ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Conclusioni

Carlotta Bargiacchi, 2002

Analizzando i dati del campione nel suo complesso possiamo trarne alcune considerazioni generali.

La detenzione di un familiare rappresenta sicuramente un evento traumatico per tutta la famiglia, come dimostrato in tutti i casi presentati. La specificità degli effetti sulle singole situazioni familiari dipende dalla varietà di fattori che interagiscono con l'evento detentivo.

Ricordando le osservazioni di Hill (1) menzionate nel precedente capitolo in merito alla possibilità che la detenzione possa provocare una frattura nelle relazioni familiari, il sociologo suggeriva di considerare la ricorrenza delle vicende traumatiche nella storia della famiglia, sostenendo che la stabilità dei nuclei che nel corso della loro vissuto familiare si sono trovati più volte in situazioni critiche sarebbe stata provata in minor misura dall'evento detentivo, rispetto a quelle situazioni in cui la detenzione di un familiare costituisce il primo ed unico elemento di crisi.

Dall'analisi dei dati emerge che molte famiglie del campione hanno avuto un vissuto segnato da numerose situazioni critiche, che ha sicuramente prodotto una maggior coesione tra i membri del nucleo. In alcuni casi il ripetersi di situazioni di difficoltà nella vita dell'individuo in relazione al vissuto del nucleo, può costituire per i familiari un elemento giustificativo della condotta deviante del membro detenuto. Nei casi invece in cui la detenzione, o comunque la condotta delinquenziale rappresenta l'unico elemento problematico nella famiglia, è più frequente il verificarsi di una rottura delle relazioni, con il conseguente allontanamento del soggetto dal nucleo, ritenuto una minaccia per l'equilibrio familiare. Ne sono un esempio i due detenuti tossicodipendenti e recidivi del campione, che hanno completamente perso i contatti con le rispettive famiglie.

Un altro fondamentale fattore che incide sull'adattamento familiare alla detenzione è rappresentato dalla qualità delle relazioni prima dell'arresto. Nelle storie familiari sopra rappresentate, in tutte le situazioni in cui vi erano positivi rapporti precedenti la detenzione, questi sono stati mantenuti. Una nota a parte deve essere fatta riguardo alle relazioni coniugali, per le quali la detenzione rappresenta un drammatico pericolo, nonostante la buona qualità dei rapporti esistente prima dell'evento detentivo. Il caso di G. R. è molto significativo al riguardo. Nonostante il forte legame che univa i due coniugi, che si è mantenuto saldo nei primi tempi della carcerazione, il perdurare della privazione affettiva, l'impossibilità di un dialogo autentico, la solitudine involontaria cui è ingiustamente "condannata" la giovane coniuge, ha inferto un duro attacco alla relazione di coppia, mettendo in dubbio la possibile prosecuzione del rapporto. Nonostante la legge penitenziaria dichiari che il trattamento rieducativo è svolto agevolando i contatti con il mondo esterno ed i contatti con la famiglia (art. 15 Ord. Penit.), e che particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti con le loro famiglie (art. 28 Ord. Penit.), la disciplina normativa non prevede nella realtà degli strumenti adeguati affinché questi rapporti possano essere effettivamente mantenuti. In una posizione di completa arretratezza rispetto a molti paesi europei, ed extra europei, l'Italia non ammette ancora che i colloqui possano svolgersi in condizioni che permettano l'intimità tra i familiari. Questo non solo offrirebbe una soluzione al problema della privazione della sessualità, che come abbiamo visto nel terzo capitolo, riportando le teorie di Clemmer e Sykes, costituisce uno degli aspetti più devastanti per la personalità del recluso, mettendo in crisi la sua identità di uomo, ma permetterebbe di poter mantenere delle relazioni "reali" in ambienti a misura umana, e non dei rapporti "fantasma", consumati in degli spazi "asettici", come quelli delle attuali sale colloquio (si ricordi che nelle sale colloquio del carcere di Prato non sono ancora stati eliminati i mezzi divisori, secondo le previsioni dell'art. 37 comma 5º del Nuovo Reg. Esec.). I permessi premio previsti dall'art. 30-ter dell'Ord. Penit. come misura premiale destinata a fornire la possibilità al condannato di soddisfare i propri interessi affettivi, (2) vengono concessi dopo un periodo di espiazione della pena abbastanza lungo, e spesso intervengono troppo tardivamente per poter effettivamente recuperare un rapporto ormai compromesso.

La buona qualità delle relazioni precedenti alla detenzione, pur costituendo una valida premessa, non può bastare da sola a salvaguardare il rapporto dalle conseguenze negative della separazione, né a fornire un criterio per la previsione dell'esito che la vicenda detentiva avrà sul nucleo familiare. Secondo Morris, (3) infatti il dato relativo all'andamento delle relazioni familiari deve essere strettamente correlato con quello inerente alla personalità dell'altro coniuge. Una donna dalla personalità forte ed indipendente può considerare il compagno detenuto come un impedimento alla realizzazione dei propri desideri, mentre le donne che si sentono insicure e fortemente dipendenti dal marito, sia per tratti caratteriali, sia per condizioni sociali e culturali, rimangono legate al marito, continuando ad riconoscergli un ruolo di capo famiglia.

Da parte dei detenuti l'impossibilità di esercitare realmente il proprio ruolo familiare è considerata come uno degli effetti più umilianti della detenzione. Tutti i detenuti intervistati hanno infatti dichiarato di provare senso di colpa per aver causato sofferenza ai propri familiari, e di sentirsi inutili e privi di dignità per costituire un peso piuttosto che un aiuto per la propria famiglia. Condizione che risulta assai stridente con la previsione costituzionale che sancisce all'art. 30 il diritto e il dovere di mantenere la propria famiglia, e che stabilisce al successivo art. 31 che "la Repubblica agevola con misure economiche ed altre previdenze la formazione della famiglia, e l'adempimento dei compiti relativi...".

La preoccupazione dei detenuti riguardo al mantenimento della famiglia risulta quanto mai giustificata dal fatto che molto spesso le loro famiglie vertono in condizioni economiche assai precarie anche prima di essere coinvolte nell'evento detentivo. La quasi totalità delle famiglie del campione appartengono ad uno status economico molto basso, essendo per la maggior parte famiglie numerose, e tutte con un unico apportatore di reddito, costituito sempre dal membro recluso. Pur trovandosi in situazioni di estrema difficoltà poche delle famiglie del campione usufruiscono degli interventi del servizio sociale, e nella maggior parte dei casi questo è dovuto alla mancanza di informazione su dove e a chi rivolgersi. L'art. 45 dell'Ord. Penit. prevede che il trattamento dei detenuti sia integrato da azioni di assistenza alle loro famiglie, ma in nessuno dei casi del campione questo si è realizzato. L'art. 61 del nuovo regolamento di esecuzione prevede addirittura la predisposizione di programmi di intervento per la cura dei rapporti dei detenuti e degli internati con le loro famiglie, che deve essere concertata tra i rappresentanti delle direzioni degli istituti e dei centri di servizio sociale, affermando che una particolare cura è dedicata ad affrontare la crisi conseguente all'allontanamento del soggetto dal nucleo familiare, a rendere possibile il mantenimento di un valido rapporto con i figli, specie in età minore, e a preparare la famiglia e il soggetto stesso al rientro nel contesto sociale. Ma nemmeno questa previsione trova alcuna applicazione pratica tra i casi analizzati nel campione, pur essendovi tra questi situazioni che avrebbero necessitato di interventi d'emergenza.

Per quanto riguarda il rapporto con i figli, i detenuti intervistati hanno espresso tutti un grande rammarico per non poter esercitare il ruolo di genitori, in quanto questa mancanza li esclude dal vivere le tappe fondamentali della crescita dei loro figli. Molti detenuti del campione hanno figli molto piccoli, e il non vederli per lungo tempo, od incontrarli solo in maniera sporadica, annulla in qualche modo il rapporto, in quanto i figli percepiscono il padre come un estraneo. Lo spazio ludoteca presente nel carcere di Prato rende un po' meno traumatici i momenti dell'incontro, ma questo non può dirsi sicuramente sufficiente al mantenimento di un valido rapporto.

La nostra limitata indagine non è in grado di pronunciarsi riguardo agli effetti che la detenzione del genitore può avere sulla processo di formazione della personalità dei figli, che data la complessità del tema necessita di una trattazione assai più ampia; ma le ricerche fin ora realizzate in questo campo (4) hanno ampiamente mostrato la forte influenza che l'evento detentivo di un genitore ha sullo sviluppo psicologico dei figli, con conseguenze che possono arrivare con alta probabilità a far insorgere comportamenti disturbati, o addirittura devianti.

In conclusione ci sembra che emerga da questa analisi che i familiari dei detenuti si trovano ad essere anch'essi vittime, "Forgotten victims", come le definisce Matthews, (5) in quanto, pur essendo involontariamente coinvolti nel processo punitivo di un reato che non hanno commesso, non ricevono nessuna tutela da parte dell'ordinamento, e le poche previsioni a favore dei familiari che sono contenute nella legge penitenziaria o nel regolamento di esecuzione non trovano nella realtà alcuna applicazione pratica.

La situazione non si presenta migliore nemmeno dal punto di vista del detenuto. L'ordinamento penitenziario considera la famiglia come elemento fondamentale del trattamento penitenziario (art. 15 Ord. Penit.), che deve svolgere un ruolo di sostegno durante la detenzione, e costituire un punto di riferimento importante al momento della dimissione e del rientro nella società libera. Nel corso della trattazione di questo lavoro abbiamo più volte evidenziato come gli strumenti previsti dalla normativa penitenziaria siano inadeguati rispetto al fine cui sono predisposti che dovrebbe essere quello indicato dall'art. 28 Ord. Penit. di "mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le loro famiglie". Le uniche soluzioni che avrebbero una sicura efficacia in questo senso, ovvero le misure alternative alla detenzione, sono nella pratica applicate troppo raramente. Nella situazione attuale, è molto probabile che al termine della pena, il detenuto trovi ancora meno risorse e sostegni per compiere un percorso sociale, affettivo e lavorativo di reinserimento di quanti non ne avesse lasciati al momento dell'ingresso in carcere.

Note

1. R. HILL, op. cit., p. 20.

2. F. GIUNTA, Commento all'art. 9 legge 10 ottobre 1986 n. 663, "Legislazione Penale", 1987, p. 136.

3. P. MORRIS, op. cit., p. 208.

4. R. SHAW, Prisoners' Children, Routledge, London, 1992; A. LUZZAGO, S. PIETRALUNGA, L'incidenza negativa della detenzione dei genitori sui figli. (II parte: Situazioni di disadattamento in rapporto alle caratteristiche dei genitori e del nucleo), "Rassegna Italiana di Criminologia", 1992; A. LUZZAGO, S. PIETRALUNGA, P. SOLERA, L'incidenza negativa della detenzione dei genitori sui figli, Rassegna Italiana di Criminologia", 1991; B. HEMMERLIN, Paroles d'Innocents, Belfond, Le Pré aux Clercs, 1992.

5. J. MATTHEWS, Forgotten victims. How prison affects the family, London, NACRO, 1983.