ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 3
Detenzione e dinamiche familiari. Analisi sociologica

Carlotta Bargiacchi, 2002

3.1. Gli effetti della privazione delle relazioni affettive sui soggetti ristretti

La detenzione rappresenta un evento fortemente traumatico per gli individui che ne vengono coinvolti. "Il carcere è un momento di vertigine. Tutto si proietta lontano: le persone, i volti, le aspirazioni, i sentimenti, le abitudini, che prima rappresentavano la vita, schizzano all'improvviso da un passato che appare subito remoto, lontanissimo, quasi estraneo", così definisce l'esperienza detentiva Francesco Ceraudo, medico penitenziario. (1) Al detenuto non è dato di decidere con chi coltivare rapporti, e gli affetti rimangono drammaticamente fuori da ogni possibilità di scelta. La solitudine, la lontananza, e quindi l'impossibilità di avere continui e regolari contatti con i propri cari sono spesso l'origine di un crollo psicofisico, di cui risente tutta la famiglia, con la conseguenza di un'inevitabile frantumazione del rapporto emotivo-sentimentale. L'individuo è costretto ad abbandonare il suo lavoro, la sua abitazione, gli affetti, ovvero tutti quegli elementi che costituivano il suo progetto di vita, per questo il carcere può rappresentare per il soggetto detenuto, una seria "minaccia per gli scopi di vita dell'individuo, per il suo sistema difensivo, per la sua autostima ed il suo senso di sicurezza", (2) una minaccia che nel tempo si concretizza in una progressiva disorganizzazione della sua personalità.

La perdita di identità è poi condizionata dalla continua influenza della cultura carceraria, cioè di quella subcultura che si sviluppa tra gli appartenenti alla comunità carceraria, al di fuori dalle regole penitenziarie, che porta a poco a poco ogni individuo a divenire un "membro caratteristico della comunità penale" distruggendo "la sua personalità in modo da rendere impossibile un successivo adattamento ad ogni altra comunità". (3)

Questo progressivo processo di adattamento alla subcultura carceraria è stato definito da Donald Clemmer "processo di prigionizzazione". Studiando le relazioni tra i detenuti e la loro organizzazione sociale all'interno del carcere di massima sicurezza dell'Illinois del sud, Clemmer illustra quali sono le fasi del lento e progressivo processo che "culmina nell'identificazione più o meno completa con l'ambiente, con l'adozione cioè da parte del detenuto dei costumi, della cultura e del codice d'onore del carcere". (4)

Clemmer dedica la prima parte del The Prison Community, pubblicato nel 1940 negli Stati Uniti, all'analisi dei fattori socio-ambientali e familiari che hanno condizionato la personalità del condannato prima della commissione del reato nel tentativo di individuare gli elementi che hanno influenzato la condotta delinquenziale. L'indagine verte su tre aspetti delineati dal sociologo come fondamentali: "broad social trends", (5) ovvero le tendenze della società che influenzano indirettamente la personalità degli individui che vivono in un determinato momento storico; il legame con la regione di provenienza; (6) i legami intimi e le relazioni sociali che le persone hanno prima di essere arrestate. (7) Soprattutto queste ultime sono tra i fattori che secondo Clemmer influenzano maggiormente la personalità del reo, incidendo in larga misura anche sul processo di adattamento alla cultura carceraria. Tutti i detenuti sono esposti alle cause generali della prigionizzazione, ma non tutti rispondono allo stesso modo, scrive Clemmer:

Se una prigionizzazione completa avviene o meno dipende in primo luogo dall'individuo stesso, vale a dire dalla sua sensibilità alla cultura che a sua volta dipende soprattutto, riteniamo, dal tipo di relazioni che aveva avuto prima dell'incarcerazione, vale a dire della sua personalità. (8)

L'importanza del mantenimento delle relazioni interpersonali con le persone esterne è ribadita da Clemmer come secondo fattore di rilievo nell'impedimento al completamento del processo di prigionizzazione (9), e in un passo successivo specifica:

Il detenuto la cui moglie divorzia può cercare una risposta e un riconoscimento nei compagni più prossimi. Quando i ricordi dell'esperienza pre-penale smettono di essere soddisfacenti o utili praticamente, una barriera contro la prigionizzazione è stata rimossa. (10)

In quest'ottica i colloqui rivestono un ruolo di grande importanza perché costituiscono gli unici momenti in cui i detenuti riescono a riportare in vita i propri legami sociali e il proprio passato. Le visite costituiscono inoltre un fondamentale strumento di resistenza contro uno degli aspetti più devastanti della prigionizzazione, ovvero il "disadattamento sessuale". Il carcere, come ogni altra istituzione composta da membri di un unico sesso, può facilmente portare a sviluppare anomalie sessuali. Probabilmente nessun altro elemento della vita in carcere ha il potere di disorganizzare la personalità degli individui ristretti come l'immaginario sessuale che vi si sviluppa. Clemmer afferma in modo categorico che "il desiderio sessuale e la malinconia per la mancanza di una compagnia femminile è per la grande maggioranza dei prigionieri l'elemento più doloroso della detenzione". (11)

Victor Nelson, in un passo citato dallo stesso Clemmer, descrive il desiderio per il contatto con il mondo femminile sperimentato dall'uomo in prigione:

Infatti di tutte le possibili forme di privazione sicuramente nessuna è più demoralizzante della privazione sessuale (...) essere privato un mese dopo l'altro, un anno dopo l'ennesimo altro in un luogo in cui "ogni giorno è come un anno, un anno i cui giorni sono lunghi", della soddisfazione sessuale, che nel caso di un condannato a vita, può non giungere mai, questa è la quintessenza della miseria umana.(...) (I prigionieri hanno) non solo un forte desiderio per il rapporto sessuale, ma anche per la voce, il contatto, il riso e le lacrime di una donna; un forte desiderio per la Donna in se stessa. (12)

Clemmer individua tre livelli generali di adeguamento sessuale: il livello normale, il quasi-normale e l'anormale.

Il livello cosiddetto "normale" è quello che comprende la categoria più numerosa di persone. I detenuti appartenenti a questa categoria sono di solito individui che hanno avuto uno sviluppo ordinato della loro vita amorosa, anche se gli elementi determinanti per il loro adattamento in carcere sono da individuarsi in primo luogo nella ragionevole brevità della condanna, e in secondo, ma non secondario luogo, nell'esistenza di "un oggetto d'amore nella comunità libera". (13) Gli uomini di questa categoria risentono maggiormente della privazione sessuale, e del senso di solitudine degli altri detenuti. Si masturbano occasionalmente, giustificando il loro comportamento su basi biologiche, e le loro fantasie sono sempre rivolte al mondo femminile. La durata del periodo in cui un detenuto può rimanere nel livello di adattamento normale dipende da numerosi fattori, tra cui svolge un ruolo primario la qualità delle relazioni che è stato capace di mantenere con le persone a lui affettivamente legate nella società libera.

Gli appartenenti alla categoria dei "quasi-normali" sono di solito gli uomini più anziani o quelli più giovani di età, per lo più recidivi. Essi non hanno relazioni significative con persone esterne al carcere, e questa mancanza di legami provoca in loro un vuoto di "interessi sani", per cui la loro attenzione è totalmente rivolta alla comunità carceraria. Questi individui sono spesso pervasi da un profondo senso di fallimento che dà loro la percezione di non essere più capaci di adattarsi nella società libera. I quasi-normali hanno comportamenti sessuali omosessuali, ma come attività surrogatoria, in quanto le fantasie che li accompagnano sono sempre rivolte al contatto con le donne.

Appartengono invece al terzo livello di adattamento sessuale quei detenuti che si sono abituati alla pratica omosessuale "come un fine in se stessa". (14) Il numero degli invertiti, è comunque piccolo, ma il dato interessante è costituito dal fatto che la maggior parte di loro hanno appreso questo comportamento sessuale attraverso i contatti con la cultura carceraria, che in questi individui risulta essere largamente assimilata. (15)

Gli effetti devastanti che la privazione dei rapporti eterosessuali comporta sulla personalità dei reclusi sono stati analizzati da un altro sociologo americano del nostro secolo, Gresham Sykes, nel suo libro The Society of Captives, pubblicato nel 1958. Anche Sykes, come Clemmer, studia la vita dei detenuti all'interno di un carcere, quello di massima sicurezza dello Stato della Virginia. In quell'istituto non sono ammesse le cosiddette "visite coniugali", che permettono ai detenuti di intrattenersi in intimità con le proprie compagne, per cui i soggetti ivi ristretti sono condannati ad una sorta di "celibato involontario".

Sebbene alcuni scrittori abbiano sostenuto che gli "individui in prigione sono soggetti ad una riduzione del desiderio sessuale e che le frustrazioni sessuali dei carcerati sono quindi minori di quello che potrebbe sembrare a prima vista", (16) Sykes sottolinea che i riscontri della riduzione dell'interesse sessuale provengono da resoconti di uomini prigionieri di campi di concentramento, o in situazioni altrettanto estreme in cui tutti gli sforzi sono impiegati per la lotta alla sopravvivenza. Nelle prigioni americane, così come in quelle europee, questi fattori non sono rilevanti, ma anzi è stato notato come i continui stimoli di natura sessuale provenienti da giornali, riviste, libri, radio, televisione, e dalle lettere amorose provenienti da mogli e fidanzate (17) mantengono vivo il desiderio sessuale.

La privazione delle relazioni eterosessuali, oltre a provocare frustrazione sessuale, e talvolta indurre a comportamenti deviati, possono comportare gravi conseguenze anche sul lato psicologico. La sessualità è infatti elemento costitutivo della struttura esistenziale dell'uomo, che si esplica come parte integrante dell'espressione personale e della apertura alla comunicazione con gli altri. Una società "monosessuale" come quella degli istituti penitenziari tende a generare nei suoi membri ansietà sulla mascolinità, indipendentemente dal fatto che essi esercitino pratiche omosessuali. È chiaro che, se il detenuto ha avuto esperienze omosessuali in carcere, anche solo come rari atti di devianza sessuale dovuta alla forte pressione esercitata dal desiderio sessuale, "l'aggressione psicologica al suo io sarà particolarmente acuta". (18) La minaccia più grave alla sua identità di uomo deriva tuttavia dalla completa esclusione dal mondo femminile, che lo priva della polarità necessaria a percepire il significato ultimo del suo essere, in quanto maschio. È attraverso questo rapporto di "alterità" che la sessualità di una persona entra in azione come modo e mezzo con cui ciascuno entra in rapporto con gli altri e percepisce meglio se stesso. (19) Il concetto è chiaramente illustrato dalle parole di Sykes:

Come molti uomini, il detenuto è costretto a cercare la propria identità solo dentro se stesso, e non anche nella propria rappresentazione che trova riflessa negli occhi degli altri; e dato che metà della sua audience gli è negata, l'immagine che il detenuto si fa di se stesso rischia di diventare completa solo per metà, dimezzata, una monocromia, senza i colori della realtà. L'identità specchio del carcerato è in breve soltanto quella porzione della sua personalità che è riconosciuta e apprezzata dagli uomini e questa identità parziale è resa confusa dalla mancanza di contrasto. (20)

I problemi psicologici derivanti dalla negazione della sessualità e dell'affettività in carcere sono stati affrontati in alcuni studi di medicina penitenziaria; alcuni medici hanno sostenuto infatti che il processo di adattamento al carcere può provocare disfunzioni nel complesso dei meccanismi biologici che regolano le emozioni, generando sindromi morbose di varia intensità, definite "sindromi da prigionizzazione". (21)

Nello studio intitolato Les réactions psychopathologiques de captivité (22) pubblicato nel 1949 da Carot, Peraire, Carlinga, e Bacche, si sosteneva che la mancanza di privacy cui sono sottoposti i detenuti, costretti in situazioni di continua e forzata promiscuità, unita all'ansietà causata dalla separazione dalla famiglia potessero rivelarsi agenti fortemente patogeni. Secondo questi medici francesi gli individui sottoposti a queste condizioni sviluppano un atteggiamento patologico di sospetto e senso di persecuzione: "(i detenuti) sentono di essere sospettati di rubare, pensano che nessuno si fidi di loro, e che ogni cosa sia un'allusione alla loro vita, ai loro comportamenti e alle loro famiglie". (23)

Francesco Ceraudo, presidente dell'AMAPI, (24) sostiene che l'attività sessuale nell'uomo rappresenta un ciclo organico che non è possibile interrompere senza determinare nel soggetto traumi fisici e psichici. (25) Egli sta realizzano alcuni studi presso l'Ospedale Penitenziario di Pisa per cercare di comprendere in che modo e in quale misura la carcerazione possa interferire sulla sessualità.

La proibizione della sessualità è anche l'effetto della detenzione che in modo più immediato si riversa sui familiari; mogli, fidanzate o compagne, si trovano senza colpa anch'esse condannate ad un celibato involontario.

Una nota a parte merita di essere dedicata alla detenzione femminile. Negli ambienti femminili le conseguenze derivanti dalla privazione delle relazioni affettive sono ugualmente gravi ma presentano caratteristiche diverse. Le donne, per loro natura e per condizionamenti culturali, non hanno la stessa ansia o tensione degli uomini per la privazione del sesso, essendo per lo più orientate a vedere il sesso in funzione dell'amore, e non viceversa. (26) La sessualità è vissuta dal mondo femminile più come esigenza di rapporti affettivi e sentimentali, che come bisogno di rapporti fisici. I rapporti omosessuali sono spesso vissuti negli istituti femminili come relazioni pseudo familiari: molte detenute vivono in coppia con scoperti legami affettivi, esercitando veri e propri ruoli familiari, prendendosi cura della cella come se fosse il loro habitat domestico, abbandonandosi a scene di gelosia. Talvolta i rapporti omosessuali vengono mascherati con atteggiamenti materni: "le anziane hanno spesso nei confronti delle più giovani atteggiamenti iperprotettivi e dispensano baci e carezze in un clima di premura, pieno di attenzioni". (27)

Nel caso delle detenute madri il peso della detenzione è inoltre aggravato dall'incommensurabile dolore causato dal distacco dai figli.

Anche a livello fisico le conseguenze dello stato detentivo sul corpo femminile sono notevoli: non sono rari i casi in cui il disagio provocato dalla reclusione influisce sull'equilibrio ormonale, alterando la regolarità del ciclo mestruale; (28) inoltre l'astinenza forzata dai rapporti sessuali, proprio a causa della peculiarità della condizione femminile, può in alcuni casi significare la rinuncia alla maternità: (29) "lo stato di detenzione e l'interdizione dei rapporti sessuali che questo comporta, per le donne che hanno superato i trenta anni e debbono scontare una pena non breve significa la negazione anche della possibilità di scegliere se diventare madre". (30)

3.2. Le conseguenze della detenzione nella dimensione familiare

Se si pensa che attualmente nelle istituzioni penitenziarie italiane vi sono oltre 55.000 persone detenute in età compresa tra i 18 e i 65 anni, (31) si può ben immaginare quante famiglie siano coinvolte dai problemi connessi alla detenzione.

Le modalità con le quali la famiglia e i suoi componenti vengono attraversati dall'esperienza della detenzione sono diverse in considerazione delle molte variabili che compongono la situazione specifica: le fasi della detenzione (arresto, condanna, rilascio), la durata della condanna, la tipologia del reato sono fattori che incidono molto sulla difficoltà di mantenere i legami, elaborare i conflitti e introdurre cambiamenti nella relazione tra famiglia e detenuto. Tale difficoltà deve essere inoltre correlata alle diverse fasi del "ciclo vitale" in cui si trova la famiglia.

Una prima considerazione deve essere rivolta ai mutamenti subiti in quest'ultimo secolo dalla famiglia, sia nella sua struttura che nel sistema delle relazioni intercorrenti tra i suoi membri. Forse il più importante cambiamento è stato il declino dell'importanza della famiglia come unità produttiva, e la sua metamorfosi in un'unità di consumo. (32) Questo ha prodotto un incremento del grado di individualizzazione, ogni membro è un individuo a sé stante che vuol trovare una realizzazione della sua personalità oltre il ruolo svolto all'interno del nucleo familiare, per cui il mantenimento dell'equilibrio delle relazioni interpersonali all'interno della famiglia è divenuto molto più delicato che in ogni altro periodo. In questo complesso gioco di equilibri svolgono un ruolo di grande importanza anche le relazioni tra i membri della famiglia e gli esterni, che costituiscono una rete di relazioni con cui la famiglia è costretta a confrontarsi.

In questo periodo storico la tensione verso il successo materiale è molto pressante. Se un individuo fallisce nel suo ruolo economico di capo famiglia apportatore di reddito, ne risulteranno compromessi anche tutti gli altri ruoli sociali; e nel caso in cui il soggetto venga anche allontanato da casa e posto in un'istituzione, ne deriveranno sicuramente gravi effetti sulla vita di tutti gli altri membri della famiglia. L'episodio della detenzione infatti, pur non intaccando, a differenza del ricovero per infermità psichica, i rapporti individuali sotto il profilo della "normalità" della salute mentale del soggetto, incide sulla struttura affettiva ed organizzativa del nucleo e, quindi, sulla qualità dei rapporti interpersonali, sebbene questi risentano anche di situazioni precedenti all'evento stesso. (33) Ciò comporta che dalla vicenda detentiva possa avere origine, o esplicitarsi, sia una frattura definitiva (cui consegue una diversa, autonoma e sufficiente organizzazione familiare) sia un adattamento del nucleo alla nuova situazione, che si organizza in attesa del ritorno del congiunto. Di qui l'interesse per la prima evenienza che si risolve nella riorganizzazione della famiglia i cui membri assumendo ruoli diversi, fondati su nuove strutture ed alleanze, manifestano opposizione e rifiuto del congiunto; sentimenti che trovano corpo e spessore negli atteggiamenti di colpevolizzazione della sua condotta, di timore o di preoccupazione per il suo ritorno, nell'assenza di visite, di sostegno economico, eccetera... Per ciò assumono rilevanza non solo la situazione di crisi della famiglia conseguente all'ingresso in carcere del congiunto, ma anche i momenti critici che si sviluppano nel corso della detenzione, le meccaniche interne disorganizzanti che il nucleo subisce, le modifiche delle situazioni e degli atteggiamenti dei familiari nei confronti del detenuto.

La maggior parte degli studi prodotti su questo argomento sono stati effettuati negli Stati Uniti e nel Regno Unito.

Il primo studio concernente gli effetti della separazione forzata imposta dalla detenzione intitolato The effects of involuntary separation on selected families of men committed to prison from Spokane County, (34) fu pubblicato negli Stati Uniti nel 1959. Questo lavoro aspirava a scoprire i fattori che determinano il modo in cui le famiglie si adattano all'involontaria separazione che si accompagna all'evento detentivo. L'autore lavorava da solo, e il un numero di famiglie coinvolte nell'indagine fu necessariamente limitato, comunque la sua ricerca, pur non prestandosi ad una ampia generalizzazione teorica del problema sulla base dei risultati concreti, fornì un valido contributo metodologico a molti lavori successivi.

Nel 1965, in Inghilterra venne pubblicato, ad opera di Pauline Morris, Prisoners and Their Families, (35) che costituiva il primo studio su scala nazionale dedicato ai problemi delle famiglie dei detenuti. Morris condusse una ricerca della durata di tre anni su di un campione rappresentativo di detenuti e di loro parenti, cercando di delineare le condizioni di vita delle loro famiglie e fornendo una catalogazione dei loro problemi. Le situazioni riportate nello studio dimostrano una grande varietà di problematiche, ed anche se non tutte direttamente attribuibili alla detenzione, molte ne risultano indubbiamente aggravate.

Nell'analizzare gli effetti causati dalla separazione forzata imposta dalla detenzione, Morris propone di rivolgere una prima considerazione al modo in cui la famiglia affronta la situazione di crisi in cui viene a trovarsi, e nella premessa teorica della sua ricerca illustra alcune teorie sociologiche su questo tema.

Hill, sociologo americano che si occupa dei problemi di adattamento delle famiglie, definisce la crisi della famiglia come una situazione che crea un senso di eccessiva attività o che blocca le usuali dinamiche richiamandone di nuove. (36) Egli suggerisce che ci sono tre variabili:

  1. la situazione o l'evento in sé;
  2. le risorse della famiglia, la struttura e flessibilità rispetto ai ruoli, la storia prima della crisi;
  3. la definizione che la famiglia dà all'evento, se lo ritengono una minaccia o meno per i loro status sociale e i loro obiettivi.

Il processo di adattamento della famiglia è affrontato da Hill in termini di "concetto di ruolo", cioè considerando i ruoli sociali che ogni membro esercita nella vita della famiglia. Si potrà realizzare un buon adattamento alla detenzione se la famiglia riuscirà a mantenere il suo equilibrio, spostando le responsabilità del membro detenuto su altri membri, mantenendo intatte le relazioni, attraverso le visite e la corrispondenza, e portando avanti un progetto di riunione. Usando le parole di Hill:

Good adjustment to separation involves closing of ranks, shiftings of responsabilities and activities of the husband to other members, continuing the necessary family routines, mantaining husband/wife and father/child relationships by corrispondence and visits, utilizing the resource of friends, relatives and neighbours and carrying on plans for reunion. (37)

Rapoport (38) usa questo concetto di evoluzione di ruolo come fondamento dello studio sulle famiglie dei malati psichiatrici in trattamento e riabilitazione. Lui e i suoi collaboratori sostengono che la "role performance" non può essere sufficientemente spiegata in termini individuali, e quindi sviluppano la teoria che per arrivare alla comprensione del concetto di evoluzione di ruolo è necessario osservare l'adattamento tra i bisogni dei pazienti e quelli degli altri con cui essi hanno delle relazioni affettive. (39) Quindi secondo Rapoport, l'evoluzione di ruolo di un individuo è determinata dalla combinazione tra la personalità dell'individuo stesso e le personalità delle altre persone che entrano in relazione con lui, sulla base del "tono emozionale", ovvero della qualità e della tipologia del rapporto che tra loro si costituisce.

Nel contesto del presente studio sembrerebbe ragionevole ritenere che la detenzione corrisponde alla definizione di "crisi", come definita da Hill, ma per un'analisi più completa si rende necessario considerare come variabili che condizionano l'adattamento familiare anche la recidiva o l'unicità della crisi, e la qualità dell'adattamento familiare che esisteva prima, pur con la considerazione che un soddisfacente adattamento familiare prima della detenzione non corrisponderà necessariamente ad un buon adattamento dopo la separazione. (40) Le definizioni di "crisi" espresse da Hill non sono state formulate specificamente in relazione alla detenzione, ma comprendono anche altri eventi che possono produrre effetti traumatici nel vissuto familiare, quali, per esempio, l'aggiunta di nuovi membri, l'infedeltà del coniuge, la morte di un familiare, eccetera... Le famiglie che hanno già affrontato esperienze di questo tipo risponderanno in maniera diversa alla separazione causata dalla detenzione rispetto a quelle per le quali la carcerazione rappresenta la prima ed unica crisi.

È importante a questo punto definire il corretto significato dell'espressione "disadattamento familiare". Molti scrittori usano questo termine per comprendere molte forme di insoddisfazione nei rapporti di coppia o nelle situazioni domestiche; Elliot e Merril (41) definiscono il disadattamento familiare come l'insieme di "any weakness, maladjustment or dissolution of the tres binding members of this group together... not only the tensions between husband and wife, but those arising between parents and children and those between siblings"; altri scrittori considerano come sofferenti da disadattamento quelle famiglie che trascurano i bambini, contengono membri delinquenti o alcolisti, sono imprevidenti, eccetera... (42) Secondo Morris è invece più opportuno sostenere che le famiglie siano da considerarsi disadattate solo quando si verifica una completa rottura nel funzionamento familiare che determina un fallimento nella risoluzione dei problemi o nella comunicazione. Questo è molto raro. È molto più comune trovare famiglie che funzionano in un modo patologico. I loro membri sono devianti sociali nella misura in cui non si conformano alle norme del loro gruppo di appartenenza, ma il comportamento deviante può rappresentare il loro modo di risolvere i problemi. Quando le tensioni diventano intollerabili, per esempio, essi possono porre in essere azioni che in qualche modo coinvolgono la comunità in un'azione sociale che allevia la pressione. (43)

Rimangono alcuni dubbi riguardo l'accettazione automatica del punto di vista che la detenzione da sola produca una crisi, poiché è ovvio che in realtà è il fallimento dell'adattamento alla detenzione (o alla separazione) che genera la situazione di crisi.

Alcuni autori, (44) tra cui Becker, Koos e Waller, sostengono che la detenzione di un familiare rappresenti essa stessa una crisi, in quanto provoca inevitabilmente degli effetti negativi sul nucleo familiare; infatti, anche quando la famiglia riesce ad adattarsi alla separazione fisica dal congiunto recluso, è molto probabile che soffra per l'afflizione provocata dalla vergogna o dall'esclusione sociale. Per esempio, una famiglia che è abituata all'assenza del marito può accettare senza difficoltà la separazione, ma può trovarsi in una situazione moralmente denigrante a causa dello stigma che segue al reato o al fatto della detenzione. Al contrario, è possibile che una famiglia possa sopportare la criminalità del marito o del padre ma soffra di conseguenza per la sua assenza fisica. Se vivono in un'area in cui i comportamenti antisociali sono tollerati, essi possono non soffrire per la demoralizzazione.

Una delle maggiori difficoltà è quella di distinguere in quali modi, le implicazioni sociali della detenzione gravano sulle situazioni familiari. Anche l'esistenza della vergogna o della colpa non può definitivamente essere relazionata solo alla criminalità poiché sentimenti simili possono derivare anche dalla separazione dovuta, per esempio, al trattamento in ospedale psichiatrico. È inoltre opportuno operare un'ulteriore distinzione tra gli effetti della detenzione e gli effetti della criminalità. Forse è nei confronti dei figli (piuttosto che dei coniugi dei rei) che si può maggiormente distinguere l'impatto della detenzione e/o della criminalità del padre, come aspetto distinto dall'impatto della separazione. Per esempio, è possibile che i bambini siano meno colpiti dai cambiamenti delle condizioni materiali, quali, soldi, aiuti assistenza sociale, eccetera, che invece sono molto importanti per le mogli, mentre essi possono essere molto più danneggiati dagli atteggiamenti negativi che gli altri bambini o le insegnanti possono avere nei loro confronti.

Talvolta è possibile ritrovare nei figli sentimenti di approvazione e ammirazione nei confronti del genitore e del suo comportamento criminale, (45) che possono portare a processi di identificazione col genitore "eroe", fino ad influenzare eventuali percorsi di devianza. Molte ricerche mostrano la rilevante proporzione di delinquenti, stimata intorno al 30 per cento, che derivano da famiglie con genitori essi stessi delinquenti. (46)

3.3. I complessi legami con la famiglia di origine

Parlando di famiglie dei detenuti, spesso si intendono solo le famiglie derivanti dal matrimonio, o comunque le famiglie formate dal soggetto adulto, invece un'importante considerazione deve essere rivolta verso la famiglia da cui il soggetto proviene. Infatti i detenuti, come ogni altra persona prima di tutto sono membri della famiglia in cui sono nati, la loro famiglia natale, e questo può fornirci alcune utili indicazioni.

Da uno dei primi studi condotti in Inghilterra sull'argomento (47) risulta come primo dato che molti dei criminali del campione provenivano da famiglie con un solo genitore, o a causa della separazione dei genitori o della morte di uno di essi, o perché figli nati da relazioni illegittime. La mancanza riguarda più spesso il padre che la madre. Come secondo dato si evidenzia che la maggior parte dei devianti che avevano il padre, comunque non erano in buoni rapporti con lui. La maggioranza dei recidivi, inoltre non avevano alcun contatto con la famiglia di origine, o se ce li avevano erano pessimi. Durante la detenzione poi, più della metà del campione in esame non aveva mantenuto alcun contatto con la famiglia natale, ma in alcuni casi, anche in presenza di pessimi rapporti i contatti venivano comunque mantenuti.

In Italia un importante studio è stato condotto da Enzo Campelli, nell'ambito della ricerca sulla detenzione femminile effettuata nel 1990 dallo stesso Campelli, insieme a Franca Faccioli, Valeria Giordano e Tamar Pitch. (48)

Gli autori del suddetto saggio hanno intitolato il capitolo dedicato ai rapporti familiari "Una risorsa ambivalente ed incerta: la famiglia", mettendo in luce già dalla prima definizione, la profonda problematicità del tema trattato.

Se è certo che il mantenimento dei rapporti familiari costituisce una risorsa di grande importanza nell'esperienza della detenzione, tanto da costituire un fattore determinante nella resistenza all'adattamento alla vita carceraria, (49) è vero anche che essa rappresenta l'elemento maggiormente indicato dai detenuti (e dalle detenute) come principale causa di sofferenza.

L'analisi dei rapporti familiari condotta da Campelli parte dalla valutazione della qualità di tali rapporti in epoca precedente alla detenzione, e in primo luogo quelli con la famiglia di origine che risultano, come descritti dalle detenute sottoposte alla ricerca, quasi inesistenti nel 18% dei casi, difficili nel 22%, normali nel 26% e buoni nel 33%, ponendo in evidenza che le valutazioni positive (Normali e buoni) superano di poco il 50%. (50)

Come primo elemento da segnalare come significativamente incisivo sull'andamento negativo di tali rapporti appare, seppure all'interno di una catena difficilmente districabile di cause ed effetti, la ricorrenza di alcune esperienze di istituzionalizzazione precedenti la carcerazione. L'essere state ricoverate in istituti scolastici, tipo collegi o istituti religiosi, o in istituti di tipo penale, come riformatori e carceri minorili, o semipenali come case di rieducazione, porta sicuramente ad una frattura nei rapporti familiari, ed una tendenza ad intraprendere un percorso delinquenziale. Questo dato risulta ampiamente confermato da altre ricerche effettuate in campo maschile. (51)

Ancora più chiaramente riconoscibile la rilevanza che ha nel vissuto familiare l'esperienza della tossicodipendenza, che come dimostrano i risultati della ricerca di Campelli, riflette una situazione in cui solo il 44,6 % dei casi in presenza di tossicodipendenza hanno rapporti normali-buoni, con la famiglia, mentre la percentuale dei rapporti inesistenti-difficili supera il 55,4%. (52) Nel caso della tossicodipendenza la frattura nei rapporti familiari si presenta drammaticamente frequente, in quanto tale esperienza viene raramente assorbita nel tessuto familiari, ed è poi il caso di considerare tale situazione anche da un punto di vista opposto rispetto alla successione causale degli eventi, in quanto molto spesso le esperienze legate alla dipendenze si radicano in vissuti familiari difficili, segnati da rapporti complessivamente non soddisfacenti. In alcuni casi inoltre la detenzione può rappresentare per i familiari il momento in cui si deve prendere inevitabilmente atto del problema della tossicodipendenza del figlio, che fino a quel momento si era potuto occultare. (53)

Tra le variabili soggettive cui viene attribuita una rilevanza criminogena deve essere presa in considerazione anche l'assenza di un genitore, sia per decesso che per abbandono, soprattutto se avvenuta durante la fase evolutiva della personalità. I dati relativi alla ricerca condotta nel 1977 da Paolella, Sclafani, Correra all'interno degli istituti di pena del comprensorio napoletano (Casa Circondariale di Napoli, e Casa di Reclusione di Procida), evidenzia il numero considerevole (42,1%) di situazioni di assenza di uno o di entrambi i genitori per decesso o abbandono della famiglia presenti tra i detenuti intervistati. (54)

Altro elemento rilevante è l'influenza della recidiva. I dati della ricerca condotta da Campelli mostrano con buona evidenza che alla condizione di recidiva si accompagna un quadro familiare tendenzialmente più sfavorevole, rispetto a situazioni in cui l'interessata fosse alla prima esperienza detentiva. (55) Questa relazione ci pone davanti ad un bivio interpretativo, in quanto si può considerare che sia il ripetersi di esperienze di detenzione che porta ad un deterioramento dei legami familiari, come una sorta di usura legata alla detenzione come situazione ricorrente, o piuttosto che sia la qualità insoddisfacente di tali rapporti ad assumere un ruolo autonomo, almeno come concausa, nella progressiva definizione di percorsi di vita più o meno devianti.

Un altro dato interessante emerso dalla ricerca sulla detenzione femminile riguarda il modo in cui i rapporti con la famiglia di origine entrano in relazione con l'esperienza della detenzione. Alla specifica domanda, relativa a come siano "oggi" i rapporti con i genitori, il 48,4% delle intervistate fa riferimento ad una situazione stazionaria, il 28% parla di un miglioramento, e il 23,6% di un peggioramento. (56)

Nel dettaglio, i dati mostrano una relazione assai più complessa ed interessante. I rapporti familiari che erano positivi precedentemente la carcerazione, risentono di questo evento in misura assai minore degli altri. Sostanzialmente, quindi, i rapporti positivi restano tali, e se comunque i rapporti mutano, accade che vecchie fratture si ricompongono, oppure si dilatino fratture già esistenti più spesso di quanto entrino in crisi rapporti nel complesso positivi. L'esperienza della detenzione dei figli sembra essere collegata ad una sorta di compattamento solidale dei rapporti piuttosto che a una sua disgregazione.

La famiglia di origine, viene percepita come una risorsa su cui contare, da parte dei detenuti e delle detenute, e da prestare da parte dei familiari. (57) Il quadro dei rapporti, almeno per quanto riguarda la famiglia di origine, si presenta relativamente poco permeabile agli effetti negativi della detenzione, sembrerebbe che rimanessero inalterati gli equilibri stabiliti prima della detenzione: se le relazioni erano buone avranno nel complesso meno probabilità di peggiorare; se erano cattive avranno una maggiore probabilità di peggiorare ulteriormente.

È interessante osservare a conferma di questa tendenza, il fatto che la dinamica dei rapporti familiari mostra di non avere alcuna relazione con le variabili che definiscono i principali aspetti della situazione giudiziaria, ma di essere semmai collegata a variabili pre-carcerarie. (58)

Anche in relazione alla recidiva, non sembra che una maggiore "consuetudine" all'esperienza della detenzione possa avere la capacità di logorare tali rapporti. Questa osservazione può permetterci di schierarci a proposito della causalità tra rapporti familiari negativi e comportamenti devianti, nel senso che se la detenzione non sembra possedere una propria capacità di logorare i rapporti familiari positivi, diventa plausibile ritenere che sia piuttosto la percepita insufficiente "qualità" di essi a rappresentare un fattore capace di costituire situazioni di progressivo disagio, delle quali il compimento di un reato cui consegue la detenzione, non è che una delle manifestazioni più visibili.

3.4. La famiglia acquisita

In epoca precedente la detenzione i rapporti con il partner hanno un andamento sicuramente più favorevole dei rapporti con la famiglia di origine. Ma è dopo la detenzione che l'andamento di tali rapporti assume un'evoluzione molto diversa.

Secondo lo studio condotto da Campelli, nel caso dei rapporti con il partner la tendenza generale è quella dell'ulteriore peggioramento di quelli già difficili prima, ma con due differenze importanti: la prima è che il peggioramento o la dissoluzione assoluta sono molto più numerosi rispetto a quelli delle relazioni con la famiglia di origine; la seconda differenza è che il peggioramento dei rapporti ritenuti mediamente soddisfacenti prima della detenzione è proporzionalmente più evidente. (59)

Questo dipende sicuramente dal fatto che il legame coniugale risulta maggiormente condizionato dai molti fattori di cambiamento sia nell'equilibrio delle relazioni, che nello status economico e sociale del nucleo, dell'incondizionato amore filiale che lega il detenuto alla famiglia di origine. Morris, nel suo studio sulle famiglie (acquisite) dei detenuti ha cercato di dimostrare che l'adattamento familiare alla separazione derivante dalla detenzione è il risultato delle relazioni intercorrenti tra alcune "variabili indipendenti", individuate da lui stesso come elementi determinanti. (60) Le "variabili indipendenti" scelte da Morris per quest'analisi sono:

  1. la durata della separazione, in quanto ci sono casi in cui il membro detenuto vive lontano dal nucleo anche prima della detenzione;
  2. la durata della condanna;
  3. la tipologia del reato, in quanto soprattutto i reati sessuali, o i reati che hanno come vittime gli stessi familiari provocano gravi ripercussioni sulle relazioni interpersonali;
  4. la durata del matrimonio (o della convivenza);
  5. le precedenti detenzioni del coniuge (o compagno/a);
  6. l'età del coniuge (o compagno/a)
  7. il numero dei figli

Inizialmente le variabili scelte erano tredici, venivano inoltre considerati anche il lavoro del coniuge detenuto, la durata del periodo di conoscenza prima del matrimonio, la mobilità geografica della famiglia, lo stato civile al momento dell'arresto, e gli eventuali matrimoni precedenti di entrambi i coniugi. (61) Il fallimento nel trovare una relazione tra tutte queste variabili ha indotto il sociologo inglese a cambiare metodo di analisi, riducendo il numero delle variabili indipendenti e mettendole in relazione a due fattori ritenuti (in base ai risultati della ricerca) fortemente determinanti il grado di adattamento: (i) "Attitude to marriage and future plans"; (ii) "Finance". (62) Ciò dimostra che lo stato di precarietà delle condizioni materiali di vita che caratterizza la maggior parte di questi rapporti rappresenta un elemento disgregante, la cui attenuazione può consentire significativi margini di recupero. La complessità delle combinazioni possibili tra le numerose variabili deve comunque metterci in guardia da pericolose e fuorvianti generalizzazioni, in quanto ogni famiglia costituisce una storia a sé.

Tra le variabili escluse da Morris, una ci sembra di rilevante interesse per l'analisi della situazione presente in questo momento nelle carceri italiane, ovvero la mobilità geografica delle famiglie. L'altissima percentuale di detenuti stranieri, la maggior parte di essi extracomunitari, presenti attualmente nei nostri istituti necessita di un'attenzione particolare, soprattutto in riferimento alle problematiche emergenti dalle loro situazioni familiari. Molti soggetti hanno compiuto il loro viaggio da soli, lasciando le proprie famiglie nei paesi d'origine, ma l'evoluzione del fenomeno migratorio che si è avuta negli ultimi anni ci dimostra che sono ormai molte le famiglie che si sono trasferite nel loro insieme. La precarietà delle situazioni economiche che per la maggior parte le caratterizza, i diversi modelli culturali cui si ispirano nel loro funzionamento, le difficoltà linguistiche, fanno si che la detenzione di un loro membro, di solito il capo famiglia, unico apportatore di reddito, rappresenti per queste famiglie un evento molto traumatico. Nella maggior parte di questi casi la detenzione non rappresenta un pericolo per il mantenimento delle relazioni con il recluso, ma le conseguenze di questa sono spesso drammatiche sul piano pratico, e forse più che in ogni altra situazione, la famiglia invece di costituire un supporto diventa per il detenuto motivo di sofferenza e di ansia che alimenta il senso di colpa per il venir meno delle proprie responsabilità di capo famiglia.

La qualità dei rapporti familiari si definisce quindi giustamente come "una risorsa ambivalente e incerta". (63) Ambivalente, in quanto la sua positività non sembra costituire un elemento capace di alleviare il disagio legato alla quotidianità della detenzione, ma, al contrario, un riferimento che di quest'ultima esalta la negatività, sia per la mancanza delle persone affettivamente importanti, sia per il senso di colpa che si origina dal considerarsi la fonte delle loro sofferenze, e dei loro problemi. Incerta poi, soprattutto per quanto riguarda il partner, che si rivela spesso una "promessa mancata". Anche se la dinamica che sottende questo fallimento sentimentale rappresenta molte volte "l'esito di un gioco infinitamente complesso, consumatosi prima e altrove". (64)

La difficoltà ad adattarsi alla detenzione, e a mantenere saldo il legame affettivo e sentimentale è alimentata dalla totale impermeabilità che c'è tra il mondo del carcere e la realtà esterna, che crea un senso di isolamento ed estraneità, soprattutto per i familiari che stanno fuori. Morris descrive in modo incisivo la situazione:

For the family, the sense of isolation from the prison world is often greater than the isolation of the prisoner from the world outside. He has newspapars, radio and often television to keep him in touch; wives and children see little of the prison world save what is glimpsed during brief visits. (65)

I colloqui, unica modalità di contatto diretto con i familiari non sono certo sufficienti a ricreare o mantenere uno scambio affettivo soddisfacente. Le difficoltà pratiche e materiali che li ostacolano, che li rendono spesso sporadici e discontinui, sia le raggelanti condizioni in cui si svolgono, privano di autenticità e spontaneità l'incontro, deludendo spesso le aspettative di entrambi i partner. Un detenuto del carcere di San Vittore racconta gli effetti dell'inadeguatezza dei colloqui nel mantenimento delle relazioni sentimentali:

La mancanza, per anni, di rapporti, ma anche di semplici baci, carezze e abbracci porta forzatamente alla perdita di intimità della coppia, tale perdita di confidenza tende ad estraniarne i partner: non si riconoscono più gli odori, le reazioni spontanee, si annulla la capacità di gioco, si abbatte la complicità, si elimina il rapporto amoroso basato sul sentimento e la passione. Questo è quanto ho potuto riscontrare su me stesso dopo tre anni di San Vittore, e quanto emerso inoltre da un personalissimo sondaggio effettuato nello stesso periodo su circa un centinaio di compagni nelle mie stesse condizioni. Lo stesso concetto è emerso da una particolare "inchiesta" della mia compagna durante l'attesa nella sala permessi per il colloquio del carcere, che ha raccolto, diciamo così involontariamente, le confidenze di altre donne, mogli, fidanzate e conviventi di detenuti.
Tutte hanno evidenziato il problema della perdita di intimità dovuta alla mancanza di tempo e spazio idoneo al mantenimento del rapporto affettivo.

Per molti diviene allora surrogato la formula epistolare, in cui il dialogo, che in questo caso è un monologo, non soffre dell'imbarazzo dell'interlocutore. Il "vissuto epistolare" però tende di solito a sconfinare nel fantastico, nell'ideale con il rischio di divenire ostacolo al rapportarsi normalmente sia all'interno che all'esterno del carcere una volta liberi. (66)

Il momento del rilascio e quindi del ritorno in famiglia rappresenta infatti un aspetto molto delicato per il ricomponimento del nucleo, soprattutto quando gli altri membri hanno stabilito nuovi ruoli. Il detenuto liberato si trova ad affrontare i problemi pratici del reinserimento nella società, la ricerca del lavoro prima di tutto, ma a questi si devono aggiungere i problemi relazionali, e soprattutto quelli coniugali. Alcune ricerche hanno evidenziato come molti detenuti in prossimità della loro dimissione si dimostrino timorosi e dubbiosi proprio riguardo all'aspetto sessuale della loro relazione coniugale, e come questa stessa ansia sia presente anche nelle rispettive compagne. (67) Questo timore per la sessualità è strettamente correlato alla sensazione di sentirsi estranei gli uni agli altri. La difficoltà di reinserirsi nel nucleo familiare e il riappropriarsi dei propri ruoli risulta quanto mai difficile, dopo che, a causa della prolungata assenza, la famiglia ha acquisito un nuovo assetto basato su equilibri diversi tra i membri. In molti casi le mogli, o le compagne hanno imparato con sofferenza a gestire il manage familiare, assumendo esse stesse il ruolo di capo famiglia, sia come apportatrici di reddito, sia come figure di riferimento nell'educazione dei figli, acquisendo un'indipendenza per loro inaspettata. Il ritorno del marito può rappresentare una minaccia a questa nuova conquista, e il momento del fine pena, invece della tanto attesa riunione, può costituire la fine della relazione familiare. Un interessante articolo dal titolo "Finché libertà non ci separi", scritto da un detenuto della Casa di Reclusione di Padova per la redazione di Ristretti Orizzonti, (68) illustra con estrema lucidità la situazione che può prospettarsi al momento della tanto attesa libertà:

Quando andai in permesso per la prima volta (e per un'unica notte), a casa trovai piccoli cambiamenti: sul balcone, al posto della piccola cuccia del cane, c'era un bel vaso con una pianta sempreverde; i miei effetti personali non erano più al solito posto; il mio vestiario, trasferito in una parte dell'armadio meno agevole; le mie "carte" erano state raccolte in uno scatolone e portate giù, in cantina.

Mi sentivo a disagio, un ospite in casa mia; dicevo a me stesso che quella era solo una spiacevole sensazione, finché... notai che i "miei" libri non erano più al loro posto, i miei autori preferiti avevano lasciato spazio a non so quanti pupazzetti di peluche. (...)

Quella notte preferii occupare la camera di mia figlia che, da circa tre anni, per far compagnia a sua madre, aveva preso il posto mio, nel lettone. Che grande errore fu quell'ostinato mutismo dettato dall'orgoglio. Sapevo che lei era sveglia quanto me, entrambi trascorremmo una notte insonne in due camere diverse.(...)

Sarebbe stato facile per me ripristinare i cosiddetti "ruoli", riprendermi, maschilisticamente, quel "potere" che ritenevo "usurpato" per motivi di assenza. Ma che diritto avevo di farlo, dal momento che avevo lasciato lei e mia figlia nella disperazione totale? Il disagio mi impedì di cercare quell'approccio "intimo" che, avremmo, forse, vissuto come una sorta di "liberazione", e non come un momento di "ritrovato amore". Ho sempre pensato che l'intimità bisogna desiderarla in due; diversamente non sarebbe altro che il semplice assolvimento di una sorta di "obbligo coniugale" che non ho mai amato, né mai preteso. La nostra storia affettiva, stranamente finì proprio quando sarebbe potuta ricominciare...

Quella nuova "prima notte" fu troppo breve per poter riaccendere una passione, e oggi, quella fiamma che all'epoca era solo affievolita, si è spenta del tutto. Nel frattempo, qualche altro anno è passato, e io e la mia ex compagna abbiamo deciso, per il bene di nostra figlia, di non farci del male reciproco... almeno finché sarò (ancora) detenuto. Finché libertà non ci separi.

3.5. I rapporti con i figli

Come già più volte affermato la detenzione di un familiare si ripercuote negativamente, con modalità e gravità diverse, sui membri del nucleo familiare, ed in specie sui figli.

La Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia all'art. 9 stabilisce che "il bambino i cui genitori, o uno dei due, si trovano in stato di detenzione, deve poter mantenere con loro dei contatti appropriati". È ormai un assunto ampiamente dimostrato che una vita familiare soddisfacente, e in particolare delle buone relazioni con i genitori sono elementi fondamentali per la crescita intellettuale e sociale dei bambini; il bambino non può crescere in modo equilibrato senza una relazione parentale fondante. (69)

La detenzione di un genitore rappresenta un elemento di frattura nel contesto familiare, rivelandosi spesso un fattore disadattivo a carico dei figli. Le modifiche apportate da questo evento all'interno del nucleo familiare, intervenendo sugli equilibri relazionali dei componenti, ma anche sulle condizioni sociali ed economiche, possono costituire la fonte di numerose problematiche che si riflettono sullo sviluppo del minore anche a distanza di tempo. (70) Sovente l'esperienza detentiva è solamente una delle molteplici espressioni di una preesistente situazione di disagio del nucleo, per cui le problematiche rilevate a carico dei figli non possono sempre essere ricollegate sic et simpliciter alla detenzione, ma devono essere valutate alla luce dell'influenza di altri determinanti fattori. (71) In molti casi il genitore ha un vissuto di devianza piuttosto complesso che ha condizionato sia il nucleo familiare che l'educazione dei figli, ben prima della carcerazione. Dalle ricerche condotte in questo campo (72) risulta evidente come nella maggior parte dei casi i genitori che pongono in essere condotte delinquenziali, sono spesso vittime essi stessi di contesti contrassegnati da disadattamento sociale e familiare. Una delle principali cause di tale disadattamento può essere individuata nell'appartenenza a famiglie disgregate, scarsamente coese, o inserite in gruppi socialmente emarginati, ad esempio a causa della loro condizione di immigrati. Sono frequenti anche le esperienze di tossicodipendenza da abuso di alcol o da sostanze stupefacenti, che incidono profondamente sulle dinamiche interpersonali del nucleo, caratterizzate da interazioni conflittuali, a causa dell'instabilità caratteriale che questa condizione spesso comporta. (73) Un altro parametro rilevante può essere costituito dalla precarietà lavorativa dei genitori, che si correla sia alla vicenda penale del soggetto deviante, che al disadattamento del nucleo familiare, determinandone lo status economico. Molto influente sul disadattamento dei figli è inoltre il "clima" familiare che si respira all'interno del nucleo, in particolare in rapporto alla relazione esistente nella coppia genitoriale. (74)

Dati tutti questi fattori che possono determinare in modo più o meno influente il disadattamento familiare, la detenzione rappresenta comunque un momento di cesura, che interrompe il complesso gioco di equilibri che sottende al funzionamento del nucleo, imponendo un nuovo assetto e nuove dinamiche di relazione.

L'assenza improvvisa ed inaspettata del genitore può causare nel bambino la nascita di un profondo senso di ansia, molto spesso aggravato dalla mancata conoscenza della verità. Alcuni studi sui figli dei detenuti hanno mostrato come la mancanza di una franca spiegazione riguardo all'accaduto, alimenta nei bambini peggiori fantasie e paure che non la realtà della situazione. (75) Il sapere che il padre, o la madre sono in vacanza, all'ospedale, sono partiti per un viaggio di lavoro, e non aver avuto da loro un saluto, non ricevere spiegazioni o telefonate produce nei bambini un sentimento di rifiuto, e di abbandono che danneggia il senso di autostima, (76) e che può provocare, anche a lungo termine, dei turbamenti nello sviluppo della personalità. Le risposte disadattive dei figli alle situazioni di stress provocate dalla detenzione possono essere le più varie e spaziare dal disturbo fisico, associato a ritardo nello sviluppo, a manifestazioni di irrequietezza o aggressività sul piano comportamentale, senza escludere atteggiamenti pseudoadulti o stigmatizzanti, atteggiamenti di tipo inibitorio, o all'opposto seduttivi. In alcuni casi si può arrivare all'estrema espressione del disagio attraverso le situazioni di disadattamento scolastico, e la messa in atto di veri e propri atteggiamenti antigiuridici. (77)

Tuttavia essere detenuto non significa obbligatoriamente essere un cattivo genitore, anche se è pur vero che tale consapevolezza è riflessa nel soggetto dalla percezione dell'ambiente, e che comunque il vissuto di inadeguatezza al problema del rapporto con i figli si accentua necessariamente con l'ingresso in carcere. (78)

Purtroppo il nostro ordinamento non prevede strumenti idonei a superare le difficoltà che impediscono ai genitori detenuti di esercitare pienamente i loro ruoli e le loro funzioni. Per molti detenuti separarsi dai figli significa "sparire", non solo dal rapporto quotidiano, ma anche dalla rete sociale di riferimento: la scuola, i servizi sociali, e tutti i soggetti coinvolti nella sua storia genitoriale. (79) Questo è particolarmente accentuato per i detenuti padri, nei cui confronti la legge stessa opera una forte discriminazione. Si pensi alla possibilità di tenere il figlio minore di tre anni in carcere, mai concessa al padre, o alla detenzione domiciliare "speciale" per le detenute madri recentemente istituita con la legge 8 marzo 2001 n. 40, che permette la disposizione di tale misura alternativa nei confronti dei padri solo in caso di assenza della madre (secondo alcuni anche temporanea).

La paternità è una relazione fondata sull'"enunciazione" più che sull'esperienza. (80) Mentre la maternità si definisce dall'esperienza diretta, la madre porta in grembo il figlio, lo allatta al seno, la paternità invece si costituisce attraverso due enunciati: quello della madre che indica il padre del bambino che ha partorito, e quello del bambino che attende dal padre l'assunzione delle sue responsabilità. Il padre contribuisce a inserire il figlio in una rete strutturata di appartenenze, ma il suo legame con il figlio è immerso in una serie di relazioni dominate da reciproche identificazioni. Il padre vede in suo figlio quello che era e/o quello che avrebbe voluto essere. Nei padri detenuti questo attaccamento può essere esagerato sul piano dell'immaginario, non potendo essere vissuto nella realtà. Più il padre perde il contatto con il figlio e più gli dà una straordinaria importanza, fissandolo in un quadro ideale. (81)

Lo stesso può avvenire da parte del figlio, che vede il genitore detenuto come un eroe, con il quale identificarsi; (82) salvo poi dover affrontare sentimenti di delusione, o addirittura di rifiuto, una volta che il genitore viene percepito nella sua realtà. (83) L'atteggiamento dei figli nei confronti del detenuto è comunque influenzato da molti fattori esterni, tra i quali svolge un ruolo primario l'atteggiamento del genitore non detenuto nei confronti del genitore recluso. In alcuni casi la famiglia tiene nascosta al figlio la devianza del genitore, mentre nei casi in cui viene rivelata, questa può essere presentata con atteggiamenti minimizzanti e giustificativi sul piano culturale, o quanto meno affettivo, il che può avvenire anche dietro suggerimento delle figure circostanti. Questa percezione può rivestire grande importanza nei processi di identificazione, che potranno avvenire più facilmente in senso negativo o deviante. (84)

Altrettanto rilevanti sono gli atteggiamenti dei figli riguardo al genitore non detenuto, nei confronti del quale una percentuale relativamente elevata di soggetti dimostra sentimenti di ostilità, rifiuto o indifferenza, soprattutto quando la personalità di questo genitore presenta caratteristiche di debolezza, dipendenza, depressione; segno evidente che per questi ragazzi non esiste una figura di sostegno alternativa al genitore detenuto, che mantiene il ruolo di capo famiglia nonostante l'allontanamento dal nucleo. (85) L'atteggiamento dei figli nei confronti dei genitori reclusi risulta infatti maggiormente condizionato dalla capacità di questi di mantenere un ruolo all'interno della famiglia e nel rapporto con il partner, piuttosto che non dalla storia penale del soggetto. (86)

Nel caso in cui ad essere detenuta sia la madre, gli effetti sulla situazione familiare, ed in particolare sui figli, sono più dirompenti. Quando la madre viene arrestata, la maggior parte dei bambini non perdono soltanto la loro principale fonte di affetto e di cure, ma rimangono completamente senza genitori, questo sia perché molte delle madri che delinquono sono sole, perché separate, vedove, o ragazze madri; sia perché la devianza delle donne si accompagna spesso a quella dei propri compagni, che quindi possono essere anch'essi reclusi; o in ultima analisi perché anche nell'eventualità in cui il padre sia libero, nella maggior parte dei casi non vuole o non è in grado di farsi carico dei figli. (87) Quando è possibile i figli delle madri recluse stanno con altri membri della famiglia, di solito sono i nonni o gli zii che si fanno carico dei nipoti, ma quando ciò non è possibile il Tribunale di Minori dispone un affidamento, cui conseguono numerosi e dolorosi cambiamenti per il ragazzo, che viene costretto in questo modo a cambiare casa, abitudini, ambiente scolastico e amici. Lo stesso tribunale per i minori a volte sembra intervenire più per accentuare la situazione di separazione, piuttosto che come un organismo che tutelando il minore ipotizzi e proponga delle soluzioni che possano ridurre i disagi derivanti dalla reclusione del o dei genitori. Questa è anche la ragione per cui spesso questo organismo viene considerato dai detenuti, in special modo dalle donne, come un avversario di cui non ci si deve fidare, piuttosto che come un soggetto realmente preposto a tutela del minore. (88)

Spesso i figli soffrono della detenzione più del genitore stesso, pagando il prezzo di una colpa che non hanno commesso.

Qui riportata una testimonianza di un detenuto del carcere di Padova, che racconta la sua storia di padre detenuto:

Facevo l'autotrasportatore di mobili per l'Italia e in Europa. A dire il vero questo lavoro lo facevo volentieri prima di avere una famiglia, ma poi mi costava fatica stare lontano da mia moglie e dai miei bambini. (...)

I bambini, non vedendomi tornare a casa, chiedevano alla mamma dov'ero, e lei gli rispondeva: "Papà ha ripreso a lavorare con il camion, e non si sa quando rientra".

Pensai al momento di non farmeli portare al colloquio, perché non volevo che subissero un trauma, e soprattutto speravo che la cosa si risolvesse in breve tempo. Poi però il desiderio di vederli era troppo forte, e così decisi di incontrarli in carcere. La prima volta l'emozione e l'angoscia l'hanno fatta da padroni: i bambini, presi dalla curiosità di quello che si trovavano intorno, mi tartassavano di domande, io cercavo di persuaderli che in quel luogo ci lavoravo, ma nei loro occhi si leggeva un forte dubbio, e a un certo punto il più piccolo mi chiese: "Papà, come mai c'è la polizia?". A quella domanda restai senza parole, poi gli risposi con qualche frase senza senso, che non ricordo neppure più. (...)

Non avevo mai provato a spiegare ai miei figli perché il loro padre non aveva ferie, perché non poteva andare a casa, perché non poteva accompagnarli a scuola. Così facendo intendevo tutelarli, non volevo che conoscessero la brutta realtà del carcere, pensavo che, quando sarebbero stati più grandi, gli avrei spiegato tutto. (...)

Mia moglie con Pasqualino si era trasferita nella provincia di Pordenone, dai suoi genitori, e si era messa a lavorare in una fabbrica del luogo. Gli altri figli oramai hanno la loro famiglia e si sono stabiliti in Calabria. (...)

A colloquio, mio figlio più piccolo mi diceva di sentire la mancanza dei suoi fratelli, dei suoi amici lasciati in Calabria, dei suoi compagni di scuola. Per lui era stato molto traumatico lasciare tutti questi affetti, e venire al nord con la mamma. (...)

Il fatto che stanno in Calabria ha diradato molto i colloqui e mia moglie ha cominciato a dirmi che il bambino mi nominava sempre, sentiva la mancanza del padre. Alla fine ha dovuto portarlo da uno psicologo, che ha riscontrato che il bambino è affetto da enuresi notturna e da disturbi comportamentali.

Quello che ho perso nei confronti dei miei figli è qualche cosa di immenso: non ho potuto e non posso tuttora star loro vicino durante la loro crescita, la loro vita. A loro è mancato il padre, a me sono mancati quegli attimi magici della vita di famiglia, mia moglie, i miei figli, ed ora i miei nipotini. (...)

3.6. I figli che vivono in cella con la madre detenuta

Il nostro ordinamento (89) prevede la possibilità per le donne detenute che hanno figli minori di tre anni di tenerli con sé in cella. Il numero dei bambini conviventi con le madri detenute si è visibilmente ridotto negli ultimi anni, anche in virtù delle nuove previsioni normative introdotte dalla Legge 8 marzo 2001 n. 40 che consente l'ammissione alla detenzione domiciliare per le madri di figli di età inferiore a dieci anni. Il fenomeno, se pur di ridotte dimensioni, merita comunque alcune osservazioni.

La maggior parte delle madri che tengono i figli presso di sé sono extra-comunitarie, e se italiane, di etnia Rom. La decisione di tenere il bambino si configura come una soluzione che si assume solo quando non sono possibili sistemazioni alternative, perché inesistenti o perché difficilmente praticabili. (90) Per la quasi totalità delle donne più che da una libera scelta, la decisione è dettata da situazione di emergenza: figlio nato in carcere, altri numerosi figli già affidati a familiari, assenza o eccessiva lontana della famiglia. La scelta, qualora si configuri come tale, viene motivata con il desiderio di seguire da vicino la crescita del bambino sia pure in un ambiente tanto sfavorevole. Ma c'è da chiedersi se ciò che viene identificato come scelta non esprima piuttosto una "condizione ancora più estrema di mancanza di alternative, tanto da rendere la detenzione del piccolo preferibile alle condizioni materiali e affettive di vita che si troverebbe ad affrontare all'esterno". (91)

I bambini che vivono in cella si trovano in situazioni di quasi totale deprivazione affettiva, relazionale e sensoriale. Per la maggior parte del tempo vivono nello spazio ristretto di una stanza, o del cortile del carcere; godono di limitatissime occasioni di incontro con persone esterne, e praticamente nessuna con le figure parentali, in particolar modo di quella paterna. La possibilità, per questi piccoli reclusi, di avere rapporti con altri bambini, se non gli altri residenti in carcere, è limitata alla frequentazione dell'asilo comunale, che rappresenta quindi l'unico canale di socializzazione esterna. Per il resto il loro mondo di relazioni si conclude con il contatto con la madre, le altre detenute, e il personale penitenziario, o qualche volta con i volontari.

Il problema ancora più drammatico è rappresentato dalla mancanza di prospettive per questi bambini al compimento del terzo anno di età a cui è conseguente l'obbligo di uscire. Alcuni di essi vengono affidati a parenti, quando possibile, ma per la maggior parte dei casi in cui non esistono figure parentali alternative alla madre, il percorso conduce obbligatoriamente all'affidamento, in istituto, o se possibile in famiglia.

Note

1. F. CERAUDO, La sessualità in carcere: aspetti psicologici, comportamentali ed ambientali, in A. Sofri, F. Ceraudo, Ferri battuti, Archimedia, Pisa, 1999.

2. A.H. MASLOW, Deprivation, Threat, and Frustration, in T.M. NEWCOMBLE E.L. HARTLEY, Reading in Social Psychology, New York, Henry Holt & Co., 1947; tr. it. Santoro, E., Carcere e società liberale, Giappichelli, Torino, 1997, p. 32.

3. D. CLEMMER, op. cit., p. 208.

4. Ivi, p. 206.

5. D. CLEMMER, The Prison Community, Boston, The Christopher Publishing House, 1941, p. 2.

6. Ivi, p. 7.

7. Ivi, p. 17.

8. D. CLEMMER, The Prison Community, Boston, The Christopher Publishing House, 1941, tr. it., E. Santoro, op. cit., p. 209.

9. Ibid.

10. Ivi, p. 212.

11. Ivi, p. 216.

12. V. NELSON, op. cit., p. 143.

13. D. CLEMMER, The Prison Community, Boston, The Christopher Publishing House, 1941, tr. it., E. Santoro, op. cit., p. 218.

14. Ivi, p. 221.

15. Ivi, pp. 217-222.

16. GRESHAM M. SYKES, op. cit., p. 244.

17. D. CLEMMER, op. cit., p. 215; R.M. LINDER, Sex in Prison, in Complex, vol. 6, autunno 1951, citato in GRESHAM M. SYKES, op. cit., p. 244.

18. GRESHAM M. SYKES, op. cit., p. 245.

19. I. GENCHI, L'espressione della sessualità nella restrizione della libertà in C.SERRA (a cura di), Devianza e difesa sociale, Franco Angeli Editore, Milano, 1981, p. 36.

20. GRESHAM M. SYKES, op. cit., p. 245.

21. F.CERAUDO, Principi fondamentali di medicina penitenziaria, Pisa, Centro studi della presidenza nazionale AMAPI, 1988, pp. 140-149.

22. E. CAROT, J. PERAIRE, A. CARLINGA, M. BACCHE, Les réactions psychopathologiques de captivité, in "Annales Médico-psychologiques", VII, 1949.

23. Ivi, p. 383.

24. Associazione Medici Penitenziari Italiani.

25. F. CERAUDO, La sessualità in carcere: aspetti psicologici, comportamentali ed ambientali, cit.

26. Ibid.

27. I. GENCHI, op. cit., p. 43.

28. E. CAMPELLI, F. FACCIOLI, V. GIORDANO, T. PITCH, Donne in carcere, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 142.

29. A. TONEGATO, Amore e carcere, in Atti della Giornata di Studi; "Carcere: salviamo gli affetti", Casa di Reclusione di Padova, 10 maggio 2002.

30. F.FACCIOLI, I soggetti deboli. I giovani e le donne nel sistema penale, Angeli, Milano, 1990, p. 117.

31. Dati relativi alla situazione del 01.01.2002, secondo la documentazione fornita dal Ministero di Grazia e Giustizia, Ufficio per lo Sviluppo e la Gestione del Sistema Informativo Automatizzato, Sezione Statistica, ROMA.

32. P. MORRIS, Prisoners and their families, Gorge Allen & Unwind Ltd., London, 1965, p. 18.

33. A. PAOLELLA, M. CORRERA, F. SCLAFANI, op. cit., p. 17.

34. JAMES E. BLACKWELL, The effects of involuntary separation on selected families of men committed to prison from Spokane County, Washington, Ph. D. tesi presentata nel 1959 Allo State College di Washington.

35. P. MORRIS, op. cit.

36. R. HILL, Families Under Stress, New York, Harper Bros., 1949.

37. R. HILL, Families Under Stress, New York, Harper Bros., 1949, citato in MORRIS, P., Prisoners and their families, Gorge Allen & Unwind Ltd., London, 1965, p. 20.

38. R. N. RAPOPORT, R. RAPOPORT, I. ROSOW, Community as Doctor, London, Tavistock Publications, 1960.

39. R. RAPOPORT, I. ROSOW, An approach to Family Relations and Role performance, Human Relations, 10.209, 1957.

40. P. MORRIS, op. cit., p. 21.

41. ELLIOT, MERRIL, Social Disorganization, New York, Harper Bros., 1961, (4th edition).

42. P. MORRIS, op. cit., p. 21.

43. Ivi, p. 22.

44. E. BECKER, R. HILL, Hadling Family Strains and Shocks, Boston, D.C. Health & Co., 1943; CAVAN, RANK, The Family and the Depression, Chicago, 1938; E.L. KOOS, Families in Trouble, Morningside Heights, New York Kings Crown Press, 1950; WALLER, The Family: A Dynamic Interpretation, University of N. Carolina Press, 1951.

45. B. HEMMERLIN, Paroles d'Innocents, Belfond, Le Pré aux Clercs, 1992; P. MORRIS, op. cit.

46. L. SACERDOTE, Il genitore dimenticato, in Atti della Giornata di Studi; "Carcere: salviamo gli affetti", Casa di Reclusione di Padova, 10 maggio 2002.

47. J. P. MARTIN, D. WEBSTER, The Social Consequences of Conviction, Heinemann, London, 1971, p. 92.

48. E. CAMPELLI, F. FACCIOLI, V. GIORDANO, T. PITCH, Donne in carcere, Feltrinelli, Milano, 1992.

49. D. CLEMMER, op. cit., p. 209.

50. E. CAMPELLI, F. FACCIOLI, V. GIORDANO, T. PITCH, op. cit., p. 105.

51. A. PAOLELLA, M. CORRERA, F. SCLAFANI, op. cit., p. 12.

52. E. CAMPELLI, F. FACCIOLI, V. GIORDANO, T. PITCH, op. cit., p. 106.

53. C. GHETTI, Carcere e famiglia: gli aspetti del disagio, in La Rete Spezzata, W.NANNI, T. VECCHIATO (a cura di), Feltrinelli, Milano, 2000, p. 187.

54. A. PAOLELLA, M. CORRERA, F. SCLAFANI, op. cit., p. 29.

55. E. CAMPELLI, F. FACCIOLI, V. GIORDANO, T. PITCH, op. cit., p. 110.

56. Ivi, p. 108.

57. Ivi, p. 109.

58. Ibid.

59. E. CAMPELLI, F. FACCIOLI, V. GIORDANO, T. PITCH, op. cit., p. 115.

60. P. MORRIS, op. cit., p. 314.

61. Ivi, p. 309.

62. Ivi, p. 314.

63. E. CAMPELLI, F. FACCIOLI, V. GIORDANO, T. PITCH, op. cit., p. 104.

64. Ivi, p. 119.

65. P. MORRIS, op. cit., 1965, p. 9.

66. A. TONEGATO, op. cit.

67. P. MORRIS, op. cit., p. 121.

68. Periodico di informazione della Casa Circondariale di Venezia e della Casa di Reclusione di Padova.

69. R. SHAW, Prisoners' Children, Routledge, London, 1992, p. 3.

70. A. LUZZAGO, S. PIETRALUNGA, L'incidenza negativa della detenzione dei genitori sui figli. (II parte: Situazioni di disadattamento in rapporto alle caratteristiche dei genitori e del nucleo), "Rassegna Italiana di Criminologia", 1992, p. 298.

71. A. LUZZAGO, S. PIETRALUNGA, P. SOLERA, L'incidenza negativa della detenzione dei genitori sui figli, Rassegna Italiana di Criminologia", 1991, p. 221.

72. A. LUZZAGO, S. PIETRALUNGA, P. SOLERA, op. cit., pp. 221 e ss.; A. LUZZAGO, S. PIETRALUNGA, op. cit., pp. 297 e ss.

73. E. CAMPELLI, F. FACCIOLI, V. GIORDANO, T. PITCH, op. cit., p. 114.

74. A. LUZZAGO, S. PIETRALUNGA, P. SOLERA, op. cit., pp. 230-233.

75. R. SHAW, op. cit., p. 10.

76. B. HEMMERLIN, op. cit., p. 12.

77. A. LUZZAGO, S. PIETRALUNGA, op. cit., p. 300.

78. L. DAGA, G. BIONDI, Il problema dei figli con genitori detenuti, in E. CAFFO (a cura di), Il rischio familiare e la tutela del bambino, Guerrini e associati, Milano, 1988, p. 130.

79. L. SACERDOTE, op. cit.

80. A. BOUREGBA, Le difficoltà di assumere ruoli e funzioni familiari per i padri detenuti, in Atti della Giornata di Studi; "Carcere: salviamo gli affetti", Casa di Reclusione di Padova, 10 maggio 2002.

81. Ibid.

82. B. HAMMERLIN, op. cit., p. 252.

83. A. LUZZAGO, S. PIETRALUNGA, P. SOLERA, op. cit., p. 228.

84. Ivi, p. 229.

85. Ibid.

86. A. LUZZAGO, S. PIETRALUNGA, op. cit., p. 301.

87. R. SHAW, op. cit., p. 32.

88. L. DAGA, G. BIONDI, op. cit., p. 130.

89. Legge 26 luglio 1975 n. 354 art. 11 comma 9º.

90. E. CAMPELLI, F. FACCIOLI, V. GIORDANO, T. PITCH, op. cit., p. 124.

91. Ivi, p. 125.