ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Conclusioni

Elisa Calamai, 2003

Nel quadro che emerge partendo dall'ordinamento penitenziario del 1975 fino ad oggi si delinea un trattamento rieducativo ricco di una serie di attività e di competenze professionali diverse, di cui alcune nuove per l'amministrazione, orientato verso una custodia arricchita di elementi finalizzati al recupero sociale e comunque attento alle particolari condizioni e alle specifiche necessità di ciascun detenuto.

Quando ci si accorse del fallimento dell'ipotesi correzionale, il mutamento di indirizzo metodologico nelle attività di osservazione e trattamento penitenziario non provocò un mutamento dell'impianto normativo che rimase e rimane sostanzialmente immutato. L'elasticità della struttura del linguaggio usato dal legislatore ha fatto sì che il contenuto delle norme sul trattamento rimanesse invariato, mentre mutarono gli schemi teorici e operativi a cui si faceva riferimento. Da allora fare attività di osservazione e trattamento significa innanzitutto instaurare un valido rapporto interpersonale con il soggetto detenuto, per realizzare canali comunicativi che consentano acquisizioni di dati sul soggetto stesso, e partendo da questi dati, prospettare il suo recupero sulla base di interventi il più possibile collocati in contesti sociali esterni al carcere, con il preciso scopo di fornire maggiori possibilità di conoscenza e di comunicazione interpersonale e sociale.

Conseguenza di tale nuovo orientamento fu la consapevolezza della non indispensabilità di criminologi e psicologi nelle attività ordinarie di osservazione e trattamento, mentre si riconobbe agli educatori e agli assistenti sociali un ruolo di primo piano. L'attività di trattamento rimane oggi affidata ad un équipe multidisciplinare che comprende oltre agli educatori e agli assistenti sociali, gli altri operatori di ruolo come il direttore, o meglio il direttore dell'area pedagogica in base alla legge 395/90, gli agenti di polizia penitenziaria e tutti coloro, psicologo compreso, che comunque vengano in contatto con il detenuto.

Come abbiamo detto il progetto teorico complessivo che emerge fino alla legge Gozzini, delinea uno schema di trattamento che non si avvale solo della considerazione degli aspetti comportamentali tenuti dal soggetto in ambito penitenziario, il quadro è completato attraverso i contributi dell'indagine socio-ambientale. Si cerca di fornire dati il più possibile completi che permettano di individuare gli ambiti entro quali poter agire con quella offerta di interventi di sostegno che l'amministrazione penitenziaria dovrebbe garantire a tutti i detenuti.

Tra questi interventi un ruolo fondamentale è svolto dalle misure alternative, ma abbiamo rilevato come, anche dopo il potenziamento delle possibilità di accedere ad esse ab initio con la legge n. 165 del '98, non si sia intervenuti a livello tecnico probatorio, lasciando al magistrato di sorveglianza un'ampia discrezionalità nella considerazione della pericolosità 'esecutiva', con una disciplina della prova che è rimasta sostanzialmente modellata in base alla struttura indicata dal legislatore del '75.

È proprio la magistratura di sorveglianza che avverte tuttora l'inadeguatezza del sistema operativo di trattamento all'interno degli istituti, non potendo concedere misure alternative a soggetti che non offrano determinate garanzie di stabilità lavorativa e familiare all'esterno.

Alla concreta operatività del sistema penitenziario, così come avviene per ogni istituzione, concorrono oltre alle norme che lo disciplinano, la qualità e il numero delle persone che sono chiamate ad attuarlo. È evidente che il dettato legislativo continuerà a non ottenere risultati concreti nell'ambito del trattamento fino a quando non si arriverà ad un numero di operatori, che in quest'area sono i principali protagonisti, in qualità e quantità sufficienti. La situazione è quelladi una disarmantesproporzione numerica in rapporto ai detenuti (questi ultimi in continua crescita nonostante l'ampliamento delle misure alternative), che è aumentata dal 1975 ad oggi, e che neutralizza qualsiasi tentativo di programmazione incisiva costringendo a limitare l'impegno solo ai più fortunati ossia a coloro che sono in condizioni di richiedere i benefici.

È apparso chiaro che, con un tale ridottissimo numero di operatori sociali, senza volersi riferire alla scarsa e insufficiente attenzione prestata al problema della loro formazione, parlare di 'osservazione scientifica della personalità', di programmazione delle attività trattamentali, è un mero esercizio retorico, privo di qualunque contenuto concreto che non sia quello di una macroscopica forma di ipocrisia istituzionale (1).

La carenza di personale non tocca glioperatori di polizia penitenziaria che sono proporzionalmente i più numerosi d'Europa. Questi ultimi, sebbene con la smilitarizzazione siano stati avviati verso processi di democratizzazione, restano tuttavia ancorati ad una cultura prevalentemente disciplinare e correzionalistica, d'altronde, uno dei fattori organizzativi di riproduzione di tale cultura disciplinare è costituito dalla stessa articolazione gerarchica nella quale, sul modello della Polizia di stato, gli agenti di polizia penitenziaria sono stati inquadrati dalla L.395/90.

L'inserimento tra i compiti del personale di custodia delle attività di osservazione se da un lato appare un grosso passo in avanti teso al superamento della contrapposizione tra chi ha compiti di vigilanza e chi di trattamento, dall'altro rischia di rivelarsi riduttivo se non accompagnato da un aumento del personale degli educatori e degli assistenti sociali.

Anche gli altri operatori vivono in parte un ruolo subalterno sul piano decisionale e gerarchico, in quanto a capo delle aree socio-relazionali sono stati preposti dei direttori (spesso il più anziano in servizio), senza che, contemporaneamente, si sia provveduto a coprire le attuali carenze degli organici degli operatori sociali e senza che si sia attivata altresì un'adeguata politica di formazione e di aggiornamento professionale di tali ruoli, un appiattimento questo che ancora una volta viene vissuto come avvilente e burocratizzante.

Negli ultimi anni si è assistito ad una nuova forma di criminalizzazione nei confronti degli extra-comunitari che ne ha aumentato notevolmente il numero all'interno delle carceri, costringendo gli operatori a constatare, nel corso del lavoro di osservazione, una permanenza carceraria media nettamente superiore, a parità di reati e di condizioni giuridiche, a quella degli altri detenuti. Viene cioè verificata, nel quotidiano, una forte disparità di trattamento rispetto alla fruizione dei benefici e delle misure alternative. La percezione di tale iniquo 'surplus' di sofferenza legale, imposto a questa categoria di detenuti, contrasta nettamente con la percezione opposta della facilità con la quale l'utenza più fortunata e più abile a manipolare lo scambio 'sinallagmatico', imposto dai circuiti punitivo-premiali carcerari, riesce ad acquistare segmenti di libertà o la libertà tout-court.

In questa situazione l'esiguo numero di operatori, costretto da avvilenti procedure amministrativo-burocratiche e dalle pressioni della Magistratura di Sorveglianza a dedicare la maggior parte del proprio tempo e lavoro ai già socialmente fortunati, dovrebbe fronteggiare la domanda di relazione e di aiuto sociale di centinaia di utenti annui. In realtà gli operatori non possono che contemplare la propria impotenza di fronte all'ulteriore marginalizzazione degli emarginati. Tutto ciò impedisce agli operatori non solo una qualificante sperimentazione in termini di ricerca e intervento sul rilevamento dei bisogni e delle richieste dei detenuti, ma rende difficile, o quasi impossibile, la loro azione di tutela dei diritti dei soggetti.

Gli operatori sperimentanosulla propria pellel'ambiguità della subordinazione del trattamento carcerario al sistema punitivo-premiale e della conseguente, distorta delineazione dell'alternatività al carcere (permessi-premio, misure alternative, telefonate e colloqui premiali). Si può considerare una forma di violenza, quella vissuta, giorno per giorno in carcere, dagli 'esclusi sociali' dai benefici. Si tratta spesso di soggetti non criminali e non pericolosi, ma psicologicamente non in grado di tollerare, per ragioni di disagio psichico o di appartenenza a culture od etnie 'diverse', il regime disciplinare. Per queste ragioni essi non riescono ad esibire un comportamento penitenziario conformista a chi raccoglie i dati informativi e formula, in équipe, una valutazione comportamentale da presentare alla Magistratura di Sorveglianza. Ci si chiede allora se il lavoro sociale degli operatori, che dovrebbe tendere a soddisfare una domanda di aiuto, sia compatibile con un potere così invasivo come quello di controllare i comportamenti, gli atteggiamenti e le risorse dei detenuti da selezionare.

La contraddizione fra aiuto e controllo, che l'operatore è stato chiamato a gestire è dunque chiara. Non è possibile focalizzare l'intervento professionale sull'aiuto se si deve valutare il soggetto in vista della sua ammissione ai benefici. Occorre aggiungere che il modo diverso di esercitare il proprio potere discrezionale, da parte delle équipe di osservazione e degli Uffici e Tribunali di Sorveglianza, comporta l'adozione di criteri disomogenei e spesso contrastanti, e genera ingiustizie e discutibili differenze trattamentali.

Per ovviare a tali problemi abbiamo esposto quelle teorie che ipotizzano un percorso alternativo che miri a sostituire l'attuale pratica ed ideologia deltrattamento premiale con interventi mirati alla riduzione al ricorso penale, alla decarcerizzazione, e alla riduzione dello scarto sempre maggiore tra pena inflitta e pena scontata. Ci sembra comunque opportuno che le istituzioni si attivino e lavorino per superare la logica premiale che, seppure nell'immediato pare aver sortito effetti positivi (minore affollamento negli istituti e diminuzione della violenza all'interno di questi), in realtà ha introdotto un sistema che ha scaricato sui magistrati di sorveglianza e sugli operatori penitenziari responsabilità e compiti non propri. Se le misure alternative verranno trasformate in pene principali, destinate alla maggior parte degli autori di reati, verrà eliminata la burocratizzazione e la strumentalità nel rapporto operatore-detenuto, e se il carcere verrà riservato ad una stretta minoranza di delinquenti non si porranno grossi problemi di governabilità dello stesso.

Note

1. Quest'espressione è la stessa usata da R. BREDA in AA.VV., Operatori penitenziari e legge di riforma, Milano 1985, per indicare i paralizzanti ostacoli burocratici ed ambientali alle attività trattamentali proposte dagli Educatori.