplizio corporale era caratterizzato dal terrore fisico, dallo spavento collettivo, da immagini che dovevano stamparsi nella memoria degli spettatori. Il supporto dell'esempio, ora, è invece la lezione, il discorso, il segno decifrabile. "Non è più la restaurazione terrificante della sovranità a sostenere la cerimonia del castigo, è la riattivazione del Codice" (252). Nella punizione, piuttosto che vedere la presenza del sovrano, si leggeranno le leggi stesse; la legge si ristabilisce e viene a riprendere posto accanto al misfatto che l'aveva violata. Al contrario il malfattore viene distaccato dalla società. "La società che ha ritrovato le sue leggi, ha perduto quel cittadino che le aveva violate" (253). La pubblicità della punizione non deve diffondere un effetto fisico di terrore, ma aprire un libro di lettura. "Le Peletier proponeva che il popolo una volta al mese potesse visitare i condannati nel loro penoso ritiro: leggerà, tracciato a grandi caratteri sopra la porta della cella, il nome del colpevole, il delitto, il giudizio" (254). I castighi devono essere una scuola piuttosto che una festa. La durata che rende il castigo efficace per il colpevole, è utile anche per gli spettatori. Essi devono potere consultare ad ogni istante il lessico permanente del delitto e del castigo. "Pena segreta, pena metà perduta. Sarà necessario che i bambini possano andare nei luoghi in cui essa viene eseguita; vi apprenderanno lezioni di civismo" (255). I luoghi di castigo vengono visti come un giardino delle leggi, che le famiglie possono visitare la domenica, il criminale è così visto come un elemento di istruzione. "Ecco dunque come bisogna immaginare la città punitiva. Agli incroci, nei giardini, sui bordi delle strade che vengono costruiti, nei laboratori aperti a tutti, nei fondi delle miniere che si vanno a visitare; mille piccoli teatri di castighi. Ad ogni crimine, la sua legge; ad ogni criminale la sua pena. Pena visibile, pena loquace, che dice tutto, che spiega, si giustifica, convince: cartelli, berretti, affissi, manifesti, simboli, testi letti o stampati, tutto ripete instancabilmente il Codice" (256). Non più il grande rituale terrificante dei supplizi, ma, lungo il filo delle strade, un teatro severo, con scene multiple e persuasive. I pensatori Illuministi delineano così tutto un arsenale di castighi pittoreschi, che mostrano chiaramente come non si considerasse la possibilità di una pena uniforme, modulata solo dalla gravità della colpa. "L'utilizzazione della prigione come forma generale di castigo non viene mai presentata in questi progetti di pene specifiche, visibili e parlanti" (257). La prigione è prevista, ma in mezzo ad altre pene, ed è allora il castigo specifico di certi delitti, quelli che attentano alla libertà dell'individuo, o quelli che nascono dall'abuso della libertà. Ma non ricopre tutto il campo della penalità, avendo la durata come solo principio di variazione. "Meglio, l'idea della carcerazione penale è esplicitamente criticata da molti riformatori. Perché è incapace di rispondere alla specificità dei delitti. Perché è sprovvista di effetti sul pubblico. Perché è inutile alla società, anzi, nociva: è costosa, mantiene i condannati nell'ozio, moltiplica i loro vizi. Perché il compimento di una tale pena è difficile da controllare e si rischia di esporre i detenuti all'arbitrio dei guardiani" (258). La prigione è incompatibile con tutta la tecnica della pena-effetto, della pena-rappresentazione. Essa è l'oscurità, la violenza, il sospetto; i condannati ad essa non sono di alcun esempio per i cittadini che non possono constatarne l'applicazione. "L'oscurità delle prigioni diviene un soggetto di diffidenza per i cittadini. Essi facilmente suppongono che vi si commettano grandi ingiustizie" (259). La carcerazione, quindi, non era intesa dai riformatori come un pena che potesse ricoprire tutto l'universo penale. Abbiamo visto come il Settecento sia caratterizzato dalla critica al sistema tradizionale delle pene, del modo di istruire i processi penali, del ricorso alla tortura. "La questione carceraria vi occupa, invece, un posto molto marginale e si presenta per lo più soltanto come appendice di quella, assai più controversa, della pena di morte. Qualche accenno non trascurabile al suo 'stato' compare soltanto negli ultimi anni del secolo, soprattutto in occasione del rivolgimento legislativo che si verifica nella Francia rivoluzionaria, ma, in ogni caso, sempre in connessione con le discussioni sulla pena capitale" (260). La cultura Illuministica dei delitti e delle pene rimane dunque nei confronti del carcere stranamente silenziosa. "Le ragioni di questa scelta sono più di una: la maggiore urgenza di altre questioni; il fatto che la pena del carcere costituisce ancora in quel secolo una pena quantitativamente non molto diffusa; la necessità di 'placare' in qualche modo i tradizionalisti, sconvolti dalla proposta di abolizione della pena di morte, offrendo loro come sostitutivo accettabile una pena carceraria prolungata nel tempo e sufficientemente afflittiva" (261). In ogni caso il carcere, almeno nell'Europa continentale, fu trattato dalla cultura dei lumi con molto distacco: al limite quasi del tutto ignorato. Se qualcuno ne parlò, in genere fu soltanto con riferimento alle pene ed al loro sistema. Anche l'opera del Beccaria non contiene riferimenti specifici e mirati alla pena detentiva. Gli unici accenni indiretti si riscontrano nel paragrafo dedicato al fine delle pene ("egli è evidente che il fine delle pene non è affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. ... Il fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel modo d'infliggerle deve essere prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini e la meno tormentosa sul corpo del reo" (262)); in quello sulla dolcezza delle pene ("perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto ed in questo eccesso di male deve essere calcolata l'infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico" (263)); in quello, infine, sulla pena di morte e sui suoi sostitutivi ("perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi di intensione che bastano a rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi ha alcuno che, riflettendovi, sceglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque l'intensione della pena di schiavitù perpetua sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato; aggiungo che ha di più; moltissimi risguardano la morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità ... Ma né il fanatismo né la vanità stanno tra i ceppi e le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro ed il disperato non finisce i suoi mali, ma gli comincia... Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti negativi della schiavitù, lo sarà forse anche di più, ma questi sono stesi sopra tutta la vita e quella esercita tutta la sua forza in un momento; ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù" (264)). Più ampia è la parte dedicata al carcere in Filangieri. Per lui, una volta ristretta la pena di morte a pochissimi delitti e rese poco frequenti le pene infamanti, per non far loro perdere il proprio valore, è automatico trovare nelle pene sospensive della libertà personale dei sostitutivi inevitabili. Tra le pene sospensive della libertà, un posto di rilievo spetta al carcere ed alla condanna ai lavori pubblici. Il carcere dovrebbe essere riservato ai reati leggeri, quelli che sono più trasgressioni che delitti; dovrebbe essere una pena 'di correzione', per prevenire i progressi che un cittadino potrebbe compiere sulla strada del delitto qualora l'impunità accompagnasse i suoi primi passi, e di conseguenza non dovrebbe avere una durata troppo estesa. Quanto alla pena dei lavori pubblici, essa reca un doppio beneficio alla comunità: il terribile spettacolo del condannato ai lavori forzati distoglie molti dal commettere delitti, ed allo stesso tempo il reo viene impiegato per compiere gratuitamente opere di pubblica utilità, compensando in parte i mali provocati dai suoi delitti. "L'unica condizione è che sia la legge, e soltanto essa, a determinarne la durata e l'oggetto, e non, come allora accadeva, il giudice o l'aguzzino. ... La libertà civile richiede che tutto sia determinato dalla legge, e che da questa dipendano dunque anche la durata e l'oggetto della pena in questione" (265). Filangieri, pensatore politico salutato come il 'Montesquieu italiano', concepì il disegno di ridurre la legislazione a unità di scienza normativa; considerò come fondamentale al diritto di punire il dogma, all'epoca dominante, del patto sociale, sostenendo che la società deve vendicare l'offeso in virtù del diritto che egli le ha ceduto. Inoltre, la pena deve essere esempio per difendere, in avvenire, i legittimi interessi della collettività e dell'individuo; ma deve essere anche proporzionata al delitto entro i confini della necessità, perché ogni esagerato rigore finisce per essere contrario alla giustizia sociale. Non del tutto contrario alla pena di morte (266), nel caso di delitti atrocissimi, Filangieri stigmatizzò il procedimento inquisitorio e si oppose alla tortura, che considerava come un delitto di lesa umanità. Comunque, il generale disinteresse per la detenzione comporta che vi siano soltanto scarsi accenni al carcere come pena e come luogo di pena. "E la stessa 'noncuranza', intrisa questa volta di radicale pessimismo, si riscontra nei giuristi successivi che scrivono all'inizio dell'Ottocento" (267). Tuttavia, in pochissimo tempo, la prigione è divenuta la forma essenziale del castigo. Al patibolo, dove il corpo del suppliziato era esposto alla forza ritualmente espressa del sovrano, al teatro punitivo dove la rappresentazione del castigo sarebbe stata offerta in permanenza al corpo sociale, si va sostituendo una grande architettura chiusa, complessa e gerarchizzata. Alla città punitiva sognata nel XVIIIº secolo, si sostituirà il grande apparato uniforme delle prigioni. La prigione, come abbiamo visto, non era mai stato un castigo solidamente installato nel sistema penale, che avrebbe occupato in modo naturale il posto lasciato vuoto dalla sparizione dei supplizi. Se essa aveva giocato il ruolo di pena, lo era stato essenzialmente a titolo sostitutivo: sostituiva la galera per coloro che non vi potevano servire, come donne, anziani, invalidi e bambini. Inoltre la prigione era sempre stata squalificata, come forma di pena, in quanto era legata all'arbitrio reale ed agli eccessi del potere sovrano, che poteva impiegare la sua posizione privilegiata per farvi rinchiudere, a proprio piacimento, soggetti scomodi, che però non avevano commesso alcun reato previsto dalle leggi. La prigione era perciò segnata indissolubilmente dall'abuso di potere; inoltre era vista come pena che andava contro il principio dell'individualità, in quanto colpiva non solo il reo ma anche la sua famiglia. Il carcere assunse però la posizione che detiene tutt'oggi in seguito al costituirsi nel corso dell'età classica, come abbiamo detto, di alcuni grandi modelli di carcerazione punitiva, che "avrebbero spazzato via le meraviglie punitive immaginate dai riformatori e imposto la realtà severa della detenzione" (268). Il più antico di questi modelli abbiamo visto essere la Rasp-Huis di Amsterdam, che costituisce il legame tra la teoria, caratteristica del XVIº secolo, di una trasformazione pedagogica e spirituale degli individui per mezzo di un esercizio continuo, e le tecniche penitenziarie ideate nella seconda metà del XVIIIº secolo. La casa di correzione ebbe un impatto lieve sul mercato del lavoro europeo, ma ebbe una enorme influenza sullo sviluppo della punizione del crimine. "Il concetto di incarcerazione portava direttamente all'idea della sentenza come pena fissa e determinata, che poteva essere adattata con precisione a ciascun crimine particolare, ed era considerata un'alternativa efficace alle pene corporali che in precedenza erano state distribuite prestando scarsa attenzione alle distinzioni tra i crimini" (269). Ora, la natura arbitraria delle pene precedenti poteva essere sostituita da un metodo logico e preciso di punizione, che si adattava meglio alle moderne concezioni di una giustizia e di una legge razionali. "Il sistema del penitenziario diventò insomma un mezzo preciso di tutta la società per impartire il giusto castigo all'individuo che si era dimostrato incapace di adeguarsi alle norme della legge. L'idea di uguaglianza di fronte alla legge era stata estesa fino a comprendere l'uguaglianza in termini di pena" (270). All'interno dei ceti dominanti, si diffuse il convincimento che l'internamento fosse in grado di ridare ai detenuti il gusto per il lavoro, ricollocandoli al centro di un sistema di interessi dove il lavoro è più 'utile', per il soggetto interessato, dell'oziosità, attraverso un impiego del tempo (271) rigido, un sistema di interdetti e di obblighi, una sorveglianza continua, esortazioni e letture spirituali. Il concetto di disciplina costituisce il nucleo fondamentale dell'organizzazione capitalistica del lavoro; l'estensione del concetto al di fuori della fabbrica è l'espansione dell'organizzazione del lavoro alla totalità dei rapporti sociali di un'epoca. La concezione della pena che privilegia il condizionamento degli atti e la trasformazione dell'anima del condannato, piuttosto che la superficiale punizione dei corpi, è ben accetta alla borghesia ascendente del secolo nuovo, specie se ammantata di 'filantropia' a buon mercato. "La rigorosa disciplina del silenzio si afferma così come norma dominante della nuova strategia, non più solo afflittiva, ma anche trasformativa" (272). Chi trasgredisce le norme collettive, sociali, viene punito, per una sorta di contrappasso, con la solitudine e la separazione dal consesso degli altri uomini. "Il silenzio e la meditazione oltreché tortura dell'anima sono anche presupposti di purificazione sociale. ... E il lavoro forzato, oltreché mezzo di recupero, mediante l'operosità, di chi ha tralignato dalla norma, ... rappresenta anche la punizione della colpa commessa" (273). "L'emergere di una concezione borghese del tempo, misura generale e astratta del valore delle merci, renderà possibile la formalizzazione della prassi reale che la società borghese già ... aveva iniziato, attraverso l'emergere, con l'Illuminismo, del principio fondamentale della proporzionalità della pena al reato commesso: il marchese Cesare Beccaria consegnò alla storia e alla letteratura quei principi che i rozzi mercanti di Amsterdam avevano inventato nella loro pratica circa un secolo e mezzo prima" (274). La predisposizione di un apparato normativo che tassativamente sanziona i delitti, le pene e i rapporti fra questi, corrisponde ad una visione del mondo in cui sia il reato, sia la pena, attraverso il calcolo del tempo di lavoro passato in carcere, sono suscettibili di una rigida valutazione economica. "Il tempo è denaro e poiché qualsiasi bene colpito è valutabile economicamente nella società basata sullo scambio, un tempo determinato da scontare (lavorando) in carcere, può ben ripagare dall'offesa commessa" (275)."La privazione della libertà per un periodo determinato preventivamente nella sentenza del tribunale è la forma specifica in cui il diritto penale moderno, cioè il diritto penale borghese-capitalistico, realizza il principio della retribuzione equivalente. Ed è un mezzo inconsapevolmente ma profondamente collegato con l'idea dell'uomo astratto e del lavoro umano astratti misurato dal tempo ... Perché affiorasse l'idea della possibilità di espiare il delitto con un quantum di libertà astrattamente predeterminato era necessario che tutte le forme della ricchezza sociale venissero ridotte alla forma più semplice e astratta: al lavoro umano misurato dal tempo" (276). Nel XVIIº secolo è la moneta a diventare misura dello scambio: essa ha la capacità di sostituirsi a tutto ciò che ha un prezzo. Con il mercantilismo, la moneta diviene lo strumento di rappresentazione della ricchezza e, viceversa, la ricchezza diviene il contenuto rappresentato della moneta. Con la moneta i beni acquistano la fluidità necessaria per il moltiplicarsi dei capitali. La privazione della libertà come sanzione penale si affermerà solo quando tutte le forme della ricchezza verranno ridotte alla forma più semplice ed astratta del lavoro umano misurato nel tempo: dunque è necessario che si affermi il lavoro salariato e che il valore di scambio diventi un valore dominante. È nelle case di lavoro che nasce il rifiuto dell'uso della pena di morte e delle punizioni corporali, l'idea che ad un determinato reato debba corrispondere un quantum di pena, che la situazione interna del carcere debba essere più umana. "Il grande pensiero Illuminista della seconda metà del Settecento esprimerà e riassumerà questo sviluppo; ... il concetto di lavoro rappresenta la necessaria saldatura tra il contenuto della istituzione e la sua forma legale. Il calcolo, la misura di pena in termini di valore-lavoro per unità di tempo, diviene possibile solo quando la pena è stata riempita di questo significato, quando si lavora o quando si addestra al lavoro" (277). Ciò è vero anche se in carcere non si lavora: il tempo, misurato, scandito, regolato, è una delle grandi scoperte di questo periodo. "Il favore nei confronti della pena privativa della libertà personale è più che comprensibile: lo schema retributivo viene infatti esaltato da un referente sanzionatorio che è ontologicamente duttile e fungibile per eccellenza: il tempo" (278). È la stessa nozione di libertà che muta: essa ha un valore economico perché connessa al valore economico del tempo, un tempo che per la prima volta può essere 'economicamente' misurato, quantificato. "Ecco perché la necessità retributiva trova, nella pena privativa della libertà, la propria esaltazione: si punisce ... concependo la pena come una prestazione post-factum, da commisurare a parametri il più possibile oggettivi come la lesione dell'interesse penalmente proteso e il grado della colpa, privando, espropriando il reo - altro soggetto contraente a fronte dello Stato - di un equivalente valore in libertà. In questo modo, forse per la prima volta, si realizza a pieno il valore dell'eguaglianza formale di fronte alla legge penale. Si può quindi dire che il carcere è, in questa interpretazione, una necessità" (279). Al principio del lavoro, elemento fondamentale della costituzione delle case di correzione e di lavoro, il modello inglese aggiunge, come componente essenziale della correzione, l'isolamento. Innanzitutto per ragioni negative: "la promiscuità nelle prigioni fornisce cattivi esempi e possibilità di evasione nell'immediato presente, di ricatti o di complicità nell'avvenire" (280). Le ragioni positive sono costituite dal fatto che l'isolamento costituisce uno shock terribile, e partendo da esso il condannato, sfuggendo alle cattive influenze, può fare un ritorno in se stesso e riscoprire nel fondo della coscienza la voce del bene; il lavoro solitario diverrà allora un esercizio tanto di conversione che di apprendimento. La prigione appare quindi come "un luogo per le trasformazioni individuali che restituiranno allo Stato i sudditi che aveva perduto" (281). Sono questi i principi messi in opera nel 1779 in Inghilterra, quando l'indipendenza degli Stati Uniti impedisce la deportazione (282), e viene preparata una legge per modificare il sistema delle pene. "La detenzione, ai fini della trasformazione dell'anima e della condotta, fa il suo ingresso nel sistema delle leggi civili" (283). La detenzione individuale svolge così una tripla funzione: di temibile esempio, di strumento di conversione e di condizione per un apprendistato. "Sottomessi a una detenzione isolata, a un lavoro regolare e all'influenza dell'istruzione religiosa taluni criminali potranno non solo ispirare lo spavento a coloro che fossero tentati d'imitarli, ma ancora correggere se stessi e contrarre l'abitudine al lavoro" (284). "Non c'è contraddizione fra la tendenza umanitaria della legge penale e la severità del sistema penitenziario. ...Le due tendenze si combinano e si sostengono l'un l'altra: la drastica riduzione dell'applicabilità della pena di morte rende necessaria la custodia degli individui considerati altamente pericolosi; d'altra parte, non è stata accettata la tendenza ad abolire la pena di morte senza cooperanti garanzie che l'individuo, salvato da morte fisica, non sia confinato in uno stato di morte civile" (285). La giustificazione fornita è quella di una riedificazione spirituale attraverso la sofferenza e la meditazione, un processo favorito dal completo isolamento e dalla negazione o quasi della minima autonomia. "L'indubbio beneficio dell'allontanamento dell'individuo dall'influenza negativa dei compagni, veniva contraddetto dal grosso danno del deterioramento psichico dei prigionieri a causa dell'isolamento" (286). Tra questo apparato punitivo e tutti i castighi immaginati dai riformatori Illuministi possiamo stabilire punti di convergenza e di divergenza. "I riformatori si attribuiscono, anch'essi, la funzione non di cancellare un delitto, ma di evitare che ricominci. Sono dispositivi rivolti verso l'avvenire, posti in opera per bloccare la ripetizione del misfatto" (287). La prevenzione del delitto è il solo fine del castigo, che deve portare con sé una certa tecnica correttiva. I modelli anglosassoni, al pari dei progetti Illuministi, richiamano a procedimenti per individualizzare la pena: per la durata, per la natura, per l'intensità, per il modo in cui si svolge, il castigo deve essere adatto al carattere individuale ed a quanto esso comporta di pericolosità per gli altri. "Tuttavia, la disparità risulta evidente quando si tratti di definire le tecniche di questa correzione individualizzante. La differenza si manifesta nella procedura d'accesso all'individuo, nel modo in cui il potere punitivo esercita la sua presa su di lui, negli strumenti che mette in opera per assicurare la trasformazione" (288). Il metodo dei riformatori si basa sulla rappresentazione: rappresentazione degli interessi, dei vantaggi, degli svantaggi, del piacere e del dispiacere. Su queste rappresentazioni si agisce con accoppiamenti di idee (delitto-punizione, vantaggio del crimine-svantaggio della punizione) che non possono funzionare che nell'elemento della pubblicità, con scene punitive che li stabiliscano o li rinforzino agli occhi di tutti. Il ruolo del criminale nella punizione è di reintrodurre la presenza reale di quella pena che, secondo i termini del codice, deve essere infallibilmente associata all'infrazione. La penalità correttiva agisce invece in tutt'altro modo. "Il punto d'applicazione della pena non è la rappresentazione, ma il corpo, il tempo, i gesti e le attività di tutti i giorni; l'anima anche, ma nella misura in cui essa è sede di abitudini" (289). Piuttosto che su un'arte di rappresentazioni, l'intervento punitivo deve riposare su una manipolazione riflessa dell'individuo. Quanto agli strumenti utilizzati, essi consistono in delle forme, in degli schemi di coercizione applicati e ripetuti. "Esercizi, non segni: orari, impieghi del tempo, movimenti obbligatori, attività regolari, meditazione solitaria, lavoro in comune, silenzio, applicazione, rispetto, buone abitudini. Alla fine, ciò che si cerca di ricostituire in questa tecnica di correzione non è tanto il soggetto di diritto, quanto il soggetto obbediente, l'individuo assoggettato a certe abitudini, regole, ordini, un'autorità che si esercita continuamente intorno a lui e su di lui e ch'egli deve lasciar funzionare automaticamente in lui" (290). Questo tipo di correzione instaura tra il punito e colui che lo punisce un rapporto che rende non solo inutile la dimensione di spettacolo, ma la esclude. "L'agente della punizione deve esercitare un potere totale, che nessun terzo può intervenire a turbare. L'individuo da correggere deve essere completamente avviluppato nel potere che si esercita su di lui" (291). La distanza ideologica dal teatro punitivo immaginato dai riformatori è netta; ora i cittadini partecipano al castigo del nemico sociale, ed il potere che applica le pene rischia di essere altrettanto arbitrario e dispotico di quello che un tempo ne decideva. Si ha un funzionamento compatto del potere di punire; la prigione è l'istituzionalizzazione del potere di punire. La cella diviene lo strumento attraverso la quale si può ricostruire sia il lato economico che la coscienza religiosa dell'internato. Tra il crimine ed il ritorno al diritto ed alla virtù, la prigione costituisce uno spazio tra due mondi, un luogo per le trasformazioni individuali chiamate a restituire allo stato i soggetti che aveva perduto (292). Si afferma una "coercizione ininterrotta, costante, che veglia sui processi dell'attività piuttosto che sul suo risultato e si esercita secondo una codificazione che suddivide in rigidi settori il tempo, lo spazio, i movimenti. Metodi che permettono il controllo minuzioso delle operazioni del corpo, che assicurano l'assoggettamento costante delle sue forze ed impongono loro un rapporto di docilità-utilità: è questo ciò che possiamo chiamare 'le discipline'" (293). I procedimenti disciplinari esistevano già da molto tempo (nei conventi, nell'esercito, nelle manifatture), ma è nel corso del XVIIIº secolo che esse divennero formule generali di dominazione. "Il corpo umano entra in un ingranaggio di potere che lo fruga, lo disarticola e lo ricompone. ... Esso definisce come si può far presa sui corpi degli altri non semplicemente perché facciano ciò che il potere desidera, ma perché operino come esso vuole, con le tecniche e secondo la rapidità e l'efficacia che esso determina. La disciplina fabbrica così corpi sottomessi ed esercitati, corpi 'docili'. La disciplina aumenta le forze del corpo (in termini economici di utilità) e diminuisce queste stesse forze (in termini politici di obbedienza). In breve: dissocia il potere del corpo" (294). "Alla fine del secolo XVIIIº, ci troviamo davanti a tre maniere di organizzare il potere di punire" (295). La prima è quella che funzionava ancora e si appoggiava sul vecchio diritto monarchico; le altre due si riferiscono ad una concezione preventiva, utilitaria, correttiva del diritto di punire. "Nel diritto monarchico la punizione è un cerimoniale di sovranità; utilizza i marchi rituali della vendetta che applica sul corpo del condannato e ostenta agli occhi degli spettatori un effetto di terrore tanto più intenso quanto discontinua, irregolare e sempre al di sopra delle proprie leggi, è la presenza fisica del sovrano e del suo potere" (296). Per i riformatori, la punizione è una procedura per riqualificare gli individui come soggetti di diritto; si utilizzano dei segni, degli insiemi codificati di rappresentazioni, e di questi la scena del castigo deve assicurare la circolazione più rapida e l'accettazione più universale possibile. Nel progetto di istituzione carceraria, invece, la punizione è una tecnica di coercizione degli individui; "essa pone in opera dei processi di addestramento del corpo - non dei segni - con le tracce che questo lascia, sotto forma di abitudini, nel comportamento" (297). Quest'ultima forma di punizione si trovava ancora espressa solamente a livello embrionale, ma la sua elaborazione in forma più compiuta non avrebbe tardato a verificarsi. Una rapida accelerazione del processo evolutivo delle modalità del trattamento dei reclusi si ebbe quando salì alla ribalta il filantropo quacchero John Howard, "il cui impegno finì col risultare decisivo per il declino delle sanzioni corporali e la loro sostituzione, nell'arco di pochi decenni, con quella detentiva" (298). Gentiluomo, austero e fanaticamente religioso, compì una seri di viaggi che lo avrebbero condotto a visitare gran parte delle istituzioni carcerarie e di assistenza sparse in tutta Europa. Nominato sceriffo della contea di Bedford, nel 1773, prese sul serio l'obbligo, disatteso da molti suoi colleghi che la ritenevano una mera formalità, di ispezionare la prigione locale. "Notando la frequenza con cui i detenuti prosciolti o che avevano finito di espiare la pena, restavano in carcere perché non potevano pagare le spese di mantenimento e di scarcerazione, intraprese un giro delle varie strutture per indagare sulle cause di tale fenomeno" (299). All'epoca, le prigioni britanniche, come del resto quelle di tutta Europa, erano seminari di vizio e ricettacoli di sporcizia e malattie; i detenuti erano vittime di sopraffazioni da parte dei custodi e carcerieri; "erano depredati con esazioni, imbrogliati sui viveri, caricati di catene, esposti alle malattie e passibili di detenzione anche dopo essere stati prosciolti o avere scontato la pena" (300). Tutti erano a conoscenza di questa situazione, ma nessuno osava criticarla apertamente. Howard, nel 1777, pubblicò 'State of the Prisons in England and Wales', un volume di statistica sistematica dai contenuti non solo morali ma anche scientifici (301). Howard non espresse la propria denuncia in termini insoliti per le orecchie dei contemporanei; l'originalità delle sue accuse risiedeva nel suo carattere scientifico, non nel suo significato morale. Il libro impressionò molto l'opinione pubblica, grazie anche alla concretezza delle dettagliate proposte di riforma che conteneva. "L'ammassamento dei rei in quei luoghi chiusi - autentici carnai senza ordine, senza disciplina, né un sistema di vita capace di migliorarli che andavano ovunque divenendo le carceri - creava condizioni propizie al peggioramento degli individui, che, scontata la pena, tornavano in società non migliori di prima". (302) Howard propose il principio dell'isolamento come fattore di penitenza e di redenzione; inoltre si rifece all'esperienza delle case di correzione olandesi (303) come esempio di pulizia e di organizzazione. Nacque così l'idea - recepita nel Penitentiary Act del 1779, che prevedeva la costruzione di una intera rete di case per il lavoro forzato, tramite la riconversione di edifici esistenti - di far cessare il caos imponendo, nella vita dei carcerati, ore fisse per la sveglia, la lettura di capitoli della Bibbia, la preghiera, i pasti ed il lavoro; l'uso di uniformi, l'isolamento (304) in celle dignitose e la sorveglianza costante. I prigionieri durante la notte dovevano essere chiusi in celle individuali, mentre il lavoro quotidiano si sarebbe svolto in comune. "Questo doveva essere del tipo più duro e servile, in cui sia richiesta soprattutto fatica e tale che non possa essere reso meno efficiente da ignoranza, negligenza o ostinazione. Come esempio la legge raccomandava il taglio di pietre, la lucidatura del marmo, la battitura della canapa, il segare legna o fare a pezzi gli stracci" (305). In sostituzione del cibo fornito irregolarmente ed in quantità inadeguata, si doveva provvedere con regolarità al vitto di ogni detenuto. I detenuti poi dovevano essere forniti di abiti al loro ingresso nel penitenziario, invece di essere costretti a restare con i loro stracci sovente sporchi e infetti. "Ancora una volta gli imperativi della repressione venivano fatti concordare con quelli umanitari. Gli abiti dovevano essere di tessuto rozzo e a tinta unita, con qualche segno distintivo riconoscibile cucito su di essi, sia per umiliare chi li porta, sia per facilitare la cattura in caso di fuga" (306). Howard riteneva che sarebbe servito a poco correggere i malvagi con le punizioni, se poi non li si rendeva 'buoni' attraverso la disciplina. In quanto rigidamente religioso, egli "non guardava al carcere solo con l'occhio dell'amministratore che lo considerava un insieme di inefficienze e di abusi in attesa di riforme, ma vedeva in esso l'arena in cui egli avrebbe potuto lottare contro il male, dimostrando il proprio valore a Dio" (307). La prigione, per lui, rappresentava un luogo di colpa, sofferenza e rimorso; le celle erano l'inferno sulla terra, l'incarnazione terrestre della dannazione eterna. Per Howard i miserabili incatenati in fondo ai sotterranei delle carceri apparivano come un simbolo dei propri peccati. "La convinzione che ricchi e poveri, giudici e imputati fossero uniti dalla comune condanna del peccato costituiva poi la forza emotiva che lo induceva a insistere perché lo stato si facesse carico dei propri obblighi morali verso i detenuti" (308). Howard accettava la dottrina dell'universalità del peccato e questo spiega la sua fiducia nella capacità dei criminali di emendarsi; nessuno era perduto per la misericordia divina. "Una regolare, rigida disciplina in un penitenziario avrebbe avuto il potere di trasformare in membri utili alla società anche i miserevoli infelici tristemente mandati al patibolo" (309). I quaccheri erano rigorosamente autodisciplinati, ed erano quindi facilmente attratti dall'idea di servirsi di una rigida disciplina per rieducare i reclusi; "alla fine del Seicento i quaccheri cominciarono a trasformare la disciplina da simbolo distintivo della loro comunità in uno strumento di controllo sugli altri; ... inoltre erano attratti dalla campagna di Howard per la loro stessa amara esperienza fatta nelle carceri durante le persecuzioni degli anni Settanta del Seicento" (310). I medici che, nel corso del XVIIIº secolo, stavano rivoluzionando l'igiene e l'amministrazione di ospedali, dispensari e ospizi, fornirono a Howard la base per le riforma igieniche che egli cercava di introdurre nelle carceri: uniformi, bagni, eliminazione dei pidocchi, muri a calce, dieta regolare e ispezioni mediche. "Per questi medici quindi la riforma carceraria era solo un momento di un attacco generale alle pessime condizioni igieniche in cui versavano tutte le istituzioni che avevano a che fare con i poveri. Il miglioramento di questa situazione era visto da loro come una crociata morale oltre che come loro dovere professionale. Le malattie dei poveri venivano considerate un segno esteriore di una mancanza interiore di disciplina, moralità e dignità" (311). Secondo Howard, quindi, le prigioni erano terreno di coltura sia per le epidemie che per il crimine; "il 'contagio' dei valori criminali si trasmetteva dal delinquente incallito al nuovo arrivato, come il tifo passava dai criminali incalliti ai condannati giunti di recente. ... Il penitenziario venne istituito per imporre la quarantena sia morale che fisica; isolata dietro le sue mura, si poteva impedire che la criminalità contagiasse la popolazione sana e onesta del mondo. All'interno della prigione stessa, l'isolamento di ciascun delinquente avrebbe impedito al bacillo del vizio di passare dai criminali incalliti a quelli condannati per la prima volta" (312). Le società scientifiche costituirono anche il terreno di incontro fra gli intellettuali e i principali industriali (313). Questi pionieri dell'industria introdussero una disciplina razionale nel tentativo di emendare la moralità dei propri dipendenti. Lavoro e salari regolari, insieme all'influenza stabilizzatrice di una comunità di villaggio attentamente sorvegliata, avevano trasformato il loro comportamento; "i cartellini di presenza, le multe e la supervisione intensa e senza sosta ... avevano trasformato gli operai e cambiato gli uomini in macchine che non potevano sbagliare. ... Le fabbriche potevano essere giustificate non solo perché portavano un progresso tecnologico, ma anche un miglioramento morale" (314). Queste persone agganciarono la lotta per la riforma carceraria a un più generale attacco alle strutture amministrative e politiche dell'Ancien Règime. Il materialismo inglese di Hartley e Locke, negando l'esistenza di idee innate, giustificava un rifiuto scientifico dell'idea del peccato originale, di portata vastissima, e quindi della tesi che i criminali fossero incorreggibili. "Il materialismo permise ai riformatori di attribuire la criminalità a una errata socializzazione piuttosto che a istinti innati. ... I criminali erano bambini ribelli, persone di mente malata che non avevano l'autodisciplina necessaria a controllare le proprie passioni secondo i dettami della ragione. Non erano quindi mostri incorreggibili, ma solo creature imperfette spinte dai propri desideri infantili a ignorare il costo che a lunga scadenza avrebbero dovuto pagare per avere ricercato gratificazioni immediate; il crimine perciò non era un peccato ma un calcolo errato (315). Nonostante il generale consenso da parte dei filantropi illuminati, "il Penitentiary Act non trovò mai piena applicazione (316), ma da allora, in Inghilterra fu tutto un fiorire di teorie, un susseguirsi di tentativi e di esperimenti penitenziari" (317). In Inghilterra, nonostante il progetto penitenziario fosse stato accantonato, si decise comunque di ampliare o costruire nuove carceri, sotto la pressione di un sovraffollamento sempre maggiore. In queste carceri "estorsioni e vendite di bevande alcoliche erano proibite e i carcerieri ridotti a funzionari stipendiati. Ai prigionieri si fornivano abiti ... e una dieta regolare anche se scarsa. In molto casi l'uso di catene era stato abolito e i carcerieri avevano l'ordine di procurarsi il permesso ufficiale di un magistrato prima di fustigare qualcuno. Passare a calce le mura, provvedere bagni e servizi igienici puliti e disinfettati per i prigionieri divennero norme abituali" (318). Le esazioni vennero proibite, e carcerieri, guardiani, cappellani e medici a tempo parziale ricevevano uno stipendio. La pulizia e le ispezioni igieniche quotidiane avevano non solo lo scopo di prevenire le malattie, ma anche di ribadire l'autorità dello Stato nel regolare ogni aspetto della vita all'interno dell'istituzione, non importa quanto insignificante. "La pulizia era vista come la manifestazione esteriore di un ordine interno, la sporcizia, al contrario, era considerata un segno di irresponsabilità e indisciplina" (319). Le regole igieniche avevano quindi un fine morale oltre che fisico. Il garantire ai detenuti cibo sufficiente, avrebbe inoltre permesso di tagliare i legami tra i prigionieri ed il mondo esterno, isolandoli così dal proprio ambiente sociale (320). L'isolamento era considerato la condizione preliminare per la rieducazione morale, in quanto privava i detenuti dell'appoggio degli ambienti criminali esterni. L'isolamento e la solitudine miravano a sottrarre il controllo della prigione alla subcultura carceraria, reintegravano il controllo statale sulla coscienza dei criminali, dividevano i criminali in modo che potessero essere sottomessi con maggiore efficacia; inoltre sottraevano il detenuto alla distrazione ed alle tentazioni dei sensi: la voce della coscienza poteva far sentire la propria influenza (321). Gli sforzi attuati nell'impostazione dei nuovi penitenziari erano però vanificati non solo dalle resistenze dei detenuti, ma anche dall'inefficienza del personale di custodia, non abituato alle nuove disposizioni (322). La disciplina del penitenziario contrastava grandemente con la pratica delle punizioni pubbliche. "Mentre queste conferivano sia al pubblico sia al criminale un ruolo che lo stato non poteva controllare, l'applicazione di norme di disciplina non lasciava questa opportunità, in quanto avveniva in privato, dietro le mura del carcere e secondo quanto era stabilito dallo stato" (323). Il detenuto poteva ancora sfidare tali norme, ma non poteva contare sull'appoggio della folla. "La disciplina quindi costituiva un nuovo rituale da cui il pubblico era escluso. Contrariamente al condannato di una volta, il detenuto era costretto al silenzio, e anche se urlava nessuno lo poteva udire" (324). Con l'avvento dei nuovi istituti di pena, mutarono anche le pene inflitte per delitti non gravi. Infatti si affermò una caccia sistematica ai delinquenti minori, che sovente non ricevevano attenzione da parte del sistema penale, che si interessava solo dei crimini più efferati. Ma, essendo divenuta la redenzione lo scopo della punizione, si impose la necessità di cominciare a correggere il reo sin dalle prime trasgressioni, per evitare che l'impunità lo spingesse a commetterne di più gravi. Dopo l'inaugurazione delle nuove prigioni, gli imprenditori iniziarono a condurre i servitori disobbedienti davanti al tribunale, invece di punirli personalmente in privato come era avvenuto per secoli. "Era un segno del passaggio del controllo sociale dall'imprenditore allo Stato, quale intermediario 'neutrale'" (325). Il processo evolutivo della pena, nel suo complesso, stava dunque compiendo brevi ma significativi passi nella direzione della sostituzione delle pene corporali con quella detentiva; contemporaneamente, il modo di concepire il trattamento dei detenuti e di costruire le carceri subiva altrettante modificazioni. Ancora in Inghilterra, nell'ultimo ventennio del secolo si assiste ad un grande incremento di ricerche ed esperimenti in campo penale. Si era registrato a Londra un allarmante incremento della criminalità; le istituzioni avevano reagito con un brusco aumento delle pubbliche impiccagioni, ma ciò, oltre a non far diminuire i reati, causava disordini e manifestazioni politiche durante le esecuzioni stesse. Le autorità tentarono quindi una inversione di rotta. "All'inizio degli anni '90, incrementando l'uso della detenzione, in alternativa al patibolo o al palo della fustigazione, si negò ai delinquenti l'opportunità di sfidare pubblicamente il potere, e alla folla di utilizzare le esecuzioni a fini suoi propri" (326). Rispetto al cerimoniale delle punizioni in pubblico, il carcere offriva allo stato un potere di controllo senza precedenti sui criminali, permettendogli di regolare il livello di sofferenza previsto dalle sentenze, senza dovere sottostare agli umori del popolo. "Nello stesso tempo, la tendenza - in adesione alla campagna di Howard contro il fin troppo frequente ricorso a catene e percosse - indicava anche un maggiore scrupolo nei confronti di pene che abusavano, senza alcuna utilità, del corpo dei condannati". (327) Continuavano a sussistere forti dubbi e perplessità riguardo le finalità della pena detentiva, tanto che perfino le regole igieniche venivano interpretate in chiave repressiva, e applicate non solo per proteggere la salute dei reclusi, ma soprattutto per spersonalizzare ed umiliare i detenuti (328). "Ma, complessivamente, ci si accingeva a una svolta decisiva" (329). Partecipe di tale clima, Jeremy Bentham, estroso pensatore che trasse fama soprattutto dagli studi basati sull'utilitarismo (330), ideò il Panopticon: un progetto di moderna prigione, che, secondo la concezione del suo creatore, doveva coniugare l'utilità delle pene e i postulati di una economia basata su un raffinato calcolo dei prodotti e dei profitti realizzabili nell'ambito di una struttura carceraria. Nelle proposte di uno dei massimi rappresentanti della borghesia inglese in ascesa, alla vocazione produttivistica e risocializzante si comincia a sovrapporre il fine intimidatorio e di puro controllo. "Il Panopticon di Bentham è un tentativo ingenuo e mai realizzato di abbinare un esasperato sistema punitivo e di controllo, all'efficienza produttiva, tentativo che mostra già la decisa tendenza degli anni che verranno a privilegiare il primo aspetto" (331). Il Panopticon si basa sul principio dell'isolamento assoluto continuo; elemento essenziale del progetto è costituito dal principio ispettivo, la possibilità, cioè, con pochi uomini, di tenere sotto costante sorveglianza - o quantomeno di farlo credere - tutti gli individui rinchiusi nell'istituzione. Caratteristica dell'impostazione benthamita è il rilievo dato alla produttività dell'istituzione, che esclude qualsiasi concezione punitiva del lavoro, che deve essere amministrato con criteri puramente capitalistici. "L'essenza della pena è costituita ... dalla privazione della libertà intesa soprattutto come privazione della libertà di contrarre: il detenuto è soggetto ad un monopolio dell'offerta di lavoro, condizione che rende conveniente per l'appaltatore l'utilizzazione della forza lavoro carceraria" (332). Ma sorge un problema: il progetto architettonico di Bentham è adatto sì agli scopi di controllo, custodia ed intimidazione, ma non certo all'introduzione del lavoro produttivo in carcere, in un momento in cui sempre più massicciamente le macchine sono presenti nel ciclo produttivo, e questo viene organizzato secondo il principio della cooperazione dei vari lavoratori tra di loro (333). Un elemento da mettere in risalto è il fatto che, secondo il suo inventore, il Panopticon può essere applicato a qualsiasi istituzione in cui si intende tenere molte persone sotto controllo, indipendentemente dallo scopo: non solo le prigioni, ma pure le scuole, le fabbriche e gli ospedali avrebbero potuto gestirsi in base al principio d'ispezione (334). L'applicazione di tale progetto al modello penitenziario permette che gli scopi della custodia, dell'isolamento, della solitudine, del lavoro forzato e dell'istruzione vengano perseguiti contemporaneamente. Comunque, il principio che prevale è quello ispettivo, garanzia assoluta del rispetto della disciplina (335). "Bentham criticò la teoria del contratto sociale, ponendo l'origine e il fine del diritto nel principio utilitaristico" (336), e credendo di potere trasformare la legislazione in una faccenda aritmetica. La pena non doveva più essere un atto di collera o di vendetta, ma un calcolo, derivante da considerazioni sul bene della collettività e sul benessere dei criminali (337). Interessatosi, secondo la moda culturale dell'epoca, di riforme penitenziarie, progettò, dunque, il Panopticon, o Inspection House, un carcere di forma circolare, dotato di celle individuali disposte attorno alla sua circonferenza, le cui finestre e la cui illuminazione dovevano essere gestite in modo tale che gli occupanti fossero chiaramente visibili da una torre centrale di controllo, la quale, invece, sarebbe rimasta ad essi del tutto inscrutabile (338). "Un simile sistema di controllo incessante avrebbe impedito i nocivi contatti tra i detenuti (339), e avrebbe reso superflue le catene ed altri similari anacronistiche strutture. Sorvegliati di continuo, i carcerati avrebbero potuto (e dovuto) lavorare fino a sedici ore al giorno nelle proprie celle, con grande profitto dell'imprenditore privato cui sarebbe toccato promuovere e dirigere l'istituzione, in condizioni di grande vantaggio rispetto ai concorrenti costretti a far ricorso a mano d'opera libera" (340). Bentham insisteva perché non vi fossero interferenze da parte dell'autorità; una regolamentazione statale sarebbe stata inutile, in quanto era interesse primario dello stesso appaltatore mantenere la forza-lavoro in buone condizioni di salute, affinché producesse. Anche il terrore della pena non doveva essere eliminato del tutto con eccessive concessioni. "Il meccanismo del libero mercato doveva quindi essere messo in condizione di regolare senza intralci un'alternanza di terrore e di umanità all'interno del Panopticon, che andava gestito alla stregua di un'impresa capitalistica" (341). Il Panopticon ricalcava la logica delle case di correzione del XVIIº secolo, il cui esperimento, dal punto di vista prettamente economico, era sostanzialmente fallito. Bentham rispose alle critiche e alle obiezioni al sistema dell'appalto privato prevedendo due forme di controllo alla discrezionalità degli imprenditori. "Per prima cosa, egli ammise l'accesso del pubblico alla torre centrale d'ispezione, in modo che chiunque potesse controllare, in qualsiasi momento, l'appaltatore e il suo personale. In secondo luogo, per garantire che non avrebbe fatto lavorare i detenuti fino allo stremo delle forze, si offrì di pagare allo Stato la somma di cinque sterline per ogni decesso avvenuto in carcere, oltre il tasso medio di mortalità annua a Londra" (342). Il riformatore inglese non riteneva che i poteri dei carcerieri dovessero essere regolati o sottoposti a controllo; essi avrebbero rispettato le regole solo se ciò fosse stato nel loro interesse. "In aggiunta ai regolamenti e alle ispezioni, era necessario ideare un sistema di sanzioni e di ricompense pecuniarie, che contribuisse a che l'interesse del personale carcerario coincidesse con il dovere professionale" (343). La struttura dell'edificio avrebbe garantito che gli internati sarebbero stati sottoposti ad una sorveglianza costante, mentre il meccanismo di gestione per appalto avrebbe assicurato che il controllo dei soggetti internati non avrebbe comportato alcun costo per lo Stato. Nel 1792 il progetto fu discusso e approvato dal parlamento inglese, ma un divieto di Giorgio III decretò la fine delle speranze di Bentham. "Ma anche se i principi socio-economici del Panopticon furono respinti (344), il progetto esercitò una profonda influenza" (345) per quanto riguarda la struttura circolare adottata in diverse carceri realizzate non solo in Inghilterra, ma anche in altri paesi europei e negli Stati Uniti. "Il maggior contributo di Bentham fu di aver ideato la struttura architettonica che meglio realizzava il desiderio dei riformatori di sottomettere i detenuti alla disciplina della sorveglianza. ...Nondimeno le affinità fra i penitenziari e il Panopticon sono più importanti delle differenze fra di essi. Entrambi sostituivano pene intenzionali alle pene provocate dalla trascuratezza, l'autorità delle regole a quella della consuetudine, il regime di lavoro forzato al disordine dell'oziosità. In entrambi il criminale era separato dal mondo esterno da una nuova concezione che prevedeva uniformi, mura, sbarre. È importante sottolineare l'attitudine pedagogica dell'Illuminismo: l'individuo è visto come una belva feroce, di cui si deve, con il lavoro e l'obbedienza, trattenere gli istinti. È la politica correzionale nei confronti dei giovani che apre la strada ad una riforma più ampia nella gestione della politica criminale (346); "da un lato è chiaro che rispetto ad uomini in giovane età, il sorgere di una tendenza recuperativa, rieducativa, viene facilitata dalla convinzione che vi siano maggiori possibilità pedagogiche; d'altro lato, a quell'epoca, non v'è dubbio che i lavoratori in età adolescenziale o addirittura preadolescenziale erano sempre più ricercati dall'industria, che li valutava ... più duttili e meno resistenti all'inserimento nel mondo del lavoro e allo sfruttamento" (347). Attraverso queste esperienze, che hanno come oggetto i giovani, delinquenti o corrigendi, si attua più decisamente il passaggio dalla casa di lavoro per poveri del periodo mercantilistico, che ha carattere più chiaramente produttivo, al vero e proprio carcere della fine del Settecento e dell'Ottocento, in cui la preoccupazione terroristica, di ordine sempre più ideologico, di imprimere nei corpi e nelle menti delle classi subalterne il marchio a fuoco della disciplinata obbedienza, diviene l'unico scopo della punizione, l'unica preoccupazione dei suoi ideatori ed amministratori. Pur riferendosi spesso ai devianti come a 'macchine da riparare' ed a soggetti da 'formare', i riformatori, però, potevano anche contraddirsi, ritenendoli talvolta persone libere di agire di propria volontà, capaci di scegliere il bene e pentirsi del male. "Bentham oscillava, senza rendersi conto apparentemente della contraddizione, fra la concezione dei criminali quali meccanismi difettosi e la loro definizione come creature razionali aventi diritto alla protezione della società. Howard non insisteva solamente sul fatto che i criminali fossero esseri razionali, ma sosteneva anche che erano capaci di provare sentimenti di vergogna" (348). I riformatori avevano qualche difficoltà a collocare l'idea di coscienza entro le loro teorie associazionistiche. "La psicologia materialistica negava esplicitamente il concetto di un senso innato del giusto" (349); tuttavia, intorno agli anni Quaranta del Settecento, alcuni commenti del terzo Conte di Shaftesbury ai testi Lockiani servirono a reintrodurre l'idea di coscienza nelle teorie fino ad allora sviluppate, e "fornirono una giustificazione a due modi distinti e contraddittori di accostarsi al concetto di riforma delle devianze, uno attraverso la disciplina del corpo, l'altro tramite un appello diretto alla coscienza. Lo scopo di questa seconda concezione era quello di suscitare un senso di colpa attraverso la punizione" (350). In base a questa impostazione di fondo si giunse a sostenere che i governanti dovevano fare in modo che i sudditi si vergognassero di disobbedire; la coscienza li avrebbe tenuti a bada quando tutti gli altri obblighi fossero stati spezzati. "Il dolore provocato dal bastone, se non è accompagnato dalla vergogna, cessa ben presto, è dimenticato e, a causa dell'uso frequente, perderà ogni deterrente" (351). Un ordine sociale imposto con il terrore non poteva essere stabile quanto quello cementato da obblighi volontari verso la legge. Era inoltre essenziale, per mantenere un ordine sociale attraverso il senso di vergogna dei cittadini posti di fronte alla prospettiva di una punizione, che la punizione mantenesse la sua legittimazione morale agli occhi dell'opinione pubblica. "Era perciò importante che la pena venisse presentata in modo tale che chi la subiva e chi assisteva alla sua esecuzione conservassero entrambi il rispetto morale per chi la infliggeva. L'efficacia di una punizione dipendeva dalla sua legittimità" (352). Se con un trattamento giusto si può conquistare la coscienza del criminale, con gli abusi, nello stesso modo, si può inimicarla. I riformatori insistettero sovente sul fatto che punizioni fisiche come la fustigazione (353) e lo squallore delle prigioni stavano erodendo il rispetto per la legge fra i delinquenti e nell'opinione pubblica in genere; essi misero inoltre in guardia contro la severità capricciosa di esecuzioni troppo frequenti e di sanguinarie esecuzioni pubbliche che bollavano i delinquenti e li confermavano nella disonestà invece di guidarli a un positivo mutamento della loro condotta. "Una correzione eccessiva ... neutralizza le intenzioni della legge provocando nella folla un maggior grado di compassione per la vittima che indignazione per il delitto" (354). Era fondamentale che il sistema legale conservasse il suo alone di legittimità agli occhi dell'opinione pubblica. "I vincoli d'amore legano le menti con il rimorso nutrito di sensi di colpa; le catene di ferro vincolano solo il corpo, lasciando che le menti si corrompano liberamente nell'ira" (355). Si volevano introdurre pene tali da convincere il delinquente ad accettare le proprie sofferenze ed affrontare la consapevolezza della propria colpa; i riformatori intendevano rivolgere il loro messaggio direttamente ai prigionieri, cui spiegavano che le punizioni erano inflitte nel loro migliore interesse, mentre la teoria utilitaria le concepiva quale atto imparziale socialmente necessario. "Nel respingere la teoria retributiva i riformatori tentavano in effetti di togliere alla pena qualsiasi carattere di vendetta; ... la pena non doveva più essere ... un atto di collera e di vendetta, ma un calcolo regolato da considerazioni sul bene sociale e sul benessere dei trasgressori" (356). Un altro problema era quello di come si dovesse controllare i personale di sorveglianza; i riformatori credevano che le punizioni avessero perduto ogni autorevolezza morale fra i poveri perché si era lasciata, a chi le infliggeva, una discrezione illimitata. "Le prigioni erano degenerate, trasformandosi in squallidi vivai di criminalità, perché magistrati non avevano fatto rispettare le regole riguardanti la disciplina, l'igiene e i lavori forzati. Corruzione, favoritismi e crudeltà fiorivano nelle carceri perché l'autorità dei carcerieri non era tenuta sotto controllo da regolamenti e ispezioni. In luogo dell'arbitrio sregolato, i riformatori proponevano di imporre una gestione moderata da regole" (357). L'attacco lanciato contro la riscossione di esazioni aveva lo scopo di trasformare il carceriere da appaltatore indipendente in un subordinato stipendiato dallo Stato. Infliggere pene era uno strumento troppo importante perché potesse essere lasciato ad appaltatori privati; d'ora in poi lo Stato avrebbe dovuto assumersi direttamente questo compito (358). La pena, nel corso dell'epoca moderna, si trasforma, divenendo, da rituale pubblico e passionale, una procedura professionale e burocratizzata. Nel Panopticon, come abbiamo visto, Bentham proponeva di tenere guardie e prigionieri sotto la sorveglianza continua di un ispettore collocato in una torre centrale. In tal modo il personale di custodia era tenuto sotto lo stesso costante controllo cui erano sottoposti i detenuti. "I regolamenti avevano un doppio significato per i riformatori, essendo un elenco delle privazioni inflitte ai detenuti, ma anche una carta dei loro diritti. Essi accomunavano entrambe le parti nell'obbedienza a un codice imparziale applicato dall'esterno e in questo modo conciliavano gli interessi dello stato, quelli dei custodi e quelli dei detenuti" (359). Nonostante un apparato teorico assai imponente ed organizzato, alla metà degli anni Novanta, l'impulso riformatore che aveva dato origine ai penitenziari si era esaurito. I sostenitori delle riforme erano divisi e delusi. Il riformatore igienista Percival aveva salutato l'avvento delle nuove fabbriche, considerandole strumenti benevoli di progresso sociale per i poveri. Nel 1798 aveva ormai visto gli effetti dell'industrializzazione tanto da giungere a conclusioni opposte; i padroni delle fabbriche facevano lavorare all'eccesso i propri apprendisti, trascurando l'educazione; lo sfruttamento in fabbrica del lavoro infantile stava dissolvendo i rapporti familiari fra i lavoratori dell'industria; i sorveglianti nelle fabbriche non si preoccupavano che i bambini imprecassero o bighellonassero dopo le ore di lavoro finché svolgevano il proprio dovere. La nuova disciplina era manchevole perché di natura puramente economica (360). Le case di correzione non erano riuscite a trattenere i poveri dal rivolgersi all'assistenza pubblica. "Molti di questi istituti poi erano divenuti altrettanto squallidi quanto gli ospizi di mendicità che intendevano sostituire. Il personale di custodia trascurava le norme igieniche, non faceva rispettare il lavoro forzato e derubava gli ospiti dei sussidi per il cibo. L'uso delle case di correzione a scopi deterrenti andava assai bene in teoria, ... ma in pratica la cosa non funzionava a causa della scarsità di personale adatto a far rispettare una rigida disciplina" (361). Molti tra i riformisti mettevano in discussione la moralità di costringere i poveri a sottoporsi alla reclusione. Howard riteneva che questi ospizi dovessero servire solo per rinchiudervi coloro che erano troppo malati o vecchi per essere curati a casa (362). Le tensioni esistenti tra le tendenze autoritarie e quelle liberali nell'ideologia riformista degli anni novanta si aggravarono allo scoppio della Rivoluzione Francese. Perlomeno in Inghilterra, ma con evidenti riflessi in tutta Europa, "la rottura fra filantropia e riforma politica trovò una conferma dopo il 1793, quando i penitenziari cominciarono ad essere usati per rinchiudervi prigionieri politici giacobini. ... In breve tempo la questione dei penitenziari e della riforma carceraria si trovò coinvolta nei conflitti politici e sociali del decennio" (363). Una nuova visione del crimine e dei criminali, sviluppatasi in Germania, avrebbe prodotto, ancora una volta, ampi rivolgimenti ideologici in tutta la questione penale.

3: L'idealismo tedesco

"La rivoluzione industriale - l'espulsione dei lavoratori a causa dell'introduzione delle macchine sul finire del diciottesimo secolo - mutò la situazione del mercato del lavoro producendo un esercito industriale di riserva" (364). L'asprezza crescente della lotta per l'esistenza portò il tenore di vita della classe operaia ad un livello incredibilmente basso; i reati contro la proprietà cominciarono a crescere considerevolmente. La criminalità delle masse impoverite aumentò, raggiungendo proporzioni tremende durante la grande crisi industriale; i tempi difficili, l'accresciuta concorrenza, e una diminuzione della domanda di lavoro erano regolarmente seguiti da un aumento delle condanne per furto o per reati più gravi, mentre i periodi più favorevoli segnavano invece una diminuzione. Le classi inferiori immiserite si battevano sul mercato offrendosi a prezzi sempre più bassi; le misure coercitive persero ogni significato. Le case di correzione non erano più redditizie; nella situazione di alti salari esterni, esse avevano prodotto guadagni, ma quando i lavoratori presero ad offrirsi volontariamente in cambio di un minimo vitale, non valeva più la pena affrontare le spese per la reclusione e per la custodia. Il ricavato del lavoro carcerario non bastava più nemmeno per il semplice funzionamento e la manutenzione quotidiana, per il mantenimento di custodi e carcerati. Il carcere, in queste condizioni economico-sociali, non era più un efficace strumento di intimidazione. Sembrava ovvio, così, tornare a trattare i delinquenti con metodi medievali. "Le classi dominanti furono tentate di imboccare la strada della restaurazione dei metodi premercantilistici di trattamento dei criminali e, mentre si diffuse la richiesta di metodi punitivi più severi, l'uso liberale del carcere in sostituzione delle forme punitive tradizionali venne severamente criticato" (365). Si disse che il sistema penale rappresentava ormai un inganno e che la pena avrebbe dovuto tornare ad essere qualcosa che il malfattore poteva soffrire sin dentro al midollo delle sue ossa, qualcosa che lo torturasse e lo distruggesse: la mannaia, la frusta e la fame avrebbero dovuto essere reintrodotte al fine di sradicare finalmente i criminali dalla società. Alcuni suggerirono di "utilizzare la reclusione permanentemente per quei miserabili che, attraverso la commissione ripetuta di reati, mostravano d'esser troppo deboli per resistere alla tentazione del crimine, e che erano perciò incurabilmente malati nello spirito" (366). Meyer attaccò aspramente quella che egli definiva 'l'effeminatezza umanitaristica' del tempo, ironizzando sul sogno di una possibile elevazione dell'umanità e sostenendo infine la necessità di reintrodurre la pena capitale e quelle corporali. Il nuovo sistema si distingueva più che altro per l'eccesso di severità; il solo fine perseguito era di colpire il criminale e l'idea della correzione non aveva in esso alcuno spazio. Si applicò con grande frequenza il carcere a vita, accompagnato "da un'eccessiva afflizione del condannato, da mutilazioni barbariche e da pene ingiuste come la confisca della proprietà e la perdita dei diritti civili" (367). "La richiesta di tornare a metodi punitivi corporali echeggiò, dunque, abbastanza forte all'epoca, ma non ci si arrivò, sia perché fu ostacolata da quegl'ideali d'umanità da poco conquistati a prezzo di dure lotte, sia perché la saggezza politica consigliò di non dar fuoco alle polveri di una situazione che già era rivoluzionaria col mettere in atto una tale provocazione" (368). Il carcere, quindi, sopravvisse, ma la sua funzione cambiò, adeguandosi automaticamente alle nuove esigenze. "Le carceri, pensate dapprima come case di lavoro forzato, divennero luoghi di puro tormento, idonei ad intimorire persino i più miseri. Il vitto peggiorò - spesso venne ridotto a pane e acqua - cosicché i detenuti cominciarono a morire in massa. Erano vestiti insufficientemente, stipati e il lavoro, non più redditizio, venne posto a servizio della tortura. I detenuti dovevano trasportare inutilmente delle pietre da un posto all'altro, dovevano azionare pompe idrauliche che poi facevano rifluire l'acqua pompata oppure verricelli a pedale che non servivano ad alcuno scopo. Questo processo venne completato dall'introduzione dell'uso delle bastonate come 'benvenuto' e 'addio' all'istituzione e come ordinario mezzo disciplinare in ogni momento" (369). Anche in Germania la situazione si rovesciò, ed i penalisti più conservatori affermarono con soddisfazione che il principio di una giustizia retributiva iniziava a produrre un benefico effetto sul sistema delle pene. "Si ritornò a pensare che l'unico modo di trattare con un ladro fosse attraverso la sua pelle, e la frusta fu di nuovo una delle punizioni viste con maggior favore, perché non costava niente ed evitava il sovraffollamento delle carceri" (370). La frusta, il bastone, la gogna, il marchio a fuoco, e la reclusione accompagnata da particolari privazioni furono tutti reintrodotti allo scopo di porre un freno al numero crescente di ladri e di briganti (371). Le teorie di Kant ed Hegel, i rappresentanti più famosi ed influenti della nuova corrente, fornirono un fondamento filosofico a questo severo sistema di pene. L'idealismo provvide infatti di una base scientifica la teoria retribuzionista; negò, inoltre, la possibilità di considerare alcun elemento soggettivo nello stabilire il nesso tra fatto particolare di reato e norma generale di diritto penale che ad esso si applicava; gli elementi fondamentali erano il rispetto del principio di legalità e l'esclusività del principio retributivo (372). Entrambi gli autori tedeschi rifiutavano la teoria secondo la quale la pena può essere giustificata sulla base della pura utilità. "La famosa affermazione di Kant secondo cui anche in una comunità che si va estinguendo è necessario mandare a morte l'ultimo omicida, esprime infatti la negazione di ogni elemento teleologico della pena" (373). Secondo Kant la pena deve essere inflitta al colpevole semplicemente perché ha commesso un delitto; la legge penale è definita come "un imperativo categorico (374), che deve avere la sua validità indipendentemente dagli scopi di utilità che si volessero perseguire nell'infliggere (o nel mitigare) la pena" (375). Kant, quindi, secondo questa impostazione, fa dipendere il diritto dalla morale (376). L'autore tedesco fu, tra l'altro, un sostenitore del mantenimento della pena di morte, anche se limitata agli omicidi (377), pur reclamando con forza, in nome della dignità dell'uomo, la fine di ogni forma di tormento. Kant fu uno dei critici più aspri di Beccaria e avversò, appunto, soprattutto la possibilità di abolire la pena di morte. "La posizione di Kant era basata sul principio che la giustizia penale esige punizioni uguali alle offese" (378). Nella sua opera, 'Metaphysik der Sitten', pubblicata nel 1797, ma scritta parecchi anni prima, Kant accusa Beccaria di affettato umanitarismo. Il filosofo attaccò Beccaria, soprattutto, per avere detto che nel contratto sociale nessun uomo aveva di propria volontà lasciato ad altri uomini l'arbitrio di ucciderlo. "Ma nessuno - disse Kant, travisando il pensiero di Beccaria - è punito per aver voluto la pena, egli è punito per aver voluto un'azione che meritava la pena. Con questa dichiarazione Kant sembrava convinto di aver dimostrato la legittimità della pena di morte" (379). Hegel invece presenta la pena come restaurazione dell'ordinamento giuridico violato, basandosi sulla triade delitto-reato-pena. Il reato costituisce la violazione del diritto; benché esso abbia un'esistenza positiva, è in se nullo: la sua nullità consiste nell'avere eliminato il diritto in quanto tale. "Se quindi il reato è alcunché di negativo (ovvero negazione del diritto), la pena è una negazione della negazione" (380), e ricostituisce l'ordine violato (381). L'idealismo tedesco, quindi, pur comprendendo in sé concezioni penali che sovente non combaciavano perfettamente, negando la considerazione di ogni elemento soggettivo nello stabilire il nesso tra il fatto particolare di reato e la norma generale di diritto penale che ad esso deve essere applicata, apriva la strada, in pratica, alla concezione liberale del diritto penale. "Il programma teorico dell'idealismo, basato da un lato sul rispetto ad ogni costo del principio di legalità e dall'altra sull'esclusività del principio retributivo, riusciva a rispondere alla richiesta fondamentale della borghesia in campo penale, e cioè la formulazione di tipi di condotte rigorosamente prevedibili; la correlazione automatica fra colpevolezza e pena e l'esclusione rigorosa di qualsiasi elemento teleologico della pena contribuirono ad orientare il diritto penale verso la definizione esatta di ogni nesso giuridico. Secondo la dottrina di Feuerbach, che combinò i concetti utilitaristi con le posizioni kantiane, "le pene sono previste dalla legge allo scopo di intimidire i criminali potenziali, tuttavia, una volta che un reato è stato commesso, la pena non ha alcun fine utilitaristico, e va concepita come conseguenza automatica della commissione del reato" (382). Secondo tale impostazione, la trasgressione della legge è elemento sufficiente per infliggere una pena al colpevole; si rifiuta cioè ogni finalismo, attribuendo al diritto penale la limpidezza insita nell'idea astratta di una giustizia indipendente dall'umano capriccio. Per i sostenitori dell'idealismo, l'idea rieducativa della pena è decisamente ricusata; il modello che ne deriva è essenzialmente retributivo.

La filosofia idealistica di Kant e Hegel fornì il fondamento ideologico per un radicale processo di trasformazione del diritto e della procedura penale, concretizzatosi nell'elaborazione codicistica. La funzione dell'azione penale venne individuata ormai esclusivamente nell'interesse pubblico al ristabilimento dell'ordine giuridico, ovvero al superamento sociale delle cause e delle conseguenze dei reati. La classificazione per gruppi, la divisione tra i sessi, l'abolizione del profitto privato del carceriere, delle punizioni corporali e dei peggiori abusi del periodo precedente, furono tutte realizzazioni operate dai pensatori dell'età dell'Illuminismo che si erano battuti per la riforma carceraria. "Ma tale movimento riformatore doveva scontrarsi con una reazione in senso repressivo, che aveva le proprie basi nella particolare situazione sociale ed economica creatasi con la rivoluzione industriale" (383). Kant concluse e contemporaneamente superò l'Illuminismo, divenendo, con la sua nuova teoria retributiva priva di supporto teologico, il principale avversario delle idee e delle richieste di Beccaria. "Nella nuova, 'areligiosa' teoria retributiva kantiana, fondata in termini filosofici, naufragano in ampia parte gli impulsi del periodo Illuminista ... intesi alla umanizzazione delle pene" (384). Abbiamo detto che, in seguito alla rivoluzione industriale, il lavoro forzato sottopagato nelle carceri divenne obsoleto ed inutile (385); si aprì in questo modo la strada ad una più pressante esigenza di intimidazione e controllo socio-politici. Si verificò, difatti, un deterioramento del regime interno al carcere, in cui vennero sempre più abbandonate le finalità economiche e quindi, indirettamente, risocializzanti, e perseguiti invece scopi punitivi e terroristici. Il lavoro in carcere tese così a scomparire o a divenire del tutto improduttivo, con puri fini disciplinari e terroristici. Inoltre, nella situazione di estesa disoccupazione, si ebbe gioco facile nell'accusare il lavoro in carcere di danneggiare gli operai liberi disoccupati. Ed infatti tale posizione di ostilità diverrà sempre più patrimonio anche delle prime organizzazioni del movimento operaio. Vi è, in genere, una corrispondenza non casuale tra lavoro in carcere e condizioni di vita dei detenuti. Le condizioni materiali di "vita all'interno del carcere (condizioni igieniche, possibilità di comunicazione e di solidarietà tra i detenuti, vitto, possibilità di disporre di una piccola somma propria) cambiano a seconda che queste siano organizzate intorno all'ipotesi di un lavoro produttivo o meno; e ciò per l'ovvia ragione che si pone per chi gestisce il carcere la duplice necessità di uno sfruttamento il più razionale possibile e della riproduzione giorno per giorno della forza lavoro" (386). Ciò determina una situazione per cui il tenore di vita del detenuto è sempre inferiore a quello minimo del lavoratore occupato esterno. Tale principio, detto, come abbiamo già sottolineato, "della less elegibility, formulato soprattutto degli scrittori sociali inglesi del diciottesimo secolo, richiede che il livello di esistenza garantito dalle istituzioni carcerarie (o dalla assistenza) sia inferiore a quello della fascia sociale operaia più bassa, in modo che il lavoro peggio pagato sia comunque preferibile (eligible) alla condizione carceraria o all'assistenza, ciò al duplice scopo di costringere al lavoro e salvaguardare la deterrenza della pena" (387). Il trattamento riservato ai criminali costituisce il punto zero della scala dei trattamenti che la società riserva, come appropriati, per i vari suoi membri (388). Questo spiega come mai, in regime di elevata disoccupazione, la situazione interna istituzionale venga inasprita al massimo grado e ripreso il metodo duro. La forza e le condizioni di vita dei detenuti tendono a seguire, ad un gradino più basso, quelle della massa proletaria nel suo complesso. Se così non accade, infatti, il carcere rischia di perdere tutto il suo potere deterrente. È indiscutibile il rapporto di interdipendenza tra mutate condizioni di lavoro, brusca ascesa dell'incremento demografico, introduzione delle macchine e passaggio dal sistema manifatturiero al vero e proprio sistema di fabbrica da un lato e l'improvviso e sensibile peggioramento delle condizioni di vita all'interno del carcere dall'altro. "Nel carcere non vengono più praticate forme di lavoro produttivo e competitivo e prevale un sistema intimidatorio e terroristico di gestione" (389). Le fondamenta dell'istituzione carceraria moderna erano, a questo punto, state in gran parte poste; nel 1800 si assiste comunque ad un completamento e ad un affinamento delle ideologie e delle infrastrutture ad essa sottostante. Se nel corso del Settecento, dunque, il carcere fa il suo ingresso, in maniera piuttosto timida, nell'universo penale, suscitando reazioni alterne da parte degli studiosi, della popolazione e degli internati, nel secolo successivo si assiste alla vera e propria affermazione della pena privativa della libertà personale come principale forma di punizione nel mondo occidentale. Vediamo quindi, nel capitolo che segue, le modalità con cui la pena detentiva ha assunto un ruolo praticamente 'monopolistico' all'interno dell'universo punitivo.

Note

1. MAESTRO MARCELLO, "Cesare Beccaria e le origini della riforma penale e Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria", Feltrinelli editore, Milano, 1977. pag. 206.

2. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 46.

3. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 47.

4. Ibidem, pag. 47.

5. Ibidem, pag. 47. Ciò è confermato dal fatto che, al momento di salire al patibolo, il condannato poteva chiedere di fare nuove rivelazioni circa crimini commessi da lui stesso o da suoi eventuali complici.

6. Si giustizia il condannato nel luogo in cui aveva commesso il crimine, si espone il cadavere del condannato nello stesso luogo, si utilizzano supplizi simbolici in cui la forma dell'esecuzione rinvia alla natura del crimine: si buca la lingua del bestemmiatore, si bruciano gli impuri, si taglia la mano a chi ha ucciso ed ai falsari, si taglia il naso alla donna mediatrice di turpi amori, talvolta si fa brandire al condannato lo strumento del suo misfatto. Al limite, troviamo alcuni casi di riproduzione quasi teatrale del crimine nell'esecuzione del colpevole: stessi strumenti, stessi gesti. Agli occhi di tutti la giustizia fa riprodurre il crimine dai supplizi, rendendolo pubblico nella sua verità ed annullandolo, nello stesso tempo, con la morte del colpevole.

7. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 51.

8. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 50. Un supplizio ben riuscito giustificava la giustizia nella misura in cui rendeva pubblica la verità del crimine nel corpo stesso del suppliziato.

9. Ibidem, pag. 50.

10. Ibidem, pag. 50.

11. Ibidem, pag. 53.

12. Infrangendo la legge, il trasgressore ha attentato alla persona stessa del sovrano, che, come risposta, si impadronisce del corpo del condannato per mostrarlo marchiato, vinto, spezzato. La cerimonia punitiva deve quindi essere terrorizzante al massimo grado. Le pene sono necessariamente severe per fare in modo che l'esempio si inscriva profondamente nel cuore degli uomini; la politica adottata è quella del terrore, per rendere sensibile a tutti, sul corpo del criminale, la presenza del sovrano.

13. SABATINI GUGLIELMO, "Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale", op. cit., pag. 152.

14. MAESTRO MARCELLO, "Cesare Beccaria e le origini della riforma penale e Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria", op. cit., pag. 18.

15. DE MENASCE G., LEONE G., VALSECCHI F., "Beccaria e i diritti dell'uomo", Ed. Studium, Roma, 1964, pag. 29.

16. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 54.

17. MAESTRO MARCELLO, "Cesare Beccaria e le origini della riforma penale e Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria", op. cit., pag. 18.

18. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 54.

19. Che abbiamo ampiamente esaminato nel capitolo precedente.

20. DE MENASCE G., LEONE G., VALSECCHI F., "Beccaria e i diritti dell'uomo", op. cit., pag. 31.

21. MAESTRO MARCELLO, "Cesare Beccaria e le origini della riforma penale e Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria", op. cit., pag. 18.

22. MAESTRO MARCELLO, "Cesare Beccaria e le origini della riforma penale e Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria", op. cit., pag. 18.

23. Ibidem, pag. 19.

24. Un esempio di tale prassi è costituito dall'esecuzione, nel 1757, di un condannato di nome Damiens, colpevole di avere ferito con un coltello il re di Francia Luigi XV, nel tentativo, fallito, di ucciderlo; i giudici decisero di infliggere al condannato la morte più dolorosa di cui fosse capace la loro immaginazione. Il giorno della sua esecuzione venne condotto alla camera di tortura con lo scopo di estorcergli i nomi dei suoi complici, pur essendo assodato che egli aveva agito da solo e di propria iniziativa, e venne sottoposto alla tortura degli 'stivaletti' per lungo tempo, ovviamente senza alcun risultato. Venne poi costretto a fare confessione pubblica davanti alla porta principale della chiesa di Parigi, dove venne condotto dentro un carro a due ruote, vestito con la sola camicia e recante con se un cero del peso di due libbre. Fu tenagliato con pinze roventi alle braccia, alle cosce ed al petto; la mano destra, cui era stato incollato il coltello con il quale aveva tentato il regicidio, gli venne bruciata in un braciere contenente zolfo acceso. Poi sulle ferite aperte si versò piombo fuso, olio e pece bollenti; questa operazioni fu ripetuta più volte. In seguito venne squartato da quattro cavalli, ognuno legato ad una delle sue membra; tale operazione fu molto lunga, in quanto i cavalli non erano abbastanza forti, ed alla fine il boia fu costretto, per smembrare la vittima, a tagliarli i nervi ed a recidergli le giunture con la scure. Infine il suo corpo e le sue membra vennero gettate nel fuoco, ridotte in cenere e le sue ceneri gettate al vento. La pena si estese anche ai suoi famigliari; essi vennero privati del loro cognome e di tutti i loro beni, la loro casa fu data alle fiamme, e furono banditi dalla Francia.

25. MAESTRO MARCELLO, "Cesare Beccaria e le origini della riforma penale e Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria", op. cit., pag. 20.

26. L'Inghilterra era l'unico paese europeo ad avere mantenuto una procedura aperta, in cui l'accusa era esercitata liberamente da qualsiasi cittadino, i processi erano pubblici e l'accusato aveva il diritto di essere messo a confronto con i suoi accusatori. Era stata inoltre sviluppata l'istituzione della giuria; punto debole del sistema era il fatto che le leggi scritte e facilmente accessibili al pubblico erano assai poche.

27. MAESTRO MARCELLO, "Cesare Beccaria e le origini della riforma penale e Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria", op. cit., pag. 21. Le ragioni per cui degli accusati erano disposti a sottoporsi a questa pena e a perdere la vita pur di evitare il processo consisteva nel fatto che, senza processo, non poteva esserci condanna, e in tal caso i beni e le terre dell'accusato non potevano essere confiscate, rimanendo così alla sua famiglia.

28. DE MENASCE G., LEONE G., VALSECCHI F., "Beccaria e i diritti dell'uomo", op. cit., pag. 32.

29. DE MENASCE G., LEONE G., VALSECCHI F., "Beccaria e i diritti dell'uomo", op. cit., pag. 32.

30. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 95.

31. Ibidem, pag. 95.

32. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.96.

33. Ibidem, pag. 96.

34. Ibidem, pag. 96.

35. Ibidem, pag. 96.

36. Ibidem, pag. 97.

37. Ibidem, pag. 97.

38. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.97.

39. Ibidem, pag. 97.

40. Come abbiamo visto, tale attività criminosa era stata a lungo un aspetto normale e necessario della vita dei settori più poveri della popolazione.

41. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.98.

42. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.98.

43. Ibidem, pag. 99.

44. Ibidem, pag. 99.

45. Ibidem, pag. 100.

46. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.100.

47. Ibidem, pag. 100.

48. Ibidem, pag. 101.

49. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 60.

50. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 137.

51. Ibidem, pag. 137.

52. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 137.

53. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 61.

54. Ibidem, pag. 61.

55. Ibidem, pag. 61.

56. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 62.

57. Ibidem, pag. 63.

58. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 96.

59. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 63.

60. Si doveva fare in modo che la vita nella casa di lavoro offrisse meno di quanto fosse possibile realizzare al lavoratore libero del più infimo strato sociale.

61. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 64.

62. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 66.

63. Ibidem, pag. 66.

64. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 153.

65. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 153.

66. Ibidem, pag. 154.

67. Ibidem, pag. 155.

68. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 157.

69. Ibidem, pag. 158.

70. Un aumento artificiale dei salari potrebbe infatti avvenire solo a spese degli investimenti, e porterebbe ad un risultato contrario a quello voluto, riducendo il solo strumento per impiegare i lavoratori con profitto.

71. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 160.

72. Ibidem, pag. 161.

73. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 162.

74. Ibidem, pag. 163.

75. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 134.

76. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 165. Coloro la cui incapacità di mantenersi era dovuta a mancanza di opportunità dovevano essere impiegati in qualche compito adatto alla loro forza e abilità. Il fatto che la società dovesse provvedere alla sussistenza dei suoi cittadini meno fortunati, con il provveder loro lavoro o assicurando agli inabili i mezzi di sussistenza, faceva da contrappeso all'abbandono di un sistema centralizzato di assistenza ai poveri.

77. Questo non solo per motivi di umanità, quanto perché le leggi sui poveri erano il solo modo per impedire allo scontento ed alla disperazione di trasformarsi in forza rivoluzionaria.

78. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 166.

79. Ibidem, pag. 167.

80. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 79.

81. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 79-80.

82. Ibidem, pag. 80.

83. Il frutto evidente dell'opera di Beccaria è stata una riforma della legge penale che ha riconosciuto intangibile la vita e la dignità del soggetto colpevole. Affermando che l'uomo non può mai essere oggetto ma soltanto soggetto della pena, Beccaria ha mostrato che l'uomo è, di fronte alla legge, sempre persona, e non può mai essere ridotto a cosa, ed è perciò uguale agli altri uomini.

84. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 81.

85. Ibidem, pag. 9.

86. Ibidem, pag. 10.

87. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 11.

88. Ibidem, pag. 11.

89. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 68.

90. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 98.

91. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 12.

92. Ibidem, pag. 13.

93. In Inghilterra, già nel 1760, era stata sperimentata una macchina per impiccare, in modo da evitare al condannato sofferenze non volute. In Francia, nel 1792, viene usata la ghigliottina, che permette una morte uguale per tutti, una sola morte per condannato, d'un sol colpo, senza ricorrere ai supplizi lunghi e di conseguenza crudeli, e infine un castigo diretto al solo condannato, poiché la ghigliottina, pena dei nobili, è la meno infamante per la famiglia del criminale. La morte viene ridotta ad un avvenimento visibile, ma istantaneo. Quasi senza toccare il corpo, la ghigliottina sopprime la vita, come la prigione toglie la libertà, o una ammenda preleva dei beni. Si presume che essa applichi la legge, piuttosto che ad un corpo reale suscettibile di dolore, ad un soggetto giuridico. Essa doveva avere l'astrazione stessa della legge.

94. Il corteo dal luogo di detenzione a quello dell'esecuzione, l'esecuzione vera e propria, e l'esposizione del cadavere; a questi avevamo aggiunto il momento del conforto.

95. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 28.

96. Ibidem, pag. 33.

97. Ibidem, pag. 33.

98. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 34.

99. Ibidem, pag. 35.

100. Nel Seicento il popolo che accompagnava il corteo spesso interveniva con propri strumenti di pena per imprimere un marchio di infamia a taluni criminali; ciò era accettato di buon grado come manifestazione del consenso popolare all'esecuzione.

101. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 104.

102. Ibidem, pag. 105.

103. Ibidem, pag.35.

104. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 17.

105. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 45.

106. Ibidem, pag. 77.

107. Ibidem, pag. 78.

108. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 89.

109. Ibidem, pag. 90.

110. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 82.

111. Ibidem, pag. 82.

112. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 82. In particolare, a partire dall'ultimo quarto del secolo, si afferma una delinquenza antiproprietà che si rivela ormai individualista.

113. Ibidem, pag. 82.

114. Ibidem, pag. 83.

115. Ibidem, pag. 84.

116. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 85.

117. Ibidem, pag. 86.

118. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 86-87.

119. Ibidem, pag. 89.

120. Ibidem, pag. 89.

121. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 90.

122. Ibidem, pag. 91.

123. Ibidem, pag. 92.

124. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 92.

125. Ibidem, pag. 93.

126. L'illegalismo dei beni, più accessibile alle classi popolari, verrà separato da quello dei diritti, che la borghesia riserverà gelosamente per sé. E nello stesso tempo in cui si opera questa spartizione, si afferma la necessità di un controllo costante che riguardi essenzialmente questo illegalismo di beni.

127. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 95.

128. Ibidem, pag. 97.

129. FOUCAULT MICHEL, "Dalle torture alle celle", Lerici editore, Cosenza, 1979, pag. 24.

130. COSTA FAUSTO, "Delitto e pena nella storia della filosofia", op. cit., pag. 126-127.

131. Abbiamo accennato, nel capitolo precedente, all'opera del padre benedettino Mabillon, Reflexions sur les prisons des ordres religieux, pubblicata postuma nel 1724, che attirò l'attenzione sui molti problemi teorici connessi con la pratica dell'incarcerazione. Mabillon può, in questo senso, essere visto come un precursore dei temi che saranno poi ampiamente sviluppati dai pensatori Illuministi, tanto che le sue posizioni possono essere definite 'pre-illuministe'. Egli affrontò sistematicamente la questione della natura e degli scopi del sistema carcerario, che la Chiesa aveva dovuto affrontare molto tempo prima delle autorità temporali. Essa, infatti, disponendo della giurisdizione criminale sui chierici, e non potendo legalmente comminare sentenze di morte, fu costretta a ricorrere alla privazione della libertà personale. L'isolamento cellulare era assai comune, poiché si riteneva che fosse funzionale allo scopo principale della pena, cioè la correzione del prigioniero; il problema materiale dello sfruttamento della forza lavoro, invece, aveva poca importanza. Mabillon insisteva sulla necessità che i detenuti lavorassero, ma solo per l'efficacia ed il valore morale dell'attività lavorativa. Le considerazioni di Mabillon anticiparono in modo impressionante il dibattito moderno sul problema del carcere; dal confronto che egli conduce tra la severità della giustizia secolare e la carità che dovrebbe giocare un ruolo dominante nella giustizia canonica, conclude che la pena deve essere proporzionata alla gravità del reato commesso e alla qualità fisica e spirituale dell'autore del reato. Egli sostiene che la durata della condanna deve essere rapportata al carattere dell'individuo delinquente, che il sistema dei premi deve essere strettamente associato a quello delle penitenze, che il giudice non deve sapere ciò che non può punire.

132. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 10.

133. DE MENASCE G., LEONE G., VALSECCHI F., "Beccaria e i diritti dell'uomo", op. cit., pag. 10.

134. Ibidem, pag. 10.

135. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 69.

136. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 42-43.

137. Ibidem, pag. 45.

138. Si escogitavano mille stratagemmi per permettere la trasmissione di idee eretiche, sediziose o egalitarie al pubblico. Oltre all'anonimato dell'autore, si usavano falsi frontespizi e luoghi di pubblicazione, case editrici segrete e reti sotterranee di distribuzione e vendita di libri e opuscoli. Per celare le intenzioni dei vari autori, si pubblicavano diari di viaggiatori immaginari, si fingeva di tradurre inesistenti libri stranieri, e si usavano doppi significati, che permettevano solo ai cogniscenti di afferrare il messaggio. Tali accorgimenti risultarono lungimiranti; infatti venne adottato, nei confronti del testo di Beccaria, un provvedimento di sequestro di tutte le copie rinvenute, e la proibizione della circolazione dell'opera, ritenuta legata a qualche movimento rivoluzionario e tendente a stravolgere l'assetto sociale dello stato. Nel 1766 il libro di Beccaria venne messo all'Indice dei libri proibiti nello Stato Pontificio, per i suoi eccessi di razionalismo, e vi rimase fino a che l'Indice stesso venne abolito dal Concilio ecumenico convocato da papa Giovanni XXIII nel 1962.

139. Nel 1775 apparve a Venezia un libretto, Note ed osservazioni sul libro intitolato "Dei delitti e delle pene", opera del frate domenicano Federico Facchinei, portavoce del Consiglio dei Dieci dell'Inquisizione di Venezia, che costituì uno dei primi e più violenti attacchi contro il pensiero di Beccaria., il quale venne accusato di empietà, sedizione e di una nuova eresia denominata 'socialismo'. Facchinei canzonò Beccaria chiamandolo 'il Rousseau' degli italiani'. Questo libro venne incoraggiato dagli inquisitori di Stato della Repubblica Veneta, irritati dalle critiche mosse dall'opuscolo del marchese al sistema delle accuse segrete. Persino tale pubblicazione venne in seguito censurata perché, seppur criticamente e per contrastarle, riprendeva le tesi e le argomentazioni eretiche di Beccaria. Furono poi i fratelli Verri a venire in soccorso del marchese, componendo una difesa, ovviamente anonima, del trattato.

140. In seguito Beccaria sovrintenderà alle riforme della casa regnante austriaca in Italia settentrionale. Grazie al legame con Vienna, l'élite locale era assai sensibile alle idee Illuministiche.

141. Gli Illuministi milanesi di cui Beccaria faceva parte erano per lo più funzionari governativi che cercavano di creare una società borghese modello, che combinasse la rigenerazione spirituale e morale con, e attraverso, i vantaggi materialistici della crescita economica.

142. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.119. Analizziamo sinteticamente le posizioni assunte da Beccaria nella sua opera. L'autore afferma che le leggi dovrebbero essere promulgate con un solo scopo: la massima felicità per il maggior numero di persone. Dopodiché analizza l'origine della pena e del diritto di punire; Beccaria afferma che gli uomini, unendosi in società, sacrificarono una parte della loro libertà individuale, la minima possibile, per goderne il restante con sicurezza e tranquillità. L'aggregazione di queste minime porzioni forma il diritto di punire. Ne deriva che le pene devono essere fissate esclusivamente dal legislatore, che non vi può essere pena senza una legge, che la legge non può avere effetto retroattivo. Se la severità di una pena si dimostra inutile, il suo mantenimento è contrario alla ragione, alla giustizia e allo stesso contratto sociale. Le leggi devono essere chiare e precise, per evitare ogni forma di arbitrarietà. La detenzione preventiva in attesa del processo deve essere determinata dal legislatore e non lasciata all'arbitrio dei giudici; ad ogni modo un detenuto in attesa di giudizio non dovrebbe mai essere incarcerato assieme a criminali già condannati. Beccaria si schiera contro al sistema delle prove legali, richiedendo la certezza della colpa per potere infliggere una condanna. Con lui si annuncia per la prima volta il principio del libero convincimento del giudice, delineandosi così il tema del processo indiziario. Inoltre si oppone alla procedura segreta, alle accuse segrete, ed al giuramento da parte del sospettato. Quanto alla tortura, essa è un modo per assolvere i robusti colpevoli e per condannare i deboli innocenti; l'innocente è in una posizione peggiore del reo, perché o confessa, ed è condannato ingiustamente, o è assolto, ma ha già subito una pena ingiusta. Il colpevole invece, se resiste alla tortura e viene assolto, ha cambiato una pena maggiore in una minore. L'innocente dunque non ha che da perdere, il reo da guadagnare. Oltretutto, un uomo deve essere considerato innocente fino alla prova della sua colpa; quindi non è lecito imporgli una pena, la tortura, fino a che si dubita se sia colpevole oppure no. I processi devono svolgersi il più presto possibile, per avere efficace effetto deterrente. L'impunità per il reo in cambio del nome dei suoi complici ha i suoi pro ed i suoi contro, ma Beccaria afferma che una legge generale sarebbe preferibile a speciali concessioni in casi particolari. Le pene devono essere proporzionate ai delitti, ma il loro scopo principale non deve essere quello di castigare il colpevole, bensì quello di impedire al reo di nuocere nuovamente, ed agli altri di imitarlo. Devono quindi essere adottate quelle pene che abbiano il maggior effetto sugli animi degli uomini ed il minore sul corpo del reo. Perché una pena ottenga il suo effetto, basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto; tutto il di più è superfluo e quindi tirannico. Beccaria è il primo tra i riformatori penali a prendere posizione contro la pena di morte, che però può ritenersi necessaria in tre casi: quando il cittadino incarcerato costituisce ancora una minaccia alla società; quando la sola esistenza del cittadino può produrre una rivoluzione pericolosa per lo Stato; quando l'esecuzione del cittadino serve da deterrente agli altri. Ma i primi due casi possono verificarsi solo in una situazione di anarchia, e per il terzo il massimo effetto sull'animo umano è prodotto dalla durata della pena, non dalla sua intensità. Inoltre, dato che lo scopo delle pene non è punire, ma semplicemente uno scopo preventivo, la pena di morte si rivela assurda. La funzione della pena è quella di tutelare la società. Ma la difesa della società deve trovare un limite nella difesa dell'individuo: costituita per proteggerne la vita ed i beni, la società non potrà mai, in nessun caso, insidiarlo. Il potere che esercita la società deriva dalla delega degli individui che la compongono, ed è inconcepibile che una delega si spinga sino alla rinuncia del massimo dei beni, la vita. Quindi la pena di morte non è né giusta, né utile né necessaria. La punizione deve essere pronta, affinché l'idea del delitto sia sempre associata a quella della pena; il sapere che la pena è inevitabile costituisce il massimo freno al delitto. Per questo Beccaria è contrario ad ogni forma di perdono, essendo esso un segno di disapprovazione che un sovrano dà ad un codice, e fomentando la nociva speranza di impunità. L'autore è contrario al diritto d'asilo, poiché dentro i confini di un paese non deve esservi alcun luogo indipendente dalle leggi. È necessaria una giusta proporzione tra delitti e pene, perché gli ostacoli che allontanano gli uomini dai delitti devono essere maggiori quanto più essi sono contrari al bene pubblico. La responsabilità penale non deve essere commisurata né alla intenzione di chi delinque, perché qualche volta gli uomini con la miglior intenzione fanno il maggior male alla società, né alla gravità del peccato, perché questo riguarda il rapporto tra gli uomini e Dio, mentre il diritto penale riguarda quello tra uomo e uomo. Non si dovrebbe mai confondere la giustizia umana con quella divina; gli uomini non possono punire coloro che offendono Dio, il quale ha riservato a sé solo il diritto di essere legislatore e giudice nel medesimo tempo. La sola giusta misura di un crimine è il danno fatto alla società; per questo la legge deve applicarsi a tutti i cittadini, senza alcun riguardo alla loro posizione all'interno della società stessa. Le pene, quindi, devono essere le medesime per il primo e per l'ultimo cittadino. Quanto ai furti, quelli senza violenza sono di solito commessi da persone misere e disperate, alle quali il diritto di proprietà, terribile e forse non necessario, non ha lasciato che una nuda esistenza. Beccaria inserisce il suicidio tra i delitti; ciò può apparire strano per un umanista, ma egli aveva affermato che se si accetta il principio che l'uomo non ha il diritto di uccidersi, è assurdo pensare che egli abbia dato ad altri il diritto di togliergli la vita; e perciò la posizione di Beccaria circa la pena di morte potrebbe apparire meno solida se si riconoscesse esplicitamente il diritto dell'uomo di uccidersi. Ad ogni modo, una pena in caso di suicidio è inammissibile, perché ricadrebbe o sui parenti innocenti del suicida, e non sarebbe più strettamente personale, o su un corpo freddo ed insensibile. L'autore conclude che è meglio prevenire i delitti che punirli, e che questo deve essere il fine di ogni buona legislazione. Suggerisce vari metodi per prevenire i delitti, oltre a leggi chiare, semplici, conosciute e comprese dal massimo numero dei cittadini. Propone di rendere più numerosa la magistratura, affinché i suoi membri si controllino tra loro. Suggerisce che un mezzo per prevenire i delitti è quello di ricompensare la virtù e di perfezionare l'educazione, ma aggiunge che questo è un argomento troppo vasto e troppo difficile, che eccede i confini che si è prefissato. Conclude la sua opera affermando che "perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev'essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi" (in libro 8 pag. 250.).

143. MAESTRO MARCELLO, "Cesare Beccaria e le origini della riforma penale e Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria", op. cit., pag. 137. L'attività di tanti scrittori era il risultato dell'interesse che l'opinione pubblica dedicava ora ai problemi della legislazione criminale. Le riforme venivano chieste da gruppi sempre più numerosi; i tempi erano dunque maturi, e le riforme non tardarono a venire, l'una dopo l'altra, in tutte le nazioni. Sarebbe ingiusto attribuire tutto il merito di questo movimento al solo Beccaria; certo è che il suo libro aveva avuto più influenza di ogni altro, e aveva dato al movimento di riforma quel senso di urgenza che nel frattempo si era fatto strada. Le prime riforme importanti ebbero luogo in Prussia, come esamineremo in seguito. In Russia Caterina II introdusse alcune importanti novità, fra cui la più notevole fu l'abolizione della tortura. Della Toscana parleremo tra breve. In Francia la tortura preparatoria venne abolita nel 1780, ma solo alla vigilia della Rivoluzione vennero effettuate altre modifiche, tra cui l'abolizione della tortura preliminare e l'aumento da due a tre della maggioranza dei voti necessari per confermare una pena di morte. Nell'Impero austriaco Maria Teresa abolì la tortura nel 1776. Il suo successore, Giuseppe II, nel 1787 promulgò un nuovo codice penale che, pur mantenendo la berlina e le pene corporali, adottò molte idee nuove, e limitò la pena di morte ai soli colpevoli di rivolta contro lo Stato. Nell'America del Nord Beccaria divenne popolare molto rapidamente; fu la Pennsylvania a mostrare agli altri stati il cammino verso una più illuminata legislazione. Nel 1786 essa conservava la pena di morte per soli 4 delitti: assassinio, violenza carnale, incendio doloso e tradimento. Per tutti gli altri delitti era proscritta la pena del lavori forzati in pubblico, che però dette risultati negativi. Nel 1790 i lavori forzati pubblici furono abrogati, e sostituiti da lavori forzati all'interno dei penitenziari.

144. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 74.

145. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 76-77.

146. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 119.

147. Ibidem, pag. 120.

148. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 120.

149. Ibidem, pag. 120.

150. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.145.

151. Ibidem, pag. 147.

152. Si trattava di un distacco significativo dal periodo immediatamente post-feudale, quando il sistema aveva favorito ogni sorta di sospensione ed amnistia giudiziaria sulla base del privilegio ecclesiastico e del servizio militare, o altre forme di sconto della pena. Molte di queste consuetudini di magnanimità della giustizia erano state abbandonate nel Seicento, e l'insistenza di Beccaria sulla piena responsabilità personale del criminale rifletteva questo cambiamento.

153. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 121.

154. Ibidem, pag. 117.

155. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 118.

156. Ibidem, pag. 121.

157. Questo era il ragionamento che stava alla base della critica della tortura fatta da Montesquieu; il suo uso non rendeva più efficiente il sistema, né rendeva la vittima più disposta a condurre un'esistenza rispettabile; in realtà, quei metodi contribuivano solo a rendere più difficile un'amministrazione razionale della legge.

158. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 118.

159. Ibidem, pag. 121.

160. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 138.

161. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 122. In Francia, quasi ogni tipo di furto era punibile con la morte, a prescindere dal valore degli oggetti rubati. In Inghilterra la pena capitale venne estesa a quasi tutti i tipi di crimine, in particolare i reati associati al furto di proprietà e beni personali. Nel 1689 erano circa 50 i delitti punibili con la morte, e alla fine del XVIIIº secolo erano diventati più di 200. Alla fine del secolo, la proprietà inglese era protetta dal sistema più esauriente di leggi che prevedevano la condanna a morte che fosse mai stato articolato. I membri del parlamento si preoccupavano soprattutto di proteggere la proprietà ed i diritti delle classi possidenti; erano persuasi che il diritto penale fosse uno strumento con cui tradurre efficacemente in pratica le loro convinzioni. Infine, sapevano che molte sentenze di morte non venivano poi eseguite nella realtà.

162. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 124.

163. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 14-15.

164. Ibidem, pag. 15.

165. Ibidem, pag. 15.

166. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 124.

167. Ibidem, pag. 125.

168. Ibidem, pag. 125.

169. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 46.

170. Locke, al fine di conoscere l'origine del diritto di punire, indaga in quale condizioni si trovino gli uomini per natura. E dopo aver stabilito che questa condizione è quella della perfetta libertà ed uguaglianza, regolata dalla legge della ragione, che vieta agli uomini di nuocersi a vicenda, osserva che, per i casi in cui tale legge fosse violata, la stessa natura provvede ogni individuo del diritto di punire l'autore della violazione. Nello stato di natura, ciascuno possiede un potere sui suoi simili, potere non assoluto né arbitrario, bensì guidato dalla ragione; quindi si individuano due specie di diritti di fronte al violatore della legge: quello di esigere la riparazione del male sofferto e quello di reprimere il delitto e impedire che se ne commettano altri. Il secondo dei quali, con la formazione del potere civile, passa al magistrato e costituisce il diritto di punire vero e proprio. Tutti gli uomini si trovano sempre e naturalmente in tale stato di natura. Essi sono però liberi di rinunciarvi mediante reciproci patti e facendosi membri di una comunità politica; la quale, per conseguenza, deve considerarsi un prodotto della libera volontà. La pena non può avere altri scopi che di impedire al colpevole, mediante il pentimento ed il timore, di ricadere nel delitto, e di dissuadere gli altri, mediante l'esempio, dall'imitarlo. La stessa misura della pena non può essere stabilita che tenendo presenti tali scopi.

171. Il patto è una sorta di territorio neutrale, all'interno del quale i rapporti primordiali tra gli uomini divengono legami politici istituzionalizzati. Il diritto non è che la ribellione sedata, il bellum omnium contra omnia vinto da una tregua sociale definitiva. Morale, regole di comportamento, leggi, convenzioni non potranno derivare che da tale fondamento.

172. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 98.

173. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 111.

174. Ibidem, pag. 111. Non solo il delitto diviene un fatto da stabilire secondo norme comuni, ma il criminale diviene un individuo da conoscere secondo criteri specifici. Tuttavia l'oggettivazione del criminale è ancora solo virtuale; l'altra oggettivazione ha invece effetti assai più rapidi e decisivi, nella misura in cui è più direttamente legata alla riorganizzazione del potere di punire: codificazione, definizione dei delitti, taratura delle pene, regole di procedura, definizione del ruolo dei giudici. Si tratteggia un percorso che porta alla sottomissione del corpo per mezzo del controllo delle idee, si delinea una teoria di poteri sottili, efficaci ed economici, in opposizione alle dispendiose prodigalità del potere dei sovrani. In base agli scritti di alcuni pensatori della seconda metà del secolo, affiora la concezione che le idee di delitto e di castigo siano collegate fortemente e si leghino senza intervallo; un despota può costringere gli schiavi con catene di ferro, ma un vero politico li lega maggiormente con la catena delle proprie idee.

175. Ibidem, pag. 98-99.

176. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 100.

177. Ibidem, pag. 100.

178. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 139. Hobbes affermava che, se ogni delitto è una colpa, tuttavia non ogni colpa è un delitto.

179. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 55.

180. Rousseau aveva ritenuto, analogamente a quanto abbiamo in parte già visto, che il diritto di punire derivava allo Stato dal reciproco consenso con cui gli uomini, nella prima associazione, si erano assoggettati a essere sanzionati in caso di reato. Muovendo da tale postulato, Beccaria avrebbe sostenuto che la potestà punitiva derivava dall'aggregato delle parti di libertà di ciascuno (le minime possibili, necessarie alla comune difesa) trasfuse nel pubblico deposito della società. Filangieri avrebbe sostenuto che lo ius puniendi scaturiva dalla cessione, fatta dagli uomini alla società, del diritto, che loro competeva nello stato di naturale indipendenza, di difendersi da una ingiusta aggressione offendendo colui dal quale fosse partita; e Locke, come abbiamo visto, lo avrebbe descritto come una emanazione di quello che nello stato di natura competeva a chiunque si fosse serbato innocente, di vegliare alla stretta osservanza delle leggi naturali, punendo colui che avesse osato trasgredirle.

181. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 55.

182. Ibidem, pag. 56.

183. Tale innovazione costituisce una potente reazione contro una concezione teocratica della legislazione criminale, la quale unificava i due concetti di peccato e delitto, e concepiva la pena come espiazione morale e religiosa.

184. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 141.

185. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 56. In realtà, nessun pensatore Illuminista si schierò apertamente, in linea di principio, contro la pena di morte. Lo stesso Beccaria assunse posizioni contrastanti e buona parte delle sue argomentazioni contro il supplizio capitale e in favore della sostituzione di esso con l'ergastolo o con i lavori forzati a vita, hanno il sapore di considerazioni di mero carattere utilitaristico, dettate dalla ritenuta maggior capacità intimidativa e general preventiva di questi ultimi due tipi di sanzione.

186. MAESTRO MARCELLO, "Cesare Beccaria e le origini della riforma penale e Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria", op. cit., pag. 206. A prima vista, una tale affermazione sembrerebbe stridere con l'esigenza di umanizzazione delle pene; infatti, gli scopi indicati da Beccaria esigerebbero, in linea generale, un aumento della severità delle sanzioni. In particolare, il fine di prevenzione generale porta con se il rischio di trattare il colpevole come un oggetto, uno strumento per raggiungere lo scopo. Ma la novità del pensiero Illuminista risiede proprio nel volere stabilire un diretto rapporto tra scopo preventivo della pena ed esigenza di mitigare le sanzioni e di proporzionarle con i reati. Beccaria era convinto che l'uomo rimane barbaro se infligge pene crudeli, che si degrada quando fa il delatore, che si abitua allo spargimento di sangue quando è esposto a spettacoli sanguinosi. La sua dottrina aveva una base morale piuttosto che giuridica, dato che tutti i suoi princìpi erano subordinati ad un'unica, più alta aspirazione: il progresso morale del genere umano.

187. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 57-58.

188. Ibidem, pag. 58.

189. Troppi istituti giuridici e troppe prassi giudiziarie rimasero lontani dai postulati del movimento; basti pensare al mantenimento della pena capitale e del carcere perpetuo in quasi tutte le legislazioni, alle prigioni disumane, alle varie violazioni della dignità e dei diritti dell'individuo nel corso del processo o durante l'esecuzione delle pene.

190. SABATINI GUGLIELMO, "Teoria delle prove nel diritto giudiziario penale", op. cit., pag. 10.

191. Ibidem, pag. 10.

192. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.140.

193. In questo lavoro lo scrittore francese discusse i problemi delle leggi penali dal punto di vista di una saggia filosofia. Oltre a protestare contro l'uso della tortura, Montesquieu affermava la necessità di leggi chiare e precise, metteva in dubbio l'utilità di pene eccessivamente severe, sosteneva il principio di una giusta proporzione fra delitti e pene, riteneva che per offese alla religione si dovessero applicare soltanto pene religiose. Inoltre richiedeva che, ovunque fosse possibile, le pene fossero della stessa natura dei delitti. Suggeriva infine l'indipendenza del potere giudiziario dall'esecutivo, la collegialità del giudice, l'istituzione del pubblico ministero, la fine dell'inutile eccessività delle pene e la giusta armonia di queste coi delitti, sottolineando l'assurdità della tortura.

194. Voltaire cominciò ad interessarsi dei problemi della giustizia in seguito alle tragiche conseguenze di un errore giudiziario. Nel 1762 un certo Jean Calas di Tolosa, essendo stato trovato colpevole di avere ucciso suo figlio, fu condannato e fatto morire sulla ruota. Sospettando un'ingiustizia, Voltaire intraprese una indagine personale, e scoprì che il padre non era colpevole; fece quindi eseguire un riesame del processo, che portò all'annullamento della condanna ed alla dichiarazione dell'innocenza del condannato; il quale però era già stato ucciso. In questo modo il filosofo francese assestò un duro colpo al sistema legale e penale, mostrando quanto pericolosa fosse la procedura segreta e come incoraggiasse decisioni arbitrarie ed errori giudiziari. Aveva inoltre proclamato che la legislazione penale non era dominio esclusivo di uomini politici e giuristi, ma interessava tutta l'umanità.

195. Egli fu un altro tra i primi esponenti del movimento di riforma; essendo un monarca assoluto, poté mettere in pratica le sue idee e sperimentarne l'applicazione. Nel 1740 abolì la tortura, alcuni anni dopo abolì la pena di morte per i colpevoli di furto, e nel 1747 mise fine alle violenze sui cadaveri dei suicidi. Seguirono poi altre riforme, tutte dirette a proporzionare le pene a i delitti commessi. Più tardi si accinse a compilare un intero nuovo codice penale, ma morì prima di poter concludere il lavoro, che comunque fu portato a termine e promulgato dal suo successore.

196. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica", op. cit., pag. 46. Non tutte le sue idee, come abbiamo potuto constatare, erano dunque nuove, ma il grande successo del libro era dovuto al fatto che per la prima volta i princìpi di una riforma penale erano espressi in modo sistematico e conciso, e che i diritti dell'umanità venivano difesi nei termini più chiari e con gli argomenti più logici. Era una voce che si levava contro la tirannia, la crudeltà e gli abusi di una assurda legislazione.

197. La sanzione capitale venne reintrodotta a causa delle rivolta popolare che sconvolse il Granducato, nel 1790, quando Pietro Leopoldo era stato chiamato a salire sul trono imperiale d'Austria.

198. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica", op. cit., pag. 47. Sotto la guida di Pietro Leopoldo, dal 1765 al 1790, la Toscana conobbe un periodo di intensa attività riformatrice, di influsso e partecipazione della cultura Illuministica europea e toscana al governo del Granducato. La Legislazione criminale venne da molti considerata come un portato delle teorie di Beccaria e di Howard, del quale parleremo tra breve; in essa si abolivano, appunto, la pena di morte e la tortura, gli strumenti della quale furono pubblicamente bruciati. Inoltre si poneva chiaramente tra gli scopi della pena quello della correzione del reo. Il codice conteneva un lunghissimo elenco di pene alle quali i delinquenti potevano essere condannati: pene pecuniarie, staffilate in privato, esilio, confino, carcere, gogna, frusta pubblica, lavori pubblici. La pena del carcere è ancora 'sommersa' da una lunga serie di altre pene da essa assai differenti per contenuto e per finalità. Tuttavia, la frequenza concreta con cui viene comminata dimostra come essa sia fosse diventata, nei fatti, già abbastanza diffusa.

199. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica", op. cit., pag. 427-48.

200. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica", op. cit., pag. 42.

201. Si verificavano fughe ricorrenti, scoppi di epidemie, ed insurrezioni a bordo delle navi.

202. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 196.

203. Si riteneva che, dopo una rapida vittoria sugli americani, la deportazione avrebbe ripreso vigore; quindi venne fatto ben poco per escogitare forme di pena alternative, ed in particolare nulla fu fatto per migliorare le condizioni delle prigioni.

204. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 90.

205. Ibidem, pag. 91.

206. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 96.

207. Tale 'mito' era alimentato dalla relativamente alta frequenza di grazie regie.

208. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 196.

209. Ibidem, pag. 197. Le condizioni dei deportati furono pessime; essi, infatti, dovevano dipendere dalla madrepatria per tutti i generi alimentari, mentre le imprese appaltatrici preferivano trasportare merce preziosa da vendere ai funzionari ed ai coloni liberi piuttosto che articoli economici forniti dal governo per il consumo di massa. I prigionieri venivano impiegati in lavori pubblici; una volta terminata la giornata lavorativa 'ufficiale', potevano offrirsi come dipendenti presso qualche imprenditore privato.

210. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 201.

211. Ibidem, pag. 202.

212. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 203-204.

213. Ibidem, pag. 204.

214. Molte richieste venivano continuamente rivolte dai carcerati, detenuti anche per i delitti più lievi, che supplicavano di essere deportati. Se qualche volta la deportazione riuscì a trasformare in laborioso e rispettato colono chi era stato rigettato dalla madrepatria, molto più spesso ottenne solamente che coloro che avrebbero dovuto comportarsi correttamente in patria, per la paura della severità di questa pena, coscientemente commettessero reati, perché la deportazione più che spaventarli era vista con favore; ed infatti per molti questa pena altro non fu che un modo di emigrare in Australia a spese dello Stato.

215. I deportati, inoltre, venivano trattati più in funzione della propria capacità lavorativa che non i considerazione del reato commesso. La possibilità di sfruttare la loro forza-lavoro determinò il valore ed il destino dei condannati, in maniera analoga a quanto si era già verificato nella politica criminale durante il mercantilismo.

216. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 101.

217. Ibidem, pag. 102.

218. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 102.

219. Ibidem, pag. 103.

220. Ibidem, pag. 103.

221. Tale aspetto è stato ampiamente illustrato da Beccaria relativamente al castigo che proponeva in sostituzione della pena di morte: la schiavitù perpetua. Pena fisicamente più crudele della morte? Per niente, egli diceva, perché il dolore della schiavitù è per il condannato diviso in altrettante particelle quanti sono gli istanti che gli restano da vivere; pena assai meno severa del castigo capitale che d'un colpo raggiunge il supplizio. In cambio, per coloro che vedono o si rappresentano questi schiavi, le sofferenze da sopportare sono riunite in una sola idea; tutti gli istanti della schiavitù si concentrano in una rappresentazione che diviene allora più spaventevole dell'idea della morte. È la pena economicamente ideale: è minima per colui che la subisce e massima per colui che se la rappresenta.

222. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 103.

223. BIELLI DANIELE, "Il delitto, il processo, la pena", Nuove edizioni romane, Roma, 1995, pag. 14.

224. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 104.

225. Da qui deriverà l'idea che l'apparato di giustizia deve essere affiancato da un organo di sorveglianza, direttamente coordinato, che permetta sia di impedire i delitti, sia, quando vengano commessi, di arrestarne gli autori; polizia e giustizia devono camminare assieme, assicurando la polizia l'azione della società su ogni individuo, la giustizia i diritti degli individui nei confronti della società. Tale idea si svilupperà però solamente in seguito, perché molti pensatori, tra cui lo stesso Beccaria, mantenevano seri dubbi circa l'opportunità di istituire un corpo di polizia.

226. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 105.

227. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 58-59.

228. Ibidem, pag. 59.

229. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 106. Fino alla dimostrazione finale del suo delitto, l'accusato deve essere considerato innocente; per fare una dimostrazione il giudice deve utilizzare non forme rituali, ma strumenti comuni, principalmente la ragione propria di tutti.

230. Ibidem, pag. 107.

231. Ibidem, pag. 107.

232. Ibidem, pag. 107.

233. La codificazione del sistema delitti-castighi e la modulazione della coppia criminale-punizione vanno di pari passo e si richiamano l'un l'altra. L'individualizzazione appare come l'ultimo scopo di un codice esattamente calibrato.

234. Questa divisione deve essere tale che ogni specie di delitto sia ben distinta dall'altra e che ogni delitto particolare, considerato in tutti i suoi rapporti, sia posto tra quello che lo deve precedere e quello che lo deve seguire, e nella più giusta gradazione; bisogna infine che questa tavola sia tale da potere essere avvicinata ad un'altra tavola, quella delle pene, in modo che possano corrispondere esattamente l'una all'altra.

235. Secondo la legislazione francese del 1791, i recidivi erano passibili di un raddoppio della pena.

236. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 110. Man mano che la criminalità diviene, al posto del crimine, l'oggetto dell'intervento penale, l'opposizione tra incensurato e recidivo tenderà a divenire più importante. Vediamo formarsi, nella stessa epoca, la nozione di delitto passionale, crimine involontario, irriflesso, legato a circostanze straordinarie, che promette di non essere un delitto abituale; tali delitti non tradiscono presso i loro autori alcuna cattiveria ragionata.

237. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 61.

238. Ibidem, pag. 61.

239. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 111. "Che la idea del supplizio sia sempre presente nel cuore dell'uomo debole e domini il sentimento che lo spinge al delitto", in MAESTRO MARCELLO, "Cesare Beccaria e le origini della riforma penale e Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria", op. cit., pag. 206.

240. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 113-114.

241. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 114.

242. Trarre il delitto dal castigo è il modo migliore per proporzionare la punizione al crimine, perché così le pene, non derivando più dalla volontà del legislatore, ma dalla natura delle cose, non mostrano più l'uomo fare violenza sull'uomo. Nella punizione analogica, il potere che punisce si nasconde.

243. Ad esempio, coloro che abusano della libertà pubblica, saranno privati della loro; i diritti civili verranno tolti a coloro che hanno abusato della legge; l'ammenda punirà l'usura; la confisca punirà il furto; la morte, l'assassinio; il rogo, l'incendio; colui che è stato fannullone sarà costretto ad un lavoro pubblico.

244. Con il teatro dei castighi, si vuole creare una sorta di ragionevole estetica della pena.

245. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 115. Le pene vanno scelte in ciò che vi è di più deprimente per la passione che ha condotto al crimine commesso. Per esempio, l'efficacia delle pene infamanti è di poggiare sulla vanità che era alla radice del delitto. Non servirebbe a niente imporre dei dolori fisici agli autori di questo tipo di reti. Il sentimento del rispetto il malfattore l'ha perduto quando ha rubato, ucciso, calunniato; bisogna dunque insegnarglielo di nuovo. Il reo dovrà provare lo stesso male che ha provocato, in modo che impari a rispettare, negli altri, gli stessi valori che ha ferito.

246. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 110.

247. Ibidem, pag. 117.

248. Ibidem, pag. 117.

249. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 118.

250. Ibidem, pag. 119.

251. Ibidem, pag. 119.

252. Ibidem, pag. 119.

253. Ibidem, pag. 120.

254. Ibidem, pag. 121.

255. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 121.

256. Ibidem, pag. 123.

257. Ibidem, pag. 124.

258. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 124.

259. Ibidem, pag. 125.

260. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 127.

261. Ibidem, pag. 127.

262. MAESTRO MARCELLO, "Cesare Beccaria e le origini della riforma penale e Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria", op. cit., pag. 206.

263. Ibidem, pag. 207.

264. MAESTRO MARCELLO, "Cesare Beccaria e le origini della riforma penale e Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria", op. cit., pag. 210-211.

265. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 130.

266. Come molti altri Illuministi, Filangieri era d'accordo circa la necessità di conservare l'istituto della pena di morte, sia pure esteso ad un numero assai limitato di reati. Questo perché, se tale pena ha lo scopo di dissuadere altri dal commettere delitti, va tuttavia misurata con gli effetti sulla psicologia collettiva. Le impressioni più forti perdono infatti vigore allorché sono più frequenti. Da qui un rapporto inversamente proporzionale tra intensità e quantità. Si ha così un invito alla moderazione nell'applicazione della pena capitale, affinché essa mantenga la propria efficacia deterrente e non perda, a causa dell'uso troppo frequente, la propria finalità terrorizzante nei confronti delle masse. Inoltre, la pena capitale finiva per omologare reati e situazioni tra di loro diverse, contraddicendo uno dei princìpi fondamentali del pensiero giuridico Illuminista, vale a dire la gradualità delle pene.

267. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 131.

268. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 131.

269. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 29.

270. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 29.

271. L'impiego del tempo era visto come strumento disciplinante. Si cerca anche di assicurare la qualità del tempo impiegato, tramite un controllo ininterrotto, la pressione dei sorveglianti e l'eliminazione di tutto ciò che può distrarre. Si tratta di costituire un tempo integralmente utile; niente deve rimanere ozioso, tutto deve essere chiamato a formare il supporto dell'atto richiesto. Si tratta, inoltre, di estrarre dal tempo sempre più istanti disponibili, e da ogni istante sempre più forze utili. Il che significa intensificare l'uso del minimo istante, come se il tempo, nel suo frazionamento, fosse inestinguibile. La messa in serie di attività successive permette un completo investimento della durata da parte del potere: possibilità di un controllo dettagliato e di un intervento puntuale (di differenziazione, correzione, castigo, eliminazione) in ogni momento del tempo. Il potere si articola direttamente sul tempo: ne assicura il controllo e ne garantisce l'uso.

272. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 317.

273. Ibidem, pag. 317.

274. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 15.

275. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 108-109.

276. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 15. Fondamentale per tutto questo discorso è la comparsa della produzione del concetto moderno di tempo, che separa il 'pressappoco' Medievale dalla 'precisione' borghese.

277. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 87.

278. VEZZOSI ELENA, "Il carcere canonico come negazione del carcere: osservazioni sul testo di Mabillon- Riflessioni sulle prigioni degli ordini religiosi", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", Bologna, 1987, Vol. III, pag. 257.

279. Ibidem, pag. 258.

280. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 134.

281. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 134.

282. Già da alcuni anni, in seguito all'introduzione della schiavitù nera, si era verificata una altissima offerta di manodopera, che aveva alleviato la 'fame di lavoro' delle colonie; il trasporto dei condannati aveva cessato di essere un affare redditizio, poiché gli schiavi neri avevano un valore più elevato dei criminali, il cui lavoro era disponibile solo per un periodo determinato di tempo.

283. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 134.

284. Ibidem, pag. 135.

285. GALLO ERMANNO e RUGGIERO VINCENZO, "Il carcere in Europa- trattamento e risocializzazione, recupero e annientamento, modelli pedagogici e architettonici nella 'galera europea'", op. cit., pag. 304.

286. Ibidem, pag. 305.

287. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 139.

288. Ibidem, pag. 140.

289. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 141.

290. Ibidem, pag. 141.

291. Ibidem, pag. 142.

292. A livello più elevato, la forma della prigione si costituisce anche all'esterno dell'apparato giudiziario, quando si producono, attraverso tutto il corpo sociale, le procedure per ripartire gli individui, fissarli e distribuirli spazialmente, classificarli, codificare il loro comportamento di continuo, conservarli in una visibilità senza lacune, formare attorno ad essi tutto un apparato di osservazione, di registrazione e di notazioni, costituire su di essi un sapere che si accumula e si centralizza. Il carcere rappresenta così la realizzazione più completa del principio di disciplina che percorre tutta la società borghese, società che, se punisce in modo più umano di quelle precedenti, raggiunge nelle sue punizioni una pervasività psicologica ed un dominio sul criminale ignoti ai secoli passati.

293. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 149.

294. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 150. La disciplina richiede alcune procedure necessarie al suo funzionamento. Innanzitutto la ripartizione degli individui nello spazio; il modello del convento, l'internamento e l'isolamento, si impone con forza. Poi la localizzazione degli individui: ad ogni individuo, il suo posto, ed in ogni posto il suo individuo, per scomporre le strutture collettive, per sapere dove e come ritrovare gli individui, per potere ogni istante sorvegliare la condotta di ciascuno, sanzionarla, misurarne i meriti ed i demeriti. Nella disciplina ciascuno viene definito del posto che occupa in una serie e per lo scarto che lo separa dagli altri.

295. Ibidem, pag. 143.

296. Ibidem, pag. 143.

297. Ibidem, pag. 143.

298. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 48.

299. Ibidem, pag. 48.

300. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 58.

301. L'autore annotò, per ogni carcere visitato, dimensioni dell'edificio, dieta dei detenuti, costo e qualità del cibo, peso delle catene e qualsiasi altro particolare rilevante.

302. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 49. Tutti i riformatori degli anni Ottanta indicarono nella confusione tra le varie categorie di detenuti uno dei principali ostacoli all'imposizione di una rigorosa disciplina. Finché tutti i debitori non fossero stati spostati in carceri distinte, essi sostenevano, una prigione non poteva divenire un luogo di pena. Essi contestavano inoltre il fatto che si tendesse ad uniformare il trattamento riservato a innocenti e colpevoli.

303. In particolare, le Rasp-Huis di Amsterdam e Rotterdam.

304. L'idea dell'isolamento non era una novità in Inghilterra. Nel 1725, Bernard Mandeville era convinto che la libera associazione di delinquenti incalliti e di coloro che erano alle prime armi trasformasse le prigioni in vere e proprie scuole del crimine, e propose l'isolamento dei detenuti in attesa di processo; in questo modo, oltretutto, si potevano custodire i prigionieri senza tormentarli con le catene prima di avere la certezza che meritassero di essere puniti. Nel 1775 un filantropo londinese, Jonas Hanway, propose la costruzione di una prigione in cui rinchiudere, in rigoroso isolamento, criminali altrimenti destinati alla deportazione o all'esecuzione. Era la prima volta che qualcuno suggeriva l'idea dell'isolamento per criminali già condannati. Da tutte queste fonti Howard ricavò la propria concezione del penitenziario.

305. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 103.

306. Ibidem, pag. 104.

307. Ibidem, pag. 61.

308. Ibidem, pag. 62.

309. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 63.

310. Ibidem, pag. 64-65.

311. Ibidem, pag. 66. In questa ideologia, si riscontra una accentuata tendenza a passare da categorie mediche a categorie morali e sociali. In sintesi, si riteneva che i poveri fossero soggetti alle malattie perché dediti ai vizi. I medici del XVIIIº secolo tracciavano una linea di demarcazione assai meno netta fra il corpo e la mente di quanto avrebbe fatto la medicina del secolo successivo. In base alla dottrina materialistica da essi seguita, la psiche non era meno materiale del corpo; i disturbi del sistema corporeo producevano distorsioni percettibili e ansie mentali, proprio come i disturbi psichici potevano contribuire al collasso delle funzioni fisiche. Ne conseguiva che le malattie fisiche potevano avere cause morali. Ritenendo, quindi, che le malattie nelle istituzioni pubbliche avessero cause morali oltre che fisiche, i riformatori cominciarono a pensare a norme igieniche che avessero anche carattere disciplinare; per insegnare ai poveri a tenersi puliti, era necessario insegnare loro anche ad essere devoti, docili e autodisciplinati. Si credeva che, una volta che i corpi dei poveri fossero stati sottoposti a disciplina, anche le loro menti avrebbero acquisito il gusto per l'ordine.

312. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 68.

313. Questi industriali erano spronati da entusiasmo scientifico e da aspirazioni filantropiche, tanto che finanziarono diverse riforme, dall'abolizione della schiavitù, alla costruzione di ospedali e dispensari, alla diffusione dell'educazione tecnica e al miglioramento delle scuole per poveri. Tuttavia essi sono più noti quali padri del sistema manifatturiero e della gestione scientifica delle fabbriche. Oltre a introdurre la meccanizzazione, una capillare divisione del lavoro e la rotazione sistematica del processo produttivo, essi escogitarono le nuove regole del lavoro industriale: cartellini di presenza, campane, regolamenti e multe. Per ridurre la mobilità e stabilizzare la forza-lavoro nelle prime fabbriche da loro aperte, fondarono scuole, cappelle e case per operai in villaggi modello.

314. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 69.

315. In tal modo, Howard e Bentham, la cui opera analizzeremo tra breve, giungevano entrambi a negare l'incorreggibilità, anche se da posizioni diametralmente opposte, poiché il primo accettava l'idea di peccato originale, l'altro la negava, il primo insisteva sull'universalità della colpa, il secondo sull'universalità della ragione. I materialisti credevano che gli uomini potevano essere migliorati con una corretta socializzazione dei loro istinti verso il piacere, Howard credeva che essi potessero cambiare risvegliando in loro la consapevolezza del peccato. Il pensiero di Howard non era espresso nel gergo del meccanicismo, ma in un più antico linguaggio religioso; per lui i criminali non erano macchine difettose, ma anime perdute, allontanatesi da Dio. Tuttavia le conclusioni dei due pensatori si integravano e si sostenevano a vicenda. La psicologia materialista, facendo crollare la distinzione fra mente e corpo, offriva una spiegazione scientifica all'asserzione di Howard secondo cui il comportamento morale degli uomini poteva essere alterato disciplinando il loro corpo. Grazie alla ripetitività e all'abitudine, le regole di disciplina sarebbero divenute doveri morali. La concezione materialistica delle riforme presumeva poi che tale programmazione dovesse essere favorita dalla rieducazione morale della mente attuata in modo sistematico. L'attrazione che esercitavano le 'istituzioni totali' stava nel fatto che consentivano di attuare un controllo completo sulle associazioni di idee dei criminali. La specie umana era vista come una macchina da manovrare e migliorare.

316. Il governo temeva che i miglioramenti nella dieta, nell'igiene e negli abiti dei detenuti potessero togliere potere terrificante alla pena detentiva, inducendo le classi povere a preferire il carcere alle proprie case. Inoltre non si voleva rinunciare all'esilio per i criminali incalliti adottando un sistema di detenzione che implicava un possibile ritorno dei delinquenti in seno alla società. L'efficacia deterrente della detenzione era ancora tutta da dimostrare.

317. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 49.

318. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 106.

319. Ibidem, pag. 112.

320. Abbiamo visto come in precedenza i detenuti dipendessero dal cibo portato loro da amici e parenti, cui le autorità erano quindi costrette a concedere libero accesso ai cortili delle prigioni.

321. L'enorme incremento delle detenzioni costrinse però presto ad abbandonare la pratica di una rigorosa solitudine.

322. Ciò spinse le autorità a impiegare come guardiani sottoufficiali ed ufficiali a mezza paga, ritenendo che la disciplina venisse meglio esercitata da chi ne aveva fatta la propria ragione di vita. I custodi dovevano mantenere una maschera di glaciale distacco nei propri rapporti con i detenuti: la loro stessa freddezza li avrebbe trattenuti dall'essere crudeli o corrotti. Molte difficoltà furono incontrate nel trovare uomini in grado di imporre la nuova disciplina. In pratica avveniva spesso che il personale delle vecchie prigioni venisse semplicemente trasferito nelle nuove istituzioni, dove non riusciva ad adattarsi alla nuova disciplina o cercava attivamente di sabotarne l'applicazione.

323. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 116.

324. Ibidem, pag. 116.

325. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 120.

326. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 50.

327. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 50.

328. Ad esempio, la rasatura della testa risponde ai seguenti obiettivi: in primo luogo, ripulisce la parte più sporca di una persona ed evita quindi il diffondersi di parassiti; in secondo luogo, trasforma l'apparenza abituale di una persona e serve a impedire che i prigionieri siano riconosciuti al loro ritorno in società da coloro che li vedono camminare nei cortili; infine, essendo una mortificazione per il delinquente, la rasatura diviene una punizione diretta alla mente, ed è una alternativa accettabile alle pene corporali.

329. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 50.

330. Egli applicò il principio dell'utile a tutti i rami della legislazione. Il termine utilità esprime la proprietà di una cosa a preservare da qualche male o a procurare qualche piacere. L'esatta commisurazione dei piaceri e dei dolori deve dunque servire come base per determinare il grado di utilità delle leggi. Non c'è che da confrontare il male del delitto con quello della sanzione penale, e si troverà che il secondo male è meno grave, e quindi preferibile al primo. Il fondamento del diritto di punire è tutto qui, nella maggiore utilità della pena rispetto al delitto. Si deve chiamare delitto ogni atto che debba essere proibito in vista di qualche male che da esso possa sorgere. La responsabilità penale trova così la sua giustificazione nel danno effettivo o virtuale derivante dal delitto. Onde i delitti appaiono come malattie, e le pene come rimedi. Inoltre, il male della pena deve essere non accidentale, ma voluto, e deve intervenire dopo un atto che ne costituisca il motivo. Scopo della pena è quindi la prevenzione, che si distingue in 'particolare', se si riferisce alla persona del delinquente e tende a eliminare il danno che da lui può derivare, e 'generale', se si riferisce a terzi, che possono avere gli stessi motivi per compiere lo stesso delitto. La prevenzione generale è lo scopo principale della pena e insieme la sua ragione giustificativa. Quella particolare contiene tre fini: rendere il reo incapace di nuocere nuovamente, emendarlo ed intimidirlo. Le qualità che dovrebbero esigersi dalle pene sono: la divisibilità, la certezza, l'uguaglianza, la commensurabilità, l'analogia col delitto, l'esemplarità, l'economia, la remissibilità, l'efficacia contro il delitto, l'efficacia in rapporto all'emenda, la convertibilità in profitto, la semplicità e la popolarità.

331. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 68.

332. Ibidem, pag. 69.

333. Segno evidente di tale incongruenza tra mezzi e obiettivi è il fatto che il progetto di Bentham non verrà mai compiutamente applicato in pratica.

334. Il funzionamento del Panopticon consiste in un puro sistema architettonico ed ottico; è una figura di tecnologia politica che può e deve distaccarsi da ogni uso specifico. È un tipo di inserimento dei corpi nello spazio, di distribuzione degli individui gli uni in rapporto agli altri, di organizzazione gerarchica, di disposizione dei centri e dei canali di potere, di definizione dei suoi strumenti e dei suoi modi d'intervento, che si possono mettere in opera in ospedali, fabbriche, scuole, prigioni. Ogni volta che si ha a che fare con una molteplicità di individui cui si deve imporre un compito o una condotta, lo schema panoptico potrà essere utilizzato.

335. Attraverso tali tecniche della sorveglianza multipla, incrociata e continua, comincerà a formarsi un nuovo sapere sull'uomo, associato a tecniche per assoggettarlo e procedimenti per utilizzarlo. L'architettura non è più fatta semplicemente per essere vista (fasto dei palazzi) o per sorvegliare lo spazio esterno (geometria delle fortezze), ma per permettere un controllo interno, articolato, dettagliato, per rendere visibili i soggetti internati. Al vecchio, semplice schema del chiudere e del rinchiudere, comincia a sostituirsi il calcolo delle aperture, dei pieni e dei vuoti, dei passaggi e delle trasparenze. L'apparato disciplinare perfetto avrebbe permesso, con un solo sguardo, di vedere tutto, in permanenza. Un punto centrale sarebbe stato insieme fonte di luce rischiarante ogni cosa e punto di convergenza per tutto ciò che deve essere saputo. Ciò permette al potere disciplinante di essere, allo stesso tempo, assolutamente indiscreto - perché è dappertutto, è sempre all'erta, non lascia alcuna zona d'ombra e controlla senza posa quegli stessi che sono incaricati di controllare - e assolutamente 'discreto'- perché funziona costantemente e costantemente in silenzio. Tradizionalmente il potere è ciò che si vede, ciò che mostra, ciò che si manifesta. Coloro sui quali si esercita possono rimanere nell'ombra. Il potere disciplinare si esercita, invece, rendendosi invisibile; e al contempo impone a coloro che sottomette un principio di visibilità obbligatoria. Nella disciplina sono i soggetti a dover essere visti. È il fatto di essere visto incessantemente che mantiene in soggezione l'individuo disciplinare. La visibilità quasi insostenibile del monarca si tramuta in visibilità inevitabile dei soggetti. L'individuo diviene un oggetto descrivibile, analizzabile e comparabile con altri individui e con il gruppo cui appartiene. L'esame è la tecnica con cui il potere capta i soggetti in un meccanismo di oggettivazione; e le procedure d'esame sono accompagnate da un rigoroso sistema di registrazione e dal cumulo documentario. Nel passato, essere guardato, osservato, descritto in dettaglio era un privilegio; la cronaca di un uomo, il racconto della sua vita facevano parte dei rituali della sua potenza. Ora, i procedimenti disciplinari invertono questo rapporto, e fanno di questa descrizione un mezzo di controllo ed un metodo di dominazione. Non più un monumento per una futura memoria, ma un documento per una eventuale utilizzazione. Le discipline funzionano, e funzioneranno sempre più, come tecniche per fabbricare individui utili. L'esame è al centro di procedure che costituiscono l'individuo come effetto e oggetto di potere, come effetto e oggetto di sapere. Assieme alla sorveglianza, la normalizzazione diviene uno dei grandi strumenti di potere: da un lato costringe all'omogeneità, dall'altro individualizza permettendo di misurare gli scarti. Si tratta di creare un potere che oggettivizza coloro sui quali si esercita, che forma un sapere su di essi, anziché dispiegare i segni fastosi ed ormai anacronistici della sovranità. La prigione, con tutta la tecnologia correttiva che l'accompagna, deve essere collocata in questo momento storico, in cui avviene la torsione del potere codificato di punire in potere disciplinare di sorvegliare; nel punto in cui i castighi universali delle leggi finiscono per applicarsi, selettivamente, sempre, se non agli stessi individui, quantomeno alle categorie sociali cui essi appartengono; nel punto in cui la riqualificazione del soggetto di diritto per mezzo della pena diviene addestramento utile del criminale. La forma generale di un apparato per rendere gli individui docili e utili con un lavoro preciso sul loro corpo, ha disegnato l'istituzione-prigione prima ancora che la legge la definisse come la pena per eccellenza. La privazione della libertà diviene necessariamente 'la' pena, in una società in cui la libertà è un bene che appartiene a tutti nello stesso modo. La sua perdita ha dunque lo stesso prezzo per tutti; inoltre permette di quantificare esattamente la pena secondo la variabile del tempo. Prelevando il tempo del condannato, la prigione sembra tradurre concretamente l'idea che l'infrazione ha leso, oltre alla vittima, l'intera società. Evidenza economico-morale di una penalità che monetizza i castighi in giorni, mesi, anni, e che stabilisce equivalenze quantitative delitti-durata. Ma la prigione ha anche un ruolo di apparato per la trasformazione degli individui, riproducendo, sebbene in maniera accentuata, tutti i meccanismi che si trovano all'interno del corpo sociale. L'antichità era stata una civiltà di spettacolo, che voleva rendere accessibile ad una moltitudine di uomini l'ispezione di un piccolo numero di oggetti; a ciò servivano i templi, i teatri, i circhi. In questi rituali, dove si versava sangue, la società ritrovava vigore e formava un grande corpo unico. L'età moderna pone il problema inverso: procurare a pochi la vista istantanea di una grande moltitudine. Non siamo più nella società dello spettacolo, ma in quella della sorveglianza. Gli elementi principali non sono più la comunità e la vita pubblica, ma gli individui privati da una parte e lo Stato dall'altra.

336. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 51.

337. Il concetto di pena elaborato da Bentham è bene illustrato dalla sua riflessione sull'ingiustizia della fustigazione. Egli riteneva che la severità di tale pena dipendesse da fattori empirici estranei al diritto: la forza del fustigatore, l'indignazione che il delinquente suscitava tra la folla, circostanze che avrebbero influenzato le modalità e gli effetti della punizione. Per Bentham il grado di severità della pena doveva dipendere solo dalla gravità dell'offesa, e non dagli umori di chi la infliggeva o di chi vi assisteva. Ideò quindi una macchina per la fustigazione, in grado di percuotere ogni delinquente con la stessa invariabile forza per ciascuno dei colpi comminatigli. A suo parere, le punizioni non dovevano essere inflitte da un sovrano irato, ma dovevano essere proporzionate a ciascun delitto esattamente come i prezzi dei prodotti stabiliti dal mercato. La punizione doveva divenire una scienza esatta.

338. Il modello architettonico era assai simile alla fabbrica che suo fratello aveva realizzato in Russia per la Zarina Caterina la Grande. Criterio ispiratore della struttura era quello di realizzare un meccanismo di costante controllo da parte dell'autorità, idoneo a tenere i prigionieri-operai e le stesse guardie sotto la sorveglianza continua di un ispettore. Vi sono tante gabbie, che corrispondono ad altrettanti piccoli teatri, in cui ogni soggetto internato è solo, perfettamente individualizzato e costantemente visibile. Il principio della segreta viene rovesciato; o piuttosto, delle sue tre funzioni - rinchiudere, privare della luce, nascondere - non si mantiene che la prima. La visibilità diviene una trappola.

339. Ciascuno, al suo posto, rinchiuso in cella, è visto di faccia dal sorvegliante, mentre i muri laterali gli impediscono di entrare in contatto coi compagni. È visto ma non vede, è oggetto di informazione, mai soggetto di comunicazione. L'effetto principale del Panopticon è indurre nel detenuto uno stato cosciente di visibilità che assicura il funzionamento automatico del potere; fa sì che la sorveglianza sia permanente nei suoi effetti, anche se è discontinua nella sua azione, e che la perfezione del potere renda inutile la continuità del suo esercizio. I detenuti sono presi in una situazione di potere di cui sono essi stessi portatori, poiché colui che è sottoposto, coscientemente, ad un campo di visibilità, prende a proprio conto le costrizioni impostegli. L'essenziale è che il prigioniero sappia di essere osservato; non c'è bisogno che effettivamente lo sia. Secondo lo stesso Bentham, il potere doveva essere visibile ed inverificabile. Visibile perché di continuo il detenuto ha davanti agli occhi la sagoma della torre centrale da dove è spiato. Inverificabile perché il detenuto non deve mai sapere se è guardato; ma deve essere sicuro che può esserlo continuamente. Poco importa chi esercita il potere. Un individuo qualunque, quasi scelto a caso, può far funzionare la macchina.

340. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 52.

341. Ibidem, pag. 52.

342. Ibidem, pag. 53. Riconoscere la necessità di un tale tipo di controllo, equivaleva ad ammettere che gli scrupoli morali necessitavano di essere rafforzati dall'interesse economico.

343. Ibidem, pag. 53.

344. Il rigetto del Panopticon costituì un momento fondamentale nella storia della prigione. Infatti, respingendo l'idea di gestire le carceri come se fossero fabbriche, le classi dirigenti avevano rifiutato anche l'idea di modellare il rapporto di autorità tra stato e prigioniero sulla base di quello esistente tra imprenditore ed operaio. Ciò significava anche respingere l'uso di incentivi di mercato e di penalizzazioni per regolare i rapporti fra personale di custodia e detenuti. In luogo della concezione di Bentham di un'autorità regolata da incentivi economici, si impose un formalismo burocratico che considerava ispezioni e regolamenti come strumenti con cui proteggere i detenuti contro le crudeltà e garantire il rigore delle punizioni. Per gli oppositori del sistema d'appalto, la pena era una funzione sociale troppo delicata per essere abbandonata a imprenditori privati. Se si voleva che il potere statale conservasse la propria legittimità era essenziale che restasse incontaminato dalla macchina del commercio.

345. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 53.

346. Rousseau, delineando i princìpi dell'educazione naturale, afferma che prima dell'età della ragione non si è in grado di avere alcuna idea di esseri morali né di relazioni sociali. Se i bambini intendessero ragione, non avrebbero bisogno di essere educati.

347. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 107.

348. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 78-79.

349. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 79. Il senso del dovere, aveva a più riprese fatto notare Locke, non era scolpito nel cuore umano, era un obbligo appreso attraverso le ricompense e le punizioni che un fanciullo riceve dalle mani dell'autorità.

350. Ibidem, pag. 79.

351. Ibidem, pag. 80.

352. Ibidem, pag. 80.

353. Le reazioni contro la fustigazione e la marchiatura furono moltissime, in quanto tali forme di punizione non avevano altro scopo che quello di segnare con infamia indelebile coloro che vi erano sottoposti. Le persone che portavano tali stigmate venivano ignorate dai datori di lavoro, evitate dalla gente rispettabile e quindi inesorabilmente ricondotte sulla via del crimine. Invece di agire come deterrente, queste punizioni indurivano i delinquenti e li riconfermavano nell'infamia; inoltre davano della legge un'immagine così dura da compromettere la sua autorevolezza agli occhi dei poveri.

354. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 81.

355. Ibidem, pag. 83.

356. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 83.

357. Ibidem, pag.85. Secondo Howard, i regolamenti avrebbero dovuto riguardare tanto il personale di custodia quanto i prigionieri. Metà delle regole da lui proposte erano dirette a impedire traffici, abusi verbali, estorsioni di denaro o atti di crudeltà fisica da parte delle guardie. Egli fissava inoltre una serie di compiti per i custodi che comprendevano giri d'ispezione, appelli, controllo dei letti e ronde notturne. Le guardie dovevano sottostare a una disciplina regolare e formale non meno dei detenuti.

358. In maniera analoga, i regolamenti applicati ai prigionieri prescrivevano una serie minuziosa di privazioni intese ad uniformare la giornata nel carcere, ad aggiungere il peso della monotonia ai terrori della solitudine e soprattutto a ridurre al silenzio la subcultura carceraria, che, non meno della discrezionalità lasciata ai carcerieri, aveva frustrato in passato ogni tentativo di infliggere pene giuste ed uniformi. I regolamenti avevano lo scopo di sottrarre la prigione al controllo sia dei detenuti che dei carcerieri. Abolendo la divisione dei poteri non scritta, consuetudinaria e corrotta fra detenuti e carcerieri, i riformatori proponevano di sottoporre entrambi i gruppi alla disciplina di un regolamento ufficiale fatto rispettare dall'esterno. Le ispezioni dovevano costituire uno dei fondamenti della nuova autorità.

359. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 86-87. L'isolamento, allo stesso modo, conciliava terrore e umanità. I riformatori non dubitavano che fosse uno strumento di sofferenza; la solitudine era la pena più terribile, dopo la morte, che una società potesse infliggere. Era però la più umana, in quanto nessuna mano rozza e brutale toccava il prigioniero. Lo stato, in un certo senso, strappava le catene e si ritirava, lasciando i prigionieri soli con la propria coscienza. Nel silenzio delle loro celle, sorvegliati da una autorità troppo sistematica perché le si potesse sfuggire, troppo razionale perché le si potesse resistere, i detenuti si sarebbero arresi sotto la sferza del rimorso.

360. Ovunque il demone del guadagno aveva tradito le promesse riformatrici della fabbrica; senza regolamentazione pubblica, le officine erano divenute distruttive dei principi morali e religiosi della grande masse della popolazione.

361. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 128-129.

362. Tale posizione è contrapposta a quella di Bentham, secondo il quale lo Stato avrebbe dovuto gestire un'intera rete di Panopticon in cui rinchiudere e rieducare gli appartenenti a qualsiasi categoria sociale dipendente, compresi i malati di mente, i poveri, i criminali ed i bambini. A metà degli anni novanta, tuttavia, la corrente di pensiero dominante stava andando contro le teorie di Bentham. Molti riformatori, infatti, non condividevano la visione dell'ideatore del Panopticon di uno stato di disciplina che sacrificava la libertà alla sicurezza.

363. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 133.

364. RUSCHE GEORG, "Il mercato del lavoro e l'esecuzione della pena. Riflessioni per una sociologia della giustizia penale", in "DEI DELITTI E DELLE PENE", op. cit., pag. 531.

365. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.170.

366. Ibidem, pag. 171.

367. Ibidem, pag. 172.

368. RUSCHE GEORG, "Il mercato del lavoro e l'esecuzione della pena. Riflessioni per una sociologia della giustizia penale", in "DEI DELITTI E DELLE PENE", op. cit., pag. 531.

369. Ibidem, pag. 532. L'introduzione della segregazione cellulare fu solo una riforma apparente. Anch'essa venne a costituire una misura punitiva in grado di atterrire uomini che soffrivano la fame e che non sapevano come riuscire a sopravvivere se non infrangendo la legge. L'isolamento nella solitudine più assoluta comportava, infatti, una sensazione di totale dipendenza e di abbandono, aggravata dalla mancanza di alcuno stimolo o distrazione.

370. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.172.

371. L'intensificarsi del sistema punitivo non riuscì tuttavia ad intaccare le conquiste essenziali dell'Illuminismo; si introdusse una più reale separazione tra concezioni etiche e concezioni giuridiche di quanto non fosse stata in grado di fare la legge penale del XVIIIº secolo.

372. La trasgressione della legge è sufficiente a far meritare la pena: non occorre altro. Nessuna condizione soggettiva dell'imputato merita attenzione nella determinazione della pena.

373. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.176.

374. L'imperativo categorico è un comando che discende direttamente dalla legge, e impone una determinata condotta. Di fronte ad esso si possono verificare soltanto due casi: o la legge è osservata, oppure è violata. Nel casi in cui sia osservata, si ha la moralità se l'osservanza avviene per il sentimento del dovere, mentre si ha la legalità se l'osservanza avviene per un altro motivo. Nel caso in cui la legge sia violata, si ha la trasgressione, e, come conseguenza indeclinabile di questa, la punizione. La punizione trova la propria giustificazione soltanto in se stessa, come giusta e necessaria retribuzione per il male fatto. La vera ragione dell'applicazione delle pene è dunque il delitto commesso. La pena deriva immediatamente dalla trasgressione della legge, e può essere definita come l'effetto giuridico della colpa. Si adotta il principio dell'eguaglianza o del taglione, per cui il male della pena deve essere uguale al male del delitto. La pena, quando è meritata, pur costituendo un dispiacere per chi la subisce, è nella sua essenza un bene; tale posizione verrà assunta, come vedremo tra breve, anche da Hegel.

375. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 15.

376. Per passare dalla morale al diritto basta passare dalla sfera interna della volontà alla sfera esterna delle azioni. Volere secondo una massima che non si contraddice mai con se stessa equivale ad agire in modo che la propria libertà lasci sussistere la uguale libertà degli altri.

377. Ciò per conservare la giusta proporzione e corrispondenza tra delitto e pena.

378. MAESTRO MARCELLO, "Cesare Beccaria e le origini della riforma penale e Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria", op. cit., pag. 139.

379. Ibidem, pag. 140.

380. CATTANEO MARIO, "Il problema filosofico della pena", op. cit., pag. 16.

381. Secondo il filosofo tedesco, è un giudizio superficiale quello che scorge nella pena un male che serve da rimedio ad un altro male, essendo evidentemente assurdo volere un male semplicemente perché ne esiste un altro. Il medesimo errore, consistente nel dimenticare l'essenziale per concentrarsi sull'accidentale, commettono le teorie dell'intimidazione, della prevenzione e del miglioramento. Per Hegel, il delitto è la violenza con la quale l'essere libero lede l'esistenza della libertà nel suo significato concreto, lede cioè il diritto in quanto tale. Mediante il risarcimento viene annullata la violazione in quanto danno, e mediante la pena viene annullata la violazione in quanto volontà individuale del delinquente. La pena è dunque la lesione della volontà del delinquente, la lesione della lesione del diritto, l'annullamento del delitto e la reintegrazione del diritto. Come tale, essa non può non essere giusta in sé. Ma c'è di più: essa è giusta anche nei confronti del delinquente. Infatti l'azione criminosa pone essa stessa una legge che il delinquente riconosce valida per sé. Quindi il reo deve sentirsi, in quanto essere razionale, onorato della pena; cosa che non potrebbe succedere se la pena, invece che dal delitto, fosse desunta dal danno che ne deriva, ed avesse unicamente lo scopo di migliorare o rendere innocuo il delinquente. La pena è così l'annientamento del delitto; il contenuto della pena è il taglione, che deve essere inteso non come eguaglianza della pena alla natura speciale della violazione, ma come eguaglianza rapportata alla violazione in sé, ossia al valore della violazione. L'uguaglianza fondamentale è quella tra la lesione della volontà del delinquente e la lesione del diritto; uguaglianza intesa come identità interiore delle due lesioni. La pena, nella sua forma, è quindi principalmente vendetta. Non 'semplice' vendetta, cioè atto di pura volontà soggettiva, per cui la vendetta provoca la propria negazione e le vendette si susseguono, così, all'infinito, ma atto di una volontà che vuole l'universale. Di conseguenza la giustizia non può venire che dallo Stato.

382. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.177.

383. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 75.

384. WIESNET EUGEN, "Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita. Sul rapporto tra cristianesimo e pena.", op. cit., pag. 154.

385. Nelle prigioni olandesi il carico di lavoro giornaliero diminuì di circa un terzo rispetto alle origini, e nel tempo che rimaneva i detenuti svolgevano lavoretti di artigianato da vendere ai visitatori; tale impiego 'alternativo' del tempo divenne usuale con la diminuzione del lavoro produttivo delle carceri. In Germania le prigioni per debitori, per la custodia in attesa del processo o della pena capitale, si trovavano in uno stato orrendo: vecchie, non igieniche, spesso con segrete sprofondate nei sotterranei, piene di strumenti di tortura. Anche il vitto era peggiorato, e il piccolo guadagno dei detenuti si era ridotto a poco o niente. Man mano che l'industria si sviluppava e imponeva la nuova dottrina del 'laissez-faire', cominciò ad osteggiare con successo quelle forme di impresa che sopravvivevano al di fuori della legge del libero mercato. In Francia, nei vari stabilimenti dell'Hòpital Gènèral si trovavano migliaia di reclusi di ogni specie: debitori, criminali condannati ed in attesa di giudizio, poveri, prostitute, pazzi, affetti da malattie veneree. Continue erano le rivolte, generoso l'uso della tortura, molte le morti per assideramento, costanti le sopraffazioni ed i soprusi perpetrati da parte dei secondini a danno dei carcerati. Il lavoro era ormai quasi del tutto inesistente.

386. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 80.

387. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.12. Le istituzioni penali, cioè, devono adottare regimi ancora più afflittivi delle condizioni di vita sperimentate quotidianamente dalle classi più svantaggiate, per impedire che, per esse, la criminalità divenga un potenziale strumento di sopravvivenza privo di conseguenze negative. La disciplina, l'alimentazione, il lavoro, l'ambiente e le condizioni generali di vita che contraddistinguono le istituzioni penali sono architettate al solo scopo di garantire che il regime rimanga, nel suo insieme, sufficientemente afflittivo, in modo da non perdere il suo effetto deterrente per le classi sociali più basse.

388. È quindi naturale che l'ultimo dei poveri possa, a ragione, aspettarsi qualcosa in più del criminale mantenuto, a spese della comunità, nelle carceri.

389. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 11.