ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Conclusione

Gianluca Massaro, 2002

A conclusione della nostra ricerca, disponendo di tutti i dati fin qui analizzati, dovremmo riuscire a rispondere alla domanda: perché taluni sono diventati serial killer? Cosa determina un uomo qualunque a diventare un assassino seriale?

Da sempre ci s'interroga sul perché si commettono delitti. Il problema del motivo per il quale, in eguali condizioni socio-ambientali potenzialmente criminogene, un individuo diventi un criminale ed un altro no è il punto di partenza di molti studi. La criminologia, che del delitto e dei suoi autori specificatamente si occupa, ha nel tempo proposto varie teorie. Cominciando dall'Ottocento, con Cesare Lombroso, il padre dell'antropologia criminale, che individuò la causa della delinquenza in ataviche alterazioni organiche del cervello, che taluni individui ("i delinquenti nati") egli pensava presentassero fin dalla nascita; secondo questa teoria, i criminali erano visti come predestinati al delitto. Lombroso ritenne, infatti, che un'alterazione biologica fosse la causa determinante del delinquere di questi soggetti. Al determinismo lombrosiano subentrò, a poco a poco, quello sociologico: la causa della delinquenza venne vista nella società. A cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo si pensava, ad esempio, che la delinquenza fosse appannaggio soltanto delle classi meno abbienti e si scoprì che certe "aree criminali" trasmettono i valori antisociali che sono propri della maggior parte di coloro che vi risiedono e ciò si ritenne facilitasse l'avviarsi della carriera criminale. Taluni sociologi, a metà del secolo scorso, puntarono l'indice sulla "imitazione" della condotta di altri delinquenti; altri ancora sostennero che la causa della criminalità era il frutto dell'"etichettamento": quando l'etichetta di criminale è applicata, quando un individuo è stigmatizzato come delinquente dai tribunali, dal carcere e dalla società in generale, egli è "costretto" a rimanere tale. I marxisti, invece, indicarono le differenze di classe come la causa della delinquenza e la criminalità fu vista come un fatto politico: era una conseguenza delle iniquità del mondo capitalistico.

Poco importa se queste teorie siano state oggi abbandonate; il punto che a noi interessa è un altro. La ricerca delle cause della criminalità è stata il filo conduttore di gran parte della sociologia criminale; questa però non ha consentito di individuare le radici del crimine, ma è riuscita soltanto a riconoscere fattori e circostanze che facilitano la scelta della condotta delittuosa. Fattori ambientali e sociali, psicologici ma anche psicopatologici entrano in gioco nel comportamento umano. Questi elementi possono giocare un ruolo importante sia nelle scelte criminose che in quelle di vita, ma non è concepibile un rapporto di causa/effetto tra condizioni facilitanti e delitto. Possiamo quindi affermare che diversi sono i fattori che influenzano la condotta criminale, ma non esistono leggi causali, non esiste ciò che possa chiamarsi "causa della criminalità".

Così come non esiste una causa specifica del comportamento criminale in generale, non esiste neppure per l'omicidio seriale, ma, anche qui, abbiamo un complesso di fattori che, se raggiunge una soglia critica, può innescare il comportamento omicidiario seriale. Uno dei fattori più importanti è che il naturale istinto di repulsione verso la morte, proprio dell'essere umano, sia indebolito o assente. In tal caso il soggetto si sentirà attratto dalla morte e da tutto ciò che è in relazione con essa (il criminologo Francesco Bruno, la chiama "necromania"). Gli assassini seriali subiscono il "fascino della morte" e fantasticano sulla propria morte e su quella degli altri; suicidandosi, però, proverebbero un piacere rapido, fugace e, soprattutto, non ripetibile, mentre, uccidendo altre persone, sperimentano ogni volta un piacere nuovo. Un altro fattore molto importante è la presenza di una vita fantastica molto intensa. L'assassino seriale vive la maggior parte del suo tempo in un mondo immaginario e, in esso, trova più soddisfazione che in quello reale. Prima di uccidere veramente, sperimenta l'omicidio diverse volte nella sua immaginazione: se prova soddisfazione dalla prima fantasia, ne farà delle nuove, finché, ad un certo punto, questa non gli basterà più e dovrà passare all'azione vera e propria. Altro elemento rilevante nella genesi dell'omicidio seriale è il bisogno di potenza del soggetto. Le due massime manifestazioni di potenza sono "dare e togliere la vita". L'uomo non può dare la vita, che è prerogativa del sesso femminile, per questo gli rimane soltanto la seconda possibilità. Ottenendo il controllo di altre persone e, alla fine, uccidendole, realizza il potere che non è riuscito ad avere in nessun altro modo.

Dobbiamo però precisare che soltanto alcuni individui diventano serial killer, mentre altri, con un percorso di vita analogo e caratteristiche psichiche simili, non lo diventano. Questa situazione può essere spiegata chiamando in causa alcuni fattori predisponenti, facilitanti o scatenanti, che orientano l'individuo verso l'omicidio seriale, invece che verso altri comportamenti. Generalmente, nelle biografie degli assassini seriali, riscontriamo una serie di traumi, sia fisici che psichici, a partire dall'infanzia. Fra i traumi fisici più frequenti, ci sono, per gli uomini, le lesioni alla regione cerebrale, le quali provocano danni di diversa entità alle zone del cervello che regolano l'aggressività e il comportamento sessuale, mentre, per le donne, gli abusi sessuali. Fra i traumi psichici, ricordiamo tutti i problemi di relazione con i genitori e con il gruppo dei pari, la scarsa elaborazione del lutto e i vari rifiuti e abbandoni ai quali è soggetto l'assassino seriale. Abbiamo visto, scavando nelle biografie di molti serial killer, che di rado il clima in famiglia è caldo e comprensivo. Spesso la madre o il padre hanno negato l'affetto ai loro figli.

Ulteriori situazioni influiscono sul comportamento omicidiario seriale. La componente sessuale è fondamentale nel determinare l'omicidio seriale maschile. L'inadeguatezza provata dall'assassino nei confronti dell'oggetto sessuale, fa sì che egli accumuli rabbia e frustrazione fino al punto di rottura in cui decide di ingaggiare la sua battaglia privata contro tale oggetto e contro la società in generale. Gli individui che non sono in grado di elaborare adeguatamente il carico di rabbia e di frustrazioni presenti nella loro vita, possono mettere in atto un comportamento deviante e una delle opzioni possibili è l'omicidio seriale.

Certamente questi fattori non sono sufficienti a far nascere un assassino seriale. Le scelte che un soggetto compie dipendono dal significato che ognuno dà alla vita. Ognuno è dotato di un proprio spazio di libertà morale, diverso non solo da persona a persona per effetto dei fattori ambientali, ma anche per effetto delle sue qualità psichiche e di come ha appreso a gestirle. Certi uomini, evidentemente, sono più vulnerabili alle sollecitazioni esterne rispetto ad altri. Del resto, come detto, non tutti diventano dei serial killer nonostante si trovino in analoghe situazioni socio-ambientali o patiscano le stesse frustrazioni psicologiche. Per questo motivo parliamo di fattori predisponenti, facilitanti e scatenanti piuttosto che di causa.

Per quanto riguarda le caratteristiche tipiche dell'omicidio seriale, abbiamo visto come la maggioranza di essi venga commessa da uomini. Questa circostanza può essere spiegata dal fatto che gli uomini, culturalmente e storicamente, hanno un bisogno maggiore di affermare il proprio potere, di dominare. Questo è ancor più vero per gli uomini occidentali, che esaltano il valore della competitività in ogni campo. Gli assassini seriali di sesso maschile, a differenza di quelli di sesso femminile, sono più violenti, tendono ad infierire sul cadavere con mutilazioni e perversioni di ogni tipo. Sono molto mobili e tendono a spostarsi tra un omicidio e l'altro per confondere le tracce e trovare nuove vittime. Hanno dei problemi di identità sessuale molto gravi che originano dall'infanzia e dal fatto che non sono riusciti a stabilire dei rapporti positivi con le figure genitoriali. Vivono il rapporto uomo/donna in termini esasperatamente competitivi e accumulano una serie infinita di frustrazioni perché non riescono ad avere il controllo di nessuna situazione della loro vita. Molti non riescono ad avere una vita familiare stabile, perché si sentono inadeguati, ma non sopportano il rifiuto e l'abbandono.

Le donne serial killer, invece, non sono molto violente. Queste uccidono senza infierire sui cadaveri e non mostrano perversioni sessuali particolari, ad eccezione, in alcune, di un certo grado di feticismo. Sono sedentarie ed è difficile che si spostino per uccidere. Abitualmente, le loro vittime provengono dal nucleo familiare e gli omicidi, spesso, hanno una motivazione economica. A differenza degli uomini, difficilmente tentano il suicidio, ma sono più propense all'autolesionismo, perché molte hanno un bisogno ossessivo di sentirsi al centro dell'attenzione.

Un altro aspetto importante è quello relativo ai problemi investigativi in un caso di omicidio seriale. Infatti, almeno per quanto riguarda quella particolare categoria di serial killer definiti come "organizzati", il tempo di cattura si allunga notevolmente; questo ci deve far riflettere sull'attenta ed accurata premeditazione e pianificazione dell'attività criminale, operazioni tipiche dell'omicidio commissionato da organizzazioni criminali, mentre per altri generi di omicidio, l'attività di programmazione risulta meno ponderata, fatto che si traduce in un minor tempo di cattura dell'aggressore. A questo proposito è importante riconoscere il ruolo di centri specializzati nel contrastare il fenomeno dell'omicidio seriale come l'U.A.C.V., in Italia, ed il N.C.A.V.C., negli Stati Uniti, che permettono un'attività investigativa mirata qualora ci si trovi di fronte ad un delitto senza movente apparente. È pur vero che molti passi avanti devono essere mossi soprattutto a livello di coordinamento tra le varie agenzie di controllo, dato che, spesso, è questo il motivo degli insuccessi investigativi che hanno portato assassini seriali ad agire impuniti per molti anni.

Una domanda cui molti studiosi del fenomeno si pongono è quella della possibilità di prevenire il comportamento omicidiario seriale. Anche questa è una questione di difficile soluzione, ma alcuni autori, tra cui Norris, ritengono che ciò sia possibile qualora s'intervenga su un soggetto quando il mondo della fantasia non ha ancora preso il sopravvento e, comunque, l'intervento preventivo deve essere svolto coinvolgendo, possibilmente, la famiglia, il sistema scolastico e i servizi del territorio. Circa la possibilità di cura dei serial killer, dobbiamo dire che attualmente non esistono possibilità di trattamento di sicura efficacia per il comportamento omicidiario seriale. Essendo gli assassini seriali abili manipolatori, in più di un'occasione sono riusciti a fingere dei miglioramenti, per poi ricominciare ad uccidere una volta liberati. Una volta che si è instaurato il "corto circuito omicidiario", l'assassino sarà sempre pronto ad uccidere, anche a molti anni di distanza. Molti sostengono la necessità di trattamenti personalizzati, diversi per ognuna delle categorie di assassino seriale, e multidisciplinari, rispondenti all'ottica sistemico-relazionale, con particolare attenzione al follow-up, cioè al momento in cui l'assassino seriale esce dall'istituzione totale e viene reinserito nella società.

Per quanto concerne il contributo offerto dalla psicologia allo studio dell'omicidio seriale, fino ad oggi i principali modelli di interpretazione del fenomeno sono di stampo biologico o psichiatrico. Il comportamento omicidiario seriale è stato spiegato mediante il paradigma del "condizionamento operante": ad uno stimolo (trauma scatenante) segue una risposta (azione omicidiaria) che comporta un rinforzo positivo e la conseguente ripetizione del comportamento. Nel corso degli anni sono stati elaborati diversi modelli d'interpretazione psicologica del comportamento violento e criminale in generale, ma nessuno specifico del comportamento omicidario seriale. L'unica possibilità di recupero dei serial killer, secondo De Luca, è quella di ricostruire il loro senso di realtà e può essere utile solamente una terapia in chiave sistemico relazionale che consideri l'individualità del soggetto in rapporto al suo inserimento nella società e alle sue relazioni con gli altri. Dall'analisi dei casi, abbiamo visto che il trattamento individuale da solo non è mai riuscito ad ottenere cambiamenti sostanziali, quindi De Luca crede che questo possa risultare più efficace se affiancato ad una terapia di gruppo, in cui il soggetto possa confrontare le sue esperienze con quelle di altri ed imparare in maniera diretta dei modelli efficaci di gestione dell'ansia e delle frustrazioni.

Il trattamento, sempre secondo questo autore, non va centrato sui sintomi più evidenti, ma va orientato per agire in profondità; in quest'ottica ritiene necessaria una ristrutturazione cognitiva che modifichi alle radici il sistema di pensiero dell'assassino seriale. È importante creare dei pensieri positivi che vadano a prendere il posto delle fantasie negative e di autodistruzione dell'individuo. Soprattutto l'assassino seriale deve essere inserito in un setting altamente strutturato, perché una caratteristica costante della sua vita è quella di aver fatto parte di ambienti destrutturati nei quali non ha potuto apprendere i fondamenti della vita sociale: proprio per questo molti assassini seriali si trovano a loro agio nella vita militare oppure quando vivono in carcere, perché sono contesti completamente strutturati nei quali trovano compensazioni al loro mondo interno, caotico e frammentato.

In conclusione possiamo affermare che, nel raccontare le vicende di questi serial killer, inevitabilmente, abbiamo dovuto parlare del male, di quel male che hanno commesso, di quel male che, in modo diverso, meno violento e meno disumano, compiono tutti coloro che delinquono. Abbiamo visto, nelle loro storie, crudeltà e violenza, ma ci è apparso chiaramente che anch'essi siano stati frequentemente "usati" e maltrattati. E la violenza chiama violenza; il maltrattato diventa un maltrattatore, il perseguitato persecutore. Certamente, e questo lo abbiamo ricordato, tutto ciò non avviene obbligatoriamente, ma, alla fine, anche questi assassini sono stati testimoni di sofferenza, tristezza e solitudine. Abbiamo capito, in fondo, che la sorte del serial killer è una specie di esilio: egli diventa una persona estremamente asociale con la rottura dei freni inibitori e dei tabù, travolta dalle sue fantasie e dominata dall'istinto omicida; eppure la società da cui si sente emarginato lo attrae come estremo palcoscenico dei suoi atti. In ciò sta l'aspetto "mostruoso", ma anche umano delle loro vicende, perché gli assassini seriali sono, e questo non va dimenticato, pur sempre persone.

Per questo motivo suscitano sentimenti ambivalenti, dal momento che ha agito in loro quella stessa parte "cattiva e negativa" che esiste in ogni persona e che drammaticamente li unisce a noi nello stesso momento in cui li vogliamo allontanare etichettandoli come "mostri", "malati", "diversi". Resta comunque estremamente difficile accettare che il comportamento violento, specialmente nelle forme estreme dell'omicidio seriale, pur rappresentando un modo distruttivo, crudele e sadico di agire, sia in fondo una forma di risposta possibile ai problemi dell'esistenza umana. Ancora più difficile sarebbe accettare la tesi sostenuta dal criminologo Gianluigi Ponti e dallo psichiatra Ugo Fornari, secondo la quale i serial killer, almeno per quanto riguarda quelli da loro esaminati (Marco Bergamo, Giancarlo Giudice, Luigi Chiatti), "hanno scelto il male perché ne hanno subito il fascino". Ponti e Fornari ritengono inoltre, e questo è da condividere, che gli assassini seriali non siano pazzi, né mostri, ma uomini con gravi disturbi della personalità, più semplicemente "sono fatti di un legno particolarmente storto, saturo di quel male che hanno scelto di fare, ma non sono mostri fatti di una materia diversa da quella umana". (1)

Note

1. G. Ponti, U. Fornari, op. cit.