ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Cap. 3: L'epoca mercantilista

Tommaso Buracchi, 2004

La società prima crea i ladri e poi li punisce perché rubano (1)

1: Le varie fasi del mercantilismo: peculiarità e conseguenze

Abbiamo esaminato nel precedente capitolo i prodromi della fine del mondo feudale e dell'affermarsi di una nuova realtà socio-economica: occupiamocene più approfonditamente. "A partire dalla fine del XVº secolo si assiste alla dissoluzione economica, politica, sociale, ideologica, di costume, del mondo feudale" (2). Lo scioglimento dei seguiti feudali, la dissoluzione dei monasteri, la recinzione di terre per l'allevamento, i mutamenti nei metodi di coltivazione ebbero la loro parte nella grande cacciata dei contadini dalla terre nei secoli XVº e XVIº; "ma, ancor prima di ciò, l'inefficienza stessa del modo di produzione feudale era alla base ... del sempre più pesante carico di lavoro che gravava sulle masse contadine" (3), al quale queste potevano sottrarsi solo attraverso il vagabondaggio per le campagne o la fuga verso le città. "È la stessa asprezza che i rapporti sociali assumono nel modo di produzione feudale a segnare la fine di quest'ultimo, con un acutizzarsi della lotta di classe nelle campagne che trova la sua prima espressione nella fuga da una situazione ormai insostenibile" (4). Nelle campagne, appunto, si assiste ad una crescente criminalizzazione delle attività popolari; vengono resi passibili della pena di morte delitti che erano stati a lungo soggetti a pene minori e vengono penalizzate attività che nel passato non erano considerate criminali. (5) Nel corso di questo periodo si verifica una graduale estensione della nozione di crimine; le nuove leggi riflettono la commercializzazione dell'agricoltura mercantilistica e "il desiderio dei proprietari di ricavare un profitto dal boschivo, da stagni e da incolti sulle proprie terre che erano stati in precedenza ignorati o lasciati al libero uso dei poveri" (6). Tale criminalizzazione delle attività era funzionale alla affermazione del nuovo sistema di credito e di cambio cartaceo introdotto in risposta al sorgere di un mercato nazionale (7). Le città, con lo sviluppo dell'attività economica, si erano trasformate in notevoli poli d'attrazione, e cominciarono a popolarsi di migliaia di questi lavoratori espropriati divenuti ora mendichi, vagabondi, talvolta briganti, in generale masse disoccupate. Si verificò un importante cambiamento "nelle dimensioni e nella composizione delle classi inferiori urbane, il cui numero crebbe in maniera impressionante, in parte a causa degli effetti magnetici dell'industrializzazione urbana e in parte a causa della trasformazione del settore rurale" (8). Lo sviluppo economico aveva favorito una polarizzazione economica e sociale; il divario tra ricchi e poveri si era allargato in termini di tenore di vita, attività economiche e valori sociali. "Per la prima volta, le strade delle città furono considerate pericolose, soprattutto dopo il tramonto. Non era più possibile garantire la sicurezza interna chiudendo le porte della città di sera e lasciando entrare dopo il crepuscolo solo i residenti locali" (9). Non esisteva più la sicurezza del centro urbano Medievale. "Come la mobilità della popolazione nel primo periodo moderno faceva contrasto con l'immobilità del periodo Medievale, così nell'epoca successiva anche il lavoro assunse una natura meno stabile" (10). Una serie costante di espansioni e crisi improvvise compivano devastazioni sociali tra la popolazione lavoratrice. Nel periodo esaminato si assiste ad un netto aumento di tutti i tipi di crimine, dovuto al deterioramento generale del tenore di vita della popolazione. Non era possibile che gli uomini scacciati dalla terra per lo scioglimento dei seguiti feudali fossero totalmente assorbiti dalla manifattura nascente, ancora non in grado di assorbire un così elevato numero di lavoratori; d'altra parte, neppure i contadini cacciati dal loro mondo potevano ritrovarsi con tanta rapidità nella disciplina della nuova situazione. Si trasformarono così, in massa, in mendicanti, briganti, vagabondi. Alla fine del secolo XVº e durante tutto il secolo XVIº si ha, in risposta a questa evoluzione sociale, in tutta Europa, una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. I vagabondi vennero trattati come delinquenti volontari; dipendeva dalla loro buona volontà il continuare a lavorare o meno nelle antiche condizioni non più esistenti. "Per di più la secolarizzazione dei beni ecclesiastici che seguì alla riforma, sia nell'Europa continentale che in Inghilterra, ebbe il duplice effetto di contribuire alla cacciata dei contadini dai fondi di proprietà della Chiesa e di lasciare senza alcun sostentamento chi viveva della carità dei monasteri e degli ordini religiosi" (11). Il trattamento dei poveri mutò in stretta relazione con i mutamenti della struttura sociale, come possiamo agevolmente rilevare tramite un confronto con la situazione Medievale. "L'etica Medioevale non solo tollerava l'elemosina, ma in realtà la innalzava a dignità negli Ordini mendicanti, dignità che spesso veniva attribuita anche a comuni mendichi non religiosi, poiché essi offrivano ai possidenti l'opportunità di compiere delle buone opere" (12). La Chiesa prevedeva, in realtà, una forma di povertà volontaria, ma era difficile distinguerla nettamente da quella involontaria; "v'era posto sia per il povero che viveva di elemosina, sia per il potente, il quale viveva della rendita delle sue proprietà e poteva così adempiere ai propri obblighi di buon cristiano giustificandosi agli occhi di Dio con il compiere buone azioni" (13). Il rapporto tra questi due gruppi sociali opposti, nessuno dei quali viveva del prodotto del proprio lavoro, era espresso dall'insegnamento sociale della Chiesa, che utilizzava il desiderio dei ricchi di ottenere il favore celeste al fine di assicurare un'assistenza materiale ai poveri (14). "Tutto ciò era ben comprensibile in una società in cui era relativamente facile raggiungere un tenore di vita medio e in cui quindi chi sceglieva volontariamente il destino della povertà compiva atto di eroica abnegazione, riconosciuto dalla società; dare cibo e vesti a costoro era un'attività rispettata dagli uomini e apprezzata da Dio" (15). La cura dei poveri era considerata compito della Chiesa, che così giustificava i propri possedimenti terreni come possedimenti dei poveri e dei bisognosi. "Tutto il problema del rapporto tra lavoro e povertà subì un completo cambiamento nel corso del sedicesimo secolo, quando, come si è visto, le condizioni di vita delle classi inferiori si deteriorarono sensibilmente" (16). Il nuovo approcci alla povertà, introdotto dalla Riforma di Lutero (17), era palesemente diverso da quello della tradizione Medievale (18). Il prodursi di un ampio strato di vagabondi abili al lavoro rese la pratica della carità indiscriminata assai pericolosa ed inefficace di fronte al problema della disoccupazione; i poveri erano ormai troppo numerosi. "Lo scopo fondamentale della legislazione europea sui poveri era di impedire la convergenza di troppi poveri entro i confini di una città particolare" (19); la soluzione più immediata fu individuata nell'adozione di provvedimenti coercitivi per impedire il libero movimento della popolazione indigente. Inoltre, i mutamenti intervenuti nel ruolo sociale della Chiesa e la confisca della proprietà ecclesiastica trascinavano in una crisi profonda tutto il sistema dell'assistenza. "L'atteggiamento borghese nei confronti del lavoro e dei poveri si differenziò da quello della classe dirigente feudale. La dottrina tomistica Medievale della necessità del lavoro come condizione indispensabile e naturale della vita significava che l'uomo ha il dovere di lavorare solamente quel tanto che è richiesto per la sopravvivenza dell'individuo e della società; il lavoro non è elemento fondamentale dell'esistenza e neppure qualcosa di particolarmente desiderabile, ma semplicemente qualcosa di necessitato" (20). Si trattava di una concezione che corrispondeva perfettamente al carattere statico della società Medievale; "per il potente signore feudale, che viveva del lavoro degli altri o della guerra, la necessità di lavorare per vivere rappresentava una calamità paragonabile solo alle difficoltà di un proletario obbligato al lavoro e tuttavia consapevole del fatto che la sua fatica non lo avrebbe mai promosso ad una più alta posizione sociale" (21). La concezione borghese del lavoro è invece profondamente diversa; il borghese riesce a divenire prospero con il suo operare industrioso, e la sua attività, secondo le idee allora correnti sul merito individuale, viene apprezzata e glorificata come lavoro. "Fu così che la ricchezza perse il marchio del peccato e che l'idea della generosità volontaria nei riguardi dei poveri non ebbe più alcun significato come mezzo assolutorio. Non erano le buone azioni che giustificavano la vita del buon borghese, ma la sua esistenza quotidiana, il suo comportamento, il suo successo" (22). Era innanzitutto l'abilità che spiegava il successo mondano. "Certo, non tutti potevano mostrare la stessa capacità, ma chiunque onestamente si mettesse al lavoro era in grado di guadagnarsi il pane quotidiano" (23). Tale visione della vita e del lavoro fu strenuamente proposta e difesa, abbiamo visto, da Lutero e dalla sua Riforma; "l'unica necessità è di far si che il povero non muoia di fame o di freddo - egli scrive - dopodiché nessuno dovrebbe vivere del lavoro di un altro; nessuno che desideri di essere povero dovrebbe diventare ricco - continua - ma chiunque desideri la ricchezza ha solo da lavorare duramente" (24). La concezione borghese trovò la sua più chiara ed esaustiva formulazione nel calvinismo: "la borghesia inglese ed olandese ... trovò nel calvinismo un fondamento teorico al proprio atteggiamento ascetico e alla propria concezione della vocazione, un atteggiamento che era per essa una necessità, in una situazione di estrema carenza di capitali: mentre il lusso e le forti spese avrebbero significato la rovina, l'unica possibilità di raggiungere o anche solo di mantenere il mero livello della sopravvivenza economica risiedeva nel lavoro e nel risparmio" (25). Fu la situazione economica, il generale deteriorarsi delle condizioni di vita che si rifletteva nell'enorme crescita del numero dei mendicanti, che obbligò le varie municipalità a creare una normativa nuova all'inizio del sedicesimo secolo; il trattamento dei mendicanti alla stregua di criminali è un'indicazione dell'impotenza avvertita dalle autorità nel padroneggiare questo materiale umano sovrabbondante, un'impotenza che si rifletteva nella severità delle misure adottate (26). Durante i primi anni del sedicesimo secolo, nel periodo di transizione dal sistema feudale a quello mercantilista, quando ancora la carenza manodopera non si era verificata e non costituiva quel grave problema che diverrà alcuni decenni dopo, si pose, quindi, un'enfasi sempre più accentuata sulla distinzione tra poveri abili al lavoro e non abili, i primi dei quali vennero considerati oggetto di politica criminale (27), mentre i secondi erano affidati al sistema di assistenza sociale (28). In seguito poi al sorgere del problema della carenza di manodopera, furono abolite le distinzioni tra poveri meritevoli e non meritevoli e si affrontò il problema solo in termini di movimento e luogo d'intervento. "La mendicità fu equiparata al vagabondaggio e quest'ultima attività, che era sempre stata illegale, diventò adesso un reato molto grave" (29). Esistevano leggi sui poveri "i quali erano costretti a tornare alle città ed ai villaggi di provenienza anche quando non v'era la minima possibilità di trovarvi lavoro (30). Queste leggi, oltretutto, rendevano difficile una razionale distribuzione del lavoro" (31); esse non potevano alleviare la povertà, ma potevano essere usate come efficace metodo di controllo sociale (32). Nella seconda metà del XVIº secolo l'economia e lo sviluppo demografico di parecchi stati europei iniziano a subire nuovi profondi mutamenti, con rilevanti ricadute sulla politica sociale e sui metodi usati per punire i criminali. "All'arresto della crescita demografica, dovuto al verificarsi di una serie di fattori malthusiani, quali le guerre (33), le malattie e le carestie, fanno da contrappeso l'apertura di nuove rotte navali - con la conseguente espansione di commerci, mercati e industria - le conquiste coloniali, la nuova immissione sul mercato dei metalli preziosi e l'aumento dei consumi da parte degli strati sociali più ricchi dei centri urbani" (34). A metà del secolo XVIIº, "molte città europee ospitavano una borghesia commercial-industriale la cui ricchezza e il cui potere avrebbero di lì a poco rappresentato una seria minaccia per la vecchia élite aristocratica" (35). Grazie ai crediti o all'acquisto diretto questa classe emergente aveva assunto il controllo di grandi quantità di beni immobili rurali, che potevano essere usati come investimento e anche come mezzo per conseguire una posizione sociale o per consolidarla. Il sorgere di agglomerati urbani più estesi e più ricchi "creò una domanda intensa e continua di generi di consumo; insieme con la creazione di un sistema finanziario, ciò significò un'espansione continua del mercato e la garanzia di una domanda costantemente superiore all'offerta" (36). La mancanza di continuità nell'offerta del lavoro, insieme alla sua bassa produttività, provocò un grande mutamento nella posizione delle classi proprietarie. "Proprio nel momento in cui l'estensione dei mercati e le necessità crescenti dell'innovazione tecnologica richiedevano un maggior investimento di capitali, il lavoro divenne una merce relativamente rara. I 'capitalisti' del periodo mercantilista erano in grado di assicurarsi lavoro sul libero mercato solo pagando alti salari e garantendo condizioni di lavoro favorevoli" (37), in maniera diametralmente opposta a quanto accadeva nel secolo precedente. "I lavoratori avevano il potere di richiedere miglioramenti radicali nelle condizioni di lavoro; così, mentre l'accumulazione del capitale si rendeva necessaria per espandere il commercio e la manifattura, essa veniva seriamente ostacolata dalla resistenza che questa nuova situazione permetteva e i 'capitalisti' si dovettero rivolgere allo stato per rendere produttivi i capitali e contenere i livelli salariali" (38). Infatti adesso la società mercantilista, in netto contrasto, come abbiamo detto, con la situazione del secolo precedente, si trova a dover fronteggiare carenza di lavoro, alti salari e difficoltà nel reperire forza lavoro idonea a soddisfare le nuove esigenze della produzione. I governi si trovano così nella necessità di predisporre politiche sociali volte a sostenere l'industria manifatturiera, a tutelare gli scambi, a regolamentare i livelli salariali, gli orari di lavoro ed i trattamenti assistenziali. "Lo Stato non lasciò nulla di intentato per porre le imprese in grado di camminare: premi, privilegi, diritti di monopolio, tariffe, restrizioni per le corporazioni" (39). "Venne introdotta una serie di misure rigorose allo scopo di restringere le libertà individuali" (40), per fronteggiare una rarefazione della forza lavoro pericolosa per la stessa esistenza dell'ordine sociale dato; inoltre furono prese importanti misure per incrementare il tasso di natalità (41). "La scarsità d'uomini divenne talmente grave, infine, che i ranghi dell'esercito dovettero essere riempiti con i condannati" (42); si cominciò a considerare l'esercito "una sorta di organizzazione penale, adatta solo per lazzaroni, perdigiorno ed ex-condannati. Certi Stati giunsero al punto di richiedere condannati (43) da altri governi che non sapevano che farsene" (44). Nelle compagne erano state gettate le fondamenta di una nuova struttura sociale: nel corso del XVIº-XVIIº secolo si verificò un ulteriore allargamento del divario tra contadini ricchi e poveri. Contemporaneamente "gli imprenditori urbani inondarono le zone rurali di materie prime, decisi a sfruttare la manodopera rurale per fronteggiare gli alti costi di produzione nelle città ancora controllate dalle vecchie corporazioni" (45). La popolazione rurale era adesso molto più varia, mobile e frammentata che nel regime feudale. Si assiste ad un forte incremento dei rapporti economici tra il settore urbano e quello rurale (46). "Gli ultimi vestigi della coesione e della stabilità Medievale erano irrimediabilmente stati distrutti" (47). A partire dalla metà del 1500, dunque, la scarsità crescente di forza lavoro portò ad innovare il trattamento dei poveri. "Le lagnanze caratteristiche del tardo Medioevo per i reati contro la proprietà e per gli altri gravi crimini commessi da creature disperate che non possedevano alcun mezzo di sussistenza, fecero posto ora a quelle sull'ozio dei vagabondi e sulla conseguente perdita economica per il paese" (48). Mentre la politica dell'inizio del sedicesimo secolo mirava ad eliminare la mendicità, verso la metà del secolo "i nuovi programmi perseguivano obiettivi più direttamente economici; essi cercavano di impedire che il povero rifiutasse di erogare la propria forza lavoro, come accadeva quando egli preferiva mendicare piuttosto che lavorare per un basso salario" (49). Come vedremo, l'adozione, verso l'inizio del XVIIº secolo di un metodo più umano per la repressione del vagabondaggio, cioè l'istituzione di case di correzione fu, in buona parte, il risultato di un mutamento delle condizioni economiche generali. In varie zone d'Europa si riscontrano episodi di regolare sostituzione delle pene capitali, corporali e di bando, con lavori pubblici obbligatori o con l'internamento nelle case di correzione, specie nei casi in cui i condannati siano artigiani. Questo per due motivi: da un lato, "una sentenza disonorevole avrebbe significato la condanna dell'artigiano e della sua famiglia alla rovina privandolo del diritto di esercitare il mestiere; dall'altro, si voleva usare il lavoro di esperti artigiani al servizio dello Stato" (50). "Incoraggiate dalle dottrine calviniste (51) diffusesi nei paesi della Riforma, e da quelle cattoliche della controriforma, le politiche sociali pongono l'accento sul dovere di lavorare, la criminalità dell'ozio, l'importanza di legare carità (52) ed etica del lavoro (53)" (54). La forza lavoro assume carattere di risorsa basilare per lo stato; di conseguenza "il graduale abbandono delle punizioni corporali e capitali a favore di nuovi metodi penali risponde più a ragioni di carattere economico che a preoccupazioni di tipo umanitario" (55); veniva infatti posto in evidenza "il valore potenziale di una massa di ricchezza umana completamente a disposizione dell'apparato amministrativo" (56). I misfatti di maggiore gravità (omicidi, delitti di lesa maestà umana o divina) rimasero implacabilmente puniti con la morte; "ma i castighi fisici (mutilazioni, bastonature, fustigazioni) o infamanti (gogna, berlina, marchio) previsti per illeciti di minore entità e destinati ai poveri (ai ladri, agli evasori del fisco) e ai vagabondi o ai mendicanti, che si collocavano ai margini della società (57), cominciarono ad essere sostituiti da altri tipi di sanzioni criminali, socialmente ed economicamente più utili" (58). La teoria calvinista costituì solo uno degli elementi che contribuirono alla nascita del capitalismo. Le autorità cattoliche, infatti, adottarono nei confronti della povertà le stesse misure che siamo soliti definire come calviniste. Se è vero che la giustificazione teorica della nuova etica del lavoro, e della costituzione delle case di lavoro, fu in origine essenzialmente calvinista, tuttavia il fatto che "la vecchia e la nuova dottrina religiosa collaborarono entrambe allo sviluppo della nuova istituzione conduce a ritenere che le posizioni puramente ideologiche rappresentarono motivi secondari rispetto a quelli economici come forze trainanti di tutto questo mutamento" (59). "Le utili virtù che servivano la produzione e comprimevano il consumo costituirono le solide basi terrene del puritano ... e l'adozione di metodi razionali ed uniformi segnò il confine della sua ispirazione religiosa. Nella sobria rinuncia al piacere dei sensi e alle vane gioie mondane egli vedeva il proprio destino" (60). Tale ideale etico si sposava perfettamente alla massima del periodo mercantilista, secondo la quale tutto doveva essere sacrificato alla produzione finalizzata all'esportazione, riducendo importazioni e consumi al fine di ottenere una bilancia commerciale favorevole (61). Non solo 'l'impulso ad acquisire' venne così legalizzato, ma si giunse a sostenere che esso era direttamente voluto da Dio, aprendo così la strada ad una condizione necessaria per la nascita del capitalismo moderno: l'accumulazione del capitale (62). Una tal genere di filosofia non lasciava alcuno spazio alla mendicità, e "si opponeva alla pratica cattolica di concedere un'elemosina indiscriminata. Il principio religioso che imponeva l'assistenza a mendichi in grado di lavorare, i quali venivano così confermati nella loro pigrizia per opera dell'elemosina stessa, doveva apparire al sobrio calvinista perlomeno altrettanto stupida quanto il principio mondano di spazzarli via dalla faccia della terra; egli conosceva un miglior modo per utilizzare questa risorsa di ricchezza non sfruttata" (63): le case di correzione (64). Vedremo in seguito le caratteristiche proprie di queste case di correzione e di lavoro, ed il loro utilizzo da parte delle classi dirigenti nel contesto dell'epoca mercantilista. Lo stesso motivo economico, che aveva introdotto alla sostituzione delle pene 'distruttive' del corpo del criminale, con pene che tendevano invece ad 'utilizzare' il suo corpo, stava alla base della caduta in disuso della pena del bando; a parte il fatto che esso aveva perso parte del carattere di deterrenza che deteneva nel periodo Medievale (65), si sosteneva che ogni individuo era un bene prezioso, e non doveva quindi essere 'gettato' in modo tanto superficiale. Inoltre, "stava divenendo chiaro che il bando era il mezzo meno efficace per combattere il crimine, poiché non aveva altra funzione che spingere i criminali a trasferire altrove il proprio campo d'azione" (66). Un'altra forma di crimine che subì un rivolgimento nel corso del periodo moderno, indicativo dei nuovi orizzonti dell'illegalità, fu il brigantaggio; in precedenza i briganti erano stati definiti 'fuori legge', termine che indica una specifica realtà legale e sociale del Medioevo. "Dal momento che la legge agiva nel limiti di una giurisdizione locale, coloro che la violavano potevano essere facilmente banditi al di là dei confini geografici di quel sistema particolare, o potevano sfuggire alla legge uscendo dalla sua competenza territoriale. In molti casi questa seconda soluzione spiegava l'esistenza di 'fuorilegge' di elevata condizione sociale" (67). Nel Cinquecento, quando al fuorilegge si sostituì il bandito, tale fenomeno rivelava l'esistenza di un sistema legale che non tollerava più l'esilio volontario. "Il bandito non viveva al di fuori della legge, perché una giurisdizione nazionale aveva sostituito i precedenti sistemi più circoscritti. I banditi esistevano semplicemente per la momentanea incapacità delle autorità legali di catturarli" (68). Si cominciava sempre più generalmente a sostituire anche le pene corporali con il lavoro forzato, e a conservare solo quelle forme punitive che infliggessero ad un uomo quanta più sofferenza possibile senza comportare alcun danno al suo corpo. D'altro canto, la continua necessità di rifornire lo stato di forza lavoro si doveva accordare con quella di non sottrarne agli imprenditori, cosicché si videro talvolta prevalere tendenze opposte, atte cioè a conservare le punizioni corporali, specie nelle zone agricole, nelle quali la detenzione non rappresentava un efficace deterrente, data le pessime condizioni di vita in cui versavano i lavoratori agricoli. Se durante il primo periodo moderno, quello durante il quale la mancanza di manodopera non era ancora una questione così assillante, "si applicarono comunemente ai piccoli trasgressori le pene normali (anche di morte) riservate in precedenza ai criminali più pericolosi, secondo una concezione per cui al pesce piccolo veniva riservata la medesima sorte di quello grosso a causa 'dell'inclinazione pericolosa della sua mentalità" (69), a partire dal 1600 "l'andamento venne rovesciato e i tentativi di punire i vagabondi con metodi più umani, come il bando, i lavori forzati e le galere, si orientarono verso l'uso delle prigioni, delle case di lavoro e di correzione" (70). I piccoli criminali vennero condotti all'interno di queste istituzioni, destinate ad ospitare la 'feccia' della società, e attirarono gradualmente dietro di sé gli autori di reati più gravi. "Questi sviluppi vennero favoriti dagli scrittori del diciassettesimo secolo, a causa della palese inutilità del vecchio sistema punitivo, così come del favore crescente verso le nuove istituzioni" (71); i buoni risultati delle case di correzione venivano ovunque propagandati come esempio concreto dell'efficacia del nuovo sistema e della inutilità di quello antico. "Durante il XVI e il XVII secolo, cominciarono ad affermarsi in Europa sistemi moderni di giustizia penale e di pena" (72). In questo periodo la giustizia penale avrebbe compiuto il passo decisivo dal settore privato a quello pubblico. Si assiste alla nascita di una ampia classe inferiore per la quale il piccolo crimine ai danni delle classi superiori diventò un modo di vita fondamentale. "Era il carattere di classe di tale criminalità a renderla tanto diversa da quella precedente, ed era il carattere di classe della criminalità a minacciare l'ordine sociale in maniera molto più pericolosa" (73). "La natura di classe dell'attività criminosa ... conferma ... che il crimine cominciava a verificarsi in un certo contesto sociale" (74). Si affermò una distinzione sociale sempre più netta tra la classe del crimine e quella delle sue vittime; "il crimine perdeva il suo carattere intraclassista e cominciava a presentarsi come un aspetto del conflitto interclassista" (75). Questa nuova criminalità non era controllabile semplicemente estendendo le procedure penali Medievali; infatti, "i metodi di controllo del crimine nel periodo Medievale si erano fondati sull'esistenza di una popolazione ristretta che viveva in un'area limitata e che era isolata da altre popolazioni" (76). Queste condizioni non erano più presenti. Inoltre, il sistema di giustizia penale Medievale si era basato su una struttura politicamente circoscritta e frammentata, che stava venendo rapidamente soppiantata dallo sviluppo dello Stato nazionale. "Per poter controllare la nuova criminalità, era necessario un sistema che trasformasse la giustizia penale da affare privato che riguardava individui particolari a affare pubblico che riguardava individui anonimi e lo Stato" (77). Questo mutamento era più conforme a un sistema politico che si basava sull'autorità sovrana anziché personale, e ad un tipo di criminalità che si rivelava sempre più anonima. Nel corso del XVIº secolo si verificarono due cambiamenti procedurali di rilievo: l'istituzione di un metodo diverso di azione penale e la promulgazione di nuovi codici penali. "Questi sviluppi segnarono una fase importante nella transizione dai sistemi penali privati a quelli pubblici, ed erano una prova inequivocabile di quanto lo Stato nazionale cominciava a intervenire attivamente nell'amministrazione della giustizia penale" (78). L'azione penale non poteva più essere una faccenda locale, perché il crimine non era più circoscritto. "I codici penali dovevano avere una portata più ampia, perché le società regolate da tali codici si andavano evolvendo come entità nazionali" (79). Furono promulgate, come abbiamo già accennato, leggi sul lavoro relativamente ad aspetti della situazione quali i livelli salariali, le condizioni lavorative ed altri elementi non penali della struttura lavorativa che si andava evolvendo. "In un mercato del lavoro non ancora capitalistico ma non più feudale, la legge sostituiva la tradizione, la costrizione legale regolava offerta e domanda. Quindi il diritto penale era usato per imporre una nuova serie di rapporti sociali" (80). Non è un caso che si assista, nello stesso periodo, alla nascita dei regolamenti di lavoro e di varie leggi sui poveri. "Si era risposto al cambiamento del carattere del crimine con un cambiamento dei codici penali, e poiché il crimine era definito più frequentemente in termini sociali, ciò comportò una crescita dell'autorità di coloro che erano responsabili di difendere l'ordinamento sociale" (81). Si giunse, in ultima analisi, al trionfo del diritto pubblico, alla scomparsa degli ultimi caratteri del diritto privato ed alla istituzionalizzazione di una moderna procedura penale (82). "La comparsa contemporanea di questi codici non era tanto il riflesso dell'influenza statuaria, quanto un indice dello sviluppo di nuovi problemi penali specifici che questi codici cercavano di risolvere" (83). I sistemi continentali si basavano ancora, ed in maniera sempre più dettagliata e regolamentata, sul processo inquisitorio (84) del canone cattolico, che abbiamo visto essere un amalgama di procedura romana e clericale, perfezionato nel corso del Medioevo, quando la Chiesa espresse il suo massimo sforzo nella persecuzione delle varie forme di eresia. Le procedure probatorie che abbiamo esaminato in relazione al periodo medievale mantennero inalterati i loro caratteri fondamentali; durante i secoli XVIº e XVIIº la costruzione teorica allestita in epoca feudale "continuò ad essere tenuta presente nell'elaborazione dei caratteri e requisisti della prova penale" (85). L'insieme delle regole probatorie che il diritto intermedio aveva elaborato non venne mai formalmente posto in discussione durante il periodo mercantilista; casomai venne radicalizzato (86). "Tale processo, dovuto, in generale, alle esigenze di certezza che sono naturali in ogni ordinamento, era esaltato, durante l'antico regime, da motivi di ordine teoretico: la credenza e fiducia nella stabilità ed universalità delle strutture giuridiche, come espressione di regole universali" (87). Si dava grande rilievo alla "compilazione di un dossier scritto che doveva contenere tutti i fatti e le osservazioni pertinenti a un caso" (88). A differenza del sistema inglese, dove il querelante era parte integrante del procedimento penale, ed andava incontro alla confisca della cauzione in caso di ritiro della denuncia, il sistema continentale trasformava immediatamente la denuncia originale in una faccenda pubblica. In entrambi i sistemi, comunque, indipendentemente dalle divergenze procedurali, lo Stato cominciò a sostituire l'individuo come forza motrice dell'azione penale. Nel secolo XVIº, il diritto penale si era liberato completamente del suo abito medievale personalizzato. Il suo funzionamento non poggiava più sulla conoscenza tra le parti e il suo obiettivo non era più di risolvere dispute private tra individui particolari. "Nel XVIº e XVIIº secolo, con il graduale passaggio da una società medievale di tipo cavalleresco, ispirata ai principi della guerra, a una società di corte più pacifica, la violenza inizia a essere monopolizzata dalle autorità centrali" (89). Con l'emergere dello Stato come unica fonte dell'azione penale, l'atto criminoso non poteva più essere considerato l'aggressione di una persona contro un'altra: era ora un crimine commesso contro la società in generale" (90). Il diritto penale divenne un aspetto fondamentale dell'autorità dello Stato; il risultato immediato fu un aumento spettacolare del numero di statuti, una revisione delle definizioni di crimine e un inasprimento generale della severità delle pene. "La natura personalizzata del diritto penale medievale si esprimeva con la massima chiarezza nell'assenza di pene severe" (91); la relativa mitezza della pena derivava dal fatto che il sistema aveva lo scopo non tanto di punire la parte colpevole quanto di risolvere controversie tra eguali. "Ma quando il diritto penale si trasformò in una faccenda pubblica, la pena assunse un significato diverso. Il proposito principale del diritto penale era adesso la punizione esemplare del criminale, mentre il risarcimento della parte lesa avrebbe finito per cadere in disuso" (92). La nuova enfasi posta nella pena in sé stessa generò la comparsa di ogni sorta di pene corporali nei codici penali europei (93). "Nel giro di un periodo breve, le pene corporali diventarono la forma comune di punizione, mentre nel sistema feudale avevano rappresentato una punizione eccezionale" (94). Contemporaneamente, il bando e le ammende diventarono elementi minoritari nei nuovi statuti. La fustigazione, la mutilazione e le pene capitali avevano invece assunto un ruolo fondamentale; in alcuni codici penali non c'era un solo reato che non prevedesse un qualche tipo di punizione corporale (95). Le esecuzioni capitali pubbliche diventarono avvenimenti frequenti (96); "furono introdotte diverse nuove forme di pena corporale, e la tortura in particolare diventò una prassi comune in numerosissime azioni giudiziarie" (97). La spinta a infliggere pene più severe derivava dal carattere di classe e dall'aumento costante dei crimini. "Era necessario trovare qualche mezzo per arginare la marea montante della violenza e della criminalità, che minacciava apparentemente di inghiottire la società. Ma soprattutto bisognava fare qualcosa per impedire la crescita della criminalità che vedeva i ricchi vittime dei poveri" (98). Le pene fisiche severe apparvero come il modo più adatto per inculcare la disciplina nella mente delle classi inferiori e per ripristinare il senso di deferenza che aveva contrassegnato i rapporti sociali feudali. "Se i poveri intendevano condurre una guerra contro i ricchi per mezzo del crimine, allora i ricchi potevano condurre la difesa dei loro interessi attraverso il mezzo della punizione" (99). Quando il crimine assunse un carattere di classe, la pena seguì la stessa strada. "Le pene pecuniarie erano riservate sempre di più ai ricchi, i quali potevano ancora permettersi di risolvere le loro controversie nella tradizionale maniera personale" (100); ma sotto ogni altro aspetto il sistema della giustizia penale rifletteva crescente divario tra le diverse classi sociali. Infatti si allargò costantemente il divario tra la posizione sociale di coloro che giudicavano e di coloro che venivano giudicati (101). La procedura penale, oltre allo scopo di mantenere la legge e l'ordine, aveva assunto anche quello di difendere la legge di una classe dal disordine dell'altra. Questo sviluppo raggiunse la sua forma finale con la proliferazione della legislazione sui poveri i tutta Europa (102). I codici penali sottolineavano con forza la deferenza all'autorità, il rispetto per le persone di elevata condizione sociale, l'obbedienza alla legge del Re (103). "In teoria, il tribunale doveva essere un foro aperto dove si potevano stabilire indiscutibilmente la colpevolezza o l'innocenza di un individuo ...; ma nella realtà il tribunale costituiva una sorta di teatro, in cui il rappresentante del potere politico centrale - il magistrato - recitava il ruolo principale, spesso istrionico" (104). Il giudici diventava il gran sacerdote della giustizia, e l'analogia era voluta e spesso reiterata. Dunque, "nel secolo XVI il diritto e la procedura penali erano passati definitivamente dalla sfera privata a quella pubblica. Ma questa trasformazione non aumentò di molto l'efficacia o l'imparzialità del sistema di giustizia penale, al contrario: il trionfo del diritto penale pubblico su quello privato si accompagnò a un'arbitrarietà quasi assoluta dell'azione giudiziaria (105) e all'adozione di codici di pena eccezionalmente severi" (106). La capricciosità della giustizia e la severità delle pene erano il sintomo di due fenomeni che dettero forma al moderno sistema di giustizia penale in Europa: la struttura dell'autorità di governo e la necessità di creare uno strumento per controllare e disciplinare le masse povere. "Anche i capi religiosi dell'epoca condividevano lo spirito con cui le pene erano amministrate: è Lutero, ad esempio, ad affermare che la mera esecuzione non è pena sufficiente e che i governanti devono perseguire, colpire, strangolare, impiccare, bruciare e torturare la teppa in ogni modo. L'uso della spada era un sacro dovere di chi regna" (107). "Nel corso del secolo XVII, era emerso l'assolutismo (108) nella sua forma classica, e fu in questo periodo che il problema della criminalità di massa si fece acuto per la prima volta" (109). Il sistema era totalmente arbitrario a tutti i livelli (110); "tra i mezzi usati per raccogliere prove c'erano la violazione della privacy, lo spionaggio, le denunce non comprovate e gli interrogatori segreti. Il magistrato di grado superiore aveva un'incredibile libertà d'azione su quasi ogni aspetto del processo, e poteva adottare procedure e imporre sanzioni senza precedenti" (111). Il ricorso alla tortura era sistematico ed indiscriminato; i sospettati ignoravano completamente le accuse formulate contro di loro. "Il fondamento logico della tortura era che costituiva un modo facile per ottenere una confessione (112), ed eliminava la costosa procedura di indagine per svolgere la quale non esisteva un personale competente. La tortura "non figura nel diritto classico come una cicatrice o una macchia. Ha un suo posto rigoroso in un meccanismo penale complesso" (113), che vuole far produrre la verità da un sistema a due elementi, quello dell'inchiesta condotta in segreto dall'autorità giudiziaria e quello dell'atto compiuto ritualmente dall'accusato. Raramente era in gioco il problema della verità o della falsità. Il punto in questione era piuttosto determinare la colpevolezza o l'innocenza dell'accusato. Tuttavia, il sistema partiva dal presupposto che il presunto trasgressore era in realtà colpevole del delitto per il quale veniva giudicato; altrimenti non sarebbe stato denunciato" (114). Tutto l'obbligo di fornire le prove ricadeva sull'accusato, un compito impossibile visto che non erano mai presenti avvocati difensori e che di norma le autorità non comunicavano al prigioniero il motivo del suo arresto. "La tortura diventava il mezzo più efficace per costringere l'accusato a confessare la sua colpa, che per l'intero sistema era lampante" (115). Questa concezione ribaltava completamente la procedura Medievale, per la quale la colpevolezza dell'imputato era di rado un aspetto importante della questione. Adesso invece il problema della colpevolezza era l'unica preoccupazione degli inquirenti. "La corte rappresentava il sovrano, e il diritto penale era diventato un mezzo efficace per estendere il potere dello Stato a livello locale e privato. Il magistrato era un rappresentante del monarca: se la corona era al di sopra della legge, allora neppure i suoi magistrati superiori erano tenuti a rispettarla" (116). La natura arbitraria dell'autorità giudiziaria era anche un modo per sostituire l'autorità del sovrano alle usanze e tradizioni locali (117). La tortura diventò un elemento comune di quasi tutta la procedura penale, e si assistette ad un inasprimento delle sue modalità di inflizione. "Si pensava che forme più severe di tortura avrebbero determinato confessioni più pronte e, altrettanto importante, indotto l'accusato a chiamare in causa altri individui" (118). L'uso della tortura inoltre non può essere separato dall'aumento della severità della pena nell'Ancien Regime. "Man mano che il sistema di giustizia penale si allontanava dalla sua forma originale, cioè di mezzo per risolvere le controversie tra uguali, esso diventava sempre più un sistema a base classista" (119). Quindi cominciarono a scomparire i vincoli legali e morali all'uso della forza fisica nelle punizioni; le pene stesse erano considerate un mezzo per controllare il crimine ed il diritto penale un modo per imporre il controllo sociale. "La tortura e la severità delle pene diventarono parte dell'ideologia del diritto penale, nel tentativo di inculcare un sincero senso di rispetto per l'autorità nelle classi inferiori" (120). La brutalità della pena era in funzione della sua natura pubblica; "la plebe doveva sentire il peso del potere e dell'autorità quando udiva le grida del moribondo e vedeva il suo corpo straziato (121). Le varie forme di punizione che si svolgevano in pubblico assumevano il valore di un rito a edificazione della popolazione. In questo periodo si assiste ad un netto incremento delle esecuzioni capitali. "La morte pubblica era data per mano del boia come rappresentazione popolare del potere e delle sue capacità di controllo" (122). "I crimini, che si rivolgevano contro l'integrità fisica del sovrano e della sua famiglia o direttamente contro gli ordinamenti politici e istituzionali, rappresentavano le forme più gravi, portate alle estreme conseguenze, dell'offesa, che ogni crimine in quanto tale arrecava al sovrano e con lui alla comunità" (123). Ogni crimine era in qualche modo crimine di lesa maestà (124). "Per tutto il periodo delle monarchie assolute aumenteranno sempre più i crimina lesae maiestatis che comportavano regolarmente la pena capitale; per questi effettivamente non v'era possibilità di 'correzione'" (125). Finché la ribellione si esprimeva in un semplice disadattamento ai rapporti sociali dominanti, l'ammaestramento a furia di frusta e lavoro poteva ancora avere qualche possibilità di successo; ma se la ribellione si dirigeva contro gli stessi rapporti sociali, contro l'autorità, allora non restava nulla da tentare. Chi si è rivoltato contro la disciplina stessa, non contro qualche sua particolare applicazione, non è suscettibile di correzione; merita la morte. Le modalità di esecuzione riflettevano "un acuto senso della teatralità e della scelta del momento su cui si basavano gli effetti deterrenti del rito punitivo" (126). Attraverso le procedure e le istituzioni della punizione lo Stato elabora consapevolmente la propria immagine di fronte al pubblico e, in parte, la sua stessa realtà. "Lo Stato assoluto si autorappresenta e si legittima come tale nel momento dell'esecuzione della pena, ricorrendo a una inquietante ostentazione della propria potenza militare e appellandosi a un diritto e a un'autorità provenienti da Dio. In questo contesto politico, l'esecuzione della pena è una delle tante cerimonie utili ai sudditi e al sovrano per misurare concretamente la distanza che li separa, e per mostrare la forza dell'autorità" (127). L'esecuzione pubblica diviene uno spettacolo teatrale in cui il potere assoluto del Sovrano è mostrato pubblicamente sul corpo del condannato. A rafforzare la connessione vitale tra il Sovrano e Dio non è solo la dimostrazione del potere assoluto sulla vita e sulla morte del condannato, ma anche il linguaggio e il simbolismo religioso. "La sentenza pronunciata pubblicamente, la confessione ritualizzata del colpevole, le preghiere e la benedizione degli uomini di chiesa, servono a mettere sullo stesso piano la legge del Sovrano e quella del volere divino. Una punizione così rappresentata non può che rinviare a una concezione assoluta dell'autorità, di ispirazione divina e socialmente ascendente" (128). Vediamo le modalità tipiche di svolgimento di questo teatro punitivo. Il rituale, durante l'età moderna, era strutturato intorno a tre momenti essenziali: il corteo dal luogo di detenzione a quello di esecuzione, l'esecuzione vera e propria e l'esposizione del cadavere. A queste tre fasi, occorre aggiungere il momento del conforto. Quanto al corteo, "il tratto di strada percorso dai condannati a morte aveva un significato che andava ben oltre quello di un semplice trasferimento da un luogo all'altro" (129). Si trattava infatti di uno spazio in cui i protagonisti del dramma cominciavano a recitare le rispettive parti. "I condannati si presentavano con il carico delle loro colpe alla collettività" (130). Durante questo trasferimento si aveva il primo impatto con la folla, che seguiva tutto il dramma che si stava consumando. "Il vociare sguaiato della gente accompagnava il tragico corteo" (131). Esso era preceduto da un banditore, che annunciava le generalità del condannato ed il suo crimine. Tra un annuncio e l'altro un cupo suono di tamburi. Il corteo di morte percorreva strade e itinerari scelti con meticolosa precisione; erano attraversate strade popolose (132), la gente vedeva passare il corteo davanti alle proprie case, nel cuore della città. Le autorità assegnavano grande importanza alla partecipazione popolare, e si adoperavano per garantire che al corteo di morte e alla esecuzione vera e propria intervenissero un gran numero di persone. E il popolo accompagnava il corteo di morte, intervenendo con propri strumenti di pena volti a imprimere un marchio di infamia a taluni criminali, e manifestando soddisfazione collettiva di fronte a determinate esecuzioni. La scelta tra le varie tecniche di morte era data, come abbiamo visto, dal livello sociale del reo. L'esecuzione esprimeva, in base alle sue modalità, la classe sociale, il livello di colpa e il tipo di crimine del giustiziato (133). Solamente all'arrotamento (134) era riconosciuta una particolare capacità di procurare intenso dolore fisico; le altre tecniche erano considerate equiparabili in termini di sofferenza inflitta. "Il sopraggiungere della morte non metteva fine al rito della giustizia nel suo complesso. Lo testimonia il fatto che anche il cadavere di coloro che giungevano ormai morti ai piedi della forca o del patibolo era sottoposto a una serie di atti di manipolazione" (135), che non erano casuali, ma estremamente precisi e preordinati. "La morte era l'inizio di un'ulteriore e importante fase del rito della giustizia, durante il quale il corpo - privato della vita e dell'anima (la sua essenza spirituale era evidentemente altrove) e prima di essere affidato alla pietà della sepoltura - diventava nella sua più completa fisicità cosa da plasmare e modellare, da usare come simbolo, che esprimeva con una straordinaria immediatezza di linguaggio le violazioni della legge e della morale da emendare" (136). La giustizia si esplicava come spettacolo di forza; attraverso l'intervento sui cadaveri, il dispiegarsi della forza del Potere assumeva toni estremi (137), ma senza mai cadere in forme di indistinta e gratuita violenza (138). Il corpo senza vita del condannato doveva testimoniare i crimini e le pene, attraverso cui questi stessi crimini erano annullati. "Il corpo del condannato doveva testimoniare con efficacia e concretezza di linguaggio l'infamia e la natura di ciascun crimine. Nella violenza sui cadaveri non vi era nulla di gratuito; essa era strettamente funzionale all'economia del rito dell'esecuzione" (139), e non da imputare a perversione e crudeltà collettive. "Il corpo del reo, in tutta la sua concretezza, era assieme il luogo fisico e simbolico, di un grande dramma rituale di espiazione collettiva, in cui convivevano sofferenza, confessione della trasgressione ed anche una buona dose di spettacolarità" (140). È sul corpo umano dunque che l'intero sistema penale elabora il proprio lessico di potere: corpo fatto di segni che l'inquisitore decifra mediante lo strumento della tortura e che il carnefice disvelerà poi in tutta la sua colpevole concretezza. "Significante e significato sembrano così fondersi nella realtà di un corpo, che è assieme materia e segno" (141)."Sono stati percorsi lunghi itinerari di morte e di esacerbato dolore, senza riuscire ad avvertire nei cronisti e nella gente che vi partecipa, alcun senso di orrore e di pietà" (142). Ma ciò era dovuto semplicemente ad una diversa sensibilità e ad un diverso modo di concepire la persona; l'attenzione del pubblico era incentrata essenzialmente sul corpo, non sulla persona. Inoltre, all'epoca il comune senso della sofferenza erano evidentemente assai diversi da oggi (143). I condannati di fronte al boia avevano voce, dal momento che proclamavano di fronte a tutti i loro crimini e talvolta il loro dolore per il male da essi commesso. "Ma la loro voce giunge fino a noi in modo flebile, quasi impercettibile. Ad attutirla, fino quasi a spegnerla del tutto, era il fatto che anche il momento della contrizione verso Dio e il pensiero dell'al di là entrava a far parte del rito" (144). "L'atto di contrizione religiosa, accompagnato dal riconoscimento della sostanziale equità della giustizia dello Stato, avveniva in pubblico e secondo modalità già predisposte" (145). "Nella gerarchia delle pene, il momento qualificante non era la morte, ma le tecniche per dare la morte. La sofferenza fisica non doveva contribuire alla morte dell'anima; facendo uscire di senno il condannato e spingendolo a maledire se stesso, il mondo e Dio" (146). Il boia è pagato per uccidere, ma solo attenendosi ai modi prescritti dal potere (147), il quale agisce secondo i valori dell'equità e della pietà cristiana. "Le cronache solo in rarissimi casi fanno cenni ad episodi, che vedono i condannati non riconoscere l'autorità del sovrano (148), che li mandava a morire" (149). Il fatto che il sovrano potesse disporre a suo piacimento del loro corpo appariva del tutto naturale; c'era una naturale accettazione da parte di tutti dell'esercizio assoluto e personale del potere da parte del sovrano. Quasi "nessuno dei condannati a morte di questo periodo fece accenno alcuno alle proprie ragioni, né tanto meno mise in discussione le forme di quell'apparato, che pure li faceva così atrocemente soffrire" (150). Gli assassini e i ladri talvolta protestavano la loro innocenza, ma senza per questo mettere in discussione l'autorità. Tra il principe e la sua mano armata, il boia, agiva, in tutta Europa, una confraternita, che si assumeva il compito di confortare il condannato (151). La scena patibolare era composta da tre elementi: i pazienti, ovvero il loro corpo; le istituzioni civili, cioè il boia; e quelle religiose, i confortatori. Abbiamo visto nel precedente capitolo come le compagnie di giustizia siano nate tra il XIVº e il XVº secolo con vari compiti, tra cui quello di assistere i condannati a morte. Tra il XVIº e il XVIIIº secolo assunsero, nell'ambito della società urbana, un ruolo di singolare importanza, divenendo centri di potere politico e sociale, intimamente legati ai settori privilegiati della società, e momenti di aggregazione delle élite urbane. "Le storie agiografiche indicano quasi sempre come fondatore delle compagnie un uomo di grandissima pietà, molto spesso un santo, che dà l'avvio all'attività di conforto ai condannati a morte, riuscendo in modo più o meno miracoloso a far ben morire uno di questi, che prima dell'intervento miracoloso si mostrava poco incline ad accettare con assegnazione la sua sorte" (152). Nel Cinquecento ormai le compagnie di giustizia costituivano un reticolo di fitte maglie, inserendosi sia nell'organigramma delle istituzioni che negli assetti culturali e mentali che presiedevano ai processi di totale e generale accettazione della giustizia e dei suoi rituali. "Nell'età aurea dei supplizi che, come si è visto, fu costituita dai primi secoli dell'età moderna, il ruolo delle compagnie fu di singolare e insostituibile importanza" (153). Dopo l'età del disprezzo e della paura dei giustiziati, quando i toni crudi della vita favorivano un rapporto di lotta, di assoluto antagonismo tra giustizia e giustiziati, subentrò nell'età classica il senso della mediazione e del recupero dialettico, nell'ambito del potere assoluto del Principe, degli antagonisti sociali e culturali. "Carnefice e vittima, Principe e condannati, recitavano ruoli diversi in una medesima messa in scena" (154). L'opera delle compagnie tendeva a ricomporre la contraddizione tra il Cristianesimo, religione del perdono e della pietà, e la ferocia delle pratiche della giustizia criminale. "Il dualismo tra corpo e anima, con il netto prevalere di fronte alla giustizia umana del corpo, permetteva la perfetta integrazione dell'anima e del corpo. Il dispiegarsi pieno e totale della forza delle istituzioni sul corpo del condannato non esauriva però il senso complessivo del rito. Restava infatti l'anima con le sue esigenze" (155). Di essa si occupavano le compagnie di giustizia. "Il momento del conforto, che si configurava come vero e proprio rito, era funzionale al più generale rito delle esecuzioni. Senza il conforto, quello spettacolo di ferocia organizzato dallo stato sarebbe stato snaturato, perdendo gran parte della sua efficacia proprio a livello culturale" (156). Pietà e ferocia erano parti integranti di uno stesso contesto culturale, che accettava meccanicamente, senza riserva alcuna, l'apparente contraddizione di una società cristiana che praticava riti di grande violenza contro i corpi. "Il corpo moriva, anzi era annullato, ma l'anima, proprio in chi era così duramente colpito dalla feroce legge degli uomini, aveva eccezionali possibilità di resurrezione. Ma questa possibilità non la si giocava in privato, ma all'interno del rito della pena" (157). I condannati dovevano partecipare al rito, offrendo quasi in sacrificio espiatorio il proprio corpo al carnefice. L'accettazione della giustizia sovrana non era disgiunta da quella di Dio, ma ad essa comune, in modo razionale ed equilibrato. Vi era una sorta di continuità tra i tormenti inflitti dalla giustizia del Principe e quella di Dio, tra la precettistica religiosa e quella giuridica, tra peccato e reato. Il condannato era tenuto a perdonare esplicitamente chi lo mandava a morire, e a riconoscere nella sua opera la mano di Dio. "L'eventuale innocenza non era considerata un impedimento sia all'opera di conforto, che al riconoscimento da parte del condannato della razionalità e sostanziale equità del rito della propria morte per mano del boia" (158). La morte per mano del boia era anche per un innocente un privilegio, infatti, se egli perdonava di cuore coloro che ne erano la causa, avrebbe imitato Gesù (159). La tendenza all'identificazione tra giustizia umana e giustizia divina, con il conseguente impegno da parte delle compagnie all'opera di legittimazione del potere, è confermato dal fatto che, pur di ottenere dal condannato pubblica e spettacolare contrizione, e dunque riconoscimento dell'equità della giustizia umana, si ricorreva a sistemi coercitivi. Si ricercava quindi una accettazione "piena e totale dei meccanismi della giustizia, prescindendo anche dalla condizione di colpevolezza o innocenza del condannato. In fondo, come era opinione comune, la morte per mano di giustizia, come qualsiasi altra morte, non veniva dagli uomini" (160), quanto da Dio, giustissimo giudice, non essendo altro gli uomini che strumenti esecutori del divino disegno. "Agli uomini misericordiosi non restava altro che assecondare questi disegni, facendo in modo che i condannati accettassero con rassegnazione il loro destino" (161). Del resto la morte di Cristo e la sua resurrezione stavano a dimostrare la forza salvifica del sacrificio. L'accettazione della pena da parte del condannato, quindi, non si configurava come un semplice atto di contrizione interiore. "Essa assumeva tempi ed aspetti di tipo rituale, ubbidendo ad una sorta di preciso formulario, e manifestandosi sempre in pubblico" (162). I confortatori dovevano fare in modo che i condannati, nei momenti che precedevano l'inizio del vero e proprio lavoro del boia, recitassero ad alta voce, in modo da potere essere uditi dal pubblico, il 'Credo', chiedendo perdono a Dio (163). Il giustiziando in questo modo forniva, oltre che con il suo corpo, con la sua stessa anima "un seducente materiale per uno spettacolo sostenuto dal tormento psicologico, dall'attesa della morte prolungata dall'esposizione al pubblico" (164). La morte per mano della giustizia stava ad ammonire il pubblico sulle capacità di vendetta di Dio, ed era uno stimolo al santo timore del Signore. "La giustizia del Principe è indubbiamente guidata dalla mano di Dio; ma c'è di più: essa è la manifestazione delle infinite capacità di Dio di colpire per vie traverse ed anche a distanza di tempo" (165). Quanto poi alla paura per la sorte ultraterrena, si raffigurava la grande ala del perdono divino per coloro che saggiamente accettavano il loro destino, sapendovi scorgere non la malizia del mondo, ma la mano della provvidenza divina e dei suoi imperscrutabili disegni. "Le immagini prospettate al condannato, in caso di accettazione complessiva della pena, erano indubbiamente rassicuranti. Il quadro cambiava radicalmente in caso di soggetti poco propensi ad accettare la pena e a morire contriti" (166). In questa evenienza, vi era l'esplicito invito, per i confortatori, a fare uso di strumenti intimidatori che restavano, fino a quando si era nel luogo di detenzione, di tipo solo psicologico. Si faceva presente al condannato che con la ribellione non sarebbe certo scampato alla morte, anzi i giudici, maggiormente sdegnati dal suo comportamento, avrebbero ordinato una morte più atroce ed infame. "Ed ancora, in un'escalation terroristica (167), si prospettavano immagini di sofferenze fisiche infernali, riservate ai nemici di Dio" (168) e di fronte alle quali non erano nulla i tormenti terreni che lo attendevano. A questo punto, di fronte a un condannato che continuava pubblicamente a non dare segni di contrizione, il passaggio alla forza diveniva prassi d'obbligo (169). Uno tra i più ardui ostacoli che si ponevano ai confortatori nel raggiungimento dei loro obiettivi era quello di far fronte al senso di vergogna e di disonore provato dai condannati, e derivante dal fatto che l'esecuzione fosse pubblica. "Infatti la morte sul patibolo era la morte obbrobriosa e ignominiosa per eccellenza" (170), proprio perché accompagnata dalle offese della folla. Un'altra forma di pena che comportava il pubblico ludibrio era la gogna. "I trasgressori che suscitavano in alto grado la pubblica indignazione (171) ... erano messi alla berlina sulla piazza del mercato" (172) e costrette a sopportare gli insulti della folla. Tale punizione variava di intensità in base ai sentimenti del popolo; poteva essere terribile se la folla gettava pietre o rifiuti, mentre se essa simpatizzava con il condannato i magistrati potevano fare ben poco per impedire che da pena la gogna divenisse un pubblico trionfo. Evidentemente, "le pene simili a queste, comminate seguendo un rituale, erano efficaci come deterrente solo se esisteva il tacito sostegno della folla alle condanne emesse dalla magistratura (173). Ne derivava perciò che il controllo sul rituale da parte dei giudici era limitato" (174). Se i presenti non avessero approvato l'esecuzione, i nobili sentimenti espressi dal pastore sarebbero stati sommersi dalle ingiurie levantesi dalla folla. "Non è del tutto chiaro in che misura le autorità accettassero il principio per cui i condannati dovevano godere di particolari diritti, ma risulta che in genere li rispettassero. I loro ultimi desideri e le loro ultime parole venivano accolte con attenzione da guardie, sceriffi e pastori che tentavano di indurre i criminali a servirsi dell'influenza che le loro parole potevano esercitare per esortare la folla a rinunciare al crimine e ad obbedire al potere civile" (175). Il condannato poteva scegliere di interpretare sulla scena di morte il ruolo di peccatore contrito suggeritogli dal pastore o quello di ribelle insolente proposto dalla folla (176). Quando il condannato non si adeguava al ruolo che le autorità volevano imporgli, c'era poco da fare per "impedire che il rito solenne dell'accompagnamento al patibolo e dell'esecuzione diventasse una manifestazione disordinata" (177). Lo stravolgimento di questo rituale, trasformato da solenne manifestazione della giustizia in un baccanale popolare, spinse alcuni osservatori ad esprimere dubbi sull'efficacia deterrente delle pubbliche esecuzioni. Esse furono comunque mantenute per due validi motivi: da una parte, costituivano il metodo più economico e costituzionale di prevenire il crimine (178) e 'catechizzare' le folle; dall'altra, esse erano interpretate quali garanzia dei diritti della vittima. Si temeva che, se le esecuzioni si fossero svolte in luoghi non pubblici, "non si sarebbe potuto garantire che il boia giustiziasse effettivamente il condannato e che, almeno secondo la fantasia popolare, ricchi malfattori avrebbero potuto convincere il boia a sostituire loro qualche poveraccio" (179). Solo le esecuzioni completamente svolte in pubblico potevano impedire simile orrenda corruzione. Inoltre la folla esercitava un ruolo di testimone, per garantire che le vittime non fossero sottoposte ad eccessive sofferenze a causa dell'incompetenza o della malvagità di un boia. "Un giustiziere che raffazzonava il proprio lavoro, che permetteva alla vittima di contorcersi e strangolarsi, rischiava di essere fatto a pezzi dal popolo" (180). Il carnefice incarna il ruolo di esecutore di una sentenza di morte; egli svolge un mestiere che, pur tra quelli certamente non appetibili, era pur sempre tra i più necessari al mantenimento dell'ordinamento civile e politico. "Era proprio questa consapevolezza della necessità sociale del carnefice, braccio armato del potere, che determina l'ambiguo giudizio dato a questo mestiere" (181). Si ha la giustificazione sociale del lavoro, ma non sempre dell'uomo che lo pratica. Egli è disprezzato dal popolo, in quanto si vede in lui il braccio armato della giustizia del principe (182). "Il fatto che il boia sia un semplice esecutore di ordini non toglie nulla ... al fatto che egli sia sul piano personale un infame" (183). Egli è un uomo dagli scarsi sentimenti morali; si approfitta della situazione in cui si trova per far soffrire e dominare chi gli capita tra le mani. "Un miserabile, secondo un diffuso stereotipo, per un mestiere miserabile. Egli è preoccupato di far propri, come il bottino di guerra di un soldato di ventura, gli oggetti del condannato e di dimostrare il suo privilegio, unico tra i poveri, di dominare gli uomini tutti, patrizie plebei, allorquando cadono in suo potere" (184). Il pubblico che assisteva alle esecuzioni avvertiva perfettamente se esse erano eseguite a regola d'arte o meno; difatti interveniva con manifestazioni di disapprovazione di fronte ad un boia inesperto. L'ufficio del carnefice è delicato e particolare, e proprio per questo richiede competenze e professionalità. D'altra parte ciò è richiesto a un qualsiasi salariato dello Stato. Il boia, nell'esercizio delle sue funzioni, deve essere imparziale; nei confronti del condannato non vi deve essere alcun sentimento personale, né di avversione né di simpatia. "Ciò non esclude che il compito deve essere svolto con pietà cristiana" (185). "Il carnefice, come il giudice, non pecca, in quanto è la legge a stabilire la morte" (186). Si ritiene comunemente che egli per mestiere debba uccidere e tormentare: era assurdo accusare di omicidio un boia, dal momento che era pagato dallo Stato proprio per questo. Comunque, il sistema giudiziario era "più flessibile di quanto in apparenza potessero far pensare le pene di tipo sanguinario che esso invariabilmente prevedeva" (187). Si ricorreva spesso alla grazia per mitigare le sentenze capitali in casi speciali o degni, per salvare trasgressori 'rispettabili' che potevano godere della protezione di un patrono e in genere per temperare i severi codici penali all'epoca in voga con un uso elastico della clemenza (188). "La magnanimità era, accanto alla ferocia, di cui rappresentava l'alterità dialettica, una delle caratteristiche dell'esercizio del potere nell'età classica" (189). I principi vollero essere definiti 'clementi' esercitando, in occasione delle esecuzioni capitali, la grazia, nei modi più imperscrutabili e spettacolari (190). Le classi dirigenti esprimevano una soddisfazione compiaciuta nei confronti del sistema punitivo, basato sostanzialmente su pene pubbliche piuttosto che sulla detenzione. Le pene capitali costituivano il giusto mezzo per terrorizzare i poveri; "il rituale della berlina, della fustigazione e dell'esecuzione portava il messaggio che la legge voleva difendere proprio nel mezzo della piazza del mercato" (191); la deportazione liberava la madrepatria dagli elementi incorreggibili e costituiva un affare vantaggioso sia per il paese che la realizzava che per le colonie che ricevevano manodopera a basso costo. Inoltre i "magistrati continuarono a ritenere che la sporcizia delle prigioni, lo squalor carceris, fosse uno strumento di terrore appropriato e necessario" (192). I metodi punitivi, abbiamo detto, cominciarono a subire un mutamento graduale ma profondo verso la fine del sedicesimo secolo, quando si cominciò a considerare con attenzione crescente la possibilità di sfruttare il lavoro dei detenuti (193). Le trasformazioni economiche contribuirono ad una maggiore valorizzazione della vita umana (194), facendo sì che lo stato iniziasse a far uso della forza lavoro a sua disposizione utilizzando, appunto, il potenziale di lavoro dei criminali. Nella prima fase dell'epoca moderna si assiste così all'introduzione di tre particolari forme di sanzione penale: la servitù sulle galere, la deportazione, e le varie forme di 'condanna ai lavori forzati'; "le prime due forme di pena solo temporaneamente, la terza come esitante precorritrice di una istituzione che sarebbe durata poi sino ad oggi" (195). Talvolta esse apparvero insieme al sistema tradizionale di pene pecuniarie, corporali e capitali; altre volte tendevano a rimpiazzarle. In Europa, dalla fine del XVº secolo fino al XVIIIº, la servitù sulle galere (196) rappresenta la tipica punizione non solamente per criminali incalliti, ma anche per mendicanti e vagabondi" (197). Il bisogno di rematori divenne particolarmente pressante verso la fine del XVº secolo con lo scoppio delle guerre navali tra le due potenze mediterranee, i cristiani ed i musulmani, in occasione delle quali riprese forza la vecchia pratica di reclutare i forzati tra i prigionieri. "A diffondere questa misura sono gli stati marinari per supplire alla difficoltà di reclutamento di uomini liberi disposti a svolgere volontariamente una attività estremamente dura e rischiosa" (198). Tale finalità è dimostrata dal fatto che la frequenza di queste sentenze aumenta o diminuisce in concomitanza alle variazioni della domanda di rematori; i condannati vengono appositamente selezionati in base alla loro resistenza fisica ed alla loro forza (199), e possono essere liberati - se riescono a sopravvivere alle dure condizioni di esistenza- solo nel caso in cui non siano più sorretti da un buono stato di salute o non siano in grado di svolgere adeguatamente le loro mansioni, nonostante vi fossero esplicite norme che vietavano di trattenere il condannato oltre i termini del periodo di pena; ma tali norme venivano violate assi frequentemente. L'uso delle galere come punizione si basava dunque esclusivamente su considerazioni di carattere economico e non penalistico, sia rispetto alla decisione giudiziaria, sia rispetto all'esecuzione della pena (200). "L'introduzione e la regolamentazione del lavoro forzato sulle galere venivano determinate semplicemente dalla necessità di ottenere la quota richiesta di forza lavoro al prezzo più basso possibile" (201). In questo senso, un decreto francese del 1664 disponeva che la durata minima della sentenza alla galera fosse di dieci anni, con l'argomentazione che gli uomini devono dapprima abituarsi al mare e che sarebbe folle, quindi, liberarli appena essi hanno cominciato ad essere utili allo Stato. Nel XVIIº secolo si riteneva che tale sistema fosse più umano rispetto alle pene corporali, in quanto si servivano contemporaneamente gli interessi del condannato e quelli dello stato. Infatti l'utilizzazione degli uomini sulle galere "rappresentava uno strumento in grado di combinare insieme la perdita della libertà, il lavoro forzato, il principio retributivo, la prevenzione dell'eventuale recidiva del criminale e la rieducazione della sua personalità" (202). "La sanzione penale della deportazione segue una logica simile a quella delineata per la servitù sulle galere e si spiega in funzione delle medesime esigenze" (203). Infatti, a partire dal XVº secolo le potenze coloniali ricorrono alla deportazione per potere utilizzare il lavoro dei condannati nelle colonie e negli insediamenti militari. Fu l'Inghilterra che introdusse per prima la sistematica deportazione dei criminali. "Tale misura è un'ovvia risposta alle istanze di un'epoca nella quale si verifica una carenza costante di lavoratori (204) in rapporto alla vastità delle terre non coltivate e alla forte domanda di prodotti coloniali nella madrepatria" (205). Il trasporto dei deportati costava assai poco ai governi dei vari paesi, poiché coloro che si dedicavano all'attività della deportazione dei condannati traevano ampi guadagni dalla loro vendita come schiavi ai coloni. Ed a coloro che si opponevano a tale pratica, sostenendo che l'esportazione della forza lavoro si traduceva in una perdita di ricchezza ai danni del paese d'origine, sotto forma di manodopera disponibile, si controbatteva che questo tipo di pena veniva comminata solamente a coloro che altrimenti sarebbero stati condannati a morte (206). Infatti, "l'abitudine dei magistrati a graziare criminali condannati a morte ... contribuì a un rapido incremento della deportazione quale mezzo di punizione" (207). "Benché gli assertori della deportazione le attribuiscano una funzione correzionale - normalmente i condannati, dopo un periodo più o meno lungo di lavori forzati, vengono liberati e diventano, a pieno diritto, dei coloni -" (208), tuttavia è lecito ritenere che fossero considerazioni di carattere fisico, di resistenza fisica e di abilità lavorativa a giocare un ruolo determinante per la decisione di sottoporre o meno un criminale a tale misura (209). Infatti prima di comminare tale pena ad un condannato, era abitudine sincerarsi sulle sue condizioni fisiche. Alla fine del XVIIº secolo, in alcuni stati, "la deportazione divenne pena ordinaria nei casi di reati di furto semplice e aggravato e non più una semplice possibilità di commutazione della pena a discrezione del giudice. La ragione che si addusse per questo mutamento fu il grande bisogno di schiavi nello sviluppo delle piantagioni coloniali" (210). Se nel paese d'origine i possibili destinatari guardavano alla deportazione con timore, in seguito alla paura dell'ignoto, alla insicurezza generata dal fatto di venire sradicati dalla propria terra e dal proprio ambiente naturale per essere relegati in un paese sconosciuto e verosimilmente ostile, e al fatto di essere sottoposti a sforzi e a maltrattamenti inauditi, nelle colonie "generalmente la deportazione non veniva considerata realmente una pena, poiché i più capaci, in ogni caso, non sarebbero mai riusciti a godere di un simile tenore di vita" (211) nella madrepatria. Inoltre i prigionieri più ricchi potevano riscattarsi, e convertire in questo modo la sentenza in un semplice bando. Molti condannati, una volta scontata la pena, riuscivano a reinserirsi socialmente nel nuovo ambiente, divenendo col tempo agricoltori o piantatori indipendenti, e riuscendo in certi casi ad accumulare notevoli fortune, cosa impensabile da realizzare nei loro paesi d'origine. "Con l'introduzione, negli ultimi decenni del XVIIº secolo, della schiavitù nera, le condizioni dei servi coloniali bianchi cominciarono a peggiorare" (212); una così alta offerta di lavoratori alleviò considerevolmente la richiesta da parte delle colonie, e il trasporto dei condannati cessò di essere un affare redditizio, poiché gli schiavi neri quotavano un prezzo più alto sul mercato che non i criminali, che erano disponibili solo per un periodo di tempo limitato. Veniamo adesso a trattare del terzo tipo di sanzione penale introdotta nell'epoca mercantilistica; essa ci interessa non solo per il suo carattere innovativo rispetto alle tradizionali forme di punizione, ma soprattutto per i riflessi e le conseguenze che produrrà relativamente allo sviluppo dell'istituzione carceraria come pena privativa della libertà personale per un quantum di tempo preventivamente determinato.

2: Le case di correzione e di lavoro

Nel corso del periodo mercantilista si assiste alla nascita di una istituzione che, sebbene non nasca con intenti assimilabili a quelli del carcere, finirà però per influenzarne la costituzione, confondendosi e sovrapponendosi ad esso (213), nonostante la distanza teorica che separa le due forme di privazione della libertà personale (214). L'innovazione più stabile dell'epoca del mercantilismo fu costituita, appunto, dall'utilizzo del lavoro forzato in madrepatria, all'interno di istituzioni appositamente progettate, e finalizzate ad educare i detenuti al lavoro ed alla disciplina. "Il primo esempio risale ad un istituto, il London Bridewell, aperto nel 1555, per liberare la città dai vagabondi e dai mendicanti, che promuove un sistema di 'assunzione temporanea' idonea a consentire agli imprenditori locali di sfruttare la forza lavoro di soggetti normalmente allo sbando" (215). Su richiesta di alcuni esponenti del clero inglese, allarmati per le proporzioni raggiunte dalla mendicità in Londra, il Re concesse di usare il palazzo di Bridewell per accogliere vagabondi, oziosi, ladri e autori di reati di minore importanza. "Scopo dell'istituzione, che era condotta con mano ferrea, era riformare gli internati attraverso il lavoro obbligatorio (216) e la disciplina. Inoltre esse doveva scoraggiare altri dal vagabondaggio e dall'ozio e, particolare non irrilevante, assicurare, attraverso il lavoro, il proprio automantenimento" (217). Con un atto successivo del 1576, istituzioni dello stesso tipo vennero erette in tutto il paese. Fu così l'Inghilterra ad aprire il cammino, anche se la vetta dei nuovi sviluppi venne raggiunta in Olanda, con l'istituzione della Rasp-huis (218). "Attraverso il lavoro degli internati l'istituzione doveva essere in grado di assicurarsi il proprio finanziamento, ma non vi era profitto individuale né dei reggenti, che ricoprivano un incarico onorifico, né dei guardiani, che avevano un salario" (219). Ciò distingueva la nuova istituzione dalle carceri di custodia, in cui la possibilità per il guardiano di estorcere continuamente denaro ai prigionieri era stata una delle cause della terribile situazione in esse esistente. Le sentenze erano in genere brevi, e per un periodo di tempo determinato, che poteva però essere modificato secondo il comportamento del detenuto. La casa di correzione per molto tempo ancora non sostituì tutta la gamma delle punizioni vigenti (220). "L'istituzione era su base cellulare, ma in ogni cella stavano diversi internati. Il lavoro veniva praticato in cella o nel cortile centrale secondo la stagione" (221). L'Olanda "possedeva il sistema capitalistico più altamente sviluppato d'Europa, ma non disponeva di quella riserva di forza lavoro che si aveva invece in Inghilterra dopo tutto il movimento delle recinzioni" (222). Venne intrapresa ogni sorta di sforzo non solo per assorbire all'interno dell'attività economica tutte le riserve disponibili di forza lavoro, "ma anche per 'risocializzarle' in modo tale che, nel futuro, esse si mettessero volontariamente a disposizione del mercato" (223). La creazione di questa nuova e originale forma di segregazione punitiva sembra rispondere più ad una esigenza connessa allo sviluppo generale della società mercantilista che alla singola genialità di qualche riformatore; ciò è reso palese dal fatto che "alcuna influenza diretta sembra esservi stata dalle anteriori esperienze inglesi (bridwelles) su quelle olandesi del XVII sec." (224). Basandosi sull'ottica calvinista, si chiese "a gente soddisfatta del lavoro di una settimana di quattro giorni e che preferiva passare il tempo rimanente come meglio gli pareva, di credere che il dovere di lavorare fosse di per sé il vero scopo dell'esistenza" (225). Ovviamente la gran parte dei lavoratori non era disposta ad accettare la nuova teoria volontariamente, e la severa disciplina che si cercava di imporre attraverso il catechismo non era da sola sufficiente a risolvere i problemi sociali. "Era necessario adottare misure più estreme: di qui nacquero le case di correzione, ove chi si mostrava poco volenteroso veniva obbligato a condurre la propria vita quotidiana" (226) all'insegna del lavoro. Lo scopo fondamentale di tali istituzioni era di rendere socialmente utile una forza lavoro ribelle; "si sperava che, attraverso l'addestramento forzato dentro l'istituzione, i detenuti avrebbero assunto costumi industriosi e appreso, allo stesso tempo, una istruzione professionale, in modo che, una volta liberi, sarebbero andati volontariamente ad ingrossare il mercato delle braccia" (227). Oltre a contribuire alla nascita del capitalismo (228), queste istituzioni pongono le basi del sistema penitenziario moderno. "La casa di correzione fu la prima istituzione europea in cui i detenuti erano contemporaneamente confinati e fatti lavorare, allo scopo di apprendere 'l'abitudine all'operosità'. In questo primo uso della detenzione come strumento di educazione coatta possiamo rintracciare il germe dell'idea di rimodellare il carattere dei devianti con strumenti disciplinari" (229). Dapprincipio, i soggetti internati in queste strutture sono solo piccoli delinquenti, mendicanti abili, vagabondi, oziosi, prostitute e ladri (230), insomma gli autori di reati meno gravi, ma con il tempo si aggiungono anche delinquenti più pericolosi, uomini che erano stati fustigati, marchiati, e condannati a lunghi periodi di pena (231). "Al crescere e al consolidarsi della buona reputazione che l'istituzione si andava facendo, i cittadini presero a rinchiudervi i figli buoni a nulla (232) e i parenti prodighi" (233) e bisognosi di correzione (234). Vennero create case di correzione dove i giovani poveri ricevevano la prima educazione; alcune case ospitavano giovani che avevano commesso piccoli reati, per correggerli ed emendarli, evitando di mandarli nelle carceri, dove la corruzione morale del luogo avrebbe solo peggiorato la loro situazione. Molte città andarono oltre e vi ammisero i poveri ed i bisognosi quando questi non erano in grado di guadagnarsi da vivere. Tale impostazione venne sviluppata in particolar modo dagli 'Hòpitaux généraux' (235) francesi, ove si arrivò a sfamare e far lavorare anche vedove ed orfani (236). "La forza lavoro dei detenuti veniva sfruttata o direttamente dalle autorità, che dirigevano esse stesse l'istituzione, oppure affittando la manodopera a un imprenditore privato" (237). Il lavoro dei detenuti serviva per produrre beni commerciabili, e la casa di correzione era gestita quasi come una fabbrica, con personale che percepiva stipendi sulla base dei proventi delle vendite (238). Solo una distinzione teorica può essere rilevata "tra una casa di correzione (Zuchthaus): una prigione per ladri o borseggiatori regolarmente condannati, e una casa di lavoro (Arbeitshaus): un'istituzione per la reclusione di mendicanti e di altri, incappati in qualche modo nelle maglie della polizia, sino alla loro correzione" (239); ma tale distinzione venne limitata appunto al piano teorico, senza influenza alcuna sul piano pratico (240). Non viene proposta alcuna differenziazione tra le varie categorie di trasgressori; "assai difficilmente ci si sarebbe potuti aspettare una reale differenziazione, poiché un rispettabile mercante d'Amsterdam non avrebbe mai distinto tra un ozioso arrestato dagli uomini dei reggenti e un ladro legalmente arrestato e condannato: entrambi, infatti, erano colpevoli d'aver violato i principi dell'etica calvinista" (241). E tale impostazione filosofica si riscontra esattamente nella impostazione delle case di correzione di tutta Europa, nelle quali non si riesce a dividere i condannati dagli altri detenuti. Anche se i vari regolamenti segnavano distinzioni tra le varie categorie di internati, non si ha tuttavia alcuna indicazione che queste ricevessero realmente un trattamento differenziato (242). "Occasionalmente, la prassi di inviare sempre più i criminali alle case di correzione portò ad una qualche separazione dagli altri detenuti, ma poiché lo sfruttamento della forza lavoro rappresentava la considerazione decisiva, in ultimo le condizioni del luogo e in particolare i problemi dell'affollamento determinavano se la separazione indicata dalle finalità pedagogiche corrispondesse poi ad una sua realizzazione pratica" (243). La forma originaria del carcere moderno è quindi saldamente legata alle case di correzione manifatturiere, e "poiché l'obiettivo principale non era costituito dalla rieducazione degli internati ma dallo sfruttamento razionale della loro forza lavoro, il modo in cui questi venivano reclutati non era certo il problema centrale dell'amministrazione" (244); né era, d'altro canto, la considerazione più importante rispetto alla futura liberazione poiché "il periodo di detenzione nel caso di internati giovani o appena addestrati veniva determinato con esclusivo riferimento ai bisogni dell'istituzione o degli appaltatori" (245). I lavoratori più preziosi, il cui mantenimento e addestramento aveva comportato costi considerevoli, dovevano essere trattenuti il più a lungo possibile, così che il periodo di detenzione veniva arbitrariamente fissato dagli amministratori in tutti i casi. (246) Si verificavano così evidenti ingiustizie; alcuni detenuti venivano liberati dopo poche settimane, altri trasgressori di minor rilievo venivano trattenuti per anni. Molti pensatori dell'epoca si batterono apertamente per la sostituzione della pena capitale con la reclusione, sostenendo che "l'esecuzione capitale può apparire poco costosa nel breve periodo, ma è improduttiva e dispendiosa nel lungo, perché i nuovi metodi punitivi costringono invece coloro che hanno infranto le leggi dello Stato a lavorare per il suo profitto" (247). In una situazione in cui la politica sociale era casuale e la politica criminale aveva esclusivamente carattere repressivo e di breve periodo, "l'istituzione delle case di correzione non era il risultato dell'amore fraterno o di un pubblico sentimento di solidarietà nei confronti dei diseredati, ma faceva semplicemente parte" (248) dello sviluppo economico (249). Di tutte le motivazioni che contribuirono a rafforzare l'idea della privazione della libertà personale come forma di pena, la più importante fu senz'altro quella del profitto, sia nel senso più limitato di rendere produttiva la stessa istituzione, che in quello generale di trasformare l'intero sistema penale in una parte del programma mercantilistico dello stato. Lo scarso interesse che lo Stato aveva riposto sino allora nella giustizia penale era dovuto in buona parte al fatto che esso non si aspettava alcun profitto dalla esecuzione della pena e cercava di trattare i detenuti nel modo meno costoso possibile; si riteneva che lo stato non dovesse compiere alcun esborso impegnativo (250). I detenuti maschi venivano utilizzati principalmente per polverizzare legni durissimi usati dai tintori, secondo la pratica introdotta inizialmente, come abbiamo detto, nella casa di Amsterdam (251). Le donne, quasi sempre prostitute o mendicanti, venivano occupate nella filatura. Quando si praticava il sistema della concessione del lavoro "l'interesse economico del concessionario finiva per significare la compressione delle condizioni di vita dei carcerati al livello minimo possibile" (252); inoltre, allo scopo di assicurare un margine di guadagno all'istituzione, "i detenuti venivano fatti lavorare per un periodo di tempo considerevole dopo che il loro periodo di addestramento era finito, allo scopo di rifarsi dei costi del mantenimento e dell'istruzione" (253). Sul punto strettamente economico, le autorità si scontrarono con le corporazioni, che "presero immediatamente a considerare il lavoro nelle case come una rottura del loro monopolio" (254). L'uso della religione come strumento per inculcare la disciplina ed il lavoro duro costituiva dovunque una caratteristica essenziale di queste istituzioni. (255) Comunque la produttività del lavoro costituiva la prerogativa essenziale; infatti "i doveri religiosi venivano trascurati tutte le volte in cui mettevano in pericolo l'efficienza del lavoro; se la messa coincideva con l'inizio dell'attività lavorativa, essa veniva anticipata o si ometteva il catechismo" (256). La costruzione di nuovi edifici e, più frequentemente, il riadattamento di vecchi, di solito veniva finanziato dalle autorità, salvo occasionali donazioni private, come nel caso dello 'Spinnhaus' (257) per malfattori eretta ad Amburgo nel 1669. Secondo l'ottica dell'epoca, i vantaggi materiali e morali di questo tipo di privazione della libertà personale provenivano dal fatto che i reclusi venivano volti "dalla malvagità alla pietà, dal vizio alla virtù, dalla strada verso la distruzione al diritto sentiero della salvezza, dalla pigrizia, che istupidisce gli uomini, al lavoro, utile a loro stessi e alla società" (258). In realtà, lo stato poneva i propri interessi finanziari al di sopra dello scopo rieducativo dei detenuti; "in alcuni casi ci si sforzava di fornire agli stabilimenti delle fonti permanenti di reddito, garantendo la produzione di generi di monopolio o destinando ad essi il ricavato di certe tasse" (259). "Sotto molti aspetti queste istituzioni statali erano i prototipi della fabbrica (260), anche se molta dell'esperienza acquisitavi era di tipo negativo: il rapido succedersi di prigionieri e la proverbiale bassa produttività del lavoro forzato rendevano arduo ricavarne profitti e molti appaltatori non rispettavano o rinunciavano ai propri contratti" (261). Siccome gli appaltatori riuscivano raramente a ricavare un profitto dal lavoro dei prigionieri, vi erano poche case dove esso fosse imposto con vigore. Non per questo le case di correzione erano luoghi idilliaci: "Le donne che disobbedivano al carceriere erano costrette a stare in piedi incatenate anche per ventiquattro ore di seguito" (262). I carcerieri erano autorizzati a frustare i detenuti in caso di insubordinazione (263). Inoltre, in molte case, i guardiani "spogliavano chiunque senza pietà del denaro posseduto, mentre i vagabondi logori e spossati che le guardie vi conducevano erano spesso lasciati morire, abbandonati senza cibo sui tavolacci freddi delle celle" (264). Non vi era nessuna legge che obbligava le case di correzione a nutrire i propri detenuti. In teoria si supponeva che costoro si guadagnassero il pane con i lavori forzati e che la casa pagasse il cibo con la vendita degli articoli prodotti. In pratica, tuttavia, molte case non trovavano appaltatori disposti a mettere al lavoro i detenuti, che quindi si trovavano sprovvisti di ogni forma di sostentamento. La maggior parte dei detenuti dipendeva da denaro e provviste portate da amici. Lo scopo principale delle case di correzione era inculcare a forza la disciplina nelle menti degli internati, attraverso la sottomissione a regolamenti particolareggiati, severi ed inflessibili. Comunque, "secondo criteri di giudizio posteriori non vi era nulla di 'totale' in queste prime case di correzione, luoghi in realtà abbandonati a se stessi e disordinati. Uno schizzo del cortile della casa di correzione di Amsterdam, ci mostra un insieme casuale di attività: in un angolo un uomo sferzato, in un altro, due persone che lavorano ceppi, un gruppo di donne condotte in visita e un uomo che picchia un ragazzino; nessun segno che qualcuno comandi; l'attività ruota attorno a una statua della giustizia che osserva la scena, fiera ma impotente" (265). Non è possibile concludere, in generale, se le case di correzione ebbero successo da un punto di vista puramente commerciale (266); esse, in seguito alla loro popolazione omogenea ed alla amministrazione sovente corrotta (267) cominciarono ad indebitarsi durante la seconda metà del XVIIº secolo. Certo è che esse ebbero successo dal punto di vista della disciplina e della riorganizzazione della gestione della forza lavoro (268); ed è inoltre certo che "la possibilità di ricavare profitti costituiva una motivazione decisiva" (269) per la loro costituzione. Questa nuova istituzione penale, la casa di correzione, ebbe un impatto lieve sul mercato del lavoro europeo (270). "Ma questa stessa istituzione ebbe in definitiva un'enorme influenza sullo sviluppo della punizione del crimine" (271). Il concetto di incarcerazione portava direttamente all'idea della sentenza come pena fissata e determinata, che poteva essere adattata con precisione a ciascun crimine particolare, ed era considerata un'alternativa efficace alle pene corporali. La natura arbitraria delle pene precedenti poteva essere sostituita da un metodo logico di punizione, che si adattava meglio alle moderne concezioni di una giustizia e di una legge razionali. L'idea di eguaglianza di fronte alla legge estenderà fino a comprendere l'eguaglianza in termini di pena. Inoltre le houses of correction rappresentano "il primo e altamente significativo esempio di detenzione laica non a fini di mera custodia che possa essere osservata nella storia del carcere e che i tratti che la caratterizzano, per quanto riguarda le categorie destinatarie dell'istituzione, la sua funzione sociale e l'organizzazione interna sono già grosso modo quelli del classico modello carcerario ottocentesco" (272). Il Seicento ed il Settecento crearono poco alla volta quel tipo di istituzione che prima l'Illuminismo e poi i riformatori dell'Ottocento avrebbero assunto come modello nella formulazione della moderna forma del carcere. Ma prima di analizzare come tale evoluzione si sia potuta verificare a partire dalla seconda metà del Settecento, rivolgiamo la nostra attenzione al ruolo ed alla posizione che il carcere ricopriva nell'universo penale mercantilistico.

3: Il carcere mercantilistico: una forma di pena ancora marginale

Il problema, quando ci si occupa della detenzione carceraria, è quello di distinguerla da altre forme di detenzione che ad essa si avvicinano, in particolare la detenzione correzionale coatta e quella correzionale 'volontaria'. Il problema sorge non tanto sul piano teorico, dove la distinzione è abbastanza netta, quanto sul piano pratico, dove la confusione tra carcere e case di correzione di vario genere si manifesta sistematicamente (273). Per tutto il periodo mercantilista la detenzione carceraria venne usata raramente per punire i reati. Secondo i trattati dei giuristi del periodo che va tra la fine del 1500 e l'inizio del 1600, il carcere è descritto come un luogo malsano, una specie di tortura, equiparabile alla morte nel caso che sia perpetuo; esso è un luogo orribile, sia per la privazione dei rapporti con gli altri uomini, sia per lo squallore che in esso di trova. "E pertanto il giudice deve astenersi dall'ordinare ogni 'indebita captura' affinché i poveri uomini non siano detenuti illecitamente" (274). Si sostiene che i detenuti non debbano subire alcuna pena oltre alla detenzione, perché il carcere non esiste per punire ma solo per custodire; ciò nella teoria, perché nella prassi il carcere era visto come una sorta di pena corporale (275). I carcerati dovrebbero essere posti in luoghi non scuri e tetri ma chiari e illuminati, e non dovrebbero essere assoggettati a catene o ferri, ma dovrebbero "restare slegati e liberi nella persona" (276), poiché legare i carcerati esula dalla semplice custodia e diviene invece una punizione. "L'obiettivo della custodia può infatti ben essere conseguito anche 'sine legamine'. Se il custode impone invece al carcerato 'manicas ferreas' o lo tiene in altro modo legato 'excedit formam custodiae', perché questi legamenti sono 'genus tormenti, nec ad simplicem custodiam pertinent'" (277). Tali principi valevano, però, solo nel caso della carcerazione preventiva; una volta emessa la sentenza e la condanna al carcere, è consentito che il carcere sia oscuro, ferreo, sotterraneo, dotato di catene, ecc. "Ciò anche perché vi è la consuetudine che il carcere al quale il reo è condannato sia tale che il detenuto debba morirvi entro pochi giorni" (278); pochi sono coloro che per 'aeris intemperiem' resistono a lungo. Comunque, il carcere ha effettivamente uno scarsissimo peso all'interno del sistema delle pene, "al punto che alcuni scrittori, e non dei minori, ne parlano quasi soltanto con riferimento al momento preventivo della 'captura'" (279). I delitti più gravi erano puniti, come abbiamo visto, con la deportazione, la galera, la fustigazione, la gogna e le varie forme di esecuzione capitale piuttosto che con il carcere (280). "I periodi di detenzione erano brevi, mai superiori a tre anni e in generale di un anno o meno, ed erano inflitti a una categoria ristretta di criminali, condannati per omicidio colposo, frodi commerciali, spergiuri, associazioni contro i datori di lavoro e sommosse. ... Le motivazioni che giustificavano l'uso della detenzione in casi simili sa parte dei giudici non sono affatto chiare" (281). L'imprigionamento rientrava fra le tattiche di concessione quale compromesso intermedio, e quindi pietoso, tra la deportazione e la pena capitale, ma a parte queste occasioni speciali i giudici si servivano raramente delle carceri per punire crimini gravi (282). "Per tali delitti, i più frequenti dei quali erano la rapina lungo le strade, furto con scasso, abigeato, furto aggravato, assassinio e incendio doloso, la pena era in teoria la morte". Le carceri continuavano ad essere più un luogo di reclusione per debitori e per chi doveva essere sottoposto a procedimenti giudiziari (283) che un luogo di pena. "Il carattere personale dei rapporti di lavoro dovette probabilmente favorire la diffusione di sanzioni comminate in privato (284) più che il ricorso ai rimedi ufficiali offerti dallo stato. Comunque, le carceri, similmente alle case di correzione, erano luoghi in cui la mescolanza dei reclusi era una caratteristica ineliminabile. Vediamo quante e quali categorie di persone avremmo incontrato nel corso di una visita ad una prigione seicentesca. "In esse erano rinchiusi i debitori e le loro famiglie finché non avevano potuto dar soddisfazione ai creditori o finché non erano liberati perché dichiarati insolventi" (285). Fintanto che restavano in carcere, i debitori erano mantenuti a spese dei creditori (286). Non potevano essere legalmente incatenati o costretti a lavorare, era loro concesso di vivere con moglie e figli e potevano ricevere visite o avere altri contatti con l'esterno. "Le persone delle classi superiori prendevano in affitto dal carceriere appartamenti separati nella cosiddetta 'ala del padrone'. Una volta che tutte le stanze erano occupate, chi sopraggiungeva era costretto a sistemarsi in comune, cioè a prendere in subaffitto una parte delle stanze da altri prigionieri o perfino da persone che, pur non avendo rapporti con il carcere, vi affittavano camere" (287). Il carceriere ricavava le proprie entrate da una interminabile serie di ingegnose estorsioni a danno dei detenuti. "Oltre che affittare stanze ai prigionieri, egli gestiva in genere un caffè e una birreria per i detenuti e i visitatori" (288). Il carceriere vendeva inoltre, in alcuni casi, il privilegio di vivere al di fuori delle mura del carcere (289). Dato che i debitori godevano del privilegio di esenzione dalla disciplina del carcere, i carcerieri in genere permettevano che essi mantenessero da soli l'ordine all'interno della propria comunità. "Di conseguenza la vita sociale nelle carceri per questa categoria si svolgeva senza controlli" (290). I detenuti in attesa di giudizio erano in genere in catene, ma a volte venivano lasciati liberi di muoversi a piacere entro i confini del carcere, di ricevere visite senza limiti e di non lavorare. I detenuti in attesa di giudizio per delitti minori erano raramente messi ai ferri, e godevano dei privilegi accordati a chi non era stato ancora condannato. I condannati a morte, in attesa dell'esecuzione o della grazia, erano abitualmente incatenati nelle 'celle dei condannati'. Vi erano inoltre alcuni criminali che scontavano pene detentive e deportati in attesa di essere imbarcati. "In teoria queste categorie dovevano essere isolate l'una dall'altra in reparti separati, ma in pratica i carcerieri non avevano guardiani sufficienti per far rispettare questa disposizione. I detenuti si mescolavano liberamente nei cortili, e dividevano fra loro i vari privilegi" (291). Si tendeva così ad uniformare il trattamento riservato ad innocenti e colpevoli; i detenuti in attesa di giudizio erano spesso incatenati e sottoposti ad esazioni non meno dei condannati. "Molti detenuti erano in un certo senso puniti anche dopo l'assoluzione, in quanto languivano in carcere perché non erano in grado di pagare le spese di liberazione che il carceriere richiedeva prima di scioglierli dai ceppi" (292). Anche nelle carceri, così come nelle case di correzione sovente ai detenuti non veniva fornito alcun cibo da parte dell'amministrazione, o quello che veniva fornito era palesemente insufficiente (293). "In alcune prigioni si permetteva ai detenuti poveri di mendicare cibo e denaro da apposite inferriate" (294). I detenuti, per nutrirsi e vestirsi, potevano fare affidamento sull'assistenza privata; "era una pratica filantropica diffusa fare lasciti per i prigionieri poveri e per la liberazione di debitori insolventi e a volte i membri di una giuria destinavano il denaro ricevuto, come rimborso spese, al mantenimento dei carcerati" (295). Poiché le autorità avevano obblighi limitati nei loro confronti, dovevano almeno autorizzare accesso illimitato a parenti e amici. "Le mogli si recavano abitualmente ogni giorno alle porte del carcere, portando il pasto ai mariti; esse potevano girare per i cortili a piacere dall'alba al tramonto e un'oculata corruzione poteva assicurare la possibilità di trascorrere la notte nel carcere. I rapporti sessuali tra i detenuti e persone che provenivano dall'esterno erano frequenti" (296). I facili rapporti tra il mondo della prigione e quello della strada si possono spiegare con il fatto che questi luoghi erano in gran parte riservati a debitori ed a persone in attesa di giudizio. Queste categorie di detenuti avevano il diritto di vedere senza limiti legali e amici. Il carceriere quindi era responsabile solamente della loro custodia. "Ovviamente il sistema più efficace e meno costoso di assicurare la custodia dei criminali consisteva nell'incatenarli; in tal modo si eliminava la possibilità di tenere un gran numero di guardie e di costruire edifici sicuri, circondati da alte mura" (297). Paradossalmente, l'uso delle catene contribuiva a facilitare i contatti tra carcere e mondo esterno; infatti, poiché i condannati portavano catene, era possibile dare libero accesso ai visitatori in ogni parte del carcere. "Grazie alle catene vennero del tutto abolite le mura o le si lasciarono cadere in rovina" (298); comunque, dove erano ancora presenti, le mura non impedivano di gettare cibo od oggetti dall'esterno, o ai prigionieri di conversare con la gente nella strada. "Anche se la distanza fisica fra i due mondi era sovente mantenuta solo da un muro fragile e basso, la distanza amministrativa era enorme. L'autorità del carceriere era esercitata per lo più senza controllo o esame dall'esterno" (299). Se i due mondi erano legati per questioni concernenti il cibo e i rapporti sessuali ed umani, per quanto riguardava l'esercizio del potere e l'amministrazione finanziaria, la prigione era uno stato dentro lo stato. "La magistratura non si curava neppure di stendere regolamenti che definissero l'autorità dei carcerieri e il tipo di disciplina che dovevano applicare. Il risveglio e il silenzio, il programma di lavoro, l'uso delle catene e le punizioni da infliggere a detenuti riottosi, la pulizia delle carceri erano lasciati alla discrezione dei carcerieri e del loro subalterni" (300). L'autorità esercitata all'interno della prigione variava quindi secondo la moderazione, il senso del dovere e la risolutezza di chi doveva farla rispettare (301). "L'indipendenza finanziaria del carceriere dallo stato, resa possibile grazie alle rendite che egli ricavava da esazioni consuetudinarie legate alla carica, rendeva il suo operato pressoché incontrollabile da parte della magistratura. I carcerieri estorcevano denaro per mettere in catene un prigioniero, per liberarlo, per la 'prima detenzione', per copie di ogni documento legale del tribunale, per la concessione di un materasso invece del tavolaccio o del pavimento di pietra e infine per il rilascio in seguito a non luogo a procedere o per aver scontata la pena" (302). Anche i secondini ricevevano esazioni, ad esempio per uscire a comperare il cibo o per concedere ai prigionieri il privilegio di restare fuori dalla cella dopo il silenzio. "La maggior parte dei detenuti, però, era troppo povera per pagare queste spese e chiedeva al tribunale di esserne esentata. In tal caso i magistrati versavano una certa somma compensativa, che sarebbe dovuta servire al mantenimento del carcerato, al carceriere, ma siccome il denaro così riscosso era in genere ben poca cosa rispetto a quello che avrebbe potuto ricavare altrimenti, il tribunale non aveva alcuno strumento di pressione sulla sua condotta" (303). Le somme di denaro che i carcerieri ricavavano da queste esazioni provenivano soprattutto da debitori e da persone ricche, depredate senza ritegno in cambio di alloggio (304), vitto, vestiario e alcolici (305). "Un simile sistema, finanziato con esazioni, istituzionalizzava un trattamento ineguale fra detenuti ricchi e quelli poveri. Sistemati nell'ala padronale, i ricchi in attesa di giudizio potevano ottenere ogni cosa che il denaro potesse comperare" (306). Un'altra fonte di entrate per i carcerieri era, come abbiamo visto, la mescita della prigione; "oltre ai clienti rappresentati dai prigionieri che potevano essere costretti a pagare qualsiasi somma si avesse la sfrontatezza di chiedere loro, i carcerieri potevano contare sulla presenza di un flusso costante di visitatori" (307). Liberi dal controllo delle autorità e finanziariamente indipendenti, i carcerieri erano a tutti gli effetti appaltatori privati più che funzionari stipendiati (308); erano lasciati liberi di gestire le carceri come meglio credevano; assumevano guardiani e applicavano la disciplina nel modo che ritenevano più opportuno. "La loro discrezione non era però assoluta e pare che dovessero dividere il potere, o almeno raggiungere un compromesso, con varie comunità di prigionieri" (309). Si verificava una divisione informale del potere fra le guardie e l'élite dei prigionieri, le cui comunità si autogovernavano e si autofinanziavano. Abbiamo visti il caso dei debitori; i carcerieri non erano autorizzati a limitare i loro rapporti con l'esterno o a ridurre i loro privilegi. "Anche i detenuti in attesa di giudizio non potevano essere costretti a lavorare o essere sottoposti alla disciplina carceraria e quindi i carcerieri tendevano a lasciare che si controllassero da soli. Era loro interesse farlo, poiché pagavano i salari dei guardiani di tasca propria e quindi la maggior parte dei carcerieri assumeva meno personale possibile" (310). Le condizioni di vita all'interno del carcere erano, anche per questo, disastrose; oltre alle vessazioni ed ai soprusi da parte dei carcerieri, i detenuti erano costretti a vivere in condizioni igieniche deplorevoli, in locali umidi, angusti e tetri, preda degli insetti dei pidocchi. Il sovraffollamento delle carceri, dovuto al fatto che le autorità non avevano intenzione di spendere troppi soldi in una istituzione che tutto sommato non ricopriva ancora un ruolo importante in ambito penale, non contribuiva certo a migliorare le cose. Comunque i detenuti non erano completamente abbandonati a se stessi; grazie all'istituto della visita, essi potevano sperare di migliorare le misere condizioni in cui versavano. Nel passato, quando ancora non esisteva o non era stata compiutamente formalizzata la inderogabilità della pena, la 'visita' costituisce un problema centrale, a tal punto che la storia del carcere si presenta come una storia delle visite al carcere. "La composizione mista del tribunale della visita (giudici, pubblici ministeri, deputati della carità, avvocati dei poveri, ecc.) coinvolgeva tutti coloro che in qualche modo avessero a che fare con il carcere, senza distinzioni di ruoli, e consentiva una indagine approfondita delle varie posizioni individuali sottoposte al suo esame" (311). Questo tribunale sui generis godeva di poteri assai ampi: poteva diminuire le pene, risolvere con i creditori le questioni relative ai carcerati per debiti e quindi disporre la loro scarcerazione (312), liberare carcerati per crimini anche gravi (313); si informava sulle condizioni di vita dei detenuti, cercando di migliorarle, e di limitare al minimo gli abusi compiuti dai guardiani; provvedeva inoltre ad una equa distribuzione delle elemosine che a vario titolo erano state donate per il sostentamento dei detenuti. In genere la visita avveniva almeno una volta la settimana, e vi era l'obbligo da parte dei custodi di presentare ai visitatori tutti i detenuti, nessuno escluso. In alcuni paesi ogni giudice è obbligato a visitare settimanalmente i carcerati che sono divenuti tali per opera del suo tribunale, informandosi sul loro stato ed in particolare su come erano assistiti nella loro difesa. "I custodi del carcere, dopo la visita, qualora ne siano richiesti dai visitatori o dall'avvocato dei poveri, sono tenuti a dare l'elenco dei criminali incarcerati nelle segrete, con la indicazione della durata della carcerazione e del giudice procedente" (314). Le visite costituiscono un mezzo di controllo sul carcere del tutto interno alla pubblica amministrazione; invece, "le possibilità di intervenire sulla concreta gestione del carcere consentite alle compagnie di carità (315) costituiscono un elemento di partecipazione esterna, che non va sottovalutato" (316). Le varie compagnie, tutte o quasi condotte ed animate da religiosi motivi, hanno un ruolo non secondario nella vita del carcere, e spesso le autorità si preoccupano di assicurare loro dei proventi (317) per supportarle nelle loro attività. Il compito di tali confraternite era assistere i prigionieri nei loro bisogni spirituali e materiali, ed i loro poteri di intervento erano assai ampi, analoghi a quelli del tribunale della visita, di cui facevano quasi sempre parte. Le visite costituivano infatti il compito di maggiore importanza delle compagnie (318). I loro esponenti visitavano le carceri ogni giorno; i carcerieri erano obbligati a farli passare ed a farli conferire con i detenuti, affinché essi potessero "ascoltare con pazienza le querele di quei miseri, consolarli con benignità nelle loro afflizioni, e caritatevolmente vedere ciò di che più abbisogneranno, affine che ne vengano provvisti" (319). Le compagnie intervenivano in quei luoghi desolati per portare conforto, fornire pane e vestiti a chi ne aveva bisogno, assistere gli infermi privi di giaciglio e di medicine, curare la pulizia delle camere (320), consolare i condannati a morte; assistevano le comuni distribuzioni delle elemosine, affinché fossero distribuite equamente e non venissero rubate dai carcerieri; si preoccupavano che i detenuti ammalati fossero curati, e fornivano loro una assistenza caritatevole; cercavano di scoprire se i detenuti fossero maltrattati o vessati oltremodo dai guardiani; utilizzavano i denari ricevuti dalle donazioni in qualsiasi modo fosse stato necessario per mitigare le dure condizioni di vita (321) che attendevano i detenuti, condannati e non; celebravano una messa quotidiana all'interno del carcere, somministravano i sacramenti ai carcerati, insegnavano il catechismo. Ecco dunque come si presentava l'istituzione carceraria del periodo mercantilista; pochi elementi la differenziavano dalle prigioni medievali, essa costituiva ancora un elemento marginale nell'ambito dell'universo penale. Ma l'attenzione e l'interesse nei suoi confronti stavano gradualmente aumentando; alla fine del Settecento si sarebbero verificate delle condizioni tali da permettere alla detenzione di cominciare a proporsi come pena in grado sostituire tutte le altre e di sintetizzare in un unico tipo di punizione le innumerevoli forme dell'universo punitivo.

Note

1. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 7.

2. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 31.

3. Ibidem, pag. 32.

4. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 32.

5. Ad esempio i vecchi diritti consuetudinari, tramite i quali le classi contadine potevano far fronte ai ciclici periodi di povertà, come il furto di sterpi, frutti dagli alberi e legname. Nella società feudale, infatti, i braccianti, i contadini ed i coltivatori più poveri avevano diritti consuetudinari di caccia, raccolta di legna, rami secchi, torba ed altri doni della natura, diritti che i ceti possidenti avevano rispettato come parte inviolabile del tradizionale ordine rurale. In tal senso l'allargamento della definizione di crimine rappresenterebbe l'ampliamento dei diritti di proprietà dei proprietari agricoli a spese del diritto comune e della consuetudine. La regolamentazione dei salari richiedeva difatti che tali fonti alternative o sussidiarie di sussistenza, come anche il bracconaggio ed i furtarelli, fossero il più possibile impedite; si può quindi scorgere, nel tentativo di criminalizzare le usanze dei poveri, un intento di regolamentazione del lavoro.

6. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", Arnoldo Mondadori Editore S.p.a., Milano, 1982, pag. 18.

7. Si veda a tal proposito il proliferare di pene severe nei confronti dei falsificatori e dei contraffattori; ad esempio in Inghilterra tali reati comportavano la pena di morte, anche se poi nella pratica l'applicazione delle pene era assai elastica e consentiva un ampio grado di discrezione al giudice e atteggiamenti di pietà da parte dell'esecutivo in risposta a richieste di grazia o a dimostrazioni esemplari di terrore.

8. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 70.

9. Ibidem, pag. 78.

10. Ibidem, pag. 71.

11. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 33.

12. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 86.

13. Ibidem, pag. 86.

14. Il mendicante non era considerato un delinquente, per tutto il periodo Medievale. La sua era solamente una coraggiosa scelta di vita, che, in base alla concezione cristiana allora in voga di povertà, andava per questo apprezzata e sostenuta.

15. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.86.

16. Ibidem, pag. 87.

17. Lutero presentò le sue tesi il 31 ottobre 1517.

18. La povertà non possiede più la positività mistica del Medioevo, ma diviene segno della maledizione divina. Povertà significa punizione; la ricchezza è invece simbolo di benevolenza divina. Può quindi essere escluso e punito dagli uomini chi è escluso dalla predilezione divina e punito dalla sua collera. La produzione è finalizzata non all'uso ma all'accumulazione dei beni prodotti. L'uomo è libero di operare e vivere nel mondo allo scopo di aumentare la gloria di Dio e con essa il segno della propria eterna salute. L'ideologia protestante esprime la pessimistica visione di un mondo sprofondato nel peccato, in cui gli uomini cantano le lodi di Dio lavorando, accumulando, risparmiando. L'isolamento è già in Lutero uno dei massimi valori della nuova società. Sarà la concezione protestante, e soprattutto calvinista, della società a modellare su di sé la forma del futuro carcere moderno nella casa di lavoro. Nel diciannovesimo secolo, le ex-colonie inglesi del Nordamerica, i coloni Quaccheri della Pennsylvania, tradurranno rigorosamente le parole di Lutero nel loro carcere cellulare.

19. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 93.

20. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.88.

21. Ibidem, pag. 88.

22. Ibidem, pag. 89.

23. Ibidem, pag. 89.

24. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.89.

25. Ibidem, pag. 89.

26. Uno statuto inglese dei primi anni del 1500 stabiliva che tutti i vagabondi che si rifiutavano di lavorare potevano essere ridotti a schiavi per due anni; al secondo reato potevano essere condannati alla schiavitù a vita, ed al terzo messi a morte.

27. I mendicanti considerati inabili al lavoro erano autorizzati a mendicare; gli altri non potevano ricevere alcun tipo di carità, sotto pena di essere frustati a sangue o di essere sottoposti ad altra punizione corporale a discrezione delle autorità. A partire dal 1500, infatti, la nozione di povero deriva lentamente in quella di mendicante.

28. In genere finanziata tramite l'imposizione delle cosiddette "tasse sui poveri".

29. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 94.

30. Ai poveri viene impedito di entrare nelle città, e gli uomini chiudono di fronte ad essi le porte come se si trattasse di malfattori e nemici pubblici.

31. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.74.

32. La repressione sanguinaria del vagabondaggio, in seguito alla grande abbondanza di forza lavoro, si accompagna ad una repressione altrettanto spietata e complementare delle masse occupate: l'associazione, lo sciopero, l'abbandono del posto di lavoro erano colpiti in modo severissimo.

33. Le numerose guerre succedutesi nel periodo mercantilistico senza soluzione di continuità (in primo luogo la Guerra dei Trent'anni) ebbero un ruolo cruciale nello sviluppo della nuova forma di criminalità. Quasi tutti gli Stati europei furono costretti a creare degli eserciti permanenti, facendone ricadere i costi eccessivi sulla popolazione, sotto forma di tasse, che oltretutto colpivano i settori più poveri, essendo imposte di solito sui prodotti base. Inoltre i prodotti del mercato interno venivano dirottati alle truppe sul campo; ne venivano così private le classi inferiori, e si causava una evitabile spirale inflazionistica, che a sua volta conduceva ad una crescita della disoccupazione. Si verificavano condizioni svantaggiose anche dopo la fine di un conflitto. La cessazione delle ostilità all'estero aggravava invariabilmente le tensioni sociali all'interno, a causa del ritorno dei veterani militari ansiosi di riprendere il loro posto nella società civile. Ma date le recessioni che accompagnavano immancabilmente la fine di una guerra, i soldati smobilitati di solito finivano per ingrossare le file dei disoccupati.

34. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 138.

35. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 69.

36. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.71. La crescita demografica, dopo la metà del sedicesimo secolo, non poté tenere dietro a questo aumento nelle possibilità d'occupazione; la necessità di manodopera causata dalla espansione dei commerci non era cioè soddisfatta dal pur notevole incremento della popolazione rispetto al periodo feudale. Ad esempio in Olanda si verificò una tale carenza di braccia da costringere gli agricoltori a pagare ai propri operai salari così alti che il loro stesso tenore di vita diveniva inferiore a quello dei lavoranti; molte imprese dovettero chiudere completamente la loro attività.

37. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.75.

38. Ibidem, pag. 75.

39. Ibidem, pag. 80. Il governo dette il proprio sostegno a molte imprese, spesso fornendo crediti considerevoli.

40. Ibidem, pag. 75. Ad esempio, ai lavoratori di alcune industrie tessili di Londra, veniva imposto di essere a casa, la domenica sera, entro le 22, e di non uscire, in modo da essere puntuali, la mattina seguente, al lavoro.

41. Tale misura all'epoca appariva come la soluzione più ovvia. Si sarebbe dovuta affrontare la scarsità di lavoro promuovendo un aumento delle nascite; si affermò che la sicurezza ed il benessere di una nazione dipendono dall'esistenza di un gran numero di sudditi, e che uno dei doveri principali di chi regna era assicurarsi che il suo paese fosse ben popolato. Inoltre, il clero era pronto ad invocare argomenti religiosi a sostegno di un aumento della natalità, sfruttando il comandamento divino: 'andate e moltiplicatevi'. In Inghilterra, per esempio, gli Stuart presero a favorire le rustiche festività del May Day, con tutta la loro gioia e gaiezza bucolica, a causa dell'accrescimento di popolazione che ne seguiva. In Francia furono concesse riduzioni fiscali in casi di matrimoni in giovane età e di famiglie numerose.

42. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.79.

43. Il condannato non solo poteva evitare il patibolo tramite l'arruolamento, ma spesso riceveva un trattamento speciale se commetteva un reato durante il servizio militare; si riteneva infatti ingiusto e, soprattutto, inopportuno ed antieconomico giustiziare un soldato od un marinaio ben addestrato.

44. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.79.

45. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 67.

46. Ciò è testimoniato anche dai mutamenti subiti dall'attività del furto rurale. Esso era stato il crimine di gran lunga più praticato sino a questo momento. Ma se nei periodi precedenti il furto riguardava quasi esclusivamente beni di sussistenza, ora comprendeva la sottrazione di articoli di lusso e altri beni il cui valore era realizzabile solo attraverso qualche forma di scambio, eseguibile tramite una fitta rete di rapporti con i centri urbani.

47. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 68.

48. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.95. Si punivano i mendicanti abili al lavoro, i domestici che lasciavano i propri padroni e gli operai che abbandonavano la propria occupazione per farsi mendicanti; si giustificava ciò sostenendo che essi toglievano pane ai poveri, rifiutando la propria forza lavoro alla comunità.

49. Ibidem, pag. 94. Quando le condizioni offerte dai padroni sembravano troppo dure, si preferiva rivolgersi alla carità privata piuttosto che ad un impiego regolare. Inoltre i lavoratori spesso si facevano mendicanti quando volevano prendersi un periodo di riposo, o quando volevano cercare una occupazione migliore.

50. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.130.

51. L'ideologia calvinista offre la giustificazione ad operare in campi prima ingiustificati o vietati, come l'usura, il commercio, la tratta degli uomini, ecc. Il calvinista non agisce per sé, ma in nome della gloria di Dio. Questa finalizzazione mistica vieta al vincente di godere della propria ricchezza, e lo obbliga sia ad un autocontrollo, sia ad un controllo pubblico. Si ha così, al contempo, il massimo potenziamento delle capacità individuali e dei loro risultati (ricchezza, potere) e la massima sottomissione dei successi individuali alla norma collettiva e alla Legge Divina. Per l'homo oeconomicus essere e dover essere coincidono con il lavoro. L'ineguale distribuzione delle ricchezze è conseguenza di una imperscrutabile volontà della provvidenza, che ha messo nelle mani di alcuni il destino del mondo e in quelle di tutti gli altri la fatica disumana di garantire tale stato di cose.

52. Uno degli esiti socialmente più rilevanti del processo di incameramento dei beni ecclesiastici che accompagna la Riforma luterana fu la sostituzione del vecchio sistema di carità privata e religiosa con una assistenza pubblica coordinata dallo stato. Lutero si fece interprete e diffusore delle nuove idee sulla carità, secondo le quali la mendicità doveva essere abolita e ciascuna parrocchia doveva provvedere ai propri poveri. Provvedimenti per sottrarre l'assistenza ai poveri alla pura iniziativa privata furono presi non solo dai paesi protestanti ma anche da quelli cattolici. I poveri veramente bisognosi ed impotenti al lavoro, in teoria, dovevano essere totalmente mantenuti e caritativamente impiegati in modo conforme alla loro abilità.

53. Si tratta di costituire una naturale e spontanea tendenza del lavoratore ad assoggettarsi alla disciplina produttiva, tentando di riservare l'uso della forza aperta solo per una minoranza di ribelli. La riforma religiosa si muove seguendo due linee direttrici: l'interiorità dell'individuo e l'istituzione segregante. Lutero ha vinto la servitù per devozione sostituendovi la servitù per convinzione. Egli ha liberato l'uomo dalla religiosità esteriore, facendo della religiosità l'interiorità dell'uomo. Egli ha svincolato il corpo dalle catene, incatenando il cuore. (cfr. MARX KARL, 'Critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione' in 'Scritti politici giovanili', Torino, 1950, pag. 404.). Tutto ciò si concretizza nella lotta contro la Chiesa cattolica, contro le sue forme comunitarie esterne e prive di fede interiore, e nella sostituzione di tale rapporto con l'isolamento degli uomini fra se e di fronte a Dio. Viene dato straordinario risalto agli strumenti educativi, in primo luogo alla famiglia. Il padre diviene una figura sociale e di controllo di grande autorità, cui i pubblici poteri delegano la regolazione dell'educazione dei figli e del controllo della moglie. Non è un caso se in questo periodo la socializzazione dei giovani sia uno degli scopi principali delle case di lavoro. Case di correzione per giovani, appunto, 'corrigendi', nacquero dappertutto simultaneamente alle case per poveri. Il caso che dette origine alla Rasp-huis di Amsterdam fu proprio quello di un giovane ladro, che scatenò la latente preoccupazione per la delinquenza giovanile; anziché condannarlo al patibolo, si preferì ricercare mezzi adeguati per condurlo ad una condotta di vita migliore. Il nuovo ordine di idee doveva essere insegnato ed inculcato sin dall'infanzia.

54. GARLAND DAVID "Pena e società moderna.", op. cit., pag. 139.

55. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 139.

56. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.71.

57. La forza lavoro che lo Stato poteva meglio controllare era formata da persone che esercitavano professioni illegali, come i mendicanti e le prostitute, e da altri tradizionalmente o giuridicamente soggetti alla protezione ed all'assistenza della pubblica autorità, come le vedove, i folli e gli orfani.

58. TESSITORE GIOVANNI, "L'utopia penitenziale borbonica- Dalle pene corporali a quelle detentive", op. cit., pag. 37.

59. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.110. In effetti l'inquisizione, sotto un certo profilo, rappresentò la risposta del mondo cattolico ai fermenti ed alle pressioni ideologico-normative che provenivano dal mondo protestante; venne rinnovata ed accentuata in senso moderno l'organizzazione della Chiesa, mettendone in risalto l'aspetto gerarchico e disciplinare.

60. Ibidem, pag. 90.

61. Si sviluppò così una etica degli affari che incoraggiava l'intraprendenza commerciale e la continua rinuncia a se stessi.

62. L'imprenditore, consapevole di essere visibilmente pieno di grazia divina, poteva perseguire il suo interesse come più gli piaceva e sentire allo stesso tempo che stava adempiendo pienamente ai suoi doveri di buon cristiano. Egli era convinto che l'ineguale distribuzione delle ricchezze in questo mondo fosse la disposizione di una Provvidenza che perseguiva scopi segreti ed imperscrutabili; ciò costituiva una giustificazione della sua posizione sociale che lo metteva in grado di ergersi a giudice degli altri uomini e di imporre i propri costumi lavorativi come regole generali di condotta. Ci si aspettava cioè che la parsimonia e la laboriosità accettate dalle classi dominanti fossero fatte proprie anche dalle classi inferiori. In tal senso assume ruolo chiarificatore la massima di Calvino, secondo la quale il popolo può essere obbediente alla volontà divina solo se povero.

63. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.91.

64. In essa gli internati, lavorando, potevano anche trarre un guadagno, da cui andavano sottratte, ovviamente, le spese per il proprio mantenimento, nella misura fissata dai deputati al governo dell'opera.

65. Quando l'appartenenza alla comunità aveva un valore infinitamente più elevato.

66. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.130.

67. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag.76-77.

68. Ibidem, pag. 77.

69. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.132.

70. Ibidem, pag. 132.

71. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag.132.

72. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 81.

73. Ibidem, pag. 81.

74. Ibidem, pag. 72.

75. Ibidem, pag. 76.

76. Ibidem, pag. 81.

77. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 82.

78. Ibidem, pag. 82.

79. Ibidem, pag. 82.

80. Ibidem, pag. 85.

81. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 86.

82. Un esempio importante di questo processo è costituito dagli statuti mariani, apparsi in Inghilterra nel 1555. Tali codici richiedevano che tutti i testimoni dovevano essere presenti quando il detenuto veniva formalmente chiamato in giudizio; se il processo non proseguiva a causa della loro mancata comparizione, sarebbe stata confiscata la cauzione versata da tutte le parti in causa, compreso il querelante iniziale. Con questo meccanismo la legge obbligava il querelante a seguire la causa fino alla sua conclusione, mentre sostituiva lo Stato al querelante non appena veniva sporta la querela. Ciò costituiva una rottura netta con le procedure stabilite nel Medioevo. Una delle pietre angolari del sistema privato di diritto penale era stata infatti la libertà del querelante di concludere un'azione legale con la stessa facilità con cui l'aveva avviata. Invece adesso le questioni della conoscenza tra criminale e vittima e della vendetta personale, che avevano plasmato il diritto Medievale, non potevano più prevalere nel processo. In questo modo il sistema di giustizia penale veniva depersonalizzato, in modo da eliminare la possibilità di manipolarlo per fini personali. Inoltre si stava delineando, anche se al livello embrionale, una divisione strutturale tra l'accusa ed il giudizio degli imputati.

83. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 87.

84. Tutta la procedura, sino alla sentenza, rimaneva segreta, non solo al pubblico ma allo stesso accusato; egli non conosceva l'accusa, le presunzioni a carico, le deposizioni, le prove. Il sapere era privilegio dell'accusa. Tantomeno l'inquisito aveva diritto ad un avvocato. Il magistrato aveva diritto di accettare denuncie anonime, di nascondere all'imputato la natura della causa, di interrogarlo in modo capzioso, di utilizzare insinuazioni. Egli costruiva da solo una verità con cui investiva l'accusato. Lo stabilire la verità era per il sovrano e i suoi giudici un diritto assoluto e un potere esclusivo; il fatto che il sistema legale, con la sua aritmetica penale, rispondesse a regole che solo gli specialisti potevano conoscere, era un elemento che rinforzava il principio del segreto.

85. ALESSI PALAZZOLO GIORGIA, "Prova legale e pena. La crisi del sistema tra evo medio e moderno", op. cit., pag. 13.

86. Rimasero inalterati il ricorso generalizzato alla tortura, l'uso amplissimo delle commutazioni e transazioni, l'abuso delle misure di sicurezza e l'invadenza delle pene straordinarie. L'insistenza sulla stretta corrispondenza tra pienezza della prova legale e carattere ordinario della pena permise di rafforzare la regola secondo la quale ad una prova insufficiente potesse ben corrispondere una pena più mite ad arbitrio del giudice. La prova piena era quella che rispondeva ai requisiti della legge, la quale tassativamente stabiliva al giudice nel concorso di quali elementi probatori dovesse pronunziare la condanna, senza attingere ad altri per il proprio intimo convincimento, non ritenuto necessario. Ciò costituiva, come abbiamo accennato nel precedente capitolo, cui rimandiamo per maggiori delucidazioni, una soluzione di compromesso di fronte alle difficoltà di adottare il sistema di prova legale, per molti versi inadeguato rispetto alle esigenze di esemplarità e repressività degli Stati assoluti. La dimostrazione in materia penale non ubbidiva ad un sistema dualista: vero o falso; ma ad un principio di graduazione continua: un grado raggiunto nella dimostrazione formava già un grado di colpevolezza ed implicava perciò un grado di punizione. Il sospettato, in quanto tale, meritava sempre un certo castigo; non si poteva essere innocentemente oggetto di un sospetto. Quindi un sospettato che rimaneva tale non era per questo scagionato, ma parzialmente punito. Arrivati a un certo grado di presunzione si poteva quindi legittimamente impiegare la tortura, quale mezzo per estorcere la verità ancora mancante e per cominciare a punire in virtù delle indicazioni già raccolte.

87. ALESSI PALAZZOLO GIORGIA, "Prova legale e pena. La crisi del sistema tra evo medio e moderno", op. cit., pag. 15.

88. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 89.L'istruzione penale era una macchina che poteva produrre la verità anche in assenza dell'accusato.

89. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 260.

90. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 90.

91. Ibidem, pag. 90.

92. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 90.

93. La detenzione in case di correzione veniva adottata su larga scala in periodi di favorevole congiuntura economica. Altrimenti, altre forme di punizione, quali la frusta, il marchio a fuoco e la gogna mantenevano una posizione preminente nell'universo punitivo.

94. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 91.

95. I primi codici penali moderni, in teoria, comprendevano pressoché tutti i tipi di reato penale, stabilendo anche la pena da applicare a ciascun atto illegale. Ma le sentenze erano poco più che postulati teorici in cui si alludeva alla gravità di un crimine particolare. Riguardo alla pena vera e propria, i primi codici penali moderni conferivano al magistrato il più ampio potere discrezionale.

96. In Europa si assiste ad una estrema diffusione della pena di morte, estesa ad un numero elevatissimo di reti ed applicata con grande ferocia; al di là delle singole tecniche per uccidere e far soffrire, colpisce indubbiamente la carica di grande crudeltà, che caratterizzava quegli spettacoli di morte. Ma tutto ciò era funzionale al fine delle pene allora i voga: dissuadere, con il terrore, dal crimine.

97. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 91.

98. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 91.

99. Ibidem, pag. 91.

100. Ibidem, pag. 91.

101. Ad esempio, in Inghilterra furono esclusi dalle giurie gli individui poveri e coloro che non avevano diritti di proprietà.

102. Come abbiamo già visto, in ogni paese europeo furono adottate misure per far fronte alla popolazione povera. Ciò avvenne, riassumendo, per vari motivi: religioso, in base all'influenza delle politiche protestanti sull'atteggiamento nei confronti dei mendicanti; politico, in seguito al diffondersi delle dottrine mercantiliste, parallelamente alla comparsa dello Stato nazionale che richiedeva una riorganizzazione sociale; sociale, visto che la legislazione era motivata in parte dal panico generale delle classi superiori quando si trovavano di fronte a una povertà tanto lampante in mezzo a loro.

103. In una certa misura, questi problemi ideologici oscuravano perfino l'importanza dei codici penali in termini di loro struttura procedurale.

104. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 27.

105. In questo periodo i processi decisionali sono caratterizzati da un alto livello di discrezionalità. Ma queste procedure non sono che l'applicazione fedele dei principi di giustizia allora vigenti. Il fatto che i giudici conoscano l'imputato, si siano fatti un'idea sul suo carattere individuale o abbiano addirittura un interesse personale nel processo non è assolutamente motivo di impedimento o di ricusazione, in quanto il giudice non è incaricato di applicare la legge in base ad un ideale di giustizia astratto, ma è chiamato, invece, a perseguire la finalità, più ampia, di preservare l'ordine e l'armonia sociale anche tramite l'applicazione disomogenea e discrezionale dei poteri coercitivi dello Stato. La tendenza a trattare alcuni rei in maniera più mite rispetto ad altri, per ragioni di appartenenza di genere o di carattere individuale, non riflette dunque un limite della giustizia, quanto, piuttosto, l'assenza della convinzione secondo cui la pena inflitta a un soggetto dovrebbe essere inflitta, a onor di giustizia, a tutti gli altri. I tribunali sono chiamati a giudicare il carattere del reo, la sua pericolosità sociale ed il suo ruolo nella comunità; sono questi i criteri per decidere se si tratti di un delinquente abituale, meritevole di pene severe, o di una persona degna di un'altra opportunità.

106. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 113.

107. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 67-68. Infatti, secondo Lutero, l'autorità terrena rappresenta la volontà divina; la spada del carnefice è la stessa spada di Dio. La mano che porta e stringe quella spada non è più mano dell'uomo, ma di Dio, e non è più l'uomo, ma Dio, che impicca, arrota, decapita, strangola ed afferra: sono tutte sue opere e suoi giudizi. Si ha una illimitata identificazione fra la volontà divina e la giustizia penale; si afferma l'immagine del Dio inquisitore che si vendica e chiama altri alla vendetta. Non è un caso che, all'apice della caccia alle streghe, prima dei supplizi venisse celebrata una messa per la buona riuscita dei tormenti e che gli strumenti destinati ad affliggere l'accusato venissero benedetti...

108. La monarchia assoluta fu giustificata, a livello ideologico, dall'opera di Thomas Hobbes. Egli sostiene che l'uomo persegue la propria individuale felicità, è predisposto alla competizione, alla inimicizia, alla guerra, poiché il mezzo che un competitore usa, per conseguire il suo desiderio di potere e di successo, è uccidere e sottomettere gli altri. Di qui la necessità del contratto, la spinta alla convenzione tra gli uomini che, per uscire dall'insicurezza e per sottrarsi alle reciproche violenze, trasferiscono simultaneamente i propri diritti a un corpo sovrano. Nel Leviathan (1651) sostenne, appunto, che lo Stato ha origine da un contratto nel quale gli individui rinunciano spontaneamente a parte dei diritti naturali, essendo preferibile la legge allo stato di natura in cui l'uomo è guidato solo dall'egoismo (bellum omnia contra omnes). Perciò Hobbes considerò come la forma migliore di stato la monarchia assoluta.

109. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 113. Il primo periodo moderno assistette al primo dibattito prolungato sulla natura del crimine, alla prima seria revisione dei codici di diritto penale, alla prima razionalizzazione dell'attività giudiziaria e penale, alla nascita di un sistema razionale di pene. Questa concomitanza di eventi aveva certamente molte altre cause e ragioni oltre al semplice fatto di un aumento della criminalità, ma possiamo affermare che, perlomeno, il problema della criminalità si era imposto all'attenzione.

110. Un esempio di come fosse amministrato il diritto penale è riscontrabile in un episodio che costituì il soggetto di un saggio di A. Manzoni, 'La colonna infame'. Il caso riguardava un funzionario pubblico accusato di avere cosparso di una 'sostanza immonda' i muri di diverse case, mettendo a repentaglio la salute dei cittadini. Contro di lui c'era la dichiarazione di due testimoni oculari, che fu sufficiente per il suo arresto. Venne interrogato e la sua casa fu perquisita a sua insaputa. Poiché aveva negato le accuse del suo inquisitore, venne accusato di avere mentito alla corte, poiché il magistrato non voleva credere che un individuo potesse negare la validità del resoconto di due testimoni oculari. Non essendo riuscite ad ottenere la confessione dell'inquisito, le autorità lo sottoposero a lungo alla tortura, finché egli, per disperazione, chiamò in causa un complice. Egli non aveva ammesso alcun delitto; semplicemente aveva confermato un suggerimento dei suoi inquisitori, di avere cioè incontrato a un certo momento un certo individuo. Quest'ultimo fu fatto arrestare, e fu torturato finché non chiamò in causa il sospettato. A questo punto i due erano accusati di un grave delitto, ma non conoscevano la natura delle accuse mosse, né alcuno dei due era a conoscenza dell'arresto dell'altro. I due furono poi condannati alla pena capitale, ma non prima di essere sottoposti ad una lunga serie di punizioni corporali.

111. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 115.

112. Tutta la procedura inquisitoria tendeva necessariamente alla confessione, per due motivi. Sia perché la confessione costituiva una prova così forte da scaricare l'accusatore dalla preoccupazione di fornire altre prove; sia perché il solo modo in cui la verità eserciti tutto il suo potere è che il criminale prenda su di sé il proprio delitto, e dichiari lui stesso ciò che è stato costruito dall'istruttoria. La confessione costituiva l'atto con cui l'accusato accettava e confermava l'istruttoria fatta senza di lui.

113. FOUCAULT MICHEL, "Sorvegliare e punire. Nascita della prigione", op. cit., pag. 43.

114. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 115.

115. Ibidem, pag. 115.

116. Ibidem, pag. 116.

117. È indicativo di questo processo il fatto che le piccole comunità spesso componevano le controversie penali attraverso meccanismi informali, se pensavano che il sistema giudiziario fosse un mezzo per imporre dall'esterno un controllo sull'intera comunità.

118. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 116. Anche la tortura rispondeva però a delle regole e a delle procedure ben definite: momenti, durata, strumenti utilizzati, interventi del magistrato che interroga erano tutti aspetti accuratamente codificati. Comunque il giudice, nell'imporre la tortura, corre, da parte sua, dei rischi; non solo quello di far morire il sospettato, ma anche quello di vanificare gli elementi di prova già raccolti; infatti se il torturato non confessa, il magistrato è costretto ad abbandonare l'accusa. Di qui l'abitudine di applicare la tortura con riserva di prova, in modo da potere far comunque valere le presunzioni già in possesso dell'accusa.

119. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 116. Non è un caso che fosse presente una articolazione della tecnica della pena rispetto alle classi sociali. Per esempio, l'impiccagione è vista come pena disonorante per un nobile; la sua posizione sociale richiede che sia giustiziato con la ghigliottina. L'onore andava difeso anche di fronte al boia; non poche preoccupazioni erano date ai confortatori di fronte a un condannato, che protestava per il fatto che il boia non riconosceva la sua condizione sociale.

120. Ibidem, pag. 117.

121. Le filosofie della pena nell'Ancien Regime non riconoscono ancora l'elemento punitivo delle sanzioni, una concezione che si pone in seguito nel periodo illuminista. La pena, come durante tutto il medioevo, detiene ancora una funzione simbolica e repressiva.

122. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 10.

123. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 73-74.

124. Il delitto, oltre alla vittima immediata, attacca il sovrano personalmente, perché la legge è la volontà del sovrano; l'attacca fisicamente perché la forza della legge è la forza del principe. Il diritto di punire è dunque un aspetto del diritto che il sovrano detiene di fare guerra ai suoi nemici. Il fine del supplizio non è una economia dell'esempio, ma una pratica del terrore, che mira a rendere sensibile a tutti, sul corpo del criminale, la presenza scatenata del sovrano. Il supplizio non ristabiliva la giustizia, ma riattivava il potere. La punizione dei veri e propri sovversivi diventa la punizione per eccellenza; essa riproduceva enormemente ampliato il quadro generale del rito della pena di morte con il suo bagaglio di dolori fisici, le sue scenografie e le sue liturgie.

125. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 54.

126. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 23.

127. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 309.

128. Ibidem, pag. 309.

129. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 24.

130. Ibidem, pag. 24.

131. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 24.

132. Gli itinerari erano assai spesso allungati da una serie di giri oziosi; venivano inoltre scanditi da una serie di vere e proprie pause di sacrificio, durante le quali ai condannati venivano inflitte le pene corporali, aggiuntive a quella capitale, che erano state loro comminate. Ad esempio, per citare ancora il caso descritto dal Manzoni, i condannati vennero tenagliati con ferri roventi lungo il tragitto del corteo, e fu loro tagliata la mano destra; poi furono loro spezzate le ossa con la ruota, cui furono intrecciati vivi e lasciati così per sei ore; vennero poi scannati, i loro cadaveri furono bruciati e le ceneri gettate nel fiume. Mediante queste lunghe pause di sacrificio, il rito assumeva toni di alta drammaticità, e si manifestava con estrema concretezza di linguaggio la capacità e la volontà del sovrano di colpire ciascun criminale con modalità rispecchianti la qualità e le modalità dei crimini commessi.

133. Il carattere gradualistico delle pene non sembra affatto ignorato; tutte le pene, specialmente quelle con afflizioni corporali, venivano graduate rispetto al reato. Ciò è appunto confermato dalla pena di morte, articolata in base al reato attraverso il vasto campionario delle tecniche e modalità di esecuzione. Il carnefice infatti, senza proferire parola, provvedeva, attraverso le modalità complessive dell'esecuzione, a comunicare a tutti il reato e il suo grado di gravità. In questo modo veniva assicurata quell'articolazione delle pene rispetto ai reati, di cui parlavano i giuristi dell'età classica e che invece agli occhi degli illuministi non sembrerà affatto attuata. Il fatto è che mentre i secondi guarderanno alla morte come dato biologico in sé, ragione e fine della pena, i giuristi dell'età classica la consideravano un momento del rito, avente un valore che andava ben oltre il semplice dato biologico.

134. Esso consisteva nel legare ad una ruota il condannato, per colpirlo svariate volte in parti del corpo non vitali con un oggetto contundente. Tale supplizio si accompagnava in genere alla rottura delle ossa della vittima, che in taluni casi veniva lasciata agonizzante sulla ruota, che veniva issata su un palo, anche diversi giorni, come monito per la massa.

135. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 41.

136. Ibidem, pag. 41. Il corpo del condannato, attraverso le manipolazioni cui era sottoposto, riesce a farci sapere con precisione il crimine ed il grado di responsabilità del condannato. Ad esempio, i sodomiti venivano bruciati, con evidente richiamo alla biblica punizione di Sodoma; ai ladri sacrileghi la testa e la mano destra, dopo l'esecuzione, erano tagliate ed esposte in una gabbia nei pressi del luogo del furto.

137. Una delle più gravi infamie era la negazione della pietà della sepoltura cristiana. Questa possibilità era presente nel caso dei parricidi, che venivano puniti con la pena del culeo: i cadaveri dei parricidi erano richiusi in sacchi e gettati in mare. I cadaveri dei condannati giudicati colpevoli dei più gravi reati, oltre al parricidio, erano sottoposti ad almeno una delle seguenti manipolazioni, elencate in ordine di gravità crescente: il trascinamento, che consisteva nel trascinare legato alla coda di un cavallo il cadavere per la piazza dove era avvenuta l'esecuzione; lo squartamento, che consisteva nel dividere il cadavere in quattro parti; la mutilazione di una o più parti del corpo; l'esposizione in un luogo determinato, in genere dove era avvenuto il crimine; la combustione.

138. Il supplizio è una tecnica, e non va assimilato all'estremismo di una rabbia senza legge. Una pena, per essere supplizio, deve rispondere a tre criteri. Deve produrre una certa quantità di sofferenza che si possa misurare, valutare e gerarchizzare; la morte è un supplizio nella misura in cui non è solo privazione della vita, ma termine di una calcolata graduazione di sofferenze. Inoltre il supplizio mette in correlazione il tipo di danno corporale, la qualità, l'intensità, la lunghezza delle sofferenze con la gravità del crimine, la persona che l'ha commesso, il rango delle vittime. La pena non si abbatte casualmente sul corpo, ma è calcolata secondo regole dettagliate. Infine, il supplizio è parte di un rituale. Deve essere, nei confronti della vittima, marchiante ed infamante; anche se ha la funzione di purgare, non riconcilia, anzi lascia sul corpo della vittima dei segni indelebili. Ed è inoltre ricordato per la risonanza che suscita, visto che, da parte della giustizia che lo impone, il supplizio deve essere constatato e ricordato da tutti. Il supplizio è il cerimoniale della giustizia che si manifesta in tutta la sua forza.

139. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 43.

140. GALLINI CLARA, "Il corpo e la sua immagine: forme del potere penale", in "DEI DELITTI E DELLE PENE: RIVISTA DI STUDI SOCIALI, STORICI E GIURIDICI SULLA QUESTIONE CRIMINALE", Bologna, 1985, Vol. II, pag. 294.

141. Ibidem, pag. 295.

142. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 12.

143. Il 2 marzo 1757 fu giustiziato a Parigi Robert-Francois Damiens, colpevole di avere attentato alla vita del Re. La scena di questa esecuzione è divenuta una sorta di archetipo della ferocia dello stato in età classica. Damiens fu sottoposto a tormenti atrocissimi. Tuttavia, la folla non rimase affatto turbata da quegli eventi. Anzi, durante quella esecuzione, secondo la testimonianza di Giacomo Casanova, testimone d'eccezione, si verificarono casi di rapporti sessuali. Il comune senso dell'orrore e della sofferenza, quel limite oltre il quale paura e raccapriccio sopravanzano qualsiasi altro sentimento, non era tale da inibire l'amplesso. Né questo fu un caso isolato. Si avevano schermaglie e veri e propri rapporti sessuali durante le esecuzioni capitali, come in un angolo appartato di un salotto durante una festa o una riunione mondana. La vista della morte era evidentemente una esperienza che non colpiva gli animi quanto accade oggi. Si aveva un sentimento di distacco di fronte alla morte sul patibolo. Teste mozze, corpi penzolanti dalla forca, cadaveri fatti a pezzi non costituivano in sé uno spettacolo capace di turbare. Ciò non significa che i sentimenti della pietà e della commozione fossero inesistenti; solo che essi non riguardavano mai la sofferenza fisica. Sgomento e pietà qualche volta pervadevano il pubblico di fronte a certe storie, ad esempio per la giovane età dei giustiziati o per la sproporzione tra delitto e pena, ma mai per il dolore che veniva inflitto loro, né per lo spettacolo della morte in quanto tale. In una società caratterizzata da un basso livello di sicurezza pubblica, dove gli individui portavano armi ed erano pronti a farsi trascinare dall'ira, e dove ancora dominavano l'etica del guerriero feudale ed il codice d'onore cavalleresco, il rifiuto della violenza non poteva essere né generalizzato né radicato; inoltre le devastazioni delle malattie e della fame, i massacri periodici delle epidemie, la formidabile mortalità infantile, tutto ciò rendeva la morte familiare. Il livello di violenza tollerato era assai più elevato rispetto al nostro; ad esempio la disciplina, sia nella sfera familiare, che nel luogo di lavoro, che nelle scuole e nell'esercito, era mantenuta ricorrendo a forme di coercizione fisica che le sensibilità moderne giudicherebbero intollerabili. Delinquenti, servi, garzoni, bambini e perfino mogli sono trattati violentemente senza che nessuno vi faccia caso e, tantomeno, si opponga. La violenza è pienamente accettata nella vita domestica. Tutto ciò si armonizza con una società, dalla élite dominante alla massa popolare, tollerante nei confronti dell'inflizione pubblica del dolore. La caratteristica delle pene inflitte pubblicamente è che la loro efficacia dipende dalla partecipazione attiva del pubblico, e un tale coinvolgimento non sarebbe possibile se le persone provassero repulsione nei confronti della sofferenza.

144. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 12.

145. Ibidem, pag. 12.

146. Ibidem, pag. 87.

147. L'applicazione, da parte del boia nei confronti delle sue vittime, di sofferenze non previste dalla sentenza, è un atto di oggettiva crudeltà, è sadico, è omicida; inoltre configura il gravissimo reato di frode contro lo Stato.

148. Questi giustiziati rifiutavano il conforto religioso, e con esso, implicitamente, il riconoscimento della razionalità della giustizia del sovrano.

149. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 74.

150. Ibidem, pag. 76.

151. Questo non era il solo compito delle confraternite; esse svolgevano molte altre attività, come vedremo, tra breve, in riferimento ai loro servigi svolti all'interno delle carceri.

152. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 92.

153. Ibidem, pag. 93.

154. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 93.

155. Ibidem, pag. 93.

156. Ibidem, pag. 93-94.

157. Ibidem, pag. 94.

158. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 94.

159. C'era addirittura chi, innocente di fronte alle norme della legge, dichiarava pubblicamente di meritare quelle sofferenze per i propri peccati.

160. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 98.

161. Ibidem, pag. 99.

162. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 99.

163. Sovente il condannato era esortato a chiedere anche perdono agli spettatori, per lo scandalo ed il cattivo esempio dato.

164. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 99.

165. Ibidem, pag. 100.

166. Ibidem, pag. 101.

167. Il momento del conforto diveniva l'exemplum per eccellenza dei pericoli della trasgressione religiosa e sociale, ed anche il punto di attracco per una pratica di consenso e di partecipazione ai riti di morte da parte del condannato e del pubblico.

168. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 102.

169. Per comprendere fino a che punto i confortatori potevano spingersi, è utile riassumere il caso di un soldato spagnolo giustiziato a Napoli nel 1663. Essendo egli poco propenso ad accettare serenamente la morte, ed a recitare la parte che il copione prevedeva per lui, fu portato al patibolo legato ad una sedia. Lungo la strada i confortatori continuarono a tormentarlo psicologicamente per farlo pentire. Non ottenendo risultati, passarono alle pressioni fisiche. Un vecchio frate gli fece mettere sotto i piedi una fiaccola accesa; fu quindi fatto picchiare a sangue da un gruppo di soldati; poi gli fu applicato il fuoco su diverse parti del corpo. Alla fine, vedendo che il boia voleva scannarlo, cedette: dette segno di conversione, chiamò il frate, recitò le sue devozioni e chiese perdono.

170. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 132.

171. Come i negozianti che si servivano di pesi falsi, le persone colpevoli di fare incetta o speculare sui cereali, o le persone condannate per violenza omosessuale.

172. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 23.

173. Il patibolo e l'esecuzione stessa dovevano costituire, secondo le autorità, una scena ben preparata su cui il condannato ed il rappresentante della Chiesa impersonavano un dramma fatto di esortazione, confessione, pentimento davanti a una folla intimorita e plaudente.

174. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 24.

175. Ibidem, pag. 25.

176. Molti condannati ricoprivano il ruolo suggerito dalla folla con la speranza di restare nella memoria popolare grazie a una morte da 'eroe'.

177. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 26.

178. La strategia della giustizia consisteva, assai sovente, nell'ignorare le trasgressioni minori, concentrandosi invece sulla punizione dei criminali più importanti, giustiziati con grande risalto. Tale impostazione fu poi criticata dai riformatori del XVIIIº secolo, perché, secondo la loro ottica, trascurando di reprimere i delitti minori si consentiva ai piccoli criminali di giungere senza ostacoli a commettere delitti più gravi.

179. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 27.

180. Ibidem, pag. 27. Non furono infrequenti attacchi contro gli esecutori di giustizia non sufficientemente zelanti; la giustizia popolare considerava il boia come una vittima che spettava di diritto al popolo stesso.

181. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 84.

182. Dietro la maschera di colui che uccide dietro compenso uomini legati e che non possono difendersi non un killer, ma un burocrate, esecutore di ordini. A decidere la morte è lo Stato, di cui il boia è in servitore.

183. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 84.

184. Ibidem, pag. 84-85.

185. Ibidem, pag. 87. Ciò per la necessità di ribadire le ragioni di una giustizia non perversa e crudele, ma addirittura moderatrice. Una giustizia capace di suscitare negli astanti, insieme ai necessari sentimenti di terrore, commiserazione per la sorte del condannato e voti per quella dell'al di là. La contraddizione con la ferocia delle esecuzioni è solo apparente: la pena si fissava infatti sui corpi, lasciando l'anima alla cura della pietà cristiana.

186. Ibidem, pag. 86.

187. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 20.I tribunali trovavano numerose vie per stornare i rigori della penalità regolare, sia rifiutando di perseguire infrazioni troppo pesantemente punite, sia modificando la qualità del crimine.

188. Si veda come in genere i condannati per delitti capitali erano tendenzialmente deportati nelle colonie, anche se vedremo che ciò dipendeva, principalmente, da motivazioni economiche. Comunque una certa misura di discrezionalità nell'emettere verdetti era abituale, segno di un dubbio crescente circa l'equità di colpire infrazioni non gravi con la morte. La severità di certi codici comportava anche che le vittime di taluni delitti di poco conto preferivano non denunciare i delinquenti, per timore di mandarli al patibolo. Infatti, la pena ha un ruolo importante nel livello di denuncia di un crimine. I sistemi giudiziari che incoraggiano la riconciliazione tra criminali e vittime spingono a denunciare ogni crimine; i sistemi che prevedono sanzioni severe e senza scampo si occupano inevitabilmente di una piccola percentuale dei delitti commessi.

189. PANICO GUIDO, "Il carnefice e la piazza: crudeltà di stato e violenza popolare a Napoli in età moderna", op. cit., pag. 76.

190. La remissione interveniva generalmente all'ultimo momento; senza dubbio la cerimonia nella lentezze del suo svolgimento era programmata per fare posto a questa eventualità. Presente nell'esecuzione il sovrano lo è non solo come potenza che vendica la legge, ma come il potere che può sospendere la legge e la vendetta. Se è vero che egli ha affidato ai tribunali il compito di esercitare il suo potere di giustiziare, egli non l'ha alienato; lo conserva integralmente tanto per togliere la pena quanto per lasciarla divenire più grave. In questa rappresentazione, il condannato restava oggetto del tutto passivo dell'economia del rito; egli non occupava mai un ruolo da protagonista.

191. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 47.

192. Ibidem, pag. 48.

193. L'introduzione del lavoro forzato, tra la fine del 1500 e l'inizio del 1600, corrisponde difatti a quel declino demografico che abbiamo citato. Se nel periodo tra il XVº secolo e la prima della metà del XVIº la repressione sanguinaria a senza scrupoli della disoccupazione di massa corrisponde ad uno stato di grande offerta di lavoro sul mercato, man mano che ci si avvicina la '600 l'offerta si rarefà, e conseguentemente mutano le modalità di trattamento della forza lavoro disponibile non utilizzata. Nella seconda metà del 1500, nonostante l'offerta di lavoro continui a crescere, è comunque insufficiente a coprire la domanda. Il lavoro forzato, quindi, assume la funzione di calmiere rispetto al prezzo del lavoro sul libero mercato.

194. La morte non significava più l'esplicitazione dell'autorità del Sovrano o dello Stato: il dominio sui corpi allungava piuttosto la vita per prendere da essa tutta l'energia possibile.

195. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 71.

196. Per galera si intende un tipo di nave del periodo velico medievale, derivata dalla classica iburna macedone e romana, veloce e leggera.

197. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 113.

198. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 139. Molti condannati si infliggevano automutilazioni nella speranza di evitare le galere.

199. Erano questi gli elementi che giocavano a favore della sostituzione della pena capitale con il lavoro sulle galere, anziché speciali circostanze personali che in qualche modo giustificassero un provvedimento di clemenza.

200. Come vedremo in seguito, il declino di tale forma di punizione avverrà alla metà del Settecento, quando l'evoluzione nella progettazione dei velieri renderà il remo un mezzo obsoleto; la pena della galera perderà così il suo significato, e verrà accantonata in favore di altre forme di lavoro forzato, come il bagno penale. In realtà, anche in precedenza, quando ancora le galere esistevano ed erano operative, a volte si era fatto ricorso ai galeotti, oltre che per remare, anche per svolgere altri lavori in servizio delle navi; la condanna alla galera non aveva mai del tutto soppiantato la condanna ai lavori pubblici, che aveva lontane ascendenze romane.

201. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 113.

202. Ibidem, pag. 116. A ciò si può a ragione obiettare che la galera aveva assai più in comune con le punizioni corporali che con la detenzione. Inoltre, come abbiamo visto, le finalità prettamente economiche dimostrano come la rieducazione ebbe un ruolo pressoché inesistente.

203. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 140.

204. La domanda di lavoro nelle colonie era così alta da creare un nuovo tipo di crimine, il rapimento di fanciulli (kidnaping). Verso la metà del sedicesimo secolo si hanno molti esempi di bande organizzate che catturavano giovanissimi, in genere delle classi più misere, e li vendevano come schiavi nelle colonie.

205. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 140.

206. La sentenza di morte veniva commutata in sentenza di deportazione per coloro che erano abbastanza robusti per essere impiegati nei territori d'oltremare. In genere la deportazione veniva usata come pena sostitutiva, almeno in Inghilterra, della fustigazione e dell'impiccagione.

207. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 21.

208. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 140.

209. La pena della deportazione venne mantenuta sino agli inizi dell'Ottocento, quando, in seguito a varie cause (tra cui il diffondersi dell'utilizzo di schiavi provenienti dall'Africa, le proteste dei coloni per l'eccesso di manodopera a basso costo, ed il venir meno della funzione deterrente di tale forma di pena), che esamineremo meglio nel prossimo capitolo, essa venne sostituita da altre forme di lavoro forzato.

210. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 121.

211. Ibidem, pag. 121.

212. Ibidem, pag. 122.

213. Il sistema carcerario moderno è innegabilmente legato alle vicende che contraddistinsero le case di correzione.

214. La commistione tra internamento 'assistenziale' e internamento carcerario deriva soprattutto dalle difficoltà pratiche di gestione dei condannati; comunque sia, è innegabile la presenza di tale mescolanza, e lo sviluppo del carcere moderno si trova così inevitabilmente ad essere influenzato dalla caratteristiche delle case di correzione e di lavoro. Un esempio di tale commistione è riscontrabile nella Pia Casa di Rifugio di S. Filippo Neri, fondata nel 1653 a Firenze. Essa costituisce uno dei più solidi antecedenti storici della prigione penitenziaria. Fu avviata da Ippolito Francini, che cominciò a raccogliere, da prima in casa sua, poi in un magazzino, i fanciulli orfani e abbandonati dai genitori. "I fanciulli raccolti per le strade dovevano essere rivestiti e consegnati a qualche onesto artigiano affinché potessero apprendere un'arte e crescessero educati al lavoro. Nel 1677 nell'istituto venne aperto un 'carcere' correzionale, con otto piccole celle, destinato non solo ai giovinetti già allocati nel rifugio e che dovessero essere castigati per mancanze disciplinari, ma anche ai giovani estranei che si fossero resi colpevoli di qualche reato contro la proprietà od avessero tenuto comportamenti non degni di un cristiano". (in CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 107.).

215. GARLAND DAVID "Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale.", op. cit., pag. 142. In tale istituzione vennero impiegati a scopo produttivo tutti coloro che non erano riusciti ad inserirsi nel meccanismo di mercato.

216. Il lavoro era svolto in comune; la cella individuale non era utilizzata che a titolo di punizione supplementare. Erano imposti uno stretto impiego del tempo, un sistema di divieti e di obblighi, una sorveglianza continua, esortazioni e letture spirituali. I detenuti erano 'inquadrati' nel corso di tutto l'arco della giornata.

217. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 34. Il lavoro era in gran parte nel ramo tessile, come l'epoca richiedeva.

218. Le case di correzione Olandesi assunsero questo nome perché l'attività lavorativa fondamentale che vi si svolgeva era grattugiare con una sega a più lame un particolare tipo di legno fino a farne una polvere da cui i tintori avrebbero ricavato il pigmento per tingere i filati. Il processo di polverizzazione del legno poteva essere ottenuto, e questa era la tecnica comunemente usata, anche con la macina di un mulino. Ma, essendo diretto nei confronti di soggetti oziosi e pigri, si ritenne che il modo di lavorazione più faticoso fosse il più adatto. Rispetto alla produzione con il mulino, quella delle rasp-huis era di qualità inferiore; ciò non costituì tuttavia un problema, in quanto la casa di lavoro di Amsterdam era titolare del monopolio di questo tipo di lavorazione. Il sistema della concessione di monopoli e privilegi è tipico della concezione mercantilista, secondo la quale il debole capitale nascente richiedeva un attivo intervento dello Stato per affermarsi. La scelta del processo produttivo più rozzo e faticoso dipendeva dalla possibilità di ottenere alti profitti senza grossi investimenti di capitale, visto che l'utilizzo di macchine, in questo periodo, era quasi nullo, e in una situazione in cui il monopolio della produzione proteggeva dalla concorrenza esterna ed i salari erano eccezionalmente compressi. La scelta del processo produttivo più faticoso svolgeva anche un'altra funzione, quella punitiva nei confronti degli internati, nonché quella deterrente nei confronti dell'intera popolazione.

219. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 40.

220. Essa si poneva in una posizione intermedia tra la semplice multa o una leggera punizione corporale e la deportazione o la pena di morte.

221. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 40.

222. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 96.

223. Ibidem, pag. 96. Con queste istituzioni, in una prima fase si tende a fronteggiare con strumenti repressivi le grandi masse di ex-lavoratori agricoli e di sbandati che, a seguito della crisi irreversibile del sistema feudale, si riversano nelle città e non possono essere assorbite dalla nascente manifattura con la stessa rapidità con cui si realizza l'abbandono delle campagne. In seguito poi, col venir meno dell'abbondanza di forza lavoro, la segregazione risponde ad esigenze di utilizzazione di manodopera e di addestramento al lavoro della manifattura di ex-contadini evidentemente restii a sottomettersi ai nuovi meccanismi di produzione. Lo scopo di apprendimento forzato della disciplina lavorativa era prevalente su quello di controllo del mercato del lavoro, considerata la limitata estensione che ebbero in quel periodo tali istituzioni.

224. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 37. L'elemento scatenante della nascita di tali istituzioni sembra così identificabile nel grave declino demografico che l'Europa stava attraversando, ed al conseguente rischio, per il capitale nascente, di trovarsi di fronte ad un improvviso alto costo del lavoro e ad una classe lavoratrice in grado di contrattare la vendita della propria forza-lavoro.

225. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 96.

226. Ibidem, pag. 97.

227. Ibidem, pag. 97.

228. Il rifiuto del lavoro era un atto cui si attribuiva una vera e propria intenzione criminale, che poteva comportare anche la reclusione in carcere. Una serie di statuti promulgati alla fine dell'epoca feudale, disponevano massimi salariali oltre i quali non era lecito andare; non era possibile alcuna contrattazione delle condizioni di lavoro; si giunse a fissare l'obbligo per il lavoratore di accettare l'offerta del primo che lo richiedesse. Il lavoratore, cioè, era obbligato ad accettare qualsiasi lavoro alle condizioni stabilite dal datore di lavoro. Il lavoro obbligato nelle work-houses era quindi diretto anche a piegare la resistenza della manodopera.

229. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 12.

230. Tali categorie di individui erano internati al fine di "sminuire e correggere la moltitudine scostumata degli sfaccendati, di procurarne la emendazione mediante le spirituali istruzioni, la fatica, l'obbedienza, il castigo e il premio, e di occuparli nelle convenienti manifatture" (in CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 102.). "Le pene ordinarie dei trattenuti che mancassero in qualsivoglia modo ai doveri del ritiro sono, secondo le varie circostanze, le catene, le nerbate, l'esser chiuso ed incatenato nelle camere ad uso di carcere, senza che sia diminuita loro la proporzione prescritta del consueto lavoro" (in CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 103.).

231. La reclusione in una casa di correzione veniva spesso adottata per risparmiare ad un membro delle classi privilegiate l'umiliazione delle pene corporali o della galera.

232. Venivano fatti internare dai propri parenti, come in una sorta di collegio o riformatorio, ragazzi e giovani discoli disobbedienti, "che per i loro cattivi principii dimostrano pessima inclinazione ai vizii, al fine di corregerli ed emendarli"(in CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 96.).

233. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 97.

234. In questo caso ai parenti dell'internato veniva richiesto di pagare i costi del suo mantenimento.

235. Il primo 'Hòpital général venne fondato a Parigi nel 1656, ed altri vennero istituiti in tutta Francia, sotto l'energica pressione dei padri gesuiti. Tali istituzioni presentavano però una certa differenza rispetto alle case di lavoro protestanti; infatti negli Hòpitaux prevaleva un più spiccato carattere di assistenza alla povertà rispetto alle caratteristiche correttive e produttive delle esperienze nordeuropee.

236. Questo testimonia come l'esperienza delle case di lavoro, che all'inizio fu patrimonio protestante e calvinista, si diffuse ben presto anche ai paesi cattolici. In entrambi i casi, comunque, l'opportunità dell'internamento per tutti i poveri è giustificata sostenendo che i poveri 'buoni' gradiranno l'internamento che li assiste e dà loro la possibilità di lavorare, mentre i 'cattivi' saranno giustamente privati della libertà e puniti con il lavoro. Poveri, vagabondi e criminali erano ricompresi all'interno di una stessa categoria di individui, essendo il reale delitto la povertà ed il fine delle istituzioni internanti l'apprendimento di una disciplina vista come punizione. L'internamento era così giustificato doppiamente, come beneficio e come punizione. È insieme ricompensa e castigo, a seconda del valore morale di coloro cui lo si impone.

237. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 98.

238. Tale sistema di lavoro diventò meno pratico quando il lavoro libero si fece più efficiente. Molti istituti di correzione funzionavano solo grazie alla loro posizione monopolistica in termini di acquisto delle materie prime o di vendita dei prodotti. Una volta venuta meno questa agevolazione, i costi di tali istituzioni avrebbero superato i benefici.

239. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 125.

240. "Nei verbali del consiglio della città di Amsterdam si legge, nel giorno 15 luglio 1589: Dal momento che numerosi malfattori, perlopiù giovani, vengono giornalmente arrestati nelle strade di questa città e poiché l'atteggiamento dei cittadini nei loro confronti è tale che la magistratura esita nel condannarli, in così giovane età, a pene corporali o alla carcerazione a vita, la questione è stata posta, da parte dei maggiorenti, se non sia consigliabile erigere una casa e decretare che i vagabondi, i malfattori, i furfanti e qualsiasi altro individuo di questa razza vengano colà rinchiusi e posti al lavoro al fine della loro correzione" (in RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 125-126.).

241. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 126.

242. Una sorta di differenziazione, se pure c'era, era interna all'istituzione, attraverso la diversa gradazione della pesantezza del lavoro.

243. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 127. Ancora alla fine del XVIIIº secolo era comune che scopi differenti venissero combinati nella stessa istituzione; ad esempio la casa di Pforzheim era allo stesso tempo un orfanotrofio, un istituto per ciechi, sordi e muti, un manicomio, un centro di assistenza per l'infanzia e una colonia penale.

244. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 128.

245. Ibidem, pag. 128.

246. Con la sola eccezione di coloro che erano stati consegnati volontariamente dai parenti, che provvedevano comunque economicamente al loro mantenimento.

247. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 106.

248. Ibidem, pag. 108.

249. Le case di correzione erano manifatture che producevano merci ad un costo particolarmente basso a causa del basso costo della forza lavoro da esse impiegata; erano aziende da cui in genere si riusciva a ricavare profitto, e comunque questo era l'intento dei loro fondatori. Esse furono assai preziose per l'economia; con il loro regime di bassi salari e l'addestramento di lavoratori non qualificati furono fattori importanti nella crescita del modo di produzione capitalistico.

250. È particolarmente significativo che quelle prigioni un tempo usate per la custodia di detenuti in attesa di giudizio e quindi non suscettibili ad adattarsi ad uno sfruttamento commerciale siano rimaste in pessime condizioni sino a tutto il diciannovesimo secolo.

251. Si trattava di un lavoro particolarmente duro, che richiedeva forza e resistenza in misura considerevole. Si lavorava a coppie, con seghe a dodici lame; l'obiettivo giornaliero di prodotto da raggiungere era fissato a discrezione delle autorità reggenti.

252. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 99.

253. Ibidem, pag. 99.

254. Ibidem, pag. 100. In risposta all'accusa di concorrenza sleale alle imprese private, accadeva occasionalmente che una casa di correzione accettasse lavoro per una di esse utilizzando le strutture istituzionali e al proprio basso livello salariale.

255. In un regolamento di una casa di correzione si legge che ogni detenuto deve rendere grazie al Signore al mattino, di giorno e di sera; la prima mancanza viene punita con la perdita di un pasto, la seconda a discrezione dei reggenti.

256. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 102.

257. Tale istituzione venne costruita, in sintonia con la filosofia borghese del periodo post-Riforma, "per la salvezza delle anime di molti malvagi, cosicché costoro possano in essa essere reclusi, educati al timor d'Iddio, messi al lavoro e salvati dalla dannazione temporale ed eterna" (in RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 103.).

258. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 109.

259. Ibidem, pag. 104.

260. La fabbrica uscì segnata dai primitivi legami con le case di correzione, per cui si comprende come mai la prima generazione di operai Inglesi rifiutasse, appena possibile, di mandarvi a lavorare i propri figli.

261. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 35.

262. Ibidem, pag. 36.

263. Le regole erano molto severe: si poneva grande rilievo sull'ordine e sulla pulizia, sul vestiario uniforme, sulla sanità del vitto e dell'ambiente; erano vietate le bestemmie, il gergo volgare ed osceno; era vietato leggere libri o lettere, e cantare ballate che non fossero quelle ordinate dai reggenti.

264. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 36.

265. Ibidem, pag. 13.

266. L'arretratezza della forma dello sfruttamento all'interno della casa di lavoro, possibile grazie alle posizioni di monopolio, non indica una disfunzionalità dell'istituzione rispetto al sistema produttivo, in quanto essa non è un vero e proprio luogo di produzione, ma piuttosto un luogo in cui si apprende la disciplina alla produzione. I bassi salari rendono oppressivo il processo lavorativo e preparano all'obbedienza fuori; l'effetto finale è prettamente intimidatorio: l'operaio libero, piuttosto che finire nella casa di correzione, preferirà accettare le condizioni impostegli di lavoro.

267. Essere membri dell'amministrazione di una di queste case di lavoro era generalmente vista come una strada sicura verso la ricchezza.

268. La funzione fondamentale dell'istituzione correzionale era innegabilmente l'apprendimento di una disciplina finalizzata alla produzione ed alla sottomissione all'autorità. Infatti le proposte di un addestramento e di una preparazione professionale da conferire agli internati vennero rifiutate; si scelsero quei processi produttivi che rendevano i lavoratori docili e sprovvisti di un sapere e di una abilità propria, elementi che avrebbero accresciuto la loro capacità di resistenza ed insubordinazione.

269. RUSCHE GEORG e OTTO KIRCHHEIMER, "Pena e struttura sociale", op. cit., pag. 106.

270. "La relativa esiguità quantitativa che ha sempre caratterizzato queste esperienze, induce a considerarle più come una spia del livello generale raggiunto dalla lotta di classe che come fattore influenzante quest'ultimo". (in libro 1 pag. 38.) la funzione della casa di lavoro è più complessa di calmierare semplicemente il lavoro libero; il suo scopo è il controllo, l'educazione e l'ammaestramento della forza-lavoro, per trasformare l'ex- lavoratore agricolo cacciato dalla campagna in operaio.

271. WEISSER MICHAEL, "Criminalità e repressione nell'Europa moderna.", op. cit., pag. 29.

272. MELOSSI DARIO e PAVARINI MASSIMO, "Carcere e fabbrica: alle origini del sistema penitenziario (XVI- XIX secolo)", op. cit., pag. 37.

273. Questa situazione si verifica in quanto assai spesso le pubbliche amministrazioni, prive di luoghi idonei ove far scontare le pene detentive, non esitano a porre i condannati all'interno delle case di correzione, creando quella mescolanza di internati che abbiamo esaminato nel precedente paragrafo.

274. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 17.

275. Infatti accanto alle pene corporali da infliggere agli eretici, alcuni autori, accanto a quella del fuoco, dell'esilio, della deportazione, della verberazione, ecc., indicano quella del carcere perpetuo, cui devono essere condannati coloro dai quali non è sperabile ottenere una onesta conversione. In questo periodo alcuni autori affermano anche che, sebbene le carceri servano a custodire e non a punire, tuttavia questa custodia non può essere 'sine poena aliqua', costituita dallo squallore dei luoghi, dalla durata della detenzione e dalla diminuzione della libertà.

276. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 18.

277. Ibidem, pag. 18-19. Questo principio viene meno in caso di delitto atroce, per evitare la fuga del sospetto o la commissione da parte sua di altri reati. Ma le prove contro il sospettato devono essere palesi. Ed anche nel caso in cui il reo sia confesso di un reato grave e capitale, o le prove siano schiaccianti, non per questo deve essere incatenato se il carcere è sicuro e tale che non vi sia alcun timore che possa fuggire.

278. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 19.

279. Ibidem, pag. 24. Tuttavia non mancano accenni a strutture detentive di lunga durata chiamate a svolgere sostanzialmente ed a volte anche formalmente la funzione di pena. La ferocia del sistema esistente di pene, che si manifesta come una vera e propria carneficina (le leggi municipali dispongono che i rei vengano strangolati, decapitati, mutilati, ecc.), è tale da giocare in favore di modelli detentivi, visti come più umani e anche più utili alla collettività.

280. Il carcere aveva una importanza indubbia nella gestione 'ordinata' delle varie città; ma come pena rappresenta ancora pur sempre una eccezione, rispetto al carcere preventivo. Il carcere perpetuo non è una pena diffusa, essendo altre, come abbiamo visto, le risposte più frequenti alla criminalità. Abbondavano invece le carcerazioni per debiti. Tuttavia la molteplicità dei luoghi di detenzione, il numero dei carcerati, il frequente intervento legislativo in materia, i nuovi progetti di edilizia carceraria, sono tutti elementi che mostrano come il carcere manifesti già una elevata vitalità e capacità di espansione.

281. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 17.

282. Ibidem, pag. 18. Questo, sia perché la giustizia sommaria era meno costosa e più rapida dei processi regolari, e quindi più gradita ai proprietari che stendevano le denunce; sia perché i datori di lavoro "erano forse restii a ricorrere alla legge contro i propri dipendenti a causa della cattiva reputazione di cui godevano molte case di correzione locali e della diffusa convinzione che un servitore sarebbe uscito solo più malvagio da un periodo trascorso in carcere. Senza dubbio lo scarso prestigio delle prigioni contribuì a incrementare le punizioni private rispetto a quelle ufficiali".

283. Il carcere rappresentava un vero incubo per gli imputati, i quali preferivano spesso i rischi connessi alla latitanza, pur di non sottostare alle inumane condizioni di vita cui sarebbero andati incontro.

284. Ad esempio, lo Statuto degli Apprendisti inglesi autorizzava il padrone a far fustigare o imprigionare un proprio servitore o apprendista che gli avesse disobbedito in qualsiasi maniera.

285. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 33.

286. Questa misura fu adottata per far fronte ai creditori ostinati nel pretendere l'adempimento del debito, anche dinanzi alla evidente impossibilità per il debitore di farvi fronte; "passati quaranta giorni, tempo proporzionato ad iscovrire qualunque frode, restando il creditore fisso nel pensiere di non concordarsi, senz'altra prova della povertà del carcerato, come provata dal suo canto per lo passaggio di detto tempo, sia tenuto il creditore di somministrare nelle carceri gli alimenti al debitore" (in CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 82-83.).

287. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 33. In teoria, però, i delinquenti condotti in prigione dovevano essere messi, compatibilmente con l'affollamento delle celle, in carceri segrete e separate, in modo che non potessero parlare con nessuno.

288. Ibidem, pag. 33.

289. In Inghilterra, per otto ghinee il debitore poteva acquistare il diritto ad abitare 'entro i confini', cioè entro due miglia e mezzo dalla prigione; per una somma inferiore poteva comperare il diritto alle 'regole giornaliere', cioè la libera uscita dal carcere durante le ore di luce. I guardiani vendevano anch'essi lo stesso privilegio, chiamato espressivamente 'un giro di chiave'.

290. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 33.

291. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 34.

292. Ibidem, pag. 35.

293. Dove era previsto l'obbligo dell'alimentazione da parte dell'amministrazione, i custodi erano obbligati a fornire ai detenuti per delitti gravi ed atroci il cibo strettamente necessario; tali detenuti potevano comunque ottenere altro cibo, pagandolo, ma non era concesso loro di ricevere alimenti da parenti od amici. Per quanto riguarda i detenuti per delitti minori, potevano farsi portare cibo da persone esterne al carcere, senza obbligo di comprarlo dai custodi.

294. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 37.Inoltre, in alcune prigioni, i carcerati potevano tenere delle ceste che calavano con una fune nella strada sottostante per comprare direttamente dai venditori ambulanti quello di cui avevano bisogno.

295. Ibidem, pag. 38.

296. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 38.

297. Ibidem, pag. 38.

298. Ibidem, pag. 38.

299. Ibidem, pag. 39.

300. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 40.

301. Spiegando le cause degli abusi nelle carceri, i riformatori illuministi avrebbero più volte accusato la discrezionalità incontrollata dei carcerieri; crudeltà ed indulgenza derivavano dall'assenza di regole e controlli da parte delle autorità esterne.

302. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 40. Il carcere, che doveva essere luogo di semplice custodia, finiva per divenire una asprissima pena per le vessazioni perpetrate dai guardiani, che con vari pretesti sono soliti angustiare ed angariare i detenuti.

303. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 40.

304. I guardiani erano soliti affittare il letto al prezzo fissato dalla legge, ma senza le lenzuola e le coperte, le quali, a loro giudizio, esulavano dalla nozione di letto. I guardiani furono poi obbligati per legge a fornire ai carcerati miserabili dei tavolati, sui quali essi potessero dormire, poiché assai spesso essi, per mancanza di possibilità, erano costretti a dormire per terra, con le inevitabili conseguenze per la salute che ne derivavano.

305. Molti detenuti si indebitavano per acquistare questi privilegi, ed, anche dopo avere scontato la pena inflitta loro, erano trattenuti fino a che non avevano saldato il loro debito col carceriere.

306. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 40. Le prigioni non erano comunque le uniche istituzioni finanziate da denaro estorto a chi se ne doveva servire: gli infermieri negli ospedali ricevevano esazioni dai pazienti per vuotare i vasi da notte e cambiare le lenzuola; gli impiegati dei tribunali pretendevano denaro per ogni documento legale copiato e consegnato all'accusa, all'accusato o a un testimone; la ridotta burocrazia governativa era pagata soprattutto grazie ad esazioni. In ogni area dell'amministrazione coloro che si rivolgevano ad una istituzione pubblica pagavano per i servizi richiesti. Questo sistema spiega la riluttanza dei giudici a investire denaro per una struttura come il carcere, che sopravviveva per lo più autofinanziandosi. Inoltre i magistrati potevano tranquillamente evitare di sobbarcarsi il compito di controllare troppo strettamente la gestione delle carceri, visto che la quantità di denaro pubblico impegnato era estremamente ridotta.

307. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 41.

308. Solo una fuga di massa o prove di continua corruzione potevano causare il loro licenziamento. Spesso tramandavano la carica ai figli o alla moglie.

309. IGNATIEFF MICHAEL, "Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese, 1750-1850.", op. cit., pag. 42.

310. Ibidem, pag. 42. Non solo i guardiani erano pochi, ma i loro doveri si limitavano ad aprire e chiudere all'alba e al tramonto la prigione, ammettere i visitatori, custodire i cancelli, mettere ai ferri i criminali e scortarli all'andata e al ritorno dal tribunale. Non era loro compito sorvegliare i reparti, controllare i cortili di giorno, ispezionare i dormitori, condurre i prigionieri alla preghiera o a fare esercizio. Essi non imponevano una disciplina, e l'ordine interno, se tale si poteva definire, veniva fatto rispettare soprattutto dalla stessa subcultura carceraria.

311. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 45.

312. L'istituto della visita si accompagnava a quello della grazia concessa dal sovrano; spesso venivano emanati anche altri provvedimenti, con i quali la sottrazione del reo alla detenzione in carcere era a volte accompagnata dalla inflizione di sanzioni corporali tutt'altro che lievi.

313. Non erano infrequenti gli abusi e le compiacenze eccessive nei confronti di individui 'particolari'. I carcerati si lamentavano spesso per il fatto che le confraternite erano solite scegliere, come soggetti da liberare, persone facoltose, in grado di fare loro generose elargizioni. I soldi così raccolti venivano, perlomeno, utilizzati per alleviare le sofferenze dei carcerati che non avevano di che sopravvivere.

314. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 39.

315. Abbiamo già visto il ruolo che i rappresentanti di queste compagnie svolgevano durante le esecuzioni pubbliche.

316. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 54.

317. In genere diritti da riscuotere nei confronti di coloro che hanno ottenuto la grazia; oppure proventi derivanti da particolari tasse. (in Francia, ad esempio, alle compagnie era destinato il ricavato delle multe agli adulteri). Oltre a tali 'finanziamenti', le varie compagnie poteva fare affidamento sulle elemosine pubbliche e sulle donazioni di filantropi.

318. Vediamo come erano organizzate le visite nella Roma degli inizi del '700. Erano previsti tre tipi di visita. Quella ordinaria doveva avere luogo ogni giovedì; il suo scopo era quello di occuparsi del rilascio di detenuti che non dovevano più al lungo restare in carcere, e del regolare svolgimento della causa per quelli che invece non erano ancora stati giudicati. La visita straordinaria aveva luogo ogni mese e all'improvviso; non era destinata ad esaminare i casi dei carcerati, ma le condizioni del carcere stesso (igiene, qualità del vitto, comportamento dei custodi, ecc.). La visita graziosa era disposta due volte l'anno, a Natale e a Pasqua, per attuare il rilascio dei carcerati per reati minori e per debito civile.

319. CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 55.

320. Le condizioni igieniche della carceri restarono pessime fino ad Ottocento inoltrato. Si riscontrava la presenza di diverse malattie, a causa dell'umidità, della poca areazione ed illuminazione delle camere, dell'eccessivo numero dei carcerati presenti e della fame da cui questi erano assillati; "gli infermi marciscono nel sudiciume. Biancheria di letti non rinnovata né ben fornita, camice tuttora intrise di umori corrotti e di sangue colato da ferite giorni prima sugli infermi improntate ...: ecco lo spettacolo offertosi agli occhi nostri". (in CANOSA ROMANO e COLONNELLO ISABELLA, "Storia del carcere in Italia dalla fine del cinquecento all'unita'", op. cit., pag. 89.).

321. Basti citare il caso di un detenuto delle carceri piemontesi, cui furono amputati entrambi i piedi, che gli si erano congelati per il rigore del freddo.