ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Introduzione

Carlotta Bargiacchi, 2002

La moderne pene detentive sono spesso ritenute dalla società un traguardo di civiltà, segnato dall'abbandono della brutalità fisica e del degrado che caratterizzava il sistema punitivo del passato.

Le privazioni e le afflizioni che inevitabilmente si accompagnano allo stato detentivo, sembrano comunque un compromesso ragionevole tra il senso di umanità della pena, e il doveroso esercizio del potere punitivo dello Stato. Ma prima di accettare come inevitabili, e in fondo giuste le condizioni che il carcere moderno impone, sarebbe opportuno soffermarsi a considerare che, come sostiene Gresham Sykes, le privazioni e le frustrazioni della prigione moderna "possono essere tanto dolorose quanto i maltrattamenti fisici che hanno sostituito". (1) I maltrattamenti psicologici si notano meno facilmente, ma continua Sykes, "la distruzione della psiche non è meno spaventosa dell'afflizione del corpo".

Il detenuto è infatti garantito negli aspetti più materiali della sua esistenza, ma da un punto di vista umano viene completamente privato degli stimoli emotivi. Durante la detenzione il soggetto viene sradicato dal suo contesto e viene costretto a restare lontano dagli affetti, dalla casa, dal lavoro, e obbligato ad abbandonare totalmente tutti quegli elementi che costituivano il suo progetto di vita.

L'isolamento del detenuto dalla società, la carenza di positivi contatti interpersonali e l'influenza della cultura carceraria, cioè di quella subcultura che si sviluppa tra gli appartenenti alla comunità dei detenuti, al di fuori dalle regole penitenziarie, porta il detenuto ad un progressivo adattamento alla comunità carceraria, che in termini sociologici è stato definito da Clemmer, come "processo di prigionizzazione". (2) Tale termine descrive un processo lento e graduale di adeguamento del soggetto ai costumi, alla cultura e al codice d'onore del carcere. I gradi di adattamento sono rappresentati dalla misura in cui il detenuto aderisce ai modelli forniti dalla cultura carceraria.

Il processo di "prigionizzazione" alimenta e approfondisce l'antisocialità del detenuto, (3) rendendolo sempre più estraneo alla società civile, e sempre più aderente alla subcultura della comunità del carcere. Il carcere costituisce, quindi un importante fattore di insorgenza della recidiva, per la prevalenza della funzione criminogenetica e la carenza di quella rieducativa, che si manifesta soprattutto nell'assenza di stimoli e di opportunità. Durante la detenzione la personalità del soggetto subisce una "disorganizzazione", in quanto si trova privata di tutti quei sostegni, quegli status che avevano caratterizzato la sua vita all'esterno. Lo sradicamento dalla famiglia, la perdita del ruolo genitoriale, o comunque del ruolo familiare, la mancanza di compagnia femminile, e il desiderio sessuale, rappresentano per la maggioranza dei detenuti gli elementi più dolorosi della detenzione, che contribuiscono a minare l'identità del detenuto nella sua più profonda strutturazione.

La privazione delle relazioni eterosessuali, oltre a provocare frustrazione sessuale, ed eventualmente indurre a comportamenti deviati, mette seriamente in discussione la concezione dell'uomo in sé, in quanto il detenuto, privato della polarità femminile, come spiega Sykes, è costretto a cercare la propria identità solo dentro se stesso, e non anche nella propria rappresentazione che trova riflessa negli occhi degli altri; e "dato che metà della sua audience gli è negata, l'immagine che il detenuto si fa di se stesso rischia di diventare completa solo per metà, dimezzata, una monocromia, senza i colori della realtà". (4)

Gli unici strumenti capaci di fornire l'energia sufficiente per resistere a questo processo sono i rapporti che il detenuto riesce a mantenere con il mondo esterno, ed in modo particolare i colloqui, unici momenti in cui il soggetto riporta alla vita i propri legami e il proprio passato. (5)

La tematica dei rapporti del detenuto con la famiglia merita quindi particolare attenzione dal momento che il grado di prigionizzazione, e il conseguente reinserimento nella società risulta condizionato anche dalle dinamiche familiari, così come sviluppatesi durante la detenzione.

Le storie personali dei soggetti che incorrono nelle esperienze delinquenziali, e di conseguenza in quella detentiva sono spesso caratterizzate da problemi, privazioni, conflitti e situazioni di precarietà sociale, che coinvolgono l'individuo, ma anche, più spesso tutta la famiglia. Le caratteristiche psico-sociali cui viene assegnato un ruolo criminogeno e che si riscontrano con frequenza nella popolazione detenuta sono individuate nella presenza di ricoveri in istituti durante l'infanzia o l'adolescenza; nell'appartenenza a famiglie disgregate o scarsamente coese, spesso inserite in gruppi socialmente emarginati; nella carenza di sviluppo psico-sociale dovuto soprattutto a disadattamento scolastico, a precocità di avviamento lavorativo, o alla provenienza da aree urbane contrassegnate da elevati tassi di criminalità; e nella presenza di manifestazioni di irregolarità comportamentale (anche di rilevanza penale) in età evolutiva. (6)

Durante il periodo detentivo i rapporti con la famiglia svolgono un importante supporto al percorso rieducativo del reo, e influiscono in modo incisivo sull'eventuale esito del reinserimento nella società. L'incontro frequente con i familiari, il ricevere da loro lettere e pacchi alimentari, è un elemento rassicurante per il detenuto, che riduce il senso di abbandono e lo induce a ritenere transitoria la sua situazione, tenendo vive le sue aspettative di vita futura.

Nonostante le previsioni legislative poste a garanzia del mantenimento dei rapporti familiari, numerose sono le situazioni concrete in cui tali norme vengono disattese a causa di problemi strutturali e organizzativi. Si pensi, ad esempio, al principio di "vicinanza" del luogo di detenzione alla residenza del nucleo familiare, sancito dall'art. 30 del regolamento d'esecuzione, che nella pratica rimane frequentemente inapplicato.

Le conseguenze negative che la detenzione comporta nella vita affettiva del detenuto hanno una grave ricaduta anche sui suoi familiari. La detenzione di un congiunto rappresenta sempre un elemento di frattura nel contesto familiare, e si rivela spesso un fattore disadattivo specie a carico dei figli.

Gli aspetti più rilevanti che vengono innescati da questa condizione riguardano principalmente due ordini di fattori: la componente economica e la sfera relazionale.

Il danno economico è sicuramente la prima innegabile conseguenza che può essere notata. Si pensi che nella maggioranza delle famiglie coinvolte dalla detenzione, che appartengono molto spesso a fasce disagiate, l'unico apportatore di reddito è il membro che viene incarcerato. Oltre al venir meno dell'unica fonte di guadagno, si deve provvedere alle numerose spese emergenti derivanti dalla detenzione, quali il mantenimento del familiare recluso, le spese legali e i costi delle visite, per le quali i familiari sono spesso costretti ad affrontare lunghi e costosi viaggi. Ma il danno più grave, che subiscono i familiari è sicuramente quello psicologico. Le famiglie dei detenuti incorrono spesso in processi di stigmatizzazione, (7) che comportano esclusione ed emarginazione sociale. L'ansia e l'incertezza per il futuro caratterizzano la vita delle famiglie dei detenuti, anche a causa del rifiuto sociale di cui spesso sono vittime. Per queste ragioni i figli subiscono gli effetti più gravi, trovandosi a vivere durante la fase evolutiva situazioni altamente traumatizzanti che possono portare a carenza nello sviluppo psico-sociale, a manifestazioni di irrequietezza o di aggressività sul piano comportamentale, a disadattamento scolastico e lavorativo, e talvolta a condotte devianti. (8)

La detenzione infierisce un duro attacco anche alle relazioni di coppia. La separazione forzata mette a nudo e dà eco alle preesistenti problematiche coniugali o di convivenza e la circostanza della reclusione spesso diviene un tempo di prova dell'unione. Inoltre l'astinenza dai rapporti intimi imposta dal regime detentivo, unisce nella condanna il detenuto e il/la suo/a compagno/a, che suo malgrado ne subisce direttamente gli effetti, producendo situazioni cronicamente scadenti sul piano affettivo. (9)

I colloqui, unico mezzo di contatto diretto ammesso tra il detenuto e i suoi familiari, non costituiscono certo un elemento sufficiente a mantenere delle relazioni soddisfacenti. Viaggi di molte ore; lunghe attese dinanzi ai cancelli delle strutture penitenziarie; umilianti perquisizioni all'ingresso, eseguite talvolta in modo troppo brusco; stanze tristi e spesso sovraffollate dove si svolgono i colloqui sotto il controllo visivo del personale di custodia; il rumore delle chiavi e dei cancelli, costituiscono il caro prezzo che i familiari dei detenuti devono pagare per poter trascorrere un'ora in compagnia del loro caro.

Troppi sono ancora gli impedimenti che rendono difficile l'esercizio del "diritto all'affettività", pur essendo stato riconosciuto a livello normativo il valore dei rapporti con la famiglia, che il legislatore ha collocato tra gli elementi su cui si fonda il trattamento rieducativo secondo quanto disposto dall'art. 15 dell'ordinamento penitenziario.

Lo scopo di questo lavoro sarà quello di analizzare i vari istituti preposti al mantenimento delle relazioni familiari, e verificarne in concreto l'efficacia, mettendo in luce le conseguenze che la detenzione comporta nell'ambito delle relazioni familiari.

Nel corso del primo capitolo ripercorreremo l'evoluzione del ruolo che è stato riconosciuto alla famiglia all'interno della normativa penitenziaria, a partire dal regolamento per gli istituti di prevenzione e pena del 1931, emanato durante il governo Rocco, e rimasto in vigore fino alla riforma penitenziaria del 1975. La trattazione proseguirà analizzando l'importanza acquisita dalla famiglia all'interno della nuova legge penitenziaria, che la inserisce tra gli elementi fondamentali del trattamento rieducativo, evidenziando le previsioni introdotte dall'ordinamento penitenziario in tema di assistenza alla famiglia e tutela dei rapporti familiari, seguendo i cambiamenti legislativi intercorsi ad opera della legge Gozzini, della legge n. 165 del 1998, e della recente legge n. 40 del 2001 sulle detenute madri. Infine ci si soffermerà sulle modifiche apportate dal nuovo regolamento di esecuzione, approvato con D.P.R. n. 230 del 2000 con il preciso intento di migliorare alcuni aspetti del regime penitenziario, tra cui in particolare quello dei rapporti con la famiglia, in adeguamento alle normative comunitarie ed internazionali. Anche se l'unico elemento veramente innovativo in tema di relazioni affettive, proposto nel testo originario del nuovo regolamento che prevedeva l'introduzione della possibilità che i colloqui si realizzassero senza il controllo visivo del personale di Polizia Penitenziaria, è stato eliminato nel testo definitivo in seguito alla parere contrario espresso dal Consiglio di Stato.

Il secondo capitolo sarà invece dedicato all'analisi dei vari istituti previsti dalla normativa penitenziaria per il mantenimento delle relazioni familiari, mettendone in evidenza le varie problematiche applicative e le diverse soluzioni interpretative proposte dalle numerose circolari amministrative intervenute in questo campo.

Con il terzo capitolo, l'indagine si rivolgerà agli effetti sociologici che l'esecuzione della pena detentiva esplica sul soggetto detenuto, e sui suoi familiari. In particolare illustreremo gli effetti della detenzione sul soggetto recluso secondo le teorie sociologiche di Donald Clemmer e Gresham Sykes. Illustreremo poi le ripercussioni della detenzione nei rapporti con la famiglia di origine, con la famiglia acquisita e nei confronti dei figli, esaminando le peculiarità di ogni rapporto.

Il quarto e ultimo capitolo proporrà un'indagine condotta all'interno della Casa Circondariale di Prato nel tentativo di analizzare il mantenimento delle relazioni familiari in alcune situazioni concrete scelte come campione. Lo studio pratico partirà dall'analisi degli spazi predisposti all'incontro con i familiari all'interno della struttura penitenziaria di Prato, mettendo in evidenza l'influenza che l'organizzazione di questi spazi può avere sul mantenimento delle relazioni familiari. La ricerca si svilupperà in un'analisi sociologica delle situazioni concrete presentate da un campione di detenuti, evidenziando le particolari problematiche sorte in conseguenza della detenzione, anche in relazione all'inadeguatezza delle previsioni legislative disposte a favore del mantenimento dei rapporti con la famiglia, o della loro mancata applicazione.

Note

1. GRESHAM M. SYKES, The society of Captives. A study of a Maximum Security Prison, Priceton University Press, 1958, tr. It. Santoro, E., Carcere e società liberale, Giappichelli, Torino, 1997, p. 242.

2. D. CLEMMER, The Prison Community, Boston, The Christopher Publishing House, 1941, tr. it Santoro, E., Carcere e società liberale, Giappichelli, Torino, 1997, pp. 205 e ss.

3. E. SANTORO, Carcere e società liberale, Giappichelli, Torino, 1997, p. 40.

4. GRESHAM M. SYKES, op. cit., p. 245.

5. E. SANTORO, op. cit., p. 41.

6. A. PAOLELLA, M. CORRERA, F. SCLAFANI, Dinamiche familiari e detenzione, Napoli, Rassegna Medico Forense Anno XIX, collana monografica "Dentro e Attraverso" diretta da Sciandone, p. 12.

7. Concetto elaborato da E. GOFFMAN, in Stigma. L'identità negata, Milano, Giuffrè, 1983.

8. A. LUZZAGO, S. PIETRALUNGA, L'incidenza negativa della detenzione dei genitori sui figli. (II parte: Situazioni di disadattamento in rapporto alle caratteristiche dei genitori e del nucleo), "Rassegna Italiana di Criminologia", 1992, p. 297.

9. C. ALBANO, La famiglia del detenuto come vittima, in "Rivista di Servizio Sociale", 4/1985, p. 32.