ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 4
I soggetti del trattamento oggi. Esperienze a confronto nella realtà toscana

Elisa Calamai, 2003

4.1 I soggetti del trattamento oggi

4.1.1 Il Direttore dell'istituto penitenziario

La configurazione data dalla legge n. 395 del 1990, che distingue all'interno degli istituti diverse aree operative, è indubbiamente una importante novità se si considera che precedentemente l'istituto penitenziario era considerato una identità in cui le diverse funzioni erano fortemente intersecate e confuse ed ove dominava la figura del direttore al quale risalivano direttamente tutte le responsabilità, e ne risultava una assoluta mancanza di autonomia da parte di tutti gli operatori dipendenti. L'attuale previsione dell'autonomia delle aree operative trova riscontro nei profili professionali, (1) dove è affermata esplicitamente l'esistenza di una sfera di autonomia professionale da parte dei funzionari preposti alle varie aree.

Dal complesso di tali previsioni la figura del direttore dell'istituto (2) risulta, per molti aspetti, ridisegnata. Infatti il direttore, pur rimanendo il capo dell'istituto, e come tale avendone la rappresentanza esterna, assume all'interno funzioni di coordinamento e di armonizzazione delle varie aree operative, con poteri di vigilanza e di intervento in caso di disfunzioni, piuttosto che di operatore diretto.

4.1.2 Il Direttore Coordinatore di area trattamentale

Con la legge n. 345 del 1990 la figura del direttore penitenziario è stata ridisegnata, perché, come abbiamo detto, pur rimanendo il capo dell'istituto, egli assume all'interno di esso soprattutto funzioni di coordinamento e di armonizzazione delle nuove aree operative create dalla stessa legge. Questo cambiamento è espressione di un ripensamento di tutta la struttura dell'Amministrazione penitenziaria, per cui abbandonata l'idea di un'amministrazione verticistica si è puntato su quella di staff dirigenziale.

L'area educativa (o trattamentale, o pedagogica), è stata affidata ad un educatore coordinatore fino all'assunzione di 51 Direttori Coordinatori di area pedagogica mediante concorso pubblico nel 1999. Il contratto collettivo nazionale del lavoro per il personale del Ministero della Giustizia 1998/2001, ha previsto infatti questa nuova figura professionale, caratterizzata dall'assunzione diretta di responsabilità e risultati, nonché delle relazioni esterne, e gli ha affidato la posizione economica C3, corrispondente all'ex IX qualifica funzionale. Nell'accordo integrativo al C.C.N.L. 1998/2001 si specifica che il profilo professionale di Direttore Coordinatore di area pedagogica, assume la direzione del servizio e collabora direttamente con il Direttore dell'istituto e con i responsabili delle varie aree per la definizione e la realizzazione delle linee d'indirizzo e degli obiettivi nel campo del trattamento in materia di esecuzione penale, ha completa autonomia decisionale e programmatica dell'area trattamentale e delle risorse umane a questa appartenenti, e l'autonomia riguarda anche la rilevanza esterna degli atti formali.

Secondo il Direttore dell'area trattamentale della Casa Circondariale di Prato, Dott. Pasquale Scala, il proprio: "è un ruolo da inventare, essendo una figura nuova dipende anche dall'elasticità del Direttore generale concedere più o meno spazi, sarà il tempo che definirà meglio i bisogni della struttura e quindi le competenze".

Dall'osservazione di alcuni ordini di servizio (3) possiamo però ricavare una serie di competenze da cui si deduce che nell'ambito del trattamento, il Direttore di area pedagogica si sostituisce in tutto al Direttore di istituito. Infatti il Direttore dell'area coordina gli operatori della stessa ossia gli educatori coordinatori, gli educatori tirocinanti, gli esperti ex art. 80, gli assistenti volontari, gli operatori autorizzati ai sensi dell'art. 17 L. 354/75 ed il personale assegnato all'area con compiti di segreteria. Tale coordinamento comprende le complessive attività degli psicologi convenzionati (ex art. 80) ed in particolare il servizio Nuovi giunti, degli esperti dell'osservazione e trattamento e degli psicologi del presidio tossicodipendenti la cui attività viene concordata con il responsabile del S.E.R.T. interno.

Inoltre presiede il GOT, il gruppo per l'osservazione e il trattamento, che ha come segretario tecnico l'educatore, ed è composto dal responsabile della polizia penitenziaria e dagli specialisti esterni: assistenti sociali, sanitari, psicologi.

Coordina l'osservazione scientifica della personalità dei detenuti, verificandone gli esiti di concerto con i funzionari direttivi addetti ai reparti e con il responsabile dell'area della sicurezza. Invia i risultati dell'osservazione alla Magistratura di Sorveglianza, e cura la trasmissione ai suoi uffici delle richieste per le varie misure alternative alla detenzione e delle istanze di permesso premio ex art. 30 O.P.

Progetta e promuove le iniziative e le attività in favore dei detenuti e degli internati in campo scolastico, lavorativo, culturale (compreso il servizio biblioteca), sportivo, ricreativo e di formazione professionale, favorendo e coordinando anche gli interventi di enti ed associazioni di natura pubblica e privata.

Sempre nell'ambito delle direttive emanate dal dirigente dell'istituto, progetta iniziative ed interventi a favore dei detenuti ed internati tossicodipendenti ed alcolisti, con particolare riferimento alle problematiche dell'H.I.V., in sinergia con gli operatori del S.E.R.T. interno e di quelli territoriali, autorizzando questi ultimi all'ingresso in istituto.

Alcune competenze sono peculiari. Nell'ordine di servizio della Casa Circondariale di Taranto relativo alle mansioni del Direttore dell'area trattamentale si trova che: egli coordina le attività dei ministri di culto cattolico e dei ministri dei culti diversi da quello cattolico diversi. Invece il Direttore dell'area trattamentale del Complesso Penitenziario di Sollicciano supervisiona le attività di tirocinio svolte dagli studenti universitari previsti dalla convenzione stipulata con gli Atenei interessati.

4.1.3 L'educatore

Di recente un progetto dell'ufficio della formazione del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria ha consentito di approfondire i bisogni e le motivazioni di questa categoria. (4) Con la somministrazione di un questionario che permettesse di individuare il reale stato operativo, è emerso che, di fatto, gli educatori possono dedicare poco tempo ai rapporti educativi con i detenuti perché sono sommersi da innumerevoli mansioni burocratiche che rendono spesso inattuabile l'esercizio delle funzioni e delle competenze per cui il loro ruolo è stato concepito. Per ogni detenuto, i fogli da riempire, le richieste da inoltrare, i contatti esterni da mantenere, sono infiniti, e in questa condizione l'educatore vive in modo conflittuale l'ambiguità nella quale il suo ruolo è costretto, trovandosi a svolgere un lavoro non educativo ma di "burocrate tuttofare". (5) Gli educatori in questa realtà non sono in grado di seguire tutti i detenuti con continuità ed in modo costruttivo perché i colloqui sono sporadici. Interessante è il parallelo con la Francia nell'anno 2000, dove a fronte dei 50000 detenuti, gli educatori sono 1470, mentre il personale di polizia penitenziaria è circa la metà rispetto a quello italiano: 20256 agenti di custodia francesi, contro i quasi 43000 italiani. (6)

Tabella 1. Anno 2000: la situazione delle carceri italiane e francesi
Italia Francia
Personale di polizia penitenziaria 43.000 20.256
Personale educativo (educatori e assistenti sociali) 1.321 2.010
Detenuti 53.400 50.000

Se in Francia ogni 100 detenuti sono presenti 40 agenti di custodia e 4 operatori, tra educatori ed assistenti sociali, in Italia, sempre ogni 100 detenuti gli operatori sono solamente 2, mentre gli agenti sono circa 80. Questi dati sono indicativi di una limitata e residuale attenzione all'area trattamentale penitenziaria italiana. Purtroppo è stato continuo negli anni il divario enorme tra gli scopi istituzionali e d i mezzi a disposizione degli operatori dell'area educativa. Gli operatori dell'area educativa (educatori, psicologi, assistenti sociali) sono numericamente dimensionati a quel minimo indispensabile ad attestare la mera ottemperanza al dettato normativo che prevede l'esistenza di un'attività trattamentale nel carcere. (7) È chiaro che, con un tale ridotto numero di operatori parlare di "osservazione scientifica della personalità" e di programmazione delle attività educative significa riferirsi a termini astratti ed a istanze vaghe nell'attuale contesto penitenziario.

In base all'inchiesta sopracitata il numero dei detenuti che ciascun educatore riesce a seguire regolarmente con colloqui continuativi e relazioni organiche si aggira intorno ai 20-30.

In questo contesto è assente la valutazione dei reali bisogni dei detenuti al fine di fornire adeguate risposte trattamentali, mentre ciò che viene valutato è la capacità del detenuto di adeguarsi alla realtà carceraria. In questa ottica viene quindi connotato positivamente l'utente che è capace di utilizzare le opportunità in una logica di scambio (rispetto delle regole/concessione dei benefici) e quindi viene penalizzato chi ha minore adattabilità agli schemi comportamentali codificati e chi già vive un disagio personale che viene aggravato dalla condizione di detenzione, come i tossicodipendenti, gli immigrati, i malati di Aids, i portatori di disagio psichico. Cosicché il trattamento finisce per essere rappresentato da singole iniziative frammentarie che non fanno parte di un progetto complessivo e che rispondono semmai ad un ottica assistenziale. (8)

Gli educatori sentono dunque di avere poca importanza all'interno dell'istituzione carceraria. Il loro ruolo, la loro funzione raramente vengono nominati dai mass media, dalle riviste scientifiche o dai rappresentanti politici e istituzionali, e ciò provoca un forte isolamento di categoria. A questo si aggiunge che gli avanzamenti gerarchici fino a garantire la copertura dei quadri direttivi di VIII e IX qualifica, sono attualmente impediti dal blocco delle assunzioni nel pubblico impiego e dei concorsi per gli educatori di VII qualifica. Si avranno quindi per un lungo periodo solo educatori dei ruoli direttivi, che però saranno costretti dal contratto di lavoro e dalle esigenze operative a continuare a svolgere funzioni non direttive.

Da pochi anni si è cominciato a parlare del fenomeno del "burnout". Il conflitto tra la percezione delle carenze strutturali e organizzative (poca formazione, pochi strumenti, poco organico) e quella dell'estrema importanza delle proprie funzioni, può indurre l'educatore penitenziario ad assumersi un carico notevole di lavoro per sopperire con l'impegno individuale alle inefficienze del contesto. La volontà di "fare le cose bene", il credere fermamente nella rieducazione, il bisogno di vincere il senso di frustrazione che deriverebbe dall'accettazione dei limiti, possono motivare l'educatore a svolgere più lavoro di quanto è umanamente possibile. La conseguenza di questo atteggiamento è spesso il logoramento delle potenzialità dell'educatore che può arrivare ad assumere un atteggiamento vittimistico, passando dall'iperattivismo all'accettazione passiva della propria impotenza, speso unita all'autocommiserazione e al senso di fallimento di inutilità, o all'oppositività. (9) Così è molto frequente che l'educatore vada incontro a quel crollo psicologico che viene chiamato "burnout", (10) il cortocircuito psico-sociale che investe colui che prodiga le proprie risorse emotive, culturali, sociali in una relazione d'aiuto ma in un contesto insensibile, inadeguato. Essere in burnout significa essere bruciato, esaurito, in corto-circuito, significa avere malumore e irritazione, vivere un senso di delusione e impotenza.

Secondo Cherniss (11), il burnout è una risposta psicologica di difesa ad un eccesso di stress e d'insoddisfazione con conseguente perdita di entusiasmo, creatività, interesse e senso di responsabilità nei confronti del lavoro. Cherniss suddivide il processo del burnout in tre fasi:

  1. nella prima fase insorge lo stress, questo nasce quando è presente uno squilibrio tra le risorse disponibili e le richieste di lavoro o gli obbiettivi personali;
  2. la seconda fase è la risposta a questo squilibrio ed è caratterizzata da ansia, tensione, fatica, demotivazione;
  3. nella terza fase gli operatori sociali sviluppano atteggiamenti di rigidità e di distacco emotivo.

Il burnout è quindi una risposta difensiva ad una situazione di lavoro intollerabile dal punto di vista psicologico, risposta che si esprime attraverso il rifiuto, da parte dell'operatore, del coinvolgimento nel proprio lavoro o attraverso il ritiro di ogni interesse per esso.

In un istituzione totale come il carcere, molti sono i fattori che possono determinare il burnout: l'inadeguata organizzazione del lavoro, la burocratizzazione, le conseguenze del "gioco della premialità", l'inadeguato rapporto numerico tra educatori e detenuti, la presenza di scarsi strumenti, i non facili rapporti tra gli operatori sociali e la polizia penitenziaria, la dicotomia tra trattamento e custodia, il conflitto tra la relazione di aiuto e la funzione di controllo. (12)

Un dato interessante ai fini della nostra ricerca, che emerge dal progetto dell'Amministrazione penitenziaria, riguarda i rapporti tra gli educatori e le altre figure di aiuto (assistenti sociali, psicologi, psichiatri, operatori del Ser.T., volontari) che sono generalmente buoni per il 68% degli intervistati, mentre il 32% ritiene che spesso ci siano problemi di coordinamento soprattutto per quanto riguarda i volontari, questi infatti sono utili solo "se rimangono nei loro limiti". Per quanto riguarda il personale di polizia penitenziaria i rapporti sono meno distesi poiché essi tendenzialmente assegnano la priorità ad aspetti custodiali. In particolare risulta dall'inchiesta che sono spesso gli educatori a dover cercare di mantenere buoni rapporti con il personale di polizia per evitare che l'ostilità e la diffidenza si traducano in limitazioni alla realizzazione dei progetti educativi.

4.1.4 L'assistente sociale

L'assistente sociale espleta un'attività professionale nel settore penitenziario che è molto delicata perché, dovendo aiutare gli utenti a fronteggiare e risolvere i problemi che essi incontrano nel processo di adattamento sociale, impone un'ingerenza che essi non hanno richiesto. (13)

Inoltre il contatto che si crea con gli addetti al servizio sociale può essere percepito in modo negativo perché gli utenti sono consapevoli che il resoconto del rapporto, e quindi ogni loro comportamento, non rimarrà riservato, ma sarà per necessità oggetto di relazione all'autorità giudiziaria in vista dei provvedimenti da assumere. (14)

Per la rieducazione del condannato un ruolo importante è svolto dal suo nucleo familiare, per far sì che lo stesso, una volta tornato in libertà, sia non soltanto in condizione di provvedere a se stesso, ma ne abbia la piena capacità. In sostanza, l'opera svolta dall'assistente sociale non si limita al miglioramento del soggetto trattato, ma si estende all'intera famiglia e in genere all'ambiente, nel quale il soggetto dovrà tornare. (15)

Quella dell'assistente sociale è infatti la figura professionale a cui più di ogni altra è affidato il collegamento tra interno ed esterno, tra il carcere e la società libera.

L'ambito di intervento del Servizio sociale è stato ampliato spostandolo significativamente all'esterno degli istituti penitenziari nell'espletamento di una funzione da svolgersi in favore di quei soggetti che accedono direttamente dallo stato di libertà alle misure alternative. (16) L'assistente sociale è quindi il risultato delle trasformazioni e dei grandi cambiamenti ed è tuttora una figura in costante evoluzione.

La suddivisione per aree della legge n. 395 del 1990 ha sicuramente rappresentato una svolta significativa, resa indispensabile per attuare una più adeguata efficienza gestionale ed operativa degli Istituti penitenziari e dei Centri di servizio sociale.

Occorre sottolineare che non esiste alcun rapporto di subordinazione gerarchica tra gli Istituti penitenziari e i Centri. Questi ultimi sono suddivisi in tre aree: la segreteria, il servizio sociale, l'amministrazione. Ciascun responsabile di area opera secondo le disposizioni e le indicazioni del direttore del Centro, che è il responsabile dell'andamento generale ed è il referente degli organismi superiori. Le attività di ciascuna area includono elementi di programmazione, organizzazione e gestione, mentre la funzione di controllo viene sempre esercitata dal direttore.

Quella dell'assistente sociale è una professione particolarissima, quasi un ponte umano tra la società dei liberi e la società dei reclusi, con tutti i limiti, le difficoltà e la istanze dell'una e dell'altra. Per questo motivo quegli operatori che cercano di occuparsi con serietà delle questioni che incontrano nell'esercizio delle loro attività possono scontrarsi con un senso di frustrazione. Causa primaria è che il rapporto operatore-utente è nella stragrande maggioranza delle ipotesi forzato poiché ha inizio quando l'amministrazione ha l'obbligo di attuare il trattamento del detenuto, anche se dall'altra parte il detenuto ha la libertà di rifiutare di sottoporsi all'osservazione e di divenire così soggetto di un progetto trattamentale se recluso, oppure di essere oggetto di un'inchiesta, se libero. In secondo luogo molto concreto è il rischio del burnout, perché si opera con degli assistiti che presentano problematiche di notevole gravità tali da creare un peso emozionale di rilievo. (17)

Strumento primario dell'assistente sociale sono le inchieste, le quali permettono agli operatori del settore e alla magistratura di sorveglianza di orientarsi per confluire in una valutazione complessiva del caso. Questo tipo di indagine, che in passato si riteneva dovesse essere minuziosa e piena di dati e di riferimenti, tende oggi a dare maggiore importanza alle modalità esistenziali con le quali il soggetto dell'indagine, ma anche i suoi familiari, prendono coscienza delle condizioni in cui si trovano e delle prospettive future.

Gli assistenti sociali, dunque assolvono il compito di valutare il detenuto sotto il profilo dei rapporti affettivi e familiari e curano l'accertamento delle condizioni socio-familiari del recluso in osservazione, avendo anche dei colloqui con i suoi congiunti. Purtroppo però la dotazione organica del personale del servizio sociale è storicamente scarsa, dalla apertura dei Centri ad oggi essi hanno dovuto confrontarsi costantemente con il problema dell'insufficienza del personale, sia a livello direttivo che di base. (18)

È infatti innegabile che la buona riuscita di una misura alternativa, dipende anche dalla situazione operativa del personale educativo. Se gli organici sono insufficienti anche il modus operandi degli assistenti sociali risulterà carente, e il sovraccarico di lavoro potrà determinare, da una parte, una burocratizzazione dei rapporti con l'assistito che renderà più difficile il suo reinserimento sociale, e dall'altra, l'ansia e la frustrazione del burnout.

A questo punto è utile analizzare i compiti dell'assistente sociale partendo da alcune singole misure alternative.

Affidamento in prova ai servizi sociali, art. 47 O.P.

È una misura alternativa che consente di espiare la pena in libertà con l'obbligo di attenersi a determinate prescrizioni, è concessa al fine di evitare gli effetti dannosi della carcerazione e di favorire il reinserimento sociale. Il CSSA svolge un'attività di sostegno e al tempo stesso di controllo rispetto alle suddette prescrizioni. Sono prescrizioni indispensabili quelle relative ai seguenti aspetti: dimora; libertà di locomozione; divieto di frequentare determinati locali; lavoro; divieto di svolgere attività o di avere rapporti personali che possono portare al compimento di altri reati; divieto di soggiornare in tutto o in parte in uno o più Comuni; obbligo di soggiornare in un Comune determinato; adoperarsi, in quanto possibile, in favore della vittima del suo reato; adempiere puntualmente agli obblighi di assistenza familiare. Durante il periodo di affidamento le prescrizioni possono essere modificate dal Magistrato di Sorveglianza, tenuto conto anche delle informazioni del servizio sociale.

Affidamento in prova in casi particolari, art. 94 D.P.R. n. 309/90

Misura alternativa rivolta a tossicodipendenti e alcooldipendenti che intendono intraprendere o perseguire un programma terapeutico. L'affidamento ha inizio nel momento in cui il soggetto sottoscrive, davanti al Direttore del CSSA, il verbale di determinazione delle prescrizioni relative alle modalità di attuazione del programma terapeutico e alle forme di controllo per accertare che il soggetto prosegua lo stesso programma, con l'impegno a rispettarle. Nel corso della misura il Centro di Servizio sociale si adopera per aiutare il soggetto a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale, al fine di favorire il suo reinserimento e svolge un'azione di tramite tra l'affidato, la sua famiglia e gli altri suoi ambienti di vita, in collaborazione con i servizi degli Enti Locali, delle A.S.L. e del privato sociale. Con una frequenza minima trimestrale svolge il ruolo di referente del Magistrato di Sorveglianza, lo informa sull'andamento dell'affidamento; lo informa su un eventuale nuovo titolo di esecuzione di altra pena detentiva che fa venir meno le condizioni per una prosecuzione della misura (residuo pena inferiore a quattro anni); invia una relazione finale al momento della conclusione della misura.

Semilibertà, art. 48 O.P.

Consiste nella concessione al condannato e all'internato di trascorrere parte del giorno fuori dall'Istituto di pena, per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. Nel corso della misura il CSSA cura la vigilanza e l'assistenza del soggetto nell'ambiente libero; collabora con la Direzione dell'istituto, che rimane titolare della responsabilità del programma di trattamento, riferendo sull'andamento della misura e su ogni informazione rilevante ai fini di un'eventuale modifica del programma medesimo.

Detenzione domiciliare, art. 47 ter. L. 354/75

La misura consiste nell'esecuzione della pena nella propria abitazione o in un'altra dimora privata o in un luogo pubblico di cura, assistenza e accoglienza. Gli interventi del Centro di Servizio sociale riguardano il sostegno del soggetto e non il controllo, che invece e effettuato dagli organi di polizia. Il CSSA infatti, in base alle disposizioni impartite dal Tribunale si Sorveglianza, ha il compito di stabilire validi collegamenti con i servizi socio-assistenziali del territorio al fine di aiutare il condannato a superare le difficoltà connesse all'applicazione di tale misura.

4.1.5 Lo psicologo

Considerando la figura dell'esperto che opera nelle istituzioni penitenziarie e in particolare quello che partecipa alle attività di osservazione della personalità del detenuto, una prima puntualizzazione è da farsi in merito alla specializzazione professionale che può riferirsi a campi disciplinari diversi, anche se le funzioni da espletare hanno ormai orientato la prassi verso una prevalente utilizzazione di specialisti in psicologia e criminologia, con una netta preminenza dei primi. La possibilità di accedere alle selezioni operate dal Ministero di grazia e giustizia è ampia, relativamente alla qualifica e al curriculum professionale, e si basa sul criterio di 'attinenza' ai campi disciplinari individuati. La selezione è quindi prevalentemente focalizzata sull'accertamento delle conoscenze relative alle problematiche connesse alla devianza, all'osservazione della personalità e al trattamento, ed è finalizzata alla formazione di un elenco dal quale si attinge per le utilizzazioni negli istituti penitenziari che è istituito presso ogni Provveditorato.

Lo spazio tra il momento selettivo e quello operativo non è percorso da itinerari formativi ad hoc che orientino lo specialista nella particolare realtà in cui si troverà ad operare. Ciò può contribuire a mantenere e ad ampliare, confusione e ambiguità nella dimensione interattiva con gli altri ruoli istituzionali, soprattutto in relazione alle aspettative che questi hanno circa la funzione dell'esperto e al tipo di apporto professionale che si ritiene debba fornire. Da più parti si afferma ormai che l'utilizzazione costante degli esperti nelle attività di osservazione e trattamento è prassi piuttosto ampia e consolidata.

Sotto l'aspetto formale l'attività dell'esperto negli istituti penitenziari si inquadra all'interno di un rapporto di tipo consulenziale previsto attualmente, per un tetto massimo di 64 ore mensili. Il rapporto ore esperto è direttamente proporzionale al numero dei detenuti definitivi o internati, nella misura di 50 vacazioni orarie per ogni 150 detenuti, e al numero dei detenuti in altra posizione giuridica, non definitivi, nella misura di 50 vacazioni orarie per 250 detenuti giudicabili. Questa proporzione è frutto di una riparametrazione in senso restrittivo che tende ad una contrazione del numero degli esperti. (19) Se si considera infatti che l'osservazione, o il sostegno psicologico, deve interessare tutti i detenuti, che per ogni detenuto definitivo c'è ne sono almeno tre in altra posizione giuridica, che la legge Gozzini ha ampliato i compiti dell'esperto riducendo i tempi dell'osservazione ad un mese, si può rilevare che l'impiego temporale degli esperti è del tutto inadeguato se commisurato alle reali esigenze di una corretta attività trattamentale, di osservazione e di sostegno. L'incarico avviene per autorizzazione del Provveditore alla direzione degli istituti, indicando sia il nominativo sia il monte ore da attribuire allo stesso per l'espletamento dei diversi servizi cui detti professionisti sono previsti. Ricevuto il provvedimento di autorizzazione, il direttore sottoscriverà un accordo individuale con l'esperto, il quale per lo svolgimento delle attività richieste si assumerà l'impegno di rispettare le modalità per lo svolgimento dell'attività richiestagli. Il numero e la distribuzione degli accessi terrà conto della necessità del lavoro interdisciplinare con gli altri operatori penitenziari.

Negli Istituti di prevenzione e pena per adulti è, in genere, lo psicologo a chiamare a colloquio il detenuto, in quanto necessita di elementi di conoscenza finalizzati all'esigenza di rispondere ai quesiti provenienti da altri livelli istituzionali. È piuttosto raro che i detenuti rifiutino il colloquio, in quanto in genere, sono consapevoli della procedura burocratica dell'osservazione che, in vista di qualche beneficio premiale o della concessione di misure alternative, prevede di 'dover parlare' con gli operatori penitenziari.

Il colloquio è utile per poter conoscere le linee generali dello sviluppo della persona nella trama dei rapporti familiari e sociali, delle esperienze scolastiche e lavorative, devianti e detentive, e presenta una sua funzionalità se l'indagine è utilizzata non tanto per cercare nessi causalistici, come spesso avviene, tra situazioni 'carenti' e la commissione di reati, quanto per dare la possibilità al soggetto di esprimere e di analizzare i propri vissuti relativi a quelle esperienze, esprimere quelle parti di sé ridotte o negate nell'adattamento alla vita istituzionale, o nel processo di assunzione di una identità deviante negativa, e per fare emergere bisogni ed esigenze nel confronto con la realtà detentiva e con la prospettiva del ritorno in libertà e del reinserimento. (20)

Naturalmente quanto sin qui detto sull'attività dell'esperto in generale vale anche per l'altra figura prevista dall'art. 80 dell'O.P. e citata nella circolare D.A.P. del 25 gennaio 1996 nº3412/5862: il criminologo. La circolare in questione sembra tuttavia esprimere una netta preferenza nei confronti dello psicologo è infatti previsto nella designazione degli esperti si potrà operare una scelta paritetica se il numero degli esperti è di due unità operanti nell'istituto. In caso che gli esperti superino le due unità il rapporto dovrà essere 2 a 1. Negli istituti dove opera un solo esperto la scelta, possibilmente cadrà sull'esperto in psicologia. Ovviamente si tratta di indicazioni di massima non vincolanti. (21) Su un piano più generale la criminologia in Italia, non ha ancora completato il suo sviluppo ed è ancora alla ricerca di una sua autonomia, di una precisa collocazione accademica, persino di una sua univoca denominazione. La tradizionale impronta medica che l'ha ispirata storicamente, si è arricchita di apporti giuridici, sociologici, ed antropologici verso una interdisciplinarietà che è ormai uno degli aspetti più fecondi della materia nel nostro paese. Mancano in Italia diplomi e lauree in criminologia, presenti in altri stati come gli USA. Esistono alcune scuole di specializzazione, spesso abbinate alla Psichiatria e alla psicopatologia forense, un Dottorato di ricerca e alcuni corsi di perfezionamento con varie dizioni, orientati verso la Medicina penitenziaria. La professione di criminologo è ancora sostanzialmente indefinita, anche se esperti carcerari, personale penitenziario, periti di varia specializzazione, agenti delle forze dell'ordine, penitenziaristi a vari livelli, operano da criminologi nelle loro varie funzioni nell'ambito del sistema della giustizia penale. I problemi che hanno messo in crisi la Criminologia clinica sono soprattutto di ordine diagnostico, classificativo e di previsione. I metodi finora utilizzati in criminologia si sono rivelati non del tutto adeguati per fornire un'utile guida per l'applicazione della legge e per adottare decisioni giuridiche e correttive in ogni passo del complesso processo giudiziario. (22) La figura del criminologo è prevista unicamente in ambito penitenziario e, oltretutto, con un ruolo marginale e che si sovrappone a quello dello psicologo. Numerosi sarebbero i motivi della scarsa considerazione della quale godono la criminologia e il criminologo. Non ultimo il fatto che il criminologo rappresenta colui al quale spetta il compito di sintetizzare conoscenze e prassi provenienti da altri ambiti disciplinari e professionali e ciò fa si che la criminologia venga rappresentata come scienza di seconda istanza. Sul piano operativo, il criminologo è destinato ad assumere dalla psichiatria e dalla psicologia la dimensione antropologica, dal diritto penale o dalla sociologia il livello espressivo dell'agire e dalla politica criminale le finalità. Si tratta di un percorso che non conduce alla costruzione di un sapere unitario, bensì ad una frammentazione dei diversi aspetti di ogni situazione in quanto non esiste la possibilità, conoscitiva e operativa di poterli unificare. Si comprende quindi come appaia azzardato affermare di poter costruire una conoscenza complessiva, anche se è comprensibile un'aspirazione a un sapere più articolato possibile. A questa istanza il criminologo è chiamato a fornire un contributo che non sia la sommatoria di approcci disciplinari e professionali codificati in altri ambiti, né si esaurisca nella ricerca di improbabili sintesi e integrazioni. (23) I criminologi si sono resi conto che la categoria di personalità che emerge dall'Ordinamento penitenziario è funzionale ad un approccio individualizzato di tipo psicologico, ma non è utilizzabile al di fuori di questo. Anche per il criminologo lo strumento di analisi privilegiato è costituito dal colloquio. Il colloquio in ambito criminologico è diverso dal colloquio psicologico o psichiatrico, il primo ha scopi differenti e pone l'operatore in un ruolo diverso da quello del terapeuta, creando nell'utente aspettative diverse. Naturalmente ci si riferisce alla fase diagnostica e prognostica escludendo la fase trattamentale. Riguardo l'osservazione da più parti si afferma che gli interventi legislativi che si sono avuti nel nostro Paese successivamente alla riforma dell'ordinamento penitenziario del '75 prescinderebbero dall'intervento delle scienze comportamentali anche come ausilio per una valutazione della personalità. Gli interventi si porrebbero su un piano di previsione astratta di legge, non di individualizzazione secondo parametri criminologici o psicologici, comunque non ritengono di doversi occupare di un'indagine approfondita della personalità del soggetto che ha commesso il reato. Alcuni infatti riscontrerebbero delle tentazioni neo-classiche ad esempio nel concetto di "regolare condotta", posto nella legge 663 del 1986 come presupposto, assieme all'assenza di pericolosità, per la concessione di permessi premio, concetto certo meno 'clinico' per esempio della "partecipazione all'opera di rieducazione", di cui si fa menzione nella legge del '75 per l'ottenimento di altri benefici. Si affermerebbe in sostanza che il concetto di trattamento come intervento personalizzato, mirato alla risocializzazione avrebbe ulteriormente perso terreno, ed oggi avrebbe ceduto il passo all'applicazione o meno delle misure alternative, o alle indicazioni delle modalità con cui scontare la pena. È evidente allora come l'intervento dell'esperto risulti se non meno importante, almeno maggiormente indirizzato al momento valutativo prognostico che non a quello di tecnico del trattamento.

I casi di colloquio criminologico sono appunto quelli svolti dagli operatori carcerari con i detenuti e quelli disposti dall'autorità giudiziaria al fine di acquisire elementi sulla personalità del soggetto e cioè sulle "qualità psichiche indipendenti da cause patologiche", sul suo ambiente di appartenenza, sulla eziologia del reato, sulla sua dinamica, su tutti quegli elementi che permettono una più complessiva e approfondita comprensione e valutazione del fatto e del suo autore. Il criminologo si afferma deve "avere consapevolezza del doppio mandato, avere a cuore l'interesse del soggetto che sta esaminando, ma ha anche un committente, il giudice o l'amministrazione penitenziaria come espressioni del mandato di difesa sociale". (24) L'esigenza di difesa sociale è infatti uno degli scopi del colloquio criminologico, perché, volenti o nolenti, dai risultati del colloquio condotto verranno tratte conseguenze in ordine alla difesa sociale e al destino penitenziario del soggetto.

4.1.6 L'agente di custodia

Con l'approvazione del decreto legislativo di riforma dell'Amministrazione penitenziaria del 19 maggio 2000, si è istituito il ruolo direttivo e dirigenziale del Corpo di polizia penitenziaria. A tale proposito abbiamo accennato alle posizioni contrarie di molti operatori del settore, poiché in questo modo, la gestione della sicurezza in carcere viene ridisegnata come un'area autonoma, dotata di specifici ruoli direttivi, e si stravolge la riforma del 1990, con la quale per ragioni garantistiche, a capo della polizia penitenziaria erano stati preposti direttori e dirigenti amministrativi.

Tale scelta era fondata sul principio che solo un personale dirigente distinto da quello di polizia, con una solida formazione giuridica, poteva garantire una gestione "democratica" della sicurezza ed orientarla verso lo scopo di umanizzare la pena e attivare le condizioni positive di risocializzazione dei detenuti. (25)

Secondo i sostenitori di questa teoria il carcere, pur con la sua ineliminabile cornice coattiva, è una formazione sociale in cui la gestione dell'ordine e della sicurezza, per essere attenta ai diritti, dovrebbe essere orientata e organizzata non da personale avente come compito primario quello securitario, ma da una classe dirigente dotata di una visione globale dell'azione amministrativa. L'istituzione dei ruoli direttivi e dirigenziali di polizia all'interno delle carceri riduce ancora di più gli ambiti di potere del personale psico-socio-educativo, qualunque incremento d'organico o di poteri formali si voglia determinare o conferire a tali operatori.

Alcune proposte per riorientare le politiche penitenziarie, consistono nell'aprire l'istituzione totale al flusso della società civile, coinvolgendo la stessa nelle attività trattamentali e di risocializzazione dei reclusi. La recente scelta di far dipendere dal sistema sanitario nazionale il personale medico e parasanitario penitenziario potrebbe indicare una strada. Si sostiene che anche gli educatori, gli assistenti sociali e gli psicologi che operano nelle carceri potrebbero essere posti alle dipendenze degli enti locali. Dotati di una reale autonomia progettuale e organizzativa potrebbero fungere da agenti trattamentali del territorio, inserendo nella politica gestionale delle carceri gli organismi locali con poteri incisivi sul piano trattamentale. Parallelamente, politiche di formazione permanente rivolte al personale del corpo di polizia penitenziaria contribuirebbero ad evitare una deriva neo-militare dei dispositivi carcerari. (26)

Di recente il progetto di legge n. 2867, presentato nel giugno 2002 alla Camera dall'On. Gaetano Pecorella, Presidente della Commissione giustizia della Camera, prevede l'istituzione in seno al Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria della Direzione Generale del Corpo di Polizia penitenziaria. La proposta Pecorella se approvata, a seguito anche delle pressioni sempre più forti dei sindacati di polizia, concluderebbe, secondo Salvatore Rigione (27), la vicenda paradossale di un governo di centrosinistra che ha preparato le basi per la trasformazione del carcere in un organismo di polizia, lasciando al centrodestra il semplice coronamento e completamento dell'opera.

Tutto è cominciato con il varo delle norme che istituivano i ruoli direttivi e dirigenziali della polizia penitenziaria, nonostante le motivazioni contrarie contenute nella Raccomandazione della Commissione Giustizia del Senato del 27 novembre 1996.

Con il D.L.vo 146/2000, venivano istituiti non solo i quattro livelli gerarchici dei ruoli direttivi ordinari e di quelli speciali (vice commissario, commissario, commissario capo e commissario coordinatore) ma, limitatamente per l'accesso ai commissari provenienti dai ruoli ordinari, si istituivano anche i ruoli dirigenziali e si definivano i rispettivi organici. Il decreto quantifica le nuove gerarchie direttive e dirigenziali in 715 unità tra ruoli direttivi ordinari e speciali e ruoli dirigenziali. Va detto che mentre il requisito culturale imprescindibile per l'accesso ai ruoli ordinari è la laurea, e vi è ammessa una riserva del solo 20 % dei posti al personale del Corpo di polizia penitenziaria, per l'accesso ai ruoli speciali, invece, si prescinde dalla obbligatorietà della laurea rimanendo ancorati al diploma di scuola media superiore di secondo grado, infine relativamente alla fase della prima attuazione della riforma, si ammette per una decina di posti perfino il diploma di scuola media.

Aggiungendo ad un quadro così configurato la proposta Pecorella, si realizzerebbe la più completa autonomia organizzativa della gestione degli ambiti securitari, comprese la selezione e la formazione del personale, si estenderebbe l'area securitaria anche al controllo dei detenuti dell'area penale esterna presso gli stessi Centri di servizio sociale, il tutto a scapito degli operatori sociali e delle esigenze di risocializzazione.

4.2 Esperienze a confronto nella realtà toscana

In quest'ultima parte riportiamo le esperienze dirette degli operatori del trattamento che ci hanno raccontato le difficoltà e gli entusiasmi del loro lavoro quotidiano.

Gli orientamenti legislativi degli ultimi anni, che hanno trasferito il trattamento soprattutto all'esterno; il mancato aumento di organico, intervenuto invece per gli assistenti sociali; i concorsi interni e i conseguenti passaggi di carriera fino a posti di tipo dirigenziale fanno pensare all'educatore come ad una figura in estinzione. Ciò nonostante il ruolo dell'educatore rimane ancora centrale all'interno dell'istituto perché, a partire dal colloquio di primo ingresso, egli attiva tutti gli altri operatori: servizio sociale, Sert, psicologo, ecc.; inoltre tira le fila di tutte le riunioni relative ai detenuti, che si tratti della commissione del lavoro, dell'equipe del GOT, o della Grande sorveglianza, e naturalmente rimane il referente del detenuto.

La carenza di personale è ormai un dato strutturale. Soltanto nel settore minorile il rapporto educatore-minore è di 1 a 7, ed è giustificato dal ruolo di guida che l'educatore dovrebbe avere in qualità di insegnante e conduttore del minore; nel settore degli adulti invece l'ottica cambia, l'educatore ha soprattutto il compito di cogliere gli stimoli che provengono dal detenuto, ma in questo caso i numeri sono irrisori e lontani dal rapporto ottimale di 1 a 50 indicato dalla circolare Amato del 1992.

L'inserimento in istituto dopo il 1979 viene raccontato da Raffello, educatore nel carcere di Prato, come un'esperienza molto dura a causa dello scontro con una cultura autoritaria, secolare, poco incline al cambiamento. La vera rivoluzione però è considerata la legge Gozzini con la quale si è ottenuto il governo del carcere. Tutto quello che prima era disperazione, segregazione, si è trasformato in speranza o illusione di libertà, se prima in carcere erano frequenti le rivolte, dopo la Gozzini la logica premiale ha avuto come risultato un acquietamento degli animi perché a seconda del livello di buona condotta si può ottenere il gradino della liberazione anticipata, poi quello del permesso, fino alla semilibertà. Il sistema premiale nel contesto dell'esecuzione penale è il vero punto cardine della realtà penitenziaria e contribuisce a tenere i detenuti passivamente adattati a tutte le regole del gioco. (28) Attraverso l'introduzione nel sistema delle misure alternative si è cercato di realizzare una più efficace politica di difesa sociale rispetto al vecchio sistema penitenziario che era stato concepito come netta separazione tra carcere e società civile. (29)

Ci si può allora domandare se sia accettabile un simile meccanismo di controllo istituzionale che strumentalizza determinati 'saperi' al solo scopo reale, più che dichiarato, di assicurare il governo delle carceri. Se le competenze operative prevalenti della figura professionale dell'educatore sono l'attività di osservazione e quella di trattamento, per quanto attiene la prima, questa non sembra costituire, di fatto, il presupposto per individuare i reali bisogni del detenuto ed approntare di conseguenza adeguate risposte trattamentali, bensì la maniera con cui l'educatore attesta le capacità del detenuto di adeguarsi alla realtà carceraria. Con tali presupposti finisce con l'essere connotato positivamente il comportamento di chi, all'internodella cultura carceraria, è in grado di utilizzare, in una logica di "scambio" (rispetto delle regole/concessione dei benefici), le opportunità proposte. Il trattamento si concretizza in singole frammentarie iniziative che, lungi dall'essere parti di un progetto complessivo, rispondono nella migliore delle ipotesi ad un generico assistenzialismo. Segno evidente di quanto si è detto è che non si reperiscono fondi dopo aver individuato i progetti, ma si "inventano" i progetti per utilizzare i fondi.

Oggi dunque il governo del carcere è dare a tutti la speranza della libertà. Per questo non si può negare che esista la strumentalità nel rapporto con il detenuto, l'educatore però ne è cosciente tanto che, anche questo, diventa un elemento di valutazione della personalità. Quindi rientrare nei termini di un beneficio non vuol dire meritarselo, l'educatore rifiuta di lavorare sull'emergenza dei termini ma vuole verificare il percorso svolto durante la detenzione. Riguardo all'osservazione, l'aggettivo "scientifica" rimasto nel testo di legge viene da una parte rinnegato, e dall'altra reinterpretato con l'inserimento nelle relazioni del maggior numero possibile di dati giuridici, familiari, lavorativi ecc.., i quali servono a rispettare un criterio di oggettività. Tale oggettività viene utilizzata anche come parametro per la prognosi del comportamento futuro del detenuto, con la pretesa di basare su questi dati il sillogismo sulla ricaduta nel delitto. Gli educatori, data la scarsità di personale, ritengono onesto definire l'osservazione "quasi approssimativa", e consci dei loro limiti, vivono il trattamento come l'offerta di mezzi capaci di permettere al detenuto un momento di ripensamento, uno strumento per andare oltre l'impasse della detenzione. In questo senso l'unico riscontro è dato dalla recidiva e l'esperienza degli educatori è abbastanza sconsolante, specialmente per alcuni tipi di reati, come droga o rapine, perché è difficile uscire dalla logica del falso guadagno. Nonostante ciò gli educatori superstiti coltivano l'utopia della risocializzazione in nome di quello che definiscono un "ottimismo antropologico" al quale non vogliono rinunciare.

Il lavoro dell'educatore si svolge in due direzioni, da una parte consiste soprattutto in mansioni burocratiche fatte di fascicoli da riempire sotto la pressione del Magistrato di sorveglianza per la concessione delle misure alternative; dall'altra sta evolvendo verso forme di progettazione all'esterno. Quest'ultimo aspetto è considerato da molti la parte più creativa. Lavorare per progetti, anche europei, assumere la mentalità del manager, è vissuto in maniera stimolante ma, contemporaneamente, l'entusiasmo è smorzato dall'appropriazione dell'iniziativa e del merito da parte della nuova figura del Direttore di area pedagogica, appropriazione che da taluno è vissuta come l'ennesima angheria. In generale la competenza dell'educatore non è caratterizzata da una specificità settoriale come quella degli altri operatori del trattamento, di conseguenza egli deve far fronte a tutta una serie di bisogni del detenuto che vanno da quelli primari (come il vestiario) a quelli di libertà: Il sistema è ormai collaudato e si basa sull'anello debole dell'educatore, tanto che ancora oggi c'è chi sente appropriata la definizione di Pavarini di "utile idiota".

Riguardo al fenomeno del burnout molti sono propensi a negarne l'esistenza o al limite ad attribuirlo ironicamente ad alcuni colleghi; non si nega che quello dell'educatore sia un lavoro pesante, soprattutto sul piano psicologico, ma da una parte si continua a credere in un lavoro di utilità sociale, e dall'altra le maggiori difficoltà non sono avvertite nello scontro con i detenuti, bensì nello scontro con un sistema militare, gerarchizzato, particolarmente rigido e burocratico. L'educatore si sente investito del mandato di risocializzazione ma poi avverte che è lo stesso sistema ad impedirgli di svolgerlo. Un esempio è la struttura gerarchizzata degli agenti di custodia e il retaggio della loro cultura, anche se la figura dell'agente sta diventando sempre più importante e si riconosce nei più motivati un apporto al trattamento del detenuto.

Il carcere cambia insieme alla società e la nuova difficoltà degli operatori del settore, che si trovano di fronte a culture diverse, è dare al lavoro un diverso taglio antropologico. Presto, in seguito al regolamento esecutivo del 2000, farà il suo ingresso in carcere il mediatore culturale, ma anche per questa figura l'educatore rivendica il ruolo di indirizzo che fino ad oggi ha avuto nei confronti degli altri operatori.

Lo stesso regolamento esecutivo ha quasi raddoppiato l'organico degli assistenti sociali (aumento voluto dall'allora direttore generale del DAP Alessandro Margara) e inoltre ha previsto per questi operatori un lavoro di rete (art. 118). In realtà riguardo a quest'ultimo aspetto, si è data una veste ufficiale ad un metodo che già esisteva e che si era sviluppato subito dopo il 1979, poiché i soli due servizi centralizzati di Firenze e Pisa non avrebbero potuto operare se non attraverso collegamenti con il territorio.

I due aspetti essenziali del lavoro dell'assistente sociale sono l'inchiesta socio-familiare e l'attività di sostegno e controllo dopo la concessione delle misure alternative. In particolare, quando dall'inchiesta socio-familiare egli riscontra un mancato inserimento della persona nella società, cerca di costruire tale inserimento agganciandosi alla struttura di riferimento specifica per il caso: la cooperativa, il centro per il recupero degli alcoolisti, ecc.. All'atto della concessione delle misure alternative invece viene avvertita una discriminazione notevole, perché da un lato l'applicazione del tribunale di sorveglianza è molto diversa sul territorio nazionale, dall'altro perché gli extracomunitari spesso non hanno i mezzi per poter usufruire delle misure alternative e in particolare dell'affidamento in prova.

La legislazione recente ha cercato di riempire con più contenuti la misura alternativa, concedendo la liberazione anticipata anche agli affidati quando ricorrano elementi concreti. Al C.S.S.A di Firenze la normativa è stata interpretata nel senso di dover riscontrare "un di più" rispetto ad una evoluzione della personalità e si è cercato di raggiungerlo attraverso programmi maggiormente individualizzati che puntano a determinati obiettivi. Ad esempio, nel caso di maltrattamenti in famiglia, la liberazione anticipata verrà concessa soltanto se sarà raggiunto l'obiettivo dei buoni rapporti.

Per l'assistente sociale l'efficacia del trattamento si realizza principalmente all'esterno, dubbi invece sono espressi sul trattamento all'interno degli istituti, argomentati approssimativamente con un giudizio negativo sui rapporti gerarchici tra detenuti. Grande fiducia è invece data alle misure alternative, anche se l'assistente sociale lamenta la carenza accanto a sé di altre professionalità come quella dello psicologo, introdotto come esterno al C.S.S.A. dal regolamento del 2000, ma non ancora operante.

Lo psicologo come operatore del trattamento interviene attraverso il sostegno e l'ascolto del detenuto. Dalla carenza di personale e di orario (64 ore mensili), dovuta anche alla configurazione dello stesso come esterno, consegue una presenza insufficiente all'interno dell'istituto, ma contemporaneamente lo psicologo ha la possibilità di "staccare" dalla realtà carceraria e svolgere un altro lavoro. A questo proposito, sia nei lavori della Commissione di studio per la ridefinizione del ruolo dello psicologo in carcere, (30) sia in sede di parere del Consiglio nazionale dell'ordine degli psicologi, è stata evidenziata la necessità di legare tale ruolo al benessere psico-fisico della persona reclusa, e si è prospettata da più parti la costituzione di un dipartimento, o servizio, o coordinamento di area di psicologia penitenziaria alle dipendenze del sistema sanitario nazionale. Una psicologia quindi libera e autonoma rispetto alla gerarchia penitenziaria e non un ruolo interno alla stessa amministrazione.

Per scelta lo psicologo in carcere non segue solo pochi casi cioè non fa psicoterapia, traccia invece il profilo del detenuto valutando i punti di forza che serviranno, per esempio, a trovare lavoro all'esterno e stimola la presa di coscienza delle risorse e delle debolezze del detenuto.

Egli opera su diversi canali, utilizzando le segnalazioni provenienti dagli educatori o dalla polizia penitenziaria con la quale mediamente è in buoni rapporti; c'è poi il canale diretto delle domandine dietro le quali c'è sempre una richiesta di aiuto che va oltre la misura alternativa e riguarda problemi personali, unici, che difficilmente vengono affrontati dalle altre figure professionali.

Dalle interviste risulta che lo psicologo, dato l'enorme numero di richieste, non riesca a farvi fronte e sia dunque costretto a dare delle precedenze ma in un clima di autonomia e di fiducia da parte del Direttore di area educativa; capita anche che il detenuto conosca per la prima volta l'educatore sotto la veste di partecipante al consiglio di disciplina e porti con sé questa immagine negativa.

L'unica figura professionale che non lamenta carenza di personale è il corpo degli agenti di polizia penitenziaria, che registra la maggiore consistenza d'Europa, raggiungendo, rispetto agli altri paesi, numeri esorbitanti. Tale abnormità, secondo Salvatore Rigione, è la causa di dinamiche clientelari che attraversano indistintamente tutta la classe politica, compresa la classe dirigente di sinistra, solo in teoria più sensibile a problematiche di tipo sociale. In realtà negli ultimi anni si è continuato a lasciare il campo ad una rigida cultura militare, lo dimostra il fatto che quei sindacati che avevano voluto la smilitarizzazione sono oggi in minoranza, mentre è emerso un sindacato quasi unico che conta tre volte gli iscritti degli altri. I retaggi della cultura militare sono rimasti anche all'interno delle sezioni, da quanto ci ha raccontato l'ispettore Crispoldi, gli agenti distinguono se stessi in "vecchia guardia" e "nuova zimarra", e chiamano "accamosciati" (il "camoscio" è il detenuto che va "lisciato") quelli che si schierano in favore dei detenuti. Tuttavia anche da parte degli altri operatori non sempre viene facilitato lo svolgimento dell'attività di trattamento. Può capitare infatti che, in assenza dell'ispettore, tutti gli appartenenti all'area educativa, il direttore, l'educatore, lo psicologo, l'assistente sociale, decidano ugualmente di svolgere la riunione del GOT. Questo atteggiamento alimenta, da un lato il senso di estraneità all'opera di trattamento, e dall'altro una strisciante tensione tra aree delle stesso istituto.

Tornando alla dotazione di personale degli agenti di custodia, ciò che colpisce è il grande numero impiegato in ruoli amministrativi: soltanto al D.A.P. di Roma gli agenti sono 1800. Gli intervistati confermano che appena se ne intravede la possibilità, si cerca di fuggire dalle sezioni. Questo è dovuto anche alla mancanza di corsi di formazione che indirizzino gli agenti nel settore carente, l'unica distinzione di competenza si ha tra agenti addetti alla sorveglianza di adulti o di minori, manca una istruzione appropriata, per cui a parità di formazione e di stipendio si cerca di ricoprire il posto meno impegnativo.

4.3 Il problema legislativo al centro del disagio degli operatori penitenziari

I problemi che l'operatore si trova ad affrontare non sono solo quelli legati alle contraddizioni che caratterizzano il suo ruolo. Esiste oggi una situazione difficile, interna alle carceri, legata alla nuova tipologia dell'utenza, dovuta al notevole aumento di extracomunitari (31). Per questi detenuti si registra una permanenza carceraria media nettamente superiore, a parità di reati e di condizioni giuridiche, a quella degli altri reclusi. Possiamo così constatare la disparità di trattamento rispetto alla fruizione dei benefici e delle misure alternative che, oltre agli extracomunitari, colpisce gli svantaggiati sociali in generale, cioè coloro che non possono contare su attività lavorative esterne e su contesti familiari di accoglienza.

In carcere, oltre ai problemi degli operatori sociali di formazione, di assenza di risorse e di ambiguità dei ruoli, il vero problema è l'incertezza della pena: "questo fa sì che la pena che viene scontata non sia dovuta tanto al reato commesso quanto ad elementi di discrezionalità ed a valutazioni di opportunità e sicurezza". (32)

Secondo Massimo Pavarini (33) sarebbe dunque necessario rivedere la soglia delle pene previste abbassandole, ma, in fase esecutiva, la pena dovrebbe rimanere immutata. Bisognerebbe insistere nel sostituire quelle che oggi vengono chiamate pene alternative, in vere e proprie pene sostitutive. La loro concessione dovrebbe essere data non su elementi di non pericolosità, o altri fortemente discrezionali, ma su istanze di diritto.

L'attuale situazione fa sì che gli operatori del trattamento contino poco, ma nel contempo siano funzionali per costruire su di loro le contraddizioni del "carcere della buona speranza" che però si trova ad essere funzionale, ancora una volta, a chi ha più strumenti culturali o agganci esterni. Di conseguenza difficilmente si tentano misure alternative per esempio per un immigrato, e queste finiscono per essere un privilegio dato ai meno sventurati fra i detenuti, che non sono necessariamente quelli che le meritano di più. Se non si adotta questa soluzione, secondo Pavarini, quel valore propugnato fin dall'operato di Cesare Beccaria della certezza della pena verrà sempre più scalzato dall'incertezza sulla durata e sulla stessa modalità di esecuzione della pena detentiva:

quando il giudice condanna, ad esempio, ad una pena di venti anni di reclusione, è assolutamente incerto non solo se tutto quel periodo verrà scontato ma se verrà scontato in carcere o in regime di semilibertà, o a casa usufruendo di permessi giornalieri di lavoro. (34)

Le misure alternative sono certamente in linea con la finalità rieducativa e di recupero sociale che la Costituzione assegna alla pena. Il dato negativo è però rappresentato dal fatto che non si è tenuto conto che il sistema introdotto avrebbe scaricato sui magistrati di sorveglianza e sugli operatori penitenziari responsabilità e compiti che sarebbero invece spettati al legislatore nel momento della determinazione della durata e del tipo di sanzione. Ne è quindi derivato un sistema in cui è venuta meno qualsiasi corrispondenza tra la pena scritta nel dispositivo della sentenza di condanna e quella che il condannato verrà chiamato concretamente a subire. Da questo scarto fra pena inflitta e pena scontata derivano le profonde sensazioni di disagio che assistenti sociali, educatori e psicologi incontrano nell'assolvere il loro ruolo.

Queste categorie vengono infatti chiamate, con pochissimi mezzi a disposizione, a fornire le premesse per una esecuzione della pena diversa da quella inflitta, cioè per fare uscire i condannati, e non per condurre quelle forme di trattamento interno al carcere previste dalla legge penitenziaria.

Anche secondo Neppi Modona (35) l'unico modo per modificare questo stato di cose sarebbe costringere il legislatore a riappropriarsi del suo compito istituzionale di determinare il sistema sanzionatorio, e costringerlo anche a rivedere, per i reati più gravi, le pene detentive, minori di quelle attuali, ma destinate ad essere interamente scontate. Infine bisognerebbe passare all'introduzione come pena, non più quindi come alternativa, di sanzioni quali la semilibertà e la detenzione domiciliare, da applicare in prima battuta dallo stesso giudice del processo.

A questo punto il ruolo degli educatori risulterebbe chiarito e riscattato alle sue origini, e cioè seguire il trattamento in carcere di quei soggetti che la pena detentiva devono effettivamente scontarla "dentro". Nel contempo si dovrebbero affiancare operatori che costruiscano rapporti, facilitino condizioni anche culturali, in modo che le altre pene, oggi forme alternative, possano essere applicate.

L'attuale sistema ha introdotto elementi schizofrenici nel ruolo degli operatori le cui funzioni sono in realtà strumentali alle esigenze del condannato di essere ammesso ad una misura alternativa. È del tutto impossibile che in queste condizioni un educatore possa essere in grado di occuparsi del detenuto, quest'ultimo lo assimila a chi ha il potere di farlo uscire, il che rende a priori impossibile un corretto rapporto tra l'operatore e il suo assistito.

Note

1. D.P.R. 29 dicembre 1984 n. 1219, e per l'Amministrazione penitenziaria il Decreto del Presidente del consiglio dei ministri 14 settembre 1988.

2. Art. 34 n. 2, la dotazione organica dei direttori degli istituti di prevenzione e pena è incrementata di 18 unità.

3. Ordine di servizio del 5 settembre 2000 della Casa circondariale di Taranto; Ordine di servizio della Casa circondariale di Prato; Ordine di servizio del Complesso penitenziario di Sollicciano Firenze; Ordine di servizio della Casa circondariale di Alghero.

4. G. Concato (a cura di), Educatori in carcere, Ruolo, percezione di sé e supervisione degli educatori penitenziari, Unicopli, Milano, 2002.

5. Ivi, p. 22.

6. Floch 2000, Cabanel 2000.

7. Conato, op. cit., p. 24.

8. Ivi, p. 25.

9. Ivi, p. 30.

10. Il burn out è fenomeno riconosciuto di recente, miete molte vittime in molti settori lavorativi difficili. Il termine appartiene al mondo dello sport ed era usato per indicare l'atleta che, dopo un periodo di successi, non era più in grado di ripetere gli stessi risultati pur essendo in perfetta forma fisica. Intorno alla metà degli anni settanta è passato ad indicare una sindrome tipica delle professioni di aiuto, caratterizzata da un distacco emotivo rispetto agli assistiti e dalla perdita di interesse nel proprio lavoro. Cfr, Maslach-Leiter, Burnout e organizzazione. Modificare i fattori strutturali di demotivazione al lavoro, Milano, 2000.

11. C. Cherniss, La sindrome del burn-out: lo stress lavorativo degli operatori socio-sanitari, in Psicologia, Torino: centro scientifico torinese, 1983.

12. Concato, op. cit., p. 32.

13. M. Castaldo, op. cit., p. 151.

14. Breda, Il servizio sociale nell'esecuzione penitenziaria, in Trattato di crimin9ologia, medicina criminologica e psichiatria forense, a cura di Ferracuti, vol. XI, Carcere e trattamento, Milano, 1989, p. 448.

15. M. Castaldo, op. cit., p. 156.

16. Giuffrida, I centri di servizio sociale dell'amministrazione penitenziaria, Roma, 1999, p. 43.

17. M. Castaldo, op. cit., p. 162.

18. Sabattini, L'organizzazione del Centro di Servizo sociale per adulti, in Breda, Coppola, Sabattini, Il servizo sociale in ambito penitenziario, p. 135.

19. Vedi Circolare ministeriale nº 3184/3634 del 5 agosto 1986 "Impiego degli esperti di cui al quarto comma dell'art 80, legge 26 luglio 1975 n. 354" e da ultimo confermata nella Circ. D.A.P. 25 gennaio 1996 n. 3412/5862, "Impiego degli esperti di cui al quarto comma dell'art. 80 della L. 26 luglio 1975, n. 354".

20. G. Pantosti - E. Pellegrini, Fare lo psicologo nel sistema penitenziario per gli adulti, in G. De Leo (a cura di), Lo psicologo criminologo, Giuffré, Milano, p. 59.

21. Circolare D.A.P. 25 gennaio 1996, nº 3412/5862, Impiego degli esperti di cui al quarto comma dell'art. 80 della L. 26 luglio 1975 nº 354, in G. Zappa-C. Massetti, Il codice penitenziario e della sorveglianza, La Tribuna, Piacenza1997, pp. 982-984.

22. V. Mastronardi, Manuale per operatori criminologici e psicopatologi forensi, Giuffré, Milano, 1996, p. 19.

23. G. Pisapia, Manuale operativo di criminologia, Cedam, Padova, 1995, pp. 21-27.

24. I. Merzagora, Il colloquio criminologico, Unicopli, Milano, 1987, p. 26.

25. S. Rigione, Note controcorrente sulla riforma dell'amministrazione penitenziaria, in Questione giustizia, n. 4, 1999, p 741-746.

26. S. Rigione, op. cit., p. 746.

27. S. Rigione, Dai ruoli direttivi e dirigenziali della polizia penitenziaria al progetto di legge Pecorella, articolo di un testo di prossima pubblicazione.

28. Calvanese, La fase esecutiva della condanna. Permeabilità ed incertezza dei confini del carcere, in Studi in ricordo di G. Pisapia, vol. III, p. 419.

29. Cfr. E. Santoro, Carcere e società liberale, Giappichelli, Torino, 1997.

30. Commissione costituitasi presso il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria nel dicembre 1998 in relazione al nuovo scenario normativo della riforma sanitaria, legge 30 novembre 1998, n. 419.

31. AA.VV, Gli operatori penitenziari escono allo scoperto, in Aspe, n. 8 del 30.04.92, p. 20.

32. M. Pavarini, Il disagio degli operatori riporta il problema legislativo al centro, in Aspe, n. 8 del 30.04.92, p. 21.

33. Ibidem.

34. G. Neppi Modona, La responsabilità dell'incertezza della pena, in Aspe, n. 8 del 30.04.92, p. 22.

35. Ibidem.