ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 2
La disciplina giuridica degli istituti preposti al mantenimento dei rapporti familiari

Carlotta Bargiacchi, 2002

2.1. I colloqui

L'ordinamento penitenziario prevede all'art. 18 la possibilità per detenuti ed internati di essere ammessi ai colloqui con i congiunti e con altre persone, anche se al comma 3º viene subito specificato che particolare favore viene accordato ai colloqui con i familiari, intendendo in questo senso valorizzare i rapporti con la famiglia quali elementi del trattamento, espressamente previsti dall'art. 15 Ord. Penit., accanto alla triade "lavoro, istruzione, religione".

La loro natura di elementi trattamentali viene altresì confermata, ed ancora più ribadita nel nuovo regolamento esecutivo, dal fatto che la loro ammissione non è subordinata, né alla condotta tenuta, né alla reale partecipazione al programma trattamentale, né tanto meno alla gravità del reato commesso.

Come precedentemente osservato, molte delle modifiche apportate dal nuovo regolamento d'esecuzione sono dirette appunto nel senso di togliere dall'ottica della premialità ogni concessione inerente i colloqui, o gli strumenti preposti al mantenimento delle relazioni familiari, e di inserirli tra gli strumenti trattamentali di cui l'amministrazione si deve rendere garante.

2.1.1. I soggetti ammessi ai colloqui

Passando ad analizzare in termini più specifici la normativa su questi temi, è facile notare come sia la legge penitenziaria che il regolamento esecutivo utilizzino in maniera equivalente i termini "familiari" e "congiunti".

In relazione alla disciplina dei colloqui la determinazione del significato attribuito a questi due termini risulta di fondamentale rilevanza ai fini dell'individuazione delle persone ammesse alla fruizione di tale istituto.

In merito a questi dubbi interpretativi è intervenuta un'importante circolare del D.A.P. (circolare n. 3478/5928 dell'8. 7. 1998), in cui sono espresse le linee-guida, i criteri interpretativi e gli indirizzi operativi, cui attenersi in materia di colloqui e di corrispondenza telefonica, al fine di superare alcuni problemi pratici sorti nell'individuazione delle persone ammesse ai colloqui. La suddetta circolare invita i Provveditorati regionali ad istituire presso le loro sedi dei "nuclei di sostegno", composti da un funzionario di direzione, un educatore, un'assistente sociale e da un appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria, al fine di monitorare la concreta applicazione della circolare.

Riguardo all'individuazione delle persone ammesse ai colloqui, la circolare D.A.P. n. 3478 del 1998 è concorde con la dottrina prevalente nel ritenere che sia la legge che il regolamento utilizzano i termini "congiunti" e "familiari" come equivalenti. La dottrina, richiamata dalla stessa circolare, (1) opera tuttavia una distinzione teorica tra i due termini, intendendo con il termine "congiunti" le persone legate da un rapporto di parentela o di affinità, e con il termine "familiari", i congiunti conviventi. Questi ultimi vengono inoltre assimilati alla diversa espressione "prossimi congiunti", contenuta nell'art. 307 del codice penale, richiamata in tal senso dalla circolare dell'Ufficio Studi del D.A.P. n. 2656/5109 del 15 gennaio 1980.

L'art. 307 del codice penale prevede al 4º comma che "agli effetti della legge penale s'intendono per "prossimi congiunti" gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii ed i nipoti", escludendo dal novero di "prossimi congiunti" gli affini, nel caso in cui il coniuge sia morto e non vi sia prole.

Ma questo tipo di interpretazione non può essere del tutto soddisfacente in quanto limita senza ragione l'ambito dei familiari ai prossimi congiunti, senza tener conto che, se il legislatore avesse voluto usare i termini suddetti in senso restrittivo, avrebbe certamente potuto richiamare in modo esplicito l'art. 307 c.p., oppure avrebbe potuto senz'altro utilizzare direttamente l'espressione in esame, come esplicitamente previsto dall'art. 100 del Regolamento degli istituti di prevenzione e pena del 1931.

Anche attenendosi alla nozione di famiglia anagrafica data dall'art. 4 del D.P.R n. 223 del 30 maggio 1989, che definisce, agli effetti anagrafici, la famiglia come "quell'insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune", l'immagine che se ne ricava risulta troppo restrittiva, in quanto secondo questa norma resterebbero esclusi dall'ammissione ai colloqui e alle telefonate i familiari non conviventi, ma molto vicini al soggetto, come ad esempio i genitori e i fratelli.

La circolare D.A.P. del 1998, invita allora a prendere in considerazione l'evoluzione del concetto di famiglia in termini più sociologici che giuridici, in considerazione della difficoltà con cui le relazioni familiari possano essere sottoposte alle semplificazioni e ai rigidi schemi delle discipline giuridiche.

In senso sociologico si può affermare che la famiglia sia un gruppo sociale o un'unità fondamentale dell'organizzazione sociale, caratterizzato dalla residenza comune, dalla cooperazione economica e dalla riproduzione. (2)

Sempre secondo la circolare, è utile considerare anche ciò che viene comunemente inteso con il termine "famiglia": esso va inteso in senso ampio come l'insieme di tutti coloro che sono legati da un vincolo di parentela o di matrimonio, ma anche i figli naturali, gli adottivi e gli affiliati. Seguendo queste indicazioni sembra affermata la completa equivalenza dei due termini "congiunti" e "familiari" nell'indicare l'esistenza di un vincolo di parentela, secondo l'utilizzo indifferenziato della normativa penitenziaria. Applicando in questo senso le disposizioni relative alla definizione della parentela e dell'affinità del codice civile, di cui all'art. 74, si dovrebbero quindi ricomprendere tra i congiunti o familiari, oltre al coniuge, i parenti ed affini entro il sesto grado.

Ma essendo necessario da un punto di vista penitenziario, non ampliare eccessivamente il numero dei soggetti legittimati, la circolare, indica come criterio di ammissibilità immediata ai colloqui la parentela e l'affinità entro il quarto grado, mentre i parenti o affini di quinto e sesto grado potranno accedere ai colloqui al pari delle persone estranee alla famiglia, e cioè chiedendo una preventiva autorizzazione, subordinata nella concessione alla sussistenza di ragionevoli motivi (art. 35 Reg. Esec.).

Fig. 1.1. Tabella esplicativa dei gradi di parentela e affinità
GRADO PARENTI AFFINI
Primo Genitori e figli Suoceri, generi, nuore e altri figli del coniuge
Secondo Nonni, nipoti ex filio (figli di figli), fratelli, sorelle Nonni e nipoti ex filio del coniuge, coniuge di nonni o nipoti ex filio, cognati
Terzo Bisnonni, pronipoti, zii, nipoti ex fratre (figli di fratelli o sorelle) Bisnonni, pronipoti, zii, nipoti ex fratre del coniuge, coniuge di bisnonni, pronipoti, zii e nipoti ex fratre
Quarto Cugini di primo grado (figli di zii), prozii (zii dei genitori), figli di nipoti ex fratre Cugini di primo grado del coniuge, coniuge di cugini di primo grado, prozii del coniuge, coniuge di prozii, coniuge di figli di nipoti ex fratre, figli di nipoti ex fratre del coniuge
Quinto Nipoti (figli di cugini di primo grado), figli di prozii Nipoti del coniuge, coniuge di nipoti, figli di prozii del coniuge, coniuge di figli di prozii
Sesto Cugini di secondo grado (figli di cugini di primo grado dei genitori) Coniuge di cugini di secondo grado, cugini di secondo grado del coniuge

In riferimento esclusivo ai detenuti sottoposti al regime di Alta Sicurezza o al regime di cui all'art. 41-bis dell'Ord. Penit., si prevede un'ulteriore limitazione dei soggetti immediatamente legittimati ai colloqui, restringendo tale categoria fino al terzo grado di parentela o affinità.

Anche per questi detenuti le persone estranee alla famiglia, i parenti o gli affini oltre il terzo grado di parentela saranno ammessi ai colloqui con autorizzazione del direttore subordinata alla sussistenza di "ragionevoli motivi".

La circolare precisa che l'individuazione dei ragionevoli motivi può essere la più varia possibile, ma dovrà sicuramente essere inerente alle relazioni affettive, di studio e di lavoro, tenendo conto sia dei legittimi interessi dei detenuti e degli internati ai rapporti con il mondo esterno anche ai fini del loro futuro reinserimento nella società, sia delle esigenze di sicurezza, in relazione alle quali è opportuno cercare di evitare che attraverso i colloqui possano anche indirettamente essere favoriti collegamenti illeciti o rapporti con persone appartenenti o comunque legate ad organizzazioni od ambienti criminali. (3)

Le persone estranee alla famiglia, o comunque parenti e affini oltre il quarto grado saranno sottoposti agli accertamenti effettuati a mezzo delle forze di pubblica sicurezza, anziché tramite i Centri di Servizio Sociale per Adulti, al fine di evitare il più possibile l'eventualità di contatti con la criminalità. (4) La decisione sull'ammissibilità ai colloqui di tali soggetti viene presa con piena discrezionalità dall'amministrazione, che viene però invitata dalla circolare in esame ad usare criteri di maggior favore nei confronti delle persone detenute. Riguardo in particolare alle relazioni affettive, si deve cercare di salvaguardare e tutelare i rapporti costruttivi e strutturati, se pur in fase nascente, la cui sussistenza potrà essere accertata dai Centri di Servizio Sociale. (5)

La situazione qui descritta riguarda specialmente i rapporti tra fidanzati, o comunque tutti quei rapporti che si trovano in situazioni fluttuanti, che magari dopo un periodo di interruzione stanno vivendo un momento di verifica, dovuta soprattutto alla separazione consequenziale alla detenzione.

In questi casi, però sorgono spontanei alcuni interrogativi sul possibile intervento dei Centri di Servizio Sociale competente per territorio a produrre quegli accertamenti che dovrebbero contribuire alla documentazione della sussistenza di quei ragionevoli motivi necessari al rilascio dell'autorizzazione al colloquio da parte del Direttore. Ad una prima osservazione di ordine pratico risulta evidente il carico di lavoro che grava sui Centri di Servizio Sociale, che può rendere difficoltoso il procedere in tempi rapidi; in secondo luogo risulta altrettanto evidente quanto possa essere lungo e laborioso, nonché arduo, acquisire una relazione di verifica sul tipo di rapporto che intercorre tra il detenuto ed una persona estranea.

Il Nucleo di sostegno del Provveditorato Regionale per la Toscana, durante l'analisi delle problematiche introdotte dalla circolare sul riordino del regime dei colloqui, avanza un'interessante proposta, introducendo la possibilità che il Direttore si avvalga di una relazione degli operatori del trattamento dell'istituto, i quali effettueranno, se del caso, anche colloqui con le persone interessate. Tale relazione potrà essere sostituita o integrata dalla relazione del Gruppo di Osservazione che seguirà l'evolversi delle relazioni affettive del detenuto in questione integrando i dati dell'osservazione inframurale con le verifiche e gli aggiornamenti socio-familiari effettuati dal C.S.S.A. (6)

Il regolamento ha equiparato la disciplina concernente i colloqui con i familiari anche ai conviventi, in considerazione dell'intenzione del legislatore di riconoscere particolare valore ai rapporti di vita ed affettivi, così come esistono nella realtà dei fatti.

La circolare D.A.P. del 1998, precisa che in questo caso è sufficiente attenersi al concetto giuridico di conviventi, intendendo con essi le persone che coabitano in uno stesso alloggio, senza attribuire nessuna rilevanza all'identità del sesso o alla tipologia dei rapporti concretamente esistenti con il detenuto, siano essi more uxorio, di amicizia, di collaborazione domestica, di lavoro alla pari, o altro. (7)

Nella prassi purtroppo però la valorizzazione di questi rapporti non viene sempre rispettata, in quanto la convivenza viene utilizzata per l'ammissione ai colloqui delle persone riconducibili ad un legame di coppia con il detenuto. Si noti a questo proposito la nota di commento del Nucleo di sostegno del Provveditorato regionale della Toscana, (8) che propone come criterio da seguire nel caso ci siano più conviventi, e non vi siano figli che permettano di individuare con chiarezza i rapporti di paternità e maternità, la compatibilità con il principio della monogamia sancita dall'ordinamento dello Stato italiano, sostenendo che, qualora il detenuto abbia rapporti frequenti e continuativi con una convivente, non possa essere autorizzato ad averne con un'altra convivente, se non in forma eccezionale. Questa interpretazione, spesso applicata nella prassi, per limitare il numero delle persone ammesse ai colloqui, risulta oltremodo restrittiva e in contrasto con l'interpretazione fornita invece dalla circolare D.A.P., che specificatamente ricomprende nella categoria "conviventi" una serie di rapporti di varia natura, e quindi non solo more uxorio, senza specificare alcuna limitazione.

È pur vero che nella pratica la certificazione di convivenza viene spesso utilizzata nei casi di fidanzamento, in modo da poter fornire un qualche riconoscimento giuridico a dei rapporti solo di fatto.

Dopo aver stabilito quali siano i soggetti che risultano immediatamente legittimati a fruire dei colloqui, e cioè i parenti e gli affini entro il quarto grado, e nel caso di detenuti sottoposti a regime di Alta Sicurezza o al regime di cui all'art. 41- bis dell'Ord. Penit. parenti o affini entro il terzo grado, nonché i conviventi, occorre stabilire attraverso quali modalità avviene l'accertamento della parentela o della convivenza.

L'accertamento dei vincoli di parentela o della situazione di convivenza, ha subito nel corso del tempo molte trasformazioni, dovute al mutare della normativa amministrativa in relazione alla disciplina delle certificazioni.

Ripercorrendone l'iter, si deve in primo luogo analizzare la legge 4 gennaio 1968 n. 15 in materia di documentazione amministrativa e di legalizzazione ed autenticazione di firme.

La legge in questione ha introdotto la possibilità di comprovare alcuni fatti giuridicamente rilevanti, quali ad esempio, data e luogo di nascita, residenza, cittadinanza, stato civile, stato di famiglia, eccetera, eccetera..., mediante dichiarazioni sostitutive di certificazioni, sottoscritte davanti a determinate autorità, fra cui i funzionari competenti a ricevere le dichiarazioni.

Analogamente si possono attestare mediante dichiarazione sostitutiva di atto notorio i fatti, gli stati o le qualità personali che siano a diretta conoscenza dell'interessato.

Nell'ottobre dello stesso anno la Presidenza del Consiglio dei Ministri emise una circolare con cui invitava le amministrazioni riceventi le dichiarazioni ad adottare i provvedimenti richiesti unicamente sulla base di dette dichiarazioni: "salvo che ritenga di provvedere di ufficio ad accertare preventivamente la veridicità;...di tale facoltà dovrà farsi uso se ed in quanto ricorrano, in relazione alla particolare delicatezza del provvedimento da adottare, validi e seri motivi". (9)

Questo ebbe come conseguenza che la legge n. 15 del 1968 venisse totalmente disapplicata da tutte le pubbliche amministrazioni, ed in particolar modo da quelle penitenziarie, per le quali l'autorizzazione ai colloqui costituiva sicuramente un provvedimento di particolare delicatezza, e come tale meritevole delle cautele raccomandate dalla Presidenza del Consiglio. (10)

Nel 1989 l'Ufficio Studi emise una circolare che riepilogava la materia disciplinata dalla legge 15/1968, e in una nota (11) fornì un elenco preciso dei soggetti, che in ambito penitenziario erano legittimati a rendere dichiarazioni sostitutive, poiché il timore che la legge in esame potesse permettere il realizzarsi di possibili abusi non poteva totalmente escludere l'applicazione della normativa.

Dalla nota risultavano legittimati a rendere dichiarazioni sostitutive:

  • i detenuti imputati;
  • i detenuti in espiazione di pena;
  • i familiari, congiunti o conviventi dei detenuti;
  • i detenuti colpiti da interdizione legale (non esplicitando quest'ultima influenza alcuna sui diritti personali).

Con la circolare Miacel n. 11/96 del 23 luglio 1996 in materia di anagrafe, il Ministero dell'Interno disponeva che nel rilascio delle certificazioni anagrafiche di stato di famiglia dovessero essere omesse le indicazioni relative al grado di parentela.

Ciò era possibile in considerazione del fatto che la certificazione anagrafica non ha la funzione di attribuire pubblicità e certezza a fatti e relazioni giuridiche, ma solo quella di rispecchiare la composizione della famiglia anagrafica, anche in considerazione dell'esigenza di tutelare la riservatezza di persone legate ad altre da rapporti adottivi o di mero fatto.

La stessa circolare Miacel precisava inoltre che le amministrazioni penitenziarie avrebbero dovuto far ricorso alle dichiarazioni sostitutive relative al nucleo familiare, omettendo di richiedere ai familiari il certificato di "figliolanza".

Dopo vari tentativi di trovare un accordo con l'amministrazione del Ministero dell'Interno il D.A.P., emetteva una circolare (n. 544994 del 23. 2. 1998), nella quale invitava i direttori degli istituti penitenziari a richiedere, in assenza di documentazione utile, l'autocertificazione ai sensi dell'art. 2 della legge 15/1968, ed a fare controlli a campione sull'effettiva esistenza del vincolo di parentela. Tali controlli dovevano essere effettuati dopo l'ammissione ai colloqui, per non rendere vano l'effetto semplificativo della dichiarazione sostitutiva, fermo restando la rilevanza penale delle false attestazioni espressamente sancita dall'art. 26 della legge 15/1968. I controlli potevano essere preventivi solo nel caso in cui vi fosse un serio e motivato sospetto sulla veridicità delle dichiarazioni.

Rimanevano però dei dubbi circa l'applicabilità della legge 15/1968 riguardo ai detenuti sottoposti al regime di Alta Sicurezza o del regime di cui all'art. 41-bis dell'Ord. Penit., ritenendosi maggiormente giustificata la necessità di adottare la cautela raccomandata dalla Presidenza del Consiglio nei confronti di questi soggetti, definiti di maggiore pericolosità sociale. Si riteneva, infatti che in riferimento a questa tipologia di detenuti, fosse necessario richiedere agli stessi o ai familiari da ammettere ai colloqui l'esibizione di certificati riportanti l'esatta indicazione dei legami intercorrenti tra i componenti della famiglia anagrafica.

Nel gennaio del 1997 il Ministero dell'Interno (12) riconosceva la possibilità per l'interessato di richiedere il rilascio di un apposito certificato, detto "certificato integrale" o "certificato storico di famiglia", in cui venivano espressamente indicati i vincoli intercorrenti tra i componenti della famiglia. Tale possibilità era riconosciuta solo ove sussistessero particolari esigenze certificative, che nel caso dei detenuti ritenuti di elevata pericolosità sociale erano giustificate dall'esistenza di peculiari esigenze di sicurezza.

La disciplina tuttora vigente, in merito ai controlli sulle certificazioni e le autocertificazioni relative ai rapporti di parentela opera quindi una differenziazione tra i detenuti "comuni" e quelli riguardanti i detenuti "di alta sicurezza": per i primi viene applicata la modalità dei controlli a campione da effettuare successivamente all'ammissione al colloquio, ferma restando la previsione di controlli preventivi solo nelle ipotesi di serio e motivato sospetto sulla veridicità delle dichiarazioni; per i secondi, invece i controlli sulle dichiarazioni sostitutive devono essere effettuati in via preventiva ogni volta in cui se ne ravvisi l'opportunità, e solo per questi detenuti deve essere specificata la tipologia del vincolo di parentela.

Un'altra categoria di detenuti che pone notevoli problematiche riguardo alla legittimazione al rilascio delle dichiarazioni sostitutive è quella dei detenuti stranieri.

Nel passato l'amministrazione penitenziaria aveva più volte ribadito il divieto dell'applicabilità della L. 15/1968 nei confronti dei detenuti stranieri, precisando che tale divieto riguardava non solo i detenuti extracomunitari, ma anche gli stranieri appartenenti alla Comunità Europea. Ma questo orientamento venne presto superato, in seguito alle modifiche normative intervenute in materia di immigrazione e di diritto comunitario.

L'art. 6 del D.P.R. n. 130 del 25 gennaio 1994 prevedeva che nel caso in cui le dichiarazioni sostitutive di cui agli articoli 2, 3, 4 della legge 4 gennaio 1968 n. 15 fossero presentate da cittadini della Comunità europea, si dovevano applicare le stesse modalità previste per i cittadini italiani.

Tale articolo veniva poi sostituito dal Regolamento di attuazione degli articoli 1, 2 e 3 della legge n. 127 del 15 maggio 1997, in materia di semplificazioni delle certificazioni amministrative, che prevedeva all'art. 5, che nel caso in cui le dichiarazioni sostitutive fossero rese da cittadini appartenenti alla Comunità Europea si sarebbero applicate le stesse modalità previste per i cittadini italiani, limitatamente alle dichiarazioni di cui agli articoli 2 e 4 della legge 15/1968, escludendo i certificati previsti dall'art. 3, ovvero i certificati relativi a stati e fatti personali non soggetti a cambiamenti, e quindi con validità illimitata.

Al secondo comma poi, l'art. 5 prevedeva che anche i cittadini extracomunitari, residenti in Italia secondo le disposizioni del regolamento anagrafico della popolazione residente approvato con D.P.R. 30 maggio 1989 n. 223, potevano utilizzare le dichiarazioni sostitutive, limitatamente ai casi in cui si trattasse di "comprovare stati, fatti e qualità personali certificabili o attestabili da parte di soggetti pubblici o privati italiani". Data questa previsione, in ambito penitenziario era quanto mai difficile poter utilizzare dichiarazioni sostitutive relative ai legami di parentela, in quanto nella maggior parte dei casi essi derivavano da situazioni non comprovabili in Italia.

La legge 6 marzo 1998 n. 40, attualmente in vigore, concernente la disciplina sull'immigrazione e sulla condizione dello straniero, ai sensi dell'art. 2 riconosce allo straniero regolarmente soggiornante in Italia la parità di trattamento con il cittadino italiano relativamente alla tutela giurisdizionale di diritti e degli interessi legittimi, nei rapporti con la pubblica amministrazione e nell'accesso ai servizi. In seguito a questa normativa risulta difficile sostenere l'esistenza di validi motivi di ordine giuridico che possano negare allo straniero, quantomeno a quello appartenente alla Comunità europea ed a quello extracomunitario regolarmente soggiornante in Italia, la possibilità di produrre dichiarazioni ai sensi degli articoli 2 e 4 della legge 15/1968.

Per quanto riguarda il detenuto extracomunitario irregolare la situazione appare più delicata, ma la circolare D.A.P. n. 3478 del 1998 indica come utili criteri di riferimento in relazione a queste problematiche, innanzitutto il divieto di discriminazioni trattamentali imposto dall'art. 2 comma 2º dell'Ord. Penit., e in secondo luogo il fatto che la irregolarità dello straniero riguardo all'assenza di legittimazione all'ingresso o alla permanenza all'interno del territorio dello Stato italiano, viene in qualche modo sanata dall'obbligatorietà della permanenza fino alla emanazione di un legittimo titolo detentivo e poi per il periodo dell'esecuzione della pena.

Stante la regola che prevede la richiesta preventiva di accertamenti all'autorità diplomatiche o consolari del paese d'origine, sembra opportuno ritenere che nei casi in cui ricorrano ragioni di urgenza che non consentano di poter attendere la risposta di tali organismi, anche lo straniero irregolare potrà essere ammesso a rendere dichiarazioni sostitutive, "nei casi in cui detta formalità risultasse indispensabile per garantire al detenuto la concreta partecipazione a tutte le opportunità trattamentali su un piano di sostanziale parità con le altre persone ristrette". (13)

Un'altra categoria di detenuti cui merita fare accenno in questo ambito è quella dei collaboratori di giustizia, per i quali debbono essere applicate particolari procedure a causa delle esigenze di protezione esistenti sia per loro che per i loro familiari. La normativa non prevede particolari disposizioni nei confronti di questi detenuti, quindi si ritengono applicabili le stesse disposizioni valide per i detenuti comuni o dei detenuti di alta sicurezza, a secondo della classificazione a cui possono essere ricondotti, con l'accortezza di annotare i dati e gli atti relativi a questi soggetti e ai loro familiari su appositi registri. Se sussistono delle difficoltà nell'identificazione dei familiari, l'amministrazione penitenziaria è tenuta a rivolgersi al Servizio centrale di protezione, che è incaricato di provvedere all'attuazione e alla specificazione delle modalità esecutive del programma speciale di protezione, e quindi ad attuare le dovute verifiche nel rispetto di tale programma.

1.2.2. Modalità di svolgimento

L'art. 18 della legge penitenziaria non detta molte previsioni riguardo alle modalità di svolgimento dei colloqui. Solamente al comma 2º si prevede che i colloqui si svolgono in appositi locali, sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia. È quindi nel regolamento che si sostanzia nel dettaglio la disciplina relativa, e con l'applicazione del nuovo regolamento esecutivo D.P.R. n. 230 del 2000 sono state introdotte delle notevoli innovazioni.

L'art. 5 del regolamento del 1976 prevedeva al comma 5º che i colloqui dovessero svolgersi in locali comuni muniti da mezzi divisori ed era previsto che per speciali motivi, la direzione potesse concedere il permesso di incontrare i familiari in un locale distinto, ma sempre sotto il controllo visivo del personale di custodia.

Il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia ha costituito un'importante innovazione rispetto al regolamento del 1931, in cui il controllo non auditivo era riservato soltanto ai colloqui con i difensori, e ha permesso una maggiore coerenza con i principi costituzionali sanciti dall'art. 15 della Costituzione che prevedono la "garanzia alla segretezza".

Il controllo del personale di custodia deve infatti limitarsi ad una "discreta presenza" che non pregiudichi la riservatezza del colloquio e dei suoi contenuti, ma che sia capace di assicurare che tutti esercitino il loro diritto senza interferenze e disturbi (14) (art. 35 comma 3º vecchio Reg. Esec.; art. 37 comma 4º Nuovo Reg. Esec.).

L'art. 35 del vecchio regolamento esececutivo prevedeva inoltre, che, in assenza di particolari motivi di disciplina, ordine e sicurezza o sanità, gli incontri si potessero svolgere anche in spazi all'aperto, appositamente destinati, fermo restando il controllo visivo. L'art. 37 del nuovo regolamento esecutivo invece prevede come regola che i colloqui si svolgano in locali senza mezzi divisori o all'aperto, e solo se ricorrono particolari ragioni sanitarie o di sicurezza che si svolgano in locali interni, muniti di mezzi divisori (art. 37 comma 5º Nuovo Reg. Esec.).

Nonostante le difficoltà pratiche e i possibili ritardi con cui verranno attuate queste disposizioni, la norma è di notevole importanza perché incide direttamente sulle modalità di svolgimento dei colloqui, migliorandone la qualità. Le novità introdotte rappresentano il tentativo di venire incontro alle esigenze dei detenuti, ma anche a quelle dei familiari, la cui tutela passa necessariamente attraverso la tutela dei diritti dei detenuti.

I colloqui rappresentano sicuramente il momento centrale della relazioni familiari, essendo l'unico modo di contatto visivo, almeno fino a che il detenuto non può essere ammesso alle misure premiali, ma spesso questi rappresentano momenti di grave turbamento emotivo sia per il detenuto che per i familiari, anche a causa delle modalità e dello spazio in cui si svolgono.

Si pensi ai casi in cui i familiari siano anziani genitori, o peggio ancora figli minori, per i quali l'incontro con il familiare detenuto rappresenta già di per sé un evento fortemente traumatico, aggravato dalle anguste condizioni in cui si svolgono i colloqui, ovvero grandi saloni sovraffollati, divisi da un muretto divisorio che impedisce anche la visione completa della persona. La previsione delle cosiddette "aree verdi", presente anche nel vecchio regolamento, è destinata soprattutto agli incontri con i genitori anziani o con i figli minori, nel tentativo di creare uno spazio meno angusto che permetta di mettere un po' più a proprio agio i familiari in maggiore difficoltà.

In alcuni istituti italiani si è cercato, in via sperimentale, di prevedere delle modalità alternative con cui si potessero svolgere gli incontri con i figli, soprattutto se minori; negli istituti di Monza e di Prato, ad esempio, si è creata una ludoteca, dove i genitori possono giocare con i loro figli avendo a disposizione uno spazio attrezzato con giochi, libri e materiali didattici. È infatti di indubbia evidenza che si debba in ogni modo cercare di salvaguardare il rapporto bambino - genitore, anche e soprattutto nella prospettiva dei diritti del bambino. La possibilità di mantenere una buona relazione con il genitore detenuto è di fondamentale importanza per lo sviluppo fisio-psichico e sociale del bambino, per questo è necessario creare i presupposti per il recupero di questa relazione, spezzata dalla detenzione, anche nel rispetto dell'art. 9 della Convenzione ONU sui diritti del fanciullo.

Le indagini sociologiche (15) che hanno studiato questo tema, hanno messo in evidenza che i sentimenti di deprivazione crescente, di abbandono e di rifiuto, comuni a molti figli di detenuti, sono accentuati dalle pessime condizioni nelle quali vengono effettuati i colloqui in carcere, spesso concepite senza tenere in alcun conto la delicata sensibilità infantile.

È auspicabile quindi che le previsioni contenute nel nuovo regolamento esecutivo trovino al più presto attuazione.

1.2.3. Frequenza

La legge penitenziaria non stabilisce il numero di colloqui o di telefonate di cui può usufruire un detenuto, né contiene alcuna indicazione sulla frequenza con cui questi debbano essere fruiti, tali determinazioni trovano invece la loro disciplina nel regolamento esecutivo. Il regolamento esecutivo del 1976 prevedeva che i detenuti o gli internati, fossero ammessi ad un colloquio la settimana.

Il D.P.R n. 421 del 10 luglio 1985, introdusse delle importanti modifiche all'art. 35 Reg. Esec., innanzitutto cambiando la formulazione del comma 7º nel senso che i colloqui non dovessero essere uno alla settimana, ma quattro al mese, ed introducendo quindi l'opzione dello svolgimento di questi in unico giorno, o in giorni successivi, naturalmente in compatibilità con le esigenze organizzative dell'istituto. Si trattò di una innovazione molto significativa soprattutto per i detenuti ristretti in istituti lontani dal luogo di residenza della famiglia. Con la nuova formulazione del comma 7º dell'art. 35 Reg. Esec., infatti, veniva concessa ai familiari la possibilità di effettuare tutti i colloqui consentiti anche nel corso di un unico viaggio.

Inoltre il D.P.R. 421/1985 istituì con il nuovo comma 8º, la possibilità che il direttore dell'istituto concedesse agli imputati, che avevano tenuto regolare condotta, e ai detenuti e gli internati, che oltre ad aver tenuto regolare condotta, avessero collaborato attivamente all'osservazione scientifica della personalità ed al trattamento rieducativo, la fruizione di due ulteriori colloqui mensili, e di due telefonate.

La fruizione di questi colloqui e telefonate, cosiddetti "premiali", oltre i limiti posti dall'art. 35 Reg. Esec. doveva essere subordinata alla rispondenza dei requisiti indicati dalla norma, ovvero alla "regolare condotta" (requisito sufficiente per gli imputati), e alla partecipazione attiva all'osservazione scientifica della personalità e al trattamento.

La circolare D.A.P. 3136/5586 del 24 ottobre 1985, emanata al fine di specificare i contenuti del D.P.R. 421/1985, richiamando ad una verifica sostanziale delle condizioni richieste per l'applicazione dell'estensione introdotta dalla nuova norma, indicò in modo preciso e dettagliato i comportamenti sostanziali che avrebbero dovuto essere ricondotti all'espressione "regolare condotta" o "partecipazione attiva al trattamento". Affinché potesse dirsi esaustivamente realizzata la prima condizione, la circolare citata precisava che i detenuti o gli internati dovessero ispirare con continuità il proprio comportamento a criteri di legalità e di civiltà, nel senso che avrebbero dovuto dimostrarsi osservanti delle norme di legge e regolamentari, ed anche delle disposizioni amministrative poste nei loro confronti; e dimostrare rispetto e correttezza nei confronti degli altri detenuti o internati, degli operatori penitenziari, e di tutte le altre persone con cui sarebbero venuti in contatto, nonché nei riguardi del tranquillo ed ordinato svolgimento della vita dell'istituto.

Per quanto riguarda la collaborazione attiva all'osservazione e al trattamento, il direttore dell'istituto poteva verificare questo presupposto attraverso l'attività del relativo gruppo di osservazione e trattamento. Si riconosceva la possibilità che talvolta difficoltà di carattere pratico potessero dilungare eccessivamente i tempi dell'osservazione o impedire il concreto realizzarsi di quanto stabilito dal gruppo di osservazione e trattamento riguardo al programma individualizzato di trattamento. In questi casi, ricorrendo ad una interpretazione estensiva, il presupposto si poteva considerare soddisfatto se il detenuto o l'internato avesse manifestato inequivocabilmente la volontà, la determinazione e l'impegno a reinserirsi nella società civile.

La specificazione dettagliata dei presupposti a cui i detenuti o gli internati dovevano corrispondere con i loro comportamenti per poter essere ammessi ai due colloqui supplementari, indica in modo chiaro ed esplicito come l'intenzione del legislatore fosse proprio quella di inserire queste concessioni tra le misure premiali, riservate solamente ai soggetti meritevoli, sperando di "indurre anche gli altri detenuti ed internati a tenere un comportamento migliore". (16)

Era inoltre previsto che si potessero concedere ulteriori colloqui, o che venisse aumentata la durata degli stessi, in deroga ai limiti stabiliti, in caso di grave infermità del detenuto o internato, o se ricorressero eccezionali circostanze. Tali eccezionali circostanze, secondo le indicazioni fornite dal direttore del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria nella circolare D.A.P. n. 3478 del 1998, erano da ravvisare non solo in eventi specifici di rilevante significato che riguardassero il detenuto o i suoi familiari, ma anche in situazioni critiche e difficili, non riconducibili ad un singolo evento, ma prolungate nel tempo, per le quali il ricorso ai colloqui straordinari poteva rappresentare un importante mezzo di superamento e di alleggerimento.

Il nuovo regolamento ha completamente modificato tutto l'assetto relativo al numero e alla fruibilità dei colloqui, ponendo a questo riguardo non pochi problemi applicativi.

È innanzitutto da notare, come osservato in precedenza che il nuovo regolamento apporta una prima e sostanziale modifica, eliminando la previsione dei due colloqui "premiali" e portando il limite massimo a sei colloqui al mese, tutti ordinari, cioè svincolati per la loro concessione da ogni valutazione discrezionale sulla condotta e la partecipazione al trattamento.

La concessione di ulteriori colloqui per gravi infermità del detenuto o particolari circostanze, viene mantenuta ed ampliata, prevedendo la possibilità che la deroga al limite ordinario sia possibile anche in relazione a circostanze familiari e personali rilevanti, o quando il colloquio si svolge con prole inferiore a dieci anni (art. 37 comma 9º Nuovo Reg. Esec.).

Tra le modifiche migliorative deve essere posta in risalto anche la possibilità del prolungamento della durata del colloquio da una a due ore, nei casi in cui questo si svolga con familiari e conviventi residenti in un comune diverso da quello in cui ha sede l'istituto. Il prolungamento non può essere ammesso se il detenuto ha usufruito del colloquio nella settimana precedente, e comunque se risulta incompatibile con le esigenze organizzative dell'istituto (art. 37 comma 10º Nuovo Reg. Esec.).

La modifica che desta più perplessità risulta essere l'introduzione da parte del nuovo regolamento di una differenziazione di regime tra detenuti "comuni" e detenuti per i reati previsti dall'art. 4-bis della legge penitenziaria, prevedendo che i primi possano usufruire di sei colloqui al mese, mentre per i secondi il numero dei colloqui non può essere superiore a quattro.

Secondo il comma 8º dell'art. 37 del nuovo regolamento esecutivo "quando si tratta di detenuti o internati per uno dei delitti previsti dal primo periodo del primo comma dell'art 4-bis della legge e per i quali si applichi il divieto di benefici ivi previsto, il numero dei colloqui non può essere superiore a quattro al mese".

I dubbi di legittimità della norma sono stati presto sollevati dai detenuti per i reati previsti dall'art. 4-bis della legge penitenziaria, che hanno presentato numerosi reclami alla magistratura di sorveglianza contro le limitazioni ai colloqui e alla corrispondenza telefonica introdotte nei loro confronti dall'art. 37 comma 8º e dall'art. 39, comma 2º del nuovo regolamento esecutivo.

Il magistrato di sorveglianza di Firenze, dott. Margara, ha risposto con decreto n. 1274/00 del 2 novembre 2000 dichiarando l'illegittimità delle disposizioni sottoposte a reclamo, e la loro conseguente inapplicabilità nei confronti del reclamante.

Come primo argomento a sostegno dell'illegittimità sostenuta dal magistrato di sorveglianza di Firenze al riguardo dell'art. 37, comma 8º e dell'art. 39, comma 2º, viene notato come il nuovo regolamento introduce una disparità di trattamento che non trova alcuna giustificazione nella legge, comportando un notevole peggioramento della disciplina precedente per i detenuti condannati per i reati di cui all'art. 4-bis. Questi detenuti usufruivano secondo il vecchio regolamento (così come modificato dal D.P.R. 421/1985 che aveva appunto introdotto gli interventi premiali) di due colloqui premiali oltre ai quattro colloqui ordinari, come tutti gli altri detenuti. In seguito all'approvazione del nuovo regolamento si è tornati al regime precedente il D.P.R. 421/1985.

Il regime restrittivo che ne deriva, risulta essere, secondo il magistrato fiorentino, in totale contrasto con le finalità del nuovo regolamento, così come espresse nella relazione di accompagnamento. In questa, infatti si parla esplicitamente di voler apportare delle modifiche migliorative al regime penitenziario, anche in linea con le indicazioni internazionali; (17) mentre con queste norme si determina una forte restrizione per una fascia considerevole di detenuti, in una materia delicata come quella dei rapporti con la famiglia. La gravità del peggioramento risulta ancor più marcata dal miglioramento effettivo del regime ordinario per tutti gli altri detenuti, introducendo una disparità di trattamento che non trova alcun riscontro nella legge.

Il comma 2 dell'art. 1, l'art. 3 e l'art. 4 dell'ordinamento penitenziario, ribadiscono che l'individualizzazione, in cui deve caratterizzarsi il trattamento riguarda le modalità con cui questo si svolge, ma vi sono dei riconoscimenti di base su cui non può intervenire alcuna differenziazione; (18) e tra questi vi sono senza dubbio anche quelli in materia di colloqui e corrispondenza telefonica con i familiari.

L'agevolazione dei rapporti con la famiglia è uno degli elementi del trattamento (art. 15 Ord. Penit.), e come tale, costitutivo di un diritto in capo ai detenuti, diritto al trattamento e ai suoi elementi, che deve essere uguale per tutti. La legge penitenziaria non stabilisce alcuna indicazione in ordine al numero dei colloqui e delle telefonate, e pur essendo il regolamento la fonte di specificazione della disciplina introdotta dalla legge, non può prescindere dall'osservazione del principio di uguaglianza del regime giuridico di base, valido per tutti i detenuti.

L'ordinamento penitenziario prevede all'art. 14 una distribuzione diversificata dei detenuti e di gruppi degli stessi negli istituti e nelle sezioni, accennando anche a "caratteristiche differenziate in relazione alla posizione giuridica...", o "....alle necessità di trattamento individuale o di gruppo..." (art. 64 Ord. Penit), ma sempre nell'ambito dell'individualizzazione del trattamento o come articolazione delle attività penitenziarie.

Le altre eccezioni previste dall'ordinamento penitenziario in ordine al particolare regime cui possono essere sottoposti i detenuti nei casi previsti dall'art. 14-bis, istitutivo del regime di sorveglianza particolare e l'art. 41-bis, che prevede la sospensione delle normali regole di trattamento in casi eccezionali di rivolta o di altre grave situazioni di emergenza, introducono anch'esse delle differenziazioni di trattamento, ma sono dettate sempre da particolari circostanze, e sono applicabili solo in relazione ad un periodo determinato. Inoltre si noti che queste differenziazioni sono comunque introdotte da una norma di legge, e non da una norma regolamentare, e quindi di rango inferiore.

Riguardo all'art. 41-bis, si ricordi poi l'abbondante giurisprudenza della Corte Costituzionale (in particolare Sentenza n. 349 del 28 luglio 1993; Sentenza n. 410 del 23 novembre 1993; Sentenza n. 376 del 5 dicembre 1996), che ha delimitato l'ambito applicativo di questa norma, stabilendo che i provvedimenti ministeriali adottati devono sempre recare una puntuale motivazione per ciascuno dei detenuti a cui sono rivolti, e che non possono essere disposti trattamenti contrari al senso di umanità, e gli stessi devono rispettare i limiti nel rispetto dei diritti delle persone sottoposte a regime differenziato.

Se noi osserviamo le restrizioni operate con i provvedimenti amministrativi nei casi sopra considerati, troviamo in prima linea colloqui e telefonate. L'art. 14-quater indica infatti tra le materie per le quali non vi può essere restrizione, quella dei colloqui con i familiari più prossimi, secondo la lettera della legge: il coniuge, il convivente, i figli, i genitori e i fratelli.

La materia dei rapporti con la famiglia è una di quelle sfere riguardanti i diritti fondamentali delle persone detenute, in cui non possono farsi restrizioni, se non quando la legge autorizza gli interventi stessi, determinandone le condizioni. (19)

Quindi le previsioni introdotte dal nuovo regolamento, sempre secondo il magistrato fiorentino, non saranno accettabili per due ordini di motivi: in primo luogo perché introdotte con norma regolamentare, anziché con legge; e in secondo luogo, perché non vi è una situazione specifica, come nei casi stabiliti per legge, ma un'applicazione indifferenziata a soggetti detenuti per particolari reati; in terzo luogo perché non vi è alcuna limitazione nel tempo dell'applicazione; e quarto, perché operando abusivamente la differenziazione restrittiva sul piano generale, manca ovviamente un provvedimento specifico, come nei casi previsti dalla legge, per l'applicazione ad una determinata e definita situazione.

Le considerazioni che precedono confermano quindi la regola generale che deve essere rispettato il principio di eguaglianza del regime giuridico disposto nei confronti dei detenuti; questa regola ha delle eccezioni, ma per essere legittime queste devono essere:

  • previste per legge;
  • applicate in presenza di precise condizioni stabilite dalla legge;
  • stabilite con uno specifico provvedimento emesso nei confronti di singoli soggetti o, nel caso in cui ricorrano eccezionali situazioni di emergenza o di sicurezza dei singoli istituti, come previsto dall'art. 41-bis Ord. Penit.

Date queste considerazioni le disposizioni in esame sono da ritenere illegittime, in quanto ci pongono di fronte alla violazione del diritto dei detenuti di usufruire di tutti gli elementi del trattamento, compreso quello particolarmente significativo dei rapporti familiari, violazione consumata attraverso un atto della autorità amministrativa, rappresentato dal nuovo regolamento esecutivo.

In presenza di tali situazioni, si applica il disposto dell'art. 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato E: "... le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi".

Le disposizioni indicate dal nuovo regolamento, non sono conformi alla legge e quindi non devono essere applicate nei confronti dei reclamanti, ai quali deve invece essere applicato il regime ordinario. In seguito all'emissione del decreto del magistrato di sorveglianza di Firenze, il Direttore dell'Ufficio Detenuti e Trattamento del D.A.P. ha espresso una nota in merito, pubblicata sulla rivista del dipartimento dell'amministrazione penitenziaria "Rassegna Penitenziaria e Criminologica" dell'anno 2000, sottolineando il diverso indirizzo raccomandato dalla circolare n. 3353/5983 del 3 novembre 2000, espressa dallo stesso D.A.P., in precisazione degli articoli 37 e 39 del D.P.R. n. 230 del 2000.

Mediante tale circolare vengono fornite indicazioni operative circa l'applicazione transitoria della nuova normativa; in particolare, detta circolare sottolinea la necessità di non modificare in peggio il regime dei colloqui, eventualmente goduto dai detenuti sino all'entrata in vigore del nuovo regolamento esecutivo, avvenuta il 6 settembre dell'anno 2000, disponendo che chi avesse goduto a quella data dei benefici premiali avrebbe potuto mantenere i sei colloqui personali ed i quattro telefonici al mese. Per quanto riguarda tutti gli altri detenuti, ovvero per coloro che alla data del 6 settembre 2000 non beneficiavano dei due colloqui premiali, e per coloro che non erano ancora detenuti la disposizione non risulta lesiva di alcun diritto acquisito. L'amministrazione penitenziaria, infatti, pur riconoscendo la natura giuridica del colloquio, e la necessità che questo venga rispettato, nel silenzio della legge, ha sempre sostenuto che l'esercizio del diritto è comunque garantito dall'effettuazione di almeno un colloquio al mese; per cui, la disciplina dettata dal nuovo regolamento d'esecuzione non sembra assolutamente illegittima.

Riguardo alla violazione da parte del nuovo regolamento del principio di uguaglianza nel trattamento sancito dalla legge, sostenuta dal magistrato fiorentino, l'ufficio studi del D.A.P. ribadisce che se è pur vero che la legge penitenziaria prevede l'uguaglianza di regime giuridico rispetto a tutti i detenuti, si può comunque obiettare che la stessa legge stabilisce che il trattamento debba essere individualizzato, e quindi differenziato a seconda dei soggetti. Nonostante che il Magistrato di sorveglianza di Firenze abbia giustamente osservato che è necessario operare una distinzione tra l'applicazione del principio di individualizzazione del trattamento e la conseguente distribuzione dei detenuti nelle diverse sezioni, e l'uguaglianza del regime giuridico rispetto a tutti, l'ufficio studi del D.A.P. ha comunque sostenuto due argomentazioni contrarie, capaci di smontare l'interpretazione fornita dal magistrato di Firenze.

La prima riconosce l'esistenza nell'attuale sistema penitenziario di un principio generale di diversificazione in concreto del regime detentivo, diversa da quella ammessa eccezionalmente dalla legge agli articoli 14-bis e 41-bis. L'art. 4-bis offre una chiave interpretativa diretta all'individuazione di un regime di sfavore per coloro che sono detenuti per i reati ivi previsti, quando sussistano le condizioni indicate dalla legge, e precisate successivamente dalla Corte Costituzionale con molte decisioni sui limiti dell'applicabilità del divieto dei benefici dell'art. 4-bis Ord. Penit.

Il disposto dei nuovi articoli 37 comma 8º e 39 comma 2º del regolamento d'esecuzione, può essere letto come specificazione, di livello regolamentare, di una volontà legislativa di restringere, per determinati soggetti, la possibilità di tenere contatti con le organizzazioni criminali di appartenenza.

Non è necessario che sia la legge a prevedere un numero limitato di colloqui, dal momento che la stessa legge non prevede alcuna determinazione di tale numero, rimettendosi alle determinazioni regolamentari.

Il potere di diversificare del regolatore trova la propria legittimazione nell'esigenza di costruire anche nella fase trattamentale ordinaria, cioè non riguardante la sfera dei benefici, un regime differenziato, giustificato da esigenze di sicurezza pubblica, espressamente previsto dalla legge per l'accesso ai benefici finalizzati all'uscita del detenuto all'esterno del carcere.

La seconda osservazione riguarda il principio di individualizzazione del trattamento. Questo impone di verificare sul campo il percorso trattamentale di ciascun soggetto, a prescindere dal tipo di reato commesso; la scelta di collaborare con la giustizia o comunque di recidere i collegamenti con la criminalità organizzata rende possibile la completa disapplicazione delle limitazioni introdotte dall'art. 4-bis Ord. Penit., e dagli articoli 37 e 39 del Nuovo Reg. Esec. In assenza di tale percorso trattamentale una differenziazione del regime detentivo non rimane priva di logica e di giustificazione giuridica. L'amministrazione penitenziaria ammette la necessità che venga attuato al più presto un intervento di modificazione dell'art. 41-bis, che ratifichi a livello legislativo le limitazioni dei regimi trattamentali, per altro già ipotizzato dal Piano di Azione Giustizia del Ministro Fassino. Fino a che tale modifica non sarà attuata, le determinazioni del magistrato hanno piena validità, anche se l'amministrazione invita quest'ultimo a tener conto della circolare esplicativa degli articoli in esame.

1.2.4. Autorità competenti

La fruizione dei colloqui è sempre subordinata all'emissione di specifici provvedimenti autorizzatori da parte delle autorità competenti, così come individuate dall'art. 18 comma 8º dell'ordinamento penitenziario.

La norma prevede che per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, competente al rilascio del permesso di colloquio sia l'autorità giudiziaria procedente, ai sensi dell'art. 11 comma 2º dell'Ord. Penit., che stabilisce tale competenze riguardo ai provvedimenti autorizzatori di cure sanitarie o accertamenti diagnostici; mentre per gli imputati appellanti o ricorrenti per cassazione, per i condannati e gli internati, competente è il direttore dell'istituto.

L'attribuzione all'autorità amministrativa della competenza al rilascio dei permessi di colloquio per gli imputati condannati in primo grado, con la conseguente sottrazione di tale compito alla magistratura di sorveglianza è stata introdotta con la legge 663/1986. La scelta legislativa, è stata accolta negativamente da quella parte della dottrina che ne ha rilevato la contraddittorietà rispetto alla tendenza perseguita dalla stessa legge Gozzini ad aumentare i poteri dell'organo giurisdizionale. (20) Altri, con argomentazioni contrarie, hanno sostenuto che la modifica era coerente con la constatazione che nei giudizi di appello e di cassazione si assiste ad un'attenuazione delle cautele processuali, tali che il permesso di colloquio assume il carattere di puro atto amministrativo, e per questo giustamente attribuito al rappresentante dell'amministrazione. (21)

L'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale ha comportato una profonda ristrutturazione degli organi giudiziari, con la conseguente diversa distribuzione delle competenze nelle varie fasi del processo. Questo ha fatto emergere il problema dell'individuazione delle autorità competenti al rilascio dei permessi di colloquio prima della pronuncia della sentenza di primo grado, non essendo più applicabile quanto stabilito dall'art. 11 comma 2º, che attribuiva la competenza al giudice istruttore durante l'istruttoria formale; al pubblico ministero durante l'istruttoria sommaria; e al pretore nei procedimenti di sua competenza. L'art. 240 comma 1º delle disposizioni di coordinamento del codice di procedura penale ha operato un adeguamento esplicito solo riguardo ai provvedimenti di autorizzazione per cure sanitarie, attribuendo la competenza ad emanare il provvedimento di ricovero in luogo esterno di cura al giudice per le indagini preliminari.

Secondo la dottrina maggioritaria (Presutti, Fassone, Della Casa, Canepa, Merlo, e le circolari ministeriali n. 3273/5723 del 12 ottobre 1989 e n. 3278/5728 del 9 novembre 1989) la competenza specificata dall'art. 240 delle disposizioni di coordinamento del codice di procedura penale deve considerarsi estesa anche alla concessione dei permessi di colloquio. (22)

Di diverso avviso una parte della giurisprudenza di merito (Giudice per le indagini preliminari del tribunale di Firenze con provvedimento del 13 aprile 1993, confermato dal Giudice per le indagini preliminari del tribunale di Catanzaro con provvedimento del 21 giugno 1993) che ha invece ritenuto competente il pubblico ministero, in quanto "dominus ed unico titolare delle indagini preliminari", invece che il giudice per le indagini preliminari, le cui funzioni di intervento e di controllo sono "previste espressamente, anche in tema di colloqui, "sebbene con il difensore e non con i familiari, dall'art. 104 del codice di procedura penale. (23)

L'individuazione dell'autorità competente diventa ancor più problematica quando l'interessato si trova ad avere una posizione giuridica complessa, cioè è soggetto a più procedimenti, ognuno ad un diverso grado di giudizio. Secondo l'orientamento maggioritario deve sempre essere data la prevalenza alla posizione di imputato, dovendosi tutelare sempre le esigenze del processo penale, in tal senso la Magistratura di Sorveglianza di Roma, pronuncia del 29 novembre 1977, secondo cui "qualora l'interessato sia detenuto in espiazione di pena e si trovi inoltre in stato di arresto quale imputato in più procedimenti pendenti in fasi diverse, competente in via esclusiva è l'autorità giudiziaria procedente nella fase processuale più arretrata". Un'opinione minoritaria sostenuta da Di Gennaro, Bonomo e Breda, ritiene che sia necessario che si esprimano tutti gli organi competenti.

1.2.5. Reclamabilità

È vivo in dottrina il dibattito relativo all'incertezza dell'inquadramento della posizione giuridica del detenuto e dell'internato rispetto ai colloqui.

L'orientamento maggioritario, ritiene che il detenuto sia titolare riguardo ai colloqui di un diritto soggettivo degradato ad interesse legittimo, dato che sia la legge che il regolamento di esecuzione non utilizzano mai in questo ambito il termine "diritto", e data la subordinazione dell'esercizio del medesimo al provvedimento di autorizzazione. (24)

Di diversa opinione è invece chi riconosce l'esistenza in capo al detenuto o all'internato di un vero e proprio diritto soggettivo ai colloqui, sia perché tale interpretazione dà maggior tutela ai diritti di libertà individuale, sia perché proprio per i colloqui con i congiunti e i familiari, l'autorizzazione è un provvedimento amministrativo che deve essere adottato dall'autorità competente una volta che sia stato documentato il rapporto di parentela. (25)

La tesi prevalente, che trova riscontri anche in una parte della giurisprudenza, ritiene che i permessi di colloquio siano "provvedimenti di natura amministrativa che attengono alla regolamentazione della vita di relazione all'interno degli stabilimenti carcerari nonché talvolta anche alla tutela del segreto concernente indagini in corso". (26) Inoltre, poiché né il codice di rito, né la legge penitenziaria, né il regolamento prevedono alcun mezzo di gravame in relazione al diniego del permesso di colloquio, in considerazione del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione sancito dall'art. 568 del codice di procedura penale, questo orientamento dottrinale ne ha sostenuto l'inoppugnabilità. La Suprema Corte ha inoltre aggiunto che, data la natura amministrativa di questi provvedimenti che non incidono sulla libertà personale, è da escludersi anche l'operatività del ricorso in Cassazione previsto dall'art. 111 comma 7º della Costituzione. (27)

Considerando proprio la natura amministrativa del permesso di colloquio, altri hanno tuttavia sostenuto l'utilizzo dello strumento del reclamo, previsto in via generale dall'art. 35 dell'ordinamento penitenziario. Tale articolo prevede che i detenuti e gli internati possano rivolgere istanze e reclami, sia scritti che orali al direttore dell'istituto, al magistrato di sorveglianza, alle autorità giudiziarie o sanitarie in visita all'istituto, al presidente della giunta regionale, e infine anche al Capo dello Stato. Ma questo strumento non è comunque idoneo ad assicurare una tutela pienamente efficace dal momento che nessuno degli organi a cui può essere rivolto ha il potere di imporre il rilascio di un provvedimento esecutivo. Tale articolo è infatti stato oggetto di una pronuncia di illegittimità incostituzionale proprio nella parte in cui non prevede una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell'amministrazione penitenziaria lesivi dei diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale. (28)

I sostenitori della tesi dell'affievolimento del diritto soggettivo in interesse legittimo hanno infine sostenuto la ricorribilità alla giurisdizione amministrativa per violazione di legge o per eccesso di potere; ma neanche questa soluzione comporta una tutela soddisfacente, in quanto, una volta annullato il provvedimento di diniego illegittimo, la fruizione del colloquio rimarrebbe comunque subordinata alla disponibilità ad ottemperare dell'amministrazione. (29)

2.2. La corrispondenza telefonica

L'ordinamento penitenziario stabilisce al comma 5º dell'art. 18 che "può essere autorizzata nei rapporti con la famiglia, e in casi particolari con terzi, corrispondenza telefonica", rimandando al regolamento d'esecuzione la definizione delle relative modalità.

L'utilizzabilità del telefono da parte dei detenuti e degli internati, anche se prevista come mezzo surrogatorio rispetto ai colloqui, costituisce un'assoluta novità della legge penitenziaria del 1975. Il progresso tecnologico ha ormai reso il telefono uno strumento di uso quotidiano, ed oggi, ancor di più, in considerazione della crescente diffusione della rete telefonica, la comunicazione telefonica rappresenta uno strumento di fondamentale importanza per il mantenimento dei rapporti con la famiglia. La realtà delle nostre carceri che assiste alla continua crescita del numero di detenuti ed internati stranieri, ci dimostra come in molti casi la corrispondenza telefonica costituisca l'unica modalità di contatto con i familiari, spesso residenti all'estero. Il nuovo regolamento d'esecuzione ha recepito questo cambiamento, prevedendo l'uso del telefono come strumento ordinario, eliminando la subordinazione alla mancata fruizione dei colloqui visivi e aumentando la durata delle comunicazioni da sei a dieci minuti.

Analizzando la disciplina della corrispondenza telefonica occorre innanzitutto distinguere le telefonate provenienti dall'esterno da quelle fatte dall'interno degli istituti penitenziari. Per quanto riguarda le telefonate provenienti dall'esterno, la corrispondenza diretta è esclusa, stante le difficoltà di operare controlli, ma è previsto che all'interessato venga data comunicazione del nominativo dichiarato dalla persona che ha chiamato (art. 37 comma 12º del vecchio Reg. Esec.), a meno che "non ostino particolari motivi di cautela" (art. 39 comma 10º Nuovo Reg. Esec.). L'unica eccezione che permette l'inoltro delle telefonate provenienti dall'esterno è costituita dalle telefonate provenienti da un familiare ristretto in un altro istituto; ma solo nel caso in cui entrambi siano stati autorizzati (art. 39 comma 10º Nuovo Reg. Esec.).

Le telefonate verso l'esterno sono invece ammesse in via ordinaria, se dirette a congiunti e conviventi. Il vecchio regolamento d'esecuzione prevedeva che le telefonate venissero concesse una volta ogni quindici giorni, soltanto se i detenuti non avessero usufruito dei colloqui (art. 37 comma 2º vecchio Reg. Esec.). Il nuovo regolamento apporta una notevole apertura su questo punto, prevedendo invece che le telefonate possano essere concesse indipendentemente dalle fruizione del colloquio, e ne aumenta anche la frequenza, passando alla concessione una volta a settimana (art. 39 comma 2º Nuovo Reg. Esec.) o, nel caso di detenuti per i reati di cui all'art. 4-bis, per i quali si applichi il divieto di benefici, una volta ogni quindici giorni. Nel proseguo del 2º comma, l'art. 39 disciplina un aspetto molto importante nelle relazioni familiari, dando ampio riconoscimento ai valori affettivi e ai legami fra il soggetto e le persone che gli sono care dimostrando un'attenzione mirata alle consuete apprensioni familiari; la norma amplia il dettato dell'art. 29 Ord. Penit. che regola le comunicazioni ai familiari in caso di arresto, trasferimento, malattia o decesso, concedendo la possibilità di effettuare una chiamata verso i familiari o conviventi, al momento del rientro in istituto da un permesso o da una licenza.

Possono venire concesse, in via eccezionale, autorizzazioni a telefonate a persone diverse dai congiunti o conviventi, qualora ricorrano "ragionevoli e verificati" motivi (art. 39 comma 2º Nuovo Reg. Esec.); ma tale autorizzazione resterà efficace solo fino a quando continueranno a sussistere i motivi indicati (art. 39 comma 5º Nuovo Reg. Esec.).

Il 3º comma dell'art. 39 prevede inoltre la possibile deroga alle modalità e ai limiti previsti dai commi precedenti se ricorrano "particolari motivi d'urgenza o di particolare rilevanza, se la comunicazione si svolge con prole inferiore a dieci anni, nonché in caso di trasferimento del detenuto. "La norma pone dei dubbi interpretativi, che vengono affrontati anche nella circolare D.A.P. del 3 novembre 2000, esplicativa dei nuovi articoli 37 e 39 introdotti con D.P.R. 230/2000. Al paragrafo 18, tale circolare ammette che il 3º comma dell'art. 39 può condurre a due ipotesi interpretative. Secondo un'interpretazione letterale, che tenga conto della punteggiatura e dell'uso della congiunzione disgiuntiva "nonché", i casi di deroga al limite posto dal comma 2º dovrebbero ricondursi a due: i motivi di urgenza o di particolare rilevanza legati al discorrere con prole inferiore a dieci anni, e il caso di trasferimento del detenuto. Tuttavia, per ragioni di interpretazione sistematica, parrebbe più opportuno protendere nel senso di individuare tre categorie di deroga al limite, e cioè: motivi di urgenza e di particolare rilevanza; rapporti con figli di età inferiore a dieci anni; trasferimento del detenuto. (30) Il riferimento alla prole richiama infatti la previsione dell'art. 37 comma 9º, che ammette la deroga al numero dei colloqui nel caso che questi si svolgano con figli di età inferiore a dieci anni. Di questo orientamento anche la relazione di accompagnamento al D.P.R. n. 230 del 2000 che ribadisce che oltre alle previsioni sulla durata e la frequenza dei colloqui visivi, "anche per la corrispondenza telefonica si prevede la possibilità che essa venga concessa oltre i normali limiti, quando si svolge con figli di età inferiore agli anni dieci".

La concessione in deroga ai limiti previsti rientra però in una valutazione discrezionale dell'amministrazione che "può concederla", ma non è obbligata a farlo. Il presupposto di legge impone una valutazione della richiesta da parte dell'amministrazione, ma non la concessione della corrispondenza telefonica. È invece obbligo dell'amministrazione rispondere alla richiesta con decisione motivata anche in caso di diniego (art. 39 comma 5º Nuovo Reg. Esec.).

Il detenuto o l'internato che intenda usufruire della corrispondenza telefonica deve fare un'istanza scritta all'autorità competente al rilascio dell'autorizzazione, indicando "il numero telefonico richiesto e le persone con le quali intende corrispondere" (art. 39 comma 5º Nuovo Reg. Esec.). Per la verifica della rispondenza di tali dati si applicano le stesse regole relative alle verifiche per l'ingresso ai colloqui.

Una nota a parte merita la situazione dei detenuti stranieri, per la maggior parte dei quali la corrispondenza telefonica rappresenta l'unica modalità di contatto con la famiglia, in quanto per motivi prevalentemente di lontananza non hanno la possibilità di effettuare colloqui visivi. Ma proprio per questi detenuti l'accesso all'uso della corrispondenza telefonica diventa quanto mai problematico, essendo necessario l'accertamento dei vincoli di parentela e la rispondenza del numero telefonico al nominativo, che deve essere fornito dalle autorità consolari, procedimento che spesso comporta lunghissimi tempi di attesa. La circolare n. 3478/5928 del 1998, prevedeva che si potessero adottare le modalità autocertificative e di controllo successivo previste per l'effettuazione dei colloqui visivi, (31) ma nella pratica questa indicazione non è stata molto applicata. I detenuti attendono talvolta molti mesi prima di poter effettuare telefonate, a causa dei lunghi tempi di risposta delle autorità consolari, ma difficilmente viene concesso di usufruire della corrispondenza telefonica sulla base dell'autocertificazione.

Una volta autorizzata la comunicazione avviene secondo delle precise modalità che rispettano le cautele raccomandate dal legislatore. Innanzitutto il contatto telefonico deve essere stabilito dal personale penitenziario, indi verificare che sia veramente diretto al numero autorizzato.

L'art. 37 comma 8º del vecchio regolamento, nella sua originaria stesura stabiliva che la conversazione telefonica dovesse essere interamente ascoltata e registrata a mezzo di idonee apparecchiature. La circolare D.A.P. n. 3136/5586 del 24 ottobre 1985, specificava inoltre che nel caso in cui l'operatore predisposto all'ascolto avesse avvertito un qualsiasi sospetto o indizio di un riferimento "ad attività o progetti illeciti, o tali da incidere sull'ordine, la tranquillità o la sicurezza degli istituti", avrebbe dovuto immediatamente intervenire, impedendo la prosecuzione della telefonata e informando subito l'autorità giudiziaria. Ma ascoltare per operare un controllo presuppone la possibilità di capire, facoltà non certo scontata quando si tratti di conversazioni in lingua straniera. È infatti evidente che in tali casi si rendeva necessaria la traduzione della conversazione. La circolare proseguiva poi dettagliando le modalità di esecuzione nei casi in cui fosse necessaria la traduzione della conversazione; se nell'istituto vi era un operatore in grado di capire una data lingua straniera, e operare quindi una traduzione simultanea della conversazione, le telefonate venivano trattate come quelle in italiano, affidando a tale operatore l'incarico di stabilire il contatto e di ascoltare le comunicazione nella lingua di sua padronanza. Se invece nessun operatore dell'istituto conosceva sufficientemente bene la lingua in cui doveva svolgersi la comunicazione, allora era necessario distinguere tra le autorizzazioni concesse o da concedere dalle autorità giudiziarie (ai sensi dell'art. 18 comma 8º in relazione all'art. 11 comma 2º dell'Ord. Penit.) e quelle concesse o da concedere dal direttore dell'istituto, ai sensi del comma 1º dell'art. 37 del regolamento esecutivo del 1976. Nel primo caso si prevedeva che il direttore dovesse comunicare a tutti i magistrati competenti la impossibilità di ascoltare e comprendere in simultanea la conversazione, ma se il magistrato, consapevole della mancanza dell'interprete avesse ciononostante autorizzato la corrispondenza, il direttore dell'istituto avrebbe comunque dovuto attivare il contatto telefonico, disponendone la registrazione. Nel caso di detenuti o internati in cui competente al rilascio fosse invece il direttore stesso, secondo la circolare citata, l'autorizzazione non avrebbe dovuto essere rilasciata, in quanto la registrazione, e quindi il controllo non simultaneo non permetteva la possibilità di interventi immediati o comunque tempestivi, rispetto agli eventuali contenuti illeciti. Il direttore era comunque tenuto ad informare della mancata concessione la Direzione generale dell'amministrazione penitenziaria, che si trovava costretta a verificare la possibilità di reperire un interprete in grado di consentire la comunicazione. La forte discriminazione nei confronti dei detenuti stranieri, che a causa di una carenza interna all'istituto, venivano privati dell'unica possibilità di contatto con i propri familiari veniva giustificata dalla circolare citata con la motivazione che l'art. 18 della legge penitenziaria non stabilisce alcun diritto alla corrispondenza telefonica, a differenza dei colloqui e della corrispondenza epistolare, prevedendo che questa possa venir ammessa, ma con le modalità e le cautele previste dal regolamento. (32)

Con la circolare D.A.P. n. 3254/5704 del 26 ottobre 1988, l'aspetto dell'inammissibilità alla corrispondenza telefonica viene fortunatamente rivisto. Pur non mettendo assolutamente in discussione quanto asserito dalla circolare del 1985 riguardo alla impossibilità di concedere l'effettuazione della conversazione in una lingua straniera non conosciuta da alcuno degli operatori penitenziari, la circolare n. 3254/5704 del 1988 stabilisce il dovere per l'amministrazione di avvalersi dell'ausilio di un interprete, iscritto nei regolari albi del tribunale nel cui circondario si trova l'istituto. L'interprete effettuerà la traduzione simultanea, in modo che l'operatore predisposto al controllo possa intervenire, bloccando la conversazione stessa. L'opera dell'interprete verrà corrisposta con un onorario a spese dell'amministrazione penitenziaria.

Il disposto dell'art. 37 comma 8º del vecchio regolamento d'esecuzione che pone l'obbligo di ascolto e di registrazione della conversazione avvenuta per mezzo telefonico, rappresenta uno degli aspetti più problematici della disciplina della corrispondenza telefonica, ed è stato più volte oggetto di dibattiti dottrinali che ne hanno contestato la legittimità costituzionale. Alcuni autori hanno infatti sostenuto che la norma in esame non fosse in completa armonia con il principio di libertà e segretezza delle comunicazioni sancito dall'art. 15 della Costituzione. (33) Per ovviare a questo problema, alcuni autori, tra cui Di Gennaro, Bonomo, Breda, (34) hanno ipotizzato che l'obbligo di informare gli interlocutori sulla registrazione della conversazione crei una situazione di consenso dell'avente diritto, che pur sapendo del controllo, acconsente, considerando tale restrizione un "prezzo tutto sommato tollerabile rispetto al vantaggio di avvalersi dello strumento telefonico". (35)

Su questo punto è intervenuto il decreto legge n. 187 del 14 giugno 1993 che ha modificato il comma 8º dell'art. 37 del regolamento d'esecuzione del 1976, introducendo una differenziazione tra la disciplina concernente i detenuti e gli internati cosiddetti comuni e quella relativa ai detenuti ed internati per i reati di cui all'art. 4 -bis dell'Ord. Penit, che è stata ribadita anche al comma 7º dell'art. 39 del nuovo regolamento d'esecuzione. Per i detenuti e gli internati comuni, "l'autorità competente anche a disporre il visto di controllo sulla corrispondenza epistolare ai sensi dell'art. 18 Ord. Penit." ha la facoltà di stabilire che si debba procedere all'ascolto e alla registrazione delle telefonate; mentre per gli altri detenuti si procede obbligatoriamente alla registrazione di tutte le conversazioni telefoniche. In tal modo nei confronti dei detenuti sottoposti a regime ordinario si è trasformato in eccezione l'ascolto e la registrazione delle comunicazioni telefoniche, subordinandola ad un espresso provvedimento giudiziario accessorio a quello di accoglimento dell'istanza, corredato da una congrua motivazione. Per i detenuti ritenuti dalla legge maggiormente pericolosi è invece il legislatore a stabilire la limitazione della libertà di comunicazione in virtù di esigenze di protezione e di sicurezza sociale, essendo un timore fondato ormai in dottrina che i detenuti appartenenti a questa categoria riescano a mantenere dal carcere collegamenti con le organizzazioni criminali di appartenenza.

Dal quadro fin qui delineato è possibile osservare come possa essere difficile l'accesso all'uso del mezzo telefonico, pur essendo stato riconosciuto dal nuovo regolamento d'esecuzione strumento ordinario per il mantenimento delle relazioni familiari.

Per ovviare alle difficoltà esaminate soprattutto in relazione ai detenuti stranieri, per i quali la corrispondenza telefonica è uno strumento essenziale, ad opera della magistratura di sorveglianza si è venuta a creare in alcuni istituti toscani la prassi di concedere dei "permessi telefonici premiali", che concedono la possibilità ai detenuti di effettuare telefonate da apparecchi telefonici pubblici, senza alcun controllo da parte del personale penitenziario.

Le prime concessioni di questo tipo si sono avute negli istituti penitenziari delle isole (Pianosa e Gorgona). I detenuti venivano autorizzati ad uscire dalle mura del carcere per andare a telefonare ad un telefono pubblico posto fuori dalla cinta muraria; con la stessa modalità venivano autorizzati permessi per incontrare le famiglie.

Inizialmente questa prassi veniva ricompresa sotto l'istituto dei permessi premiali, o in taluni casi come permesso di necessità, secondo la previsione dell'art. 30 Ord. Penit., concedendo ai detenuti degli istituti insulari, di poter trascorrere brevi periodi fuori dalle mura per incontrare o per chiamare la famiglia, dato la minor frequenza dei colloqui a causa della difficoltà pratica di raggiungere tali istituti. In seguito, questa prassi è stata applicata anche ai detenuti stranieri, stante l'impossibilità di fare i colloqui e la difficoltà di accedere alla corrispondenza telefonica.

Ai detenuti stranieri viene concesso di effettuare telefonate non sottoposte a controllo, né a registrazione, con schede prepagate da un telefono pubblico (inizialmente veniva utilizzato quello posto nelle sale convegno del personale, ma ora quasi tutti gli istituti sono dotati di un apparecchio pubblico interno). Il fatto che il telefono sia stato messo all'interno rende ancor più difficile la configurabilità di questa prassi come permesso, ma, come sostiene il Dott. A. Margara, ideatore ed attuatore di questa pratica, "il permesso è un qualcosa che interrompe la regola penitenziaria" e come tale è possibile configurarne l'applicabilità anche in questo caso.

Per poter essere ammessi a questo beneficio occorre comunque corrispondere ad alcuni requisiti di applicabilità fissati dal magistrato fiorentino, quali l'essere stranieri, o comunque non avere altri strumenti di contatto con i familiari; essere definitivi e non essere autorizzati ad effettuare telefonate ordinarie.

2.3. La corrispondenza epistolare

Nel mantenimento dei rapporti familiari riveste molta importanza anche la corrispondenza epistolare, perché rende possibili quei contatti che per ragioni geografiche o economiche potrebbero raramente avvenire di persona. (36)

L'art. 18 dell'ordinamento penitenziario ammette la corrispondenza epistolare senza limiti quantitativi e qualitativi, sia per la posta in arrivo che per quella in partenza, anzi, per incentivare questo tipo di rapporto verso l'esterno, prevede al comma 4º che l'amministrazione penitenziaria ponga a disposizione dei detenuti e degli internati che ne sono sprovvisti, "gli oggetti di cancelleria necessari per la corrispondenza". La disposizione è confermata dal regolamento che dispone a favore dei detenuti che non possono provvedervi a proprie spese, la fornitura settimanale dell'occorrente per scrivere una lettera, compresa l'affrancatura ordinaria (art. 36 comma 2º vecchio Reg. Esec. e art. 38 comma 2º del Nuovo Reg. Esec.). In tema di corrispondenza epistolare la disciplina regolamentare del D.P.R. n. 431 del 1976 è stata totalmente confermata dal nuovo D.P.R. n. 230 del 2000, con l'unica eccezione della previsione della possibilità di ricezione di fax da parte dei detenuti.

La corrispondenza, sia in arrivo che in partenza è sottoposta ad ispezione, per rilevare "l'eventuale presenza di valori o altri oggetti non consentiti", ma deve in ogni caso essere eseguita con modalità che garantiscano l'assenza di controlli sullo scritto (art. 38 comma 5º Reg. Esec.). La legge penitenziaria ha infatti abolito la cosiddetta "censura preventiva generalizzata" prevista dal regolamento carcerario del 1931. Con l'approvazione del testo costituzionale la disciplina prevista in materia di corrispondenza dal regolamento per gli istituti di prevenzione e pena del 1931 non appariva conforme al disposto dell'art. 15 comma 2º della Costituzione, secondo cui la corrispondenza ed ogni altra forma di comunicazione possono essere limitate "soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria, con le modalità stabilite dalla legge". L'art. 103 del regolamento del 1931 prevedeva infatti che i detenuti non potessero inviare o ricevere missive senza che prima fossero state "lette e vistate dall'autorità dirigente", la quale aveva anche un autonomo potere di sequestro e di censura della corrispondenza dei detenuti, a prescindere dall'atto motivato dell'autorità giudiziaria. L'art. 104 stabiliva inoltre la frequenza con cui la corrispondenza era ammessa, e l'art. 163 n. 4 addirittura sanzionava il "tentativo di abusi nella corrispondenza". A tal proposito si era concluso che tale norma doveva essere ritenuta inapplicabile sia dalla pubblica amministrazione che dalla autorità giudiziaria, in conformità con l'art. 5 della legge n. 2248 del 29 marzo 1865, allegato E, secondo il quale "le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi", principio confermato anche dalla giurisprudenza costituzionale che nella sentenza n. 72 del 27 giugno 1968 invitava esplicitamente a disapplicare il regolamento per gli istituti di prevenzione e pena del 1931, ove ritenuto costituzionalmente illegittimo. (37) Si era addirittura arrivati a proporre una questione di legittimità costituzionale sulla norma in esame, dimenticando che il testo normativo censurato non aveva forza di legge, così come confermato dalle pronunce costituzionali 27 giugno 1968 n. 72; 10 luglio 1968 n. 91 e 29 marzo 1970 n. 40.

Il legislatore ordinario ha invece cercato di dare attuazione al principio costituzionale sancito dall'art. 15, prevedendo che la sottoposizione a visto di controllo della corrispondenza dei detenuti avvenga solo previo provvedimento motivato dell'autorità giudiziaria che deve essere emanato in relazione ai "singoli condannati o internati" (art. 18 comma 7º Ord. Penit.). Tale previsione non è tuttavia sufficiente a rendere effettivo il totale rispetto delle garanzie costituzionali, in quanto l'art. 18 Ord. Penit. non prevede quali possono essere i casi che giustifichino la misura restrittiva, né con quali modalità possa essere attuato, né, tanto meno, quali possono essere le conseguenze che il controllo può determinare in ordine all'inoltro della corrispondenza stessa, ponendosi chiaramente in contrasto con la riserva di legge posta dall'art. 15 comma 2º della Costituzione. (38)

Secondo quanto previsto dal regolamento d'esecuzione, l'autorità amministrativa deve operare un controllo ispettivo della corrispondenza, analogo a quello previsto sulle persone che accedono all'istituto per i colloqui, o sui pacchi provenienti dall'esterno in busta chiusa, sia in arrivo che in partenza, infatti il controllo deve avere come unico fine quello di rilevare l'eventuale presenza di valori o altri oggetti non consentiti, ma deve avvenire in modo da garantire l'assenza di controlli sullo scritto. Solo quando sussiste da parte della direzione il sospetto che nella missiva siano "inseriti contenuti che costituiscono elementi di reato o che possono contenere pericolo per l'ordine e la sicurezza", essa è autorizzata dal regolamento a trattenere la corrispondenza, dandone immediata comunicazione all'autorità giudiziaria competente (art. 38 comma 6º Reg. esec.). La dottrina ha pesantemente criticato questo disposto, mettendo in evidenza la vaghezza degli elementi di sospetto che autorizzano il fermo della corrispondenza da parte dell'autorità amministrativa, riducendo, fino quasi a sopprimere le garanzie disposte dalla legge; (39) e sostenendo che la disposizione di tali modalità a livello regolamentare non soddisfa la riserva assoluta di legge stabilita dal dettato costituzionale, essendo necessario che la legge stabilisca almeno i criteri applicativi generali. (40)

Le autorità competenti alla sottoposizione del visto di controllo sono individuate dall'art. 18 commi 7º e 8º Ord. Penit., nei quali si stabilisce che competente per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado è l'autorità giudiziaria procedente, individuata ai sensi dell'art. 11 comma 2º dell'ordinamento penitenziario; competente per i condannati, gli internati, gli appellanti e i ricorrenti è invece il magistrato di sorveglianza. Per quanto riguarda gli indagati prima dell'esercizio penale rimangono le perplessità sulla ripartizione delle competenze tra pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari già affrontate in relazione ai permessi di colloquio.

L'art. 18 comma 9º Ord. Penit. prevede che l'autorità giudiziaria competente emetta provvedimento motivato che disponga la sottoposizione al visto di controllo del direttore o di un altro soggetto appartenente all'amministrazione penitenziaria dallo stesso indicato. Tale soluzione, introdotta dalla legge n. 1 del 12 gennaio 1977, ha evitato l'aggravio dell'autorità giudiziaria e ne ha permesso la reale operatività.

La dottrina è unanime nel riconoscere il carattere amministrativo del provvedimento che dispone il visto di controllo, con importanti conseguenze in merito alla sua inoppugnabilità, come per i permessi di colloquio non è infatti previsto alcun mezzo di gravame specifico, né è ammissibile il ricorso in cassazione secondo quanto previsto dall'art. 111 della Costituzione. Di qui i seri dubbi sulla effettiva configurabilità del diritto alla libertà di corrispondenza, e il prevalere della tesi che sostiene piuttosto la sussistenza di un mero interesse legittimo, che porterebbe verso la impugnabilità in via amministrativa. Questa soluzione solleva dei dubbi di conformità agli impegni assunti dallo Stato italiano con la ratifica della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, resa esecutiva dall'Italia con la legge n. 848 del 4 agosto 1955. La Corte europea ha affermato che le limitazioni al diritto di corrispondenza dei detenuti devono essere disciplinate in modo preciso ed analitico, e che devono essere disposti effettivi mezzi di tutela giurisdizionale.

La Corte europea ha anche pronunciato una sentenza di condanna all'Italia per la violazione dell'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo in quanto non aveva disposto un meccanismo idoneo a comprovare l'avvenuta consegna al detenuto della corrispondenza sottoposta a visto. (41) L'amministrazione penitenziaria per adeguarsi alla sentenza ha emanato la circolare n. 3382/5832 del 14 marzo 1994, con la quale si invita le direzioni degli istituti penitenziari ad annotare in un apposito registro la corrispondenza epistolare e telegrafica sottoposta a visto di controllo, dandone immediata comunicazione al destinatario, il quale dovrà apporre sulla stessa la sua firma al momento della riconsegna. Per quanto concerne la corrispondenza in partenza, quando viene sottoposta a controllo, l'inoltro deve essere annotato anch'esso su un apposito registro nel quale anche l'interessato deve apporre la sua firma. Prima di detta circolare l'art. 36 comma 10º del regolamento d'esecuzione del 1976 stabiliva che l'interessato doveva aver notizia della limitazione posta alla sua corrispondenza solo se questa veniva trattenuta, e non quando, sottoposta a visto venisse poi inoltrata.

2.4. I permessi

Prima che la riforma penitenziaria prendesse il suo avvio nello spirito rinnovatore del dopoguerra, la possibilità che venisse concesso ad un detenuto, il permesso di poter trascorrere un breve periodo con la sua famiglia nel proprio ambiente non era assolutamente ipotizzabile. La concezione della pena, così come percepita nella cultura tradizionale, non permetteva nessuna apertura verso il mondo esterno, e non solo per ragioni di pubblica sicurezza o per l'eventuale rischio di evasioni, ma proprio per la concezione di sostanziale chiusura, in cui doveva realizzarsi la dimensione psicologica del confinamento e del distacco dal mondo "esterno", che era attribuita alla detenzione.

I primi coraggiosi esperimenti di permessi concessi a detenuti per gravi ragioni inerenti la famiglia risalgono agli anni '60, quando per iniziativa dell'Amministrazione penitenziaria prese forma la prassi di concedere il permesso ai detenuti che dovessero recarsi a visitare un familiare in grave pericolo di vita. Nel corso dei lavori preparatori alla legge penitenziaria erano state segnalati due ordini di esigenze ben distinte: da una parte, la necessità di dare disciplina normativa alla prassi amministrativa in base alla quale venivano concessi brevi permessi di uscita dall'istituto penitenziario per gravi esigenze familiari; dall'altra, l'opportunità di attenuare l'isolamento affettivo derivante dalla detenzione attraverso la concessione di brevi periodi di libertà destinati a favorire il mantenimento delle relazioni familiari e sociali ed attenuare gli effetti della privazione sessuale. (42) La legge penitenziaria del 1975 non accettò questa seconda istanza, ed eliminò nella stesura del testo definitivo la previsione relativa alla possibilità di concedere permessi speciali della durata massima di cinque giorni anche al fine di mantenere le relazioni umane, che era stata già inserita nel provvedimento nel corso dei lavori parlamentari. (43) Per arrivare a tale segno di apertura si dovette aspettare l'approvazione della legge Gozzini, che con il nuovo art. 30-ter istituì i cosiddetti "permessi premio", concessi ai detenuti meritevoli, al fine di consentire loro di "coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro".

2.4.1. I permessi di necessità

L'art. 30 compare già nella prima stesura della legge penitenziaria, introducendo la possibilità che un detenuto possa uscire dalla struttura penitenziaria, con le dovute cautele, in caso di imminente pericolo di vita di un familiare. La concessione del permesso non si configura come una misura trattamentale e rieducativa, ma risponde al requisito dell'umanizzazione delle pene fissato dall'art. 27 della Costituzione; ciò non esclude che la sperimentazione da parte del detenuto di un'apertura umanitaria della pena, in un momento grave e doloroso della sua vita, possa contribuire alla finalità rieducativa della stessa. (44) A dimostrazione della sua estraneità dalle regole del trattamento si osserva che il permesso ex. art. 30 Ord. Penit. è concedibile a qualsiasi detenuto, indipendentemente dalla sua posizione giuridica, ovvero sia esso imputato, internato o condannato, dal tipo di reato che ha commesso, e dalla condotta tenuta. La concessione di tali permessi è infatti possibile anche per i detenuti sottoposti alla rigida disciplina dell'art. 4-bis.

L'art. 30 comma 1º fissa come primo requisito di concedibilità il pericolo imminente di vita di un convivente o di un familiare. La disposizione, pur essendo sufficientemente chiara lascia tuttavia dei margini di discrezionalità all'interprete che deve determinare quando l'infermità sia tale da indurre in pericolo di vita e quale sia l'esatto significato dell'aggettivo "imminente". D'altra parte l'accertamento della sussistenza di questi requisiti diventa determinante per la concessione del permesso, che può essere disposto nei confronti di qualsiasi detenuto, anche il meno affidabile e il più pericoloso, pur con le cautele previste dal regolamento. L'art. 64 del nuovo regolamento esecutivo, quasi del tutto corrispondente al vecchio art. 61 del regolamento del 1976, prevede in ottemperanza alle cautele richieste dalla legge, che vengano disposte le opportune prescrizioni, ovvero l'accompagnamento della scorta per tutta la durata del permesso e l'eventuale obbligo di trascorrere la notte in un istituto penitenziario, avuto riguardo della personalità del soggetto e dell'indole del reato di cui è imputato o per il quale è stato condannato. Ma proprio al comma 1º l'articolo ora citato indica la durata massima del permesso, che non può essere concesso per più di cinque giorni, escluso il tempo necessario per raggiungere il luogo in cui il detenuto deve recarsi. Questa disposizione è stata oggetto di alcune critiche, in quanto una parte della dottrina (45) propendeva per cogliere nel regolamento un eccesso rispetto alla delega legislativa; ma un altro orientamento ha invece ritenuto che l'indicazione della durata fosse da ricomprendersi nel novero delle cautele.

Tale cautele hanno una funzione di pratica estensione applicativa dell'istituto, in quanto in molti casi la concessione di un permesso è possibile solo se l'autorità che lo dispone ha la disponibilità di adeguate garanzie di controllo dei rischi.

Nella prima stesura dell'art. 30 Ord. Penit, al comma 2º si prevedeva inoltre la concessione di analoghi permessi per "gravi e accertati motivi". La flessibilità dell'espressione indusse la magistratura di sorveglianza ad utilizzare questa previsione con una certa ampiezza, per dare parzialmente risposta ad una serie di necessità ritenute meritevoli di considerazione. Ciò diede luogo a numerose polemiche, specialmente a seguito di qualche grave episodio avvenuto ad opera dei beneficiari dei permessi messo in grande risalto dalla stampa, nonostante che il Consiglio Superiore della Magistratura pubblicasse e diffondesse i dati reali sulla fruizione dei permessi, che invece dimostravano un giusto ridimensionamento dell'allarme. Questo comma fu poi oggetto di modifiche da parte della legge n. 450 del 20 luglio 1977, che introdusse al riguardo due innovazioni. La prima consisteva appunto nella modifica del comma citato, consentendo la concessione "eccezionale" dei permessi, "per eventi familiari di particolare gravità". Nei confronti di questo articolo, come modificato dall'art. 1 della legge n. 450 del 1977 fu sollevata una questione di legittimità costituzionale nella parte in cui limitava i gravi eventi che consentono la concessione del permesso ai detenuti e agli internati a quelli di natura familiare, in riferimento agli articoli 3, 1º e 2º comma, 27, 2º comma e 34, 3º comma della Costituzione. La Corte Costituzionale si espresse con sentenza n. 84 del 1977, ritenendo infondata la questione.

La seconda innovazione introdotta dalla legge n. 450 del 1977, riconobbe al pubblico ministero la facoltà di proporre reclamo avverso al procedimento di concessione del permesso e conferì a tale impugnativa effetto sospensivo.

L'introduzione di queste modifiche contribuì a caratterizzare l'istituto in modo tale da non consentirne l'utilizzo come strumento del trattamento e da definirlo invece come un rimedio eccezionale di umanizzazione della pena, diretto ad evitare che all'afflizione propria della detenzione si aggiungesse inutilmente quella derivabile all'interessato dall'impossibilità di partecipare alla vita familiare in occasione di particolari circostanze, o di adoperarsi in favore dei propri congiunti in situazioni di estrema difficoltà.

Fino all'introduzione dell'istituto dei permessi premio avvenuto con la legge Gozzini del 1986, la magistratura di sorveglianza continuò ad applicare l'art. 30 ad una serie considerevole di casi, intendendo la disposizione come riferita ad "eventi familiari", cioè fatti storici specifici ed individuati inerenti la vita familiare, dotati di un carattere di eccezionale "gravita", con la precisazione che il termine "gravità" non debba riferirsi solo ad eventi luttuosi o drammatici, ma debba piuttosto essere inteso in riferimento a qualsiasi avvenimento particolarmente significativo nella vita di una persona, (46) e quindi anche ad eventi di valore positivo che abbiano eccezionale importanza e rilevanza nella vita del richiedente.

Sotto questo profilo sono stati infatti compresi eventi quali il matrimonio che il detenuto stesso può contrarre; il matrimonio, il Battesimo, la Prima Comunione e la Cresima dei figli, nonché il dover far fronte a difficili situazioni familiari urgenti (quali ad esempio lo sfratto). Tra le decisioni più significative prese a questo riguardo possono essere citate: il permesso concesso per permettere la consumazione del matrimonio (provvedimento della Corte d'Appello di Perugia del 6 giugno 1980); (47) quello concesso per scongiurare gli effetti pregiudizievoli dello sfratto coattivo dalla casa di abitazione e per adoperarsi nella ricerca di un nuovo alloggio nel quale sistemare la convivente, (provvedimento della Corte d'Appello di Roma del 27 novembre 1978). (48) Da ricordare anche alcune decisioni, in cui la magistratura di sorveglianza, utilizzando un'interpretazione estensiva, ha applicato la norma pur senza la sussistenza di un evento specifico di effettiva gravità, come nel caso del permesso concesso per far visita alla figlia di quattro anni, vista dalla nascita solo sporadicamente (provvedimento della Magistratura di sorveglianza di Roma del 8 maggio 1985) e quello per visitare la madre non in grado di recarsi ai colloqui (provvedimento della Magistratura di sorveglianza di Roma del 9 aprile 1986). (49)

Una volta entrata in vigore la nuova disciplina dei permessi premio, la tendenza ad una applicazione più ampia dell'art. 30 si esaurì, pur rimanendo indiscussa la sua valenza come strumento di umanizzazione della pena, operante anche per i detenuti nei confronti dei quali non possono essere disposti i benefici.

Il permesso viene concesso, su istanza dell'interessato, dall'autorità competente individuata dall'art. 30 Ord. Penit. Per i condannati e gli internati è competente il magistrato di sorveglianza avente giurisdizione sull'istituto in cui si trova il detenuto al momento della richiesta, sempre in riferimento alle assegnazioni del ministero, e non alle eventuali destinazioni in cui il detenuto si trovi momentaneamente per ragioni concernenti i trasferimenti. (50)

La competenza per le concessione del permesso agli imputati viene determinata per i sottoposti a procedimento di primo grado dal secondo periodo del 2º comma dell'art. 30 Ord. Penit. con il richiamo all'art. 11 Ord. Penit. che individua le autorità competenti a disporre i provvedimenti di ricovero in luoghi esterni di cura; per gli appellanti e ricorrenti, il terzo periodo dello stesso comma stabilisce invece che per i primi è competente il presidente del collegio, mentre per i ricorrenti il presidente dell'ufficio giudiziario presso il quale si è svolto l'appello. La formulazione di questa disposizione che non presenta distinzioni riguardo agli appellanti, si spiega con il fatto che risale ad un'epoca antecedente all'attribuzione alla corte di appello dell'intera competenza di secondo grado, introdotta dal nuovo codice di rito. Infatti nella fase successiva alla pronuncia della sentenza di primo grado, ma antecedente la trasmissione degli atti al giudice di appello ai sensi dell'art. 208 del codice di procedura penale, la competenza è ancora degli organi ai quali spettava durante il giudizio di primo grado. Così anche nel caso di presentazione degli atti preliminari di fronte alla corte d'assise, la competenza ad emettere i provvedimenti esaminati, viene attribuita al presidente della corte d'appello fino alla convocazione della corte d'assise, e al presidente di quest'ultima successivamente alla convocazione.

Nel caso di permesso nei confronti di persona che abbia la duplice condizione di imputato e detenuto, si sono determinati orientamenti giurisprudenziali difformi. Un primo orientamento ritiene che la competenza spetti esclusivamente al giudice di cognizione, che può comunque utilizzare gli stessi elementi valutativi sul comportamento del richiedente di cui si servirebbe il magistrato di sorveglianza per determinare le opportune prescrizioni previste dall'art. 64 del regolamento esecutivo. Un secondo orientamento propende invece per la competenza combinata del giudice di cognizione con il magistrato di sorveglianza: in via prioritaria la competenza spetta al giudice che ha la disponibilità del processo, data la preminenza che deve essere riconosciuta alle esigenze e alle cautele imposte dal processo e garantite dallo stato di custodia cautelare. Pertanto, prima di tutto deve provvedere il giudice di cognizione, che nel caso si esprima in senso negativo esclude la possibilità che l'imputato-condannato possa allontanarsi dall'istituto, nel caso in cui propenda invece per una soluzione positiva, il provvedimento deve essere emesso dal magistrato di sorveglianza, data la specificità della sua competenza nella valutazione del comportamento e della pericolosità del richiedente, che difficilmente può essere assorbita nella valutazione del giudice di cognizione. (51)

Gli ultimi due comma dell'art. 30 Ord. Penit. prevedono le sanzioni che conseguono al mancato rientro in istituto, che per effetto del richiamo contenuto nel 6º comma dell'art. 30-ter si applicano anche ai permessi premio.

La disciplina opera una distinzione a seconda che l'inosservanza sia posta in essere da un detenuto (comma 3º) o da un internato (comma 4º). Il detenuto che rientra in istituto con un ritardo compreso tra le tre e le dodici ore senza apportare nessun giustificato motivo è punito solo in via disciplinare; se l'assenza si protrae per un tempo maggiore, è punibile per il reato di evasione configurato all'art. 385 del codice penale, con diminuzione della pena in caso di costituzione in carcere prima della condanna secondo quanto stabilito dall'ultimo capoverso dello stesso articolo.

Nel caso in cui tale mancanza venga posta in essere da un internato, se questo rientra oltre le tre ore dalla scadenza del permesso è punito con sanzioni disciplinari, senza l'indicazione dell'ulteriore limite delle dodici ore, superato il quale si configura il reato di evasione per i detenuti. Ciò significa che è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice stabilire quando si tratti di vera sottrazione volontaria all'esecuzione della misura di sicurezza, configurando quindi l'applicabilità dell'art. 214 del codice penale. Secondo quanto stabilito da tale articolo infatti nel caso in cui la persona sottoposta a misura di sicurezza detentiva si sottragga volontariamente all'esecuzione della stessa, dovrebbe ricominciare a decorrere il periodo minimo della misura di sicurezza dal giorno in cui a questa è stata data nuovamente esecuzione. Ma per l'espresso disposto dell'art. 53-bis Ord. Penit., il quale prevede la specifica esclusione dal computo della misura di sicurezza dei giorni trascorsi all'esterno, deve ritenersi esclusa l'applicazione della disposizione dell'art. 214 del codice penale, che resta limitata alle sole ipotesi di sottrazione volontaria all'esecuzione della misura, attuata con modalità diverse da quelle riferibili alla utilizzazione del permesso (decisione della Magistratura di sorveglianza di Viterbo del 10 novembre 1988). (52)

2.4.2. I permessi premio

Il permesso premio è stato introdotto nell'ordinamento penitenziario dalla legge 10 ottobre 1986 n. 663, e dal punto di vista della nostra legislazione penitenziaria questo istituto si presenta come una novità positiva che attenua in modo considerevole sia il carattere custodialistico del carcere, sia la componente emarginante della pena detentiva, aspetto, questo, che maggiormente riversa i propri effetti anche sulla famiglia. L'istituto si caratterizza per la sua azione positiva che si esplica in una duplice direzione: in primo luogo esso esplica una funzione incentivante attraverso il meccanismo della premialità, che stimola nel condannato un atteggiamento psicologico di maggior favore all'osservanza delle norme che regolano la vita d'istituto; in secondo luogo, il permesso svolge una funzione specialpreventiva, in quanto da una parte contribuisce al mantenimento degli interessi affettivi, culturali e lavorativi del detenuto, e dall'altra svolgendo una funzione integratrice del reinserimento sociale, permette al soggetto di saggiare il suo comportamento in libertà, mettendolo nella condizione di affrontare le proprie responsabilità con la possibilità di abbandonare o di ribadire le proprie vecchie scelte. (53) Sulla natura del permesso premio si è espressa più volte anche la Corte Costituzionale, che già alcuni anni fa aveva affermato che il permesso premio è "un incentivo alla collaborazione del detenuto con l'istituzione carceraria", ma è al tempo stesso uno "strumento di rieducazione, in quanto consente un iniziale reinserimento del condannato in società, ed è quindi parte integrante del trattamento rieducativo" (Sentenza n. 188 del 1990). Nelle decisioni giurisprudenziali che la Corte Costituzionale ha espresso più recentemente si è affermata una forte accentuazione della funzione specialpreventiva del permesso, che viene individuata nel senso che il beneficio diviene, "attraverso l'osservazione da parte degli operatori penitenziari degli effetti sul condannato del temporaneo ritorno in libertà, strumento diretto ad agevolare la progressione rieducativa". (54)

Per quanto riguarda i rapporti con la famiglia, il permesso svolge un ruolo fondamentale in quanto dà la possibilità al detenuto di ristabilire contatti e legami, soprattutto affettivi, e allo stesso tempo costituisce un'opportunità per le persone che gli sono vicine di ricostruire il legame interrotto dalla detenzione, avviando un graduale processo di riadattamento, anche in vista di un futuro rientro del soggetto nel nucleo familiare.

Proprio a questo riguardo le previsioni dell'istituto dei permessi premio, divenute operative solo dopo la modifica legislativa operata dalla legge Gozzini, riprendono e sviluppano un tema oggetto di ampio dibattito fin dall'epoca dei lavori preparatori della riforma penitenziaria.

Oltre la valenza rieducativa, trattamentale e premiale, il legislatore aveva individuato in questo istituto una soluzione al delicato problema dei rapporti sessuali dei detenuti. Si deve ricordare a questo proposito l'art. 29 comma 2º del disegno di legge approvato dal Senato il 18 dicembre 1973, che prevedeva speciali permessi concedibili "anche al fine di permettere ai condannati di mantenere le loro relazioni umane". Il testo proposto non fu poi approvato, e quindi l'unica apertura a questa problematica si è avuta potuta avere soltanto con l'introduzione dell'art. 30-ter ad opera della legge Gozzini. Parte della dottrina ha però osservato che la norma in questione eleva al rango di ricompensa il soddisfacimento di esigenze che potrebbero diversamente essere inquadrate nella più evoluta e personalistica prospettiva dell'umanizzazione della pena detentiva, raccomandata dall'art. 27 della Costituzione. Quindi da questa angolazione la soluzione del permesso premio si contrappone astrattamente a quella più egualitaria di permettere l'ingresso del partner nell'istituto penitenziario. Da un altro punto di vista, invece, la natura premiale del permesso lascia inalterato il rapporto tra regola ed eccezione che attiene al contenuto affittivo della pena detentiva, nel senso che l'art. 30-ter conferma una concezione della pena detentiva, la cui normale afflittività risiede anche nel divieto di rapporti eterosessuali. (55)

Numerose ricerche sociologiche americane (Clemmer, Sykes) hanno dimostrato come le privazioni della detenzione soprattutto quelle affettive, comportino gravi alterazioni nella strutturazione psicologica della personalità. "Probabilmente nessun'altra influenza nella vita carceraria ha il potere di disorganizzare i singoli individui che ha l'immaginario sessuale che vi si sviluppa". (56) Clemmer considera il disadattamento sessuale come uno dei fattori determinanti la "prigionizzazione", cioè il processo di adattamento alla sub-cultura carceraria.

Victor Nelson (57) in un capitolo intitolato "Uomini senza donne" esprime l'ardente desiderio per il contatto con le donne che è sperimentato dall'uomo in prigione. Senza ulteriori spiegazioni si può affermare categoricamente che il desiderio sessuale e la malinconia per la mancanza di una compagnia femminile è per la grande maggioranza dei detenuti l'elemento più doloroso della detenzione.

Nel corso degli anni molte sono state le proposte di legge che miravano a cambiare il regime detentivo riguardo a questo aspetto, ma nessuna fin ad oggi ha avuto esito positivo. Nel testo originario del nuovo regolamento d'esecuzione era prevista la possibilità di avere incontri con i familiari in locali appositamente destinati a questo scopo, senza il controllo visivo del personale di custodia, ma il Consiglio di Stato nel parere espresso sullo schema del regolamento (58) ha dichiarato inattuabili tali proposte perché introducevano una disposizione in contrasto con quanto stabilito dall'ordinamento penitenziario e perciò si riteneva necessario l'intervento del legislatore ordinario che adeguasse il dettato normativo a questo nuovo assunto.

Ad oggi quindi l'unico strumento che può consentire il mantenimento delle relazioni affettive è quello dei permessi premio.

Analizzando la storia dell'istituto, si deve ricordare che nel 1990 veniva introdotto dalla legge 19 marzo 1990 n. 55 che concerneva nuove disposizione per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di pericolosità sociale, un nuovo comma, indicato come comma 1-bis, che escludeva dal permesso i soggetti che avevano commesso particolari reati, e che risultavano non aver interrotto i rapporti con la criminalità organizzata. L'anno successivo, con il decreto legge n. 152 del 13 maggio 1991, convertito con modificazioni nella legge n. 203 del 12 luglio 1991, il comma 1-bis fu poi abrogato, ma il decreto ha comunque innalzato i limiti di pena validi per la concessione del beneficio riguardo ai suddetti detenuti. Il decreto n. 306 del 1992, convertito nella legge n. 356 del 1992 ha poi stabilito la concedibilità dei permessi premio, oltre all'assegnazione al lavoro esterno, e alle misure alternative, fatta eccezione della liberazione anticipata ai detenuti per taluni dei reati di cui all'art. 4-bis, solo in caso in cui tali detenuti collaborino con la giustizia ai sensi dell'art. 59-ter.

La legge n. 152 del 1991 ha poi introdotto una modificazione nella lettera del comma 1º, cambiando la dicitura "di particolare pericolosità sociale" in "socialmente pericolosi".

I permessi di cui all'art. 30-ter Ord. Penit. possono infatti essere concessi ai detenuti condannati che hanno tenuto regolare condotta e non risultano socialmente pericolosi.

Passando all'analisi dei requisiti soggettivi cui è subordinata la concessione del permesso premio, si deve in primo luogo notare che i soggetti ammessi al beneficio devono essere condannati, cioè soggetti nei confronti dei quali è stata pronunciata sentenza passata in giudicato, e detenuti, dovendosi ritenere esclusi i condannati in esecuzione di misure alternative che non comportano lo stato detentivo all'interno di una struttura penitenziaria. Questo elemento si desume dalla natura e dalle finalità del beneficio, così come dal richiamo contenuto al comma 8º dell'art. 30-ter Ord. Penit. alla "condotta tenuta durante la detenzione". Sulla base di queste considerazioni si devono ritenere esclusi: gli affidati ai servizi sociali; i condannati in detenzione domiciliare; coloro nei cui confronti è disposta la libertà controllata; e infine, gli internati, per i quali l'art. 53 Ord. Penit. prevede la concessione di specifiche licenze, sia per gravi esigenze personali e familiari, sia al fine di favorire il riadattamento sociale.

La dottrina si trova invece divisa riguardo alla possibilità di concedere i permessi premio ai semiliberi. Alcuni, tra cui Daga, (59) Canepa, Merlo, (60) La Greca, (61) Di Gennaro e Breda, (62) sostengono la non concedibilità dei permessi ex. Art. 30-ter Ord. Penit. ai detenuti semiliberi, data la previsione dell'art. 52 Ord. Penit., che concede ai condannati ammessi al regime di semilibertà licenze "a titolo di premio" per una durata complessiva non superiore a quarantacinque giorni all'anno. Le licenze premio, in ordine alle quali il legislatore non ha fornito alcuno schema di motivazione, devono essere concesse, secondo questi autori, avendo riguardo delle finalità trattamentali, e quindi offrendo l'opportunità di "coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro", (63) cioè secondo la stessa formula usata nell'art. 30-ter per la concessione dei permessi premio. L'identità della ratio tra le licenze premio e i permessi premio non ne consente, secondo questa impostazione, la cumulabilità, e di conseguenza la concedibilità dei permessi ex. art. 30-ter ai semiliberi. (64)

Di opinione opposta chi, come Margara, afferma la concedibilità dei permessi premio ai semiliberi, partendo dalla considerazione che la semilibertà non è una misura alternativa alla detenzione, ma soltanto una modalità alternativa di esecuzione della pena detentiva, (65) che lascia intatto lo status detentivo ad ogni effetto disciplinare e penale. (66) Tutte le norme penitenziarie relative a diritti e doveri del condannato e dell'internato trovano piena applicazione nei confronti del detenuto ammesso al regime di semilibertà, e di conseguenza anche la concessione dei permessi premio. Inoltre secondo il magistrato fiorentino non è ravvisabile una identificazione dei permessi ex. art. 30-ter con le licenze premio, nè per i presupposti di concedibilità, essendo la licenza solo una misura premiale che non rientra nella sfera trattamentale, a differenza dei permessi che invece sono "parte integrante del trattamento", (67) né per quanto riguarda la reclamabilità, non essendo prevista alcuna forme di impugnazione per le licenze.

Per quanto riguarda il requisito della regolare condotta, il comma 8º dell'art. 30-ter, a cui espressamente rinvia il comma 1º, si ritiene sussistente quando il soggetto abbia "manifestato costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti e nelle attività lavorative e culturali". Riguardo alla definizione di questi due elementi, la giurisprudenza ha dimostrato valutazioni contrastanti: da un lato si è sostenuto che il requisito della regolare condotta non sia da ritenersi soddisfatto nel caso in cui il detenuto dimostri solo "supino adattamento alle regole" e non anche un "assiduo e costante impegno all'opera di rieducazione", (68) dovendosi negare la concessione al condannato che non dimostri "evidenti segni di evoluzione rispetto ad un comportamento diretto solo alla tutela della propria immagine". (69) Altre sentenze, invece, sostengono che per la concessione del permesso premio sia sufficiente una regolare condotta carceraria; sarà poi l'esito del permesso che fornirà ulteriori elementi per la valutazione dello stato di rieducazione del soggetto. (70)

Per quanto riguarda il requisito della pericolosità sociale, la nozione corrisponde a quella usata dal legislatore del 1986 nell'art. 31 della legge n. 663, abrogativo dell'art. 204 del codice penale, che prescrive che le misure di sicurezza vengano disposte solo dopo l'accertamento "che chi ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa. Si presume che tale norma richiami il concetto di pericolosità sociale enunciata nell'art. 203 del codice penale, il quale definisce, agli effetti della legge penale, socialmente pericolosa quella persona che, indipendentemente dalla imputabilità o dalla punibilità, avendo commesso uno dei fatti indicati nell'art. 202 del codice penale, si ritiene possibile autore di nuovi reati. Ciò implica che nella valutazione della pericolosità sociale sia insito un giudizio prognostico sulla possibile evoluzione del soggetto, valutando la probabilità che questo commetta nel futuro altri fatti definiti dalla legge come reati. Secondo le indicazioni del comma 2º dell'art. 203 del codice penale questo giudizio deve valutare le circostanze indicate dall'art. 133 del codice penale che riguardano la gravità del reato commesso e la capacità a delinquere del soggetto che ha commesso il fatto.

Il comma 4º dell'art. 30-ter Ord. Penit. fissa poi i requisiti oggettivi per la concessione, individuando come possibili titolari di permesso:

  1. i condannati all'arresto o alla reclusione non superiore a tre anni;
  2. i condannati alla reclusione superiore a tre anni, dopo l'espiazione di almeno un quarto di pena;
  3. i condannati alla reclusione per uno dei reati di cui all'art. 4-bis Ord. Penit., dopo l'espiazione di almeno metà pena, ma non oltre dieci anni;
  4. i condannati all'ergastolo dopo l'espiazione di almeno dieci anni.

Le disposizioni concernenti l'innalzamento dei limiti di pena entro cui poter essere ammessi al permesso sono stati introdotti dal Decreto Legge n. 152 del 1991, convertito nella legge n. 203 del 1991, in risposta ad una esigenza sempre più crescente di far fronte alla criminalità organizzata in modo efficace, anche in seguito al verificarsi di alcuni gravi episodi.

Secondo la disciplina dettata dall'art. 4-bis Ord. Penit., come modificato dal decreto legge n. 306 del 1992, convertito in legge n. 356 del 1992, in merito alle restrizioni per la concessione di tutti gli istituti premiali, ad eccezione solo della liberazione anticipata devono distinguersi tre regimi:

  1. i condannati per delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis del codice penale al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i delitti di cui agli articoli 416-bis e 630 del codice penale, e all'art. 74 del testo unico n. 309 del 1990, possono essere ammessi al permesso premio solo se accettano di collaborare con la giustizia a norma dell'art. 58-ter Ord. Penit.;
  2. i condannati per gli stessi delitti, quando sia stata loro applicata una delle circostanze attenuanti previste dagli articoli 62 n. 6, o 114, o 116 comma 2º del codice penale, possono fruire del permesso premio se la collaborazione offerta risulta oggettivamente irrilevante, purché siano stati acquisiti gli elementi sufficienti ad escludere l'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata; (71)
  3. i condannati per delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale, ovvero per i delitti di cui agli articoli 575, 628 comma 3º, 629 comma 2º del codice penale o per i delitti di cui all'art. 73 del testo unico n. 309 del 1990, solo per le ipotesi aggravate di cui all'art. 80 comma 2º dello stesso testo, possono essere ammessi al beneficio suddetto solo se non vi sono elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata od eversiva.

Queste disposizioni sono state oggetto di alcune pronunce della Corte Costituzionale, che ne ha ridimensionato i contenuti. In primo luogo con la sentenza n. 357 del 1994 la Corte ha dichiarato l'incostituzionalità del comma 1º dell'art. 4-bis Ord. Penit. nella parte in cui non prevede che i benefici possano essere concessi anche nel caso in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, come accertata nella sentenza di condanna, renda impossibile un'utile collaborazione con la giustizia, dopo che sono stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa collegamenti con la criminalità organizzata. Successivamente la Corte, con sentenza n. 68 del 1995, è nuovamente intervenuta sulla stessa disposizione, dichiarandola costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede che i permessi possano essere concessi nel caso in cui l'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile renda impossibile un'utile collaborazione con la giustizia, fermo restando la comprovata inesistenza di collegamenti con la criminalità organizzata. Infine la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 137 del 1999, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del 1º comma dell'art. 4-bis Ord. Penit., nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso nei confronti dei condannati che, prima dell'entrata in vigore della legge n. 356 del 1992, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio, e per i quali sia accertata la mancata sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Questa decisione era stata parzialmente anticipata dalla Corte di cassazione, quando aveva affermato che, le limitazioni previste dal comma citato trovano applicazione anche con riferimento a condanne precedenti all'entrata in vigore del Decreto Legge n. 152 del 1991, non dando luogo alla violazione del principio di irretroattività della legge penale, stabilito dall'art. 25 della Costituzione e ribadito dall'art. 2 del codice penale, in quanto tale principio si riferisce unicamente alle norme penali sostanziali, e non a quelle inerenti le modalità di esecuzione della pena. (72) Tuttavia, poiché la concessione del permesso premio, che costituisce parte integrante del trattamento, è sempre legata alla regolare condotta e all'assenza di pericolosità sociale del richiedente, deve ritenersi che con la previsione di un più ampio limite temporale, il legislatore abbia posto una presunzione legale di pericolosità sociale riferita ai condannati per i reati di cui all'art. 4-bis Ord. Penit. Di conseguenza, se tale presunzione è stata già superata con la concessione di permessi sotto il vigore della precedente normativa, è evidente che l'applicazione della più grave restrizione prevista dalla nuova norma non ha alcun senso e può rivelarsi deleteria, perché potrebbe interrompere il programma di trattamento, che secondo quanto indicato anche dalla Costituzione, deve sempre tendere alla rieducazione del condannato. (73)

Va inoltre osservato che il comma 5º dell'art. 30-ter Ord. Penit. prevede un'altra causa di esclusione oggettiva, disponendo che nei confronti di chi abbia commesso durante la detenzione un delitto doloso, la concessione possa essere ammessa solo due anni dopo la commissione del fatto. L'automatismo della previsione è stato oggetto di critiche (74) e ha dato luogo a diverse questioni di legittimità. Gli incidenti sollevati sulla disciplina nella sua applicabilità generale sono stati dichiarati infondati (Corte Costituzionale, Sentenze n. 296 del 1997 e n. 403 del 1997). In altre situazioni la Corte aveva censurato l'utilizzo da parte del legislatore di automatismi che sottraevano al magistrato di sorveglianza l'effettiva verifica dell'incidenza sul trattamento di un determinato fatto-reato (Corte Costituzionale sentenza n. 173 del 1997, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 47-ter Ord. Penit. nella parte in cui sospende automaticamente la detenzione domiciliare nel caso di presentazione di una denuncia per il reato di cui al comma 8º dello stesso articolo). La Corte non ha ritenuto invece costituzionalmente illegittimo il meccanismo di esclusione dai permessi premio previsto dal comma 5º dell'art. 30-ter Ord. Penit., se non per i condannati minori di età al momento della sentenza (Corte Costituzionale sentenza n. 109 del 1997), in quanto, data la particolare natura del permesso premio che si caratterizza come parte integrante del trattamento, strettamente correlato alla regolarità della condotta del detenuto, la sospensione temporanea per due anni dalla concessione del beneficio non determina la violazione del comma 3º dell'art. 27 della Costituzione, purché ci si trovi di fronte ad un procedimento penale, che, per quanto non ancora pervenuto alla decisione giudiziale irrevocabile, implichi la presa di contatto del pubblico ministero con il giudice. (75)

Una volta accertata la presenza dei requisiti oggettivi e soggettivi individuati dalla norma, il magistrato di sorveglianza "può" concedere il permesso premio. La decisione ha dunque carattere discrezionale, come ha espressamente affermato anche la Corte Costituzionale in ripetute sentenze.

La valutazione del magistrato di sorveglianza deve però fare riferimento a due elementi: la finalità della concessione del beneficio, che è dato per coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro; e il fatto che la sperimentazione dello stesso costituisce parte integrante del trattamento. Il riconoscimento della correlazione che c'è tra questi due elementi porta ad ampliare l'elencazione degli interessi, potendosi ammettere il permesso anche per una finalità non strettamente corrispondente a quelle espressamente elencate.

I permessi possono essere di durata non superiore a quindici giorni, e non possono superare complessivamente quarantacinque giorni in ciascun anno di espiazione (art. 30-ter comma 1º Ord. Penit.)

2.4.3. Reclamabilità

Nella prima stesura dell'ordinamento penitenziario, ai permessi era dedicato solamente l'art. 30 che istituiva i permessi di necessità, ma non era disposto nulla in materia di procedure per la concessione, né relativamente alle impugnazioni.

La legge 20 luglio 1977 n. 450 introdusse l'art. 30-bis, che disciplina le regole processuali sia per l'adozione delle decisioni, sia per i reclami contro di queste. Con l'introduzione dell'art. 30-ter ad opera della legge n. 663 del 1986, che istituiva i permessi premio, la procedura per i reclami qui prevista, è stata estesa per richiamo anche al nuovo istituto.

Il 1º comma dell'art. 30-bis dispone che prima di pronunciarsi sull'istanza del permesso, l'autorità competente debba assumere le informazioni necessarie a controllare la sussistenza dei motivi addotti dal richiedente, in modo da verificare la soddisfazione dei presupposti individuati dalla legge. L'art. 64 comma 3º del nuovo regolamento d'esecuzione integra la disposizione prevedendo che l'autorità competente chieda alla direzione dell'istituto presso il quale si trova il richiedente le necessarie informazioni al fine di acquisire elementi di valutazione sulla personalità del soggetto.

Il comma 2º prevede l'obbligo di motivazione del provvedimento di decisione in merito all'istanza. Tale richiesta doveva necessariamente essere stabilita per permettere il riesame dello stato da parte delle autorità competenti a pronunciarsi in sede di reclamo. (76)

La procedura per quest'ultimo, prevista ai commi 3º e 4º dell'art. 30-bis Ord. Penit., consente il reclamo sia da parte del pubblico ministero contro il provvedimento di concessione del permesso, sia dell'interessato contro il diniego dello stesso e deve essere presentato entro ventiquattro ore dalla relativa comunicazione. Competente a decidere sul reclamo è il tribunale di sorveglianza, nel caso il provvedimento sia stato emesso dal magistrato di sorveglianza, o la corte d'appello, se il provvedimento è stato adottato da un altro organo giudiziario. Il magistrato di sorveglianza, o il presidente di corte d'appello che ha emesso il provvedimento, non può partecipare al collegio che decide sul reclamo del medesimo.

La proposizione del reclamo sospende l'esecuzione del permesso, in analogia con la disposizione generale in materia di impugnazioni, di cui all'art. 588 del codice di procedura penale. Tale sospensione non deve essere applicata ai permessi concessi ai sensi del comma 1º dell'art. 30, in caso di imminente pericolo di un familiare o di un convivente, in quanto tali estreme condizioni configurano un'improrogabilità del permesso, che in pendenza di reclamo, viene sempre disposto con l'effettuazione della scorta, che assume il valore di una misura cautelare (art. 30-bis comma 8º Ord. Penit.).

Un'importante questione sulla natura giurisdizionale dei provvedimenti in materia di permessi, riproposta anche in materia di colloqui e di autorizzazioni alle telefonate, è stata a lungo discussa dalla giurisprudenza di legittimità. In materia di permessi però la questione sembra aver trovato la sua definitiva sistemazione grazie alle sentenze n. 53 del 1993 e n. 227 del 1995 con le quali la Corte Costituzionale si è espressa affermando la natura giurisdizionale del procedimento di reclamo. Nella sentenza n. 53 del 16 febbraio 1993, la Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli articoli n. 236 comma 2º del decreto legislativo n. 271 del 1989 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale), n. 14-ter, comma 1º, 2º, 3º, e n. 30-bis della legge n. 354 del 1975 nella parte in cui non consentono l'applicazione degli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale, nel procedimento di reclamo avverso il decreto del magistrato di sorveglianza che esclude dal computo della detenzione il periodo trascorso in permesso premio. Nella sentenza costituzionale n. 227 del 6 giugno 1995, la Corte afferma esplicitamente la natura giurisdizionale del provvedimento di reclamo in materia di permessi rilevando che la decisione sulla concessione dei suddetti benefici incide sullo status liberandi del soggetto, richiamando il comma 2º dell'art. 13 della Costituzione secondo il quale solo l'atto motivato dell'autorità giudiziaria può incidere su tale status. Ciò comporta che la decisione del tribunale di sorveglianza in sede di reclamo riguardante la materia dei permessi deve assumersi con procedimento giurisdizionale nel rispetto delle procedure indicate agli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale. A ciò consegue l'applicabilità dell'art. 111 comma 7º della Costituzione che prevede la ricorribilità in cassazione di tutti i provvedimenti e le sentenze che, pronunciati dagli organi giurisdizionali, incidano sulla libertà personale. Questo comporta che il detenuto possa avere tutela effettiva almeno in materia di permessi, non essendo invece attuabile per i provvedimenti in materia di colloquio e di autorizzazione alle telefonate per i motivi sopra esposti.

Note

1. Circolare D.A.P. 3478/5928 dell'8 luglio 1998, p. 2.

2. Circolare D.A.P. n 3478/5928 dell'8.7.1998, p. 3.

3. Circolare D.A.P. 3191/5641 del 29.12.1986.

4. Circolare D.A.P. 3478/5928 del 8.7.1998, p. 11.

5. Circolare D.A.P. 3478/5928 dell'8.7.1998, p. 11.

6. Verbale della riunione del Nucleo di sostegno presso il Provveditorato Regionale per la Toscana del giorno 9 novembre1998, p. 2.

7. Circolare D.A.P. 3478/5928 dell'8.7.1998, p. 5.

8. Verbale della riunione del Nucleo di sostegno presso il Provveditorato Regionale per la Toscana del giorno 2 ottobre 1998, p. 3.

9. Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 21.10.1968.

10. Parere dell'Ufficio Studi del 23 maggio 1989.

11. Nota dell'Ufficio Studi del 28 settembre 1989.

12. Circolare Miacel n. 3 del 20.1.1997.

13. Circolare D.A.P. n. 3478/5928 dell'8.7.1998, pag 10.

14. E. BERTOLOTTO, Commento all'art. 18, in V. GREVI, G. GIOSTRA, G. DELLA CASA, L'ordinamento penitenziario: commento articolo per articolo, CEDAM, Padova, 2000, p. 167.

15. L. DAGA, G. BIONDI, Il problema dei figli con genitori detenuti in E. CAFFO (a cura di), Il rischio familiare e la tutela del bambino, Guerrini e ass, Milano, 1988; A. LUZZAGO, S. PIETRALUNGA, P. SOLERA, L'incidenza negativa della detenzione dei genitori sui figli, in "Rassegna Italiana di Criminologia", 1991; e altri...

16. Circolare D.A.P. 24 ottobre 1985 n. 3136/5586.

17. Relazione di accompagnamento al Nuovo Regolamento Esecutivo D.P.R. n. 230 del 2000.

18. Decreto 2 novembre 2000 n. 1274/00.

19. Decreto del Magistrato di sorveglianza di Firenze n. 1276/00.

20. E. BERTOLOTTO, in V. GREVI, G. GIOSTRA, G. DELLA CASA, op. cit., p. 165.

21. S. IOVINO, in CSM Quaderni n. 46, 1991, p. 56.

22. G. CANEPA, S. MERLO, op. cit., p. 127.

23. E. BERTOLOTTO, in I, GREVI V., GIOSTRA G., DELLA CASA G., op. cit., p. 166.

24. Ivi, p. 164.

25. M. DE PASCALIS, Colloqui visivi e telefonici: non solo diritto del detenuto ma anche componente del trattamento, in "Diritto Penale e Processo", n. 3/1996, p. 384.

26. Cassazione n. 200886 del 9 dicembre 1995, Curinga.

27. Cassazione n. 1572 del 7 febbraio 1977, Gattini; Cassazione n. 200050 del 26 aprile 1994;, Masia; Cassazione n. 200886 del 9 dicembre 1995, Curinga.

28. Sentenza della Corte Costituzionale n. 26 dell'11 febbraio 1999.

29. RUBIOLA, in V. GREVI, G. GIOSTRA, G. DELLA CASA, op. cit., p. 165.

30. B. GALGANI, op. cit., p. 864.

31. Circolare D.A.P. n. 3478/5928 dell'8.7.1998, p. 18.

32. Circolare D.A.P. n. 3136/5586 del 24 ottobre 1985.

33. E. BERTOLOTTO, in I, GREVI V., GIOSTRA G., DELLA CASA G., op. cit., p. 174.

34. G. DI GENNARO, M. BONOMO, R. BREDA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, 1976, p. 142.

35. V. GREVI, I diritti del detenuto e il trattamento penitenziario, Zanichelli, Bologna, 1981, p. 26.

36. P. CORSO, I rapporti con la famiglia e con l'ambiente esterno: colloqui e corrispondenza, in V. GREVI, I diritti del detenuto e il trattamento penitenziario, Zanichelli, Bologna, 1981, p. 184.

37. Ivi, p. 185.

38. E. BERTOLOTTO, in V. GREVI, G. GIOSTRA, G. DELLA CASA, op. cit., p. 171.

39. STORTONI, in V. GREVI, G. GIOSTRA, G. DELLA CASA, op. cit., p. 171.

40. E. BERNARDI, Corrispondenza dei detenuti e diritti fondamentali alla persona, in "Rassegna Italiana di Diritto Processuale Penale", 1983, p. 1433.

41. Sentenza del 26 febbraio 1993, Messina contro Italia, in "Cassazione Penale", 1994, pag. 1109.

42. G. DI GENNARO, R. BREDA, G. LA GRECA, op. cit., p. 204.

43. G. LA GRECA, in V. GREVI, G. GIOSTRA, G. DELLA CASA, op. cit., p. 256.

44. G. DI GENNARO, R. BREDA, G. LA GRECA, op. cit., p. 174.

45. Ivi, p. 175.

46. Magistratura di Sorveglianza di Campobasso, 23 settembre 1978, in "Rivista Penale", 1979, p. 89 e in "Giurisprudenza di Merito", 1979, p. 979, citato in Canepa, M., Merlo, S., Manuale di diritto penitenziario, 1996, p. 146.

47. Pubblicata da PETRINI in "Giurisprudenza di Merito", 1982, p. 960.

48. Pubblicata da DE CINQUE in "Rassegna Penitenziaria e Criminologia", 1980, p. 662.

49. Citate da G. LA GRECA, in V. GREVI, G. GIOSTRA, G. DELLA CASA, op. cit., p. 284.

50. MAZZOTTA, in "Rassegna Penitenziaria", 1990, p. 595.

51. G. DI GENNARO, R.BREDA, G. LA GRECA, op. cit., p. 176.

52. G. CANEPA, S. MERLO, op. cit., p. 355.

53. A. MARGARA, La modifica della legge penitenziaria: una scommessa per il carcere, una scommessa contro il carcere, in "Questioni di giustizia", 1986, p. 530.

54. Sentenza Corte Costituzionale n. 227 del 1995.

55. F. GIUNTA, Riforma penitenziaria. Commento articolo per articolo in "Legislazione penale", 1987, p. 137.

56. D. CLEMMER, op. cit., p. 215.

57. V. NELSON, Prison Days and Nigths, Boston, Little Brown & Co., 1933, p. 143.

58. Sezione Consultiva del Consiglio di Stato, Adunanza del 17 aprile 2000.

59. L. DAGA, Semilibertà, Enciclopedia del Diritto, Milano, Giuffrè, 1989 p. 1229.

60. G. CANEPA, S. MERLO, op. cit., p. 259.

61. G. LA GRECA, in V. GREVI, G. GIOSTRA, G. DELLA CASA, op. cit., p. 300.

62. G. DI GENNARO, R.BREDA, G. LA GRECA, op. cit., p. 255.

63. G. CANEPA, S. MERLO, op. cit., p. 259.

64. Ibid.

65. Cassazione del 28 giugno 1977, Calcopietro, pubblicata in "Cassazione Penale", 1978, p. 1359; Cassazione del 30 marzo 1993, Manzo, pubblicata in "Cassazione Penale", 1994, p. 1949; G. DI GENNARO, R.BREDA, G. LA GRECA, op. cit., p. 255; G. CANEPA, S. MERLO, op. cit., p. 250; A. PRESUTTI, Commento all'art. 48 Ord. Penit., in V. GREVI, G. GIOSTRA, G. DELLA CASA, op. cit., p. 483.

66. F. PALAZZO, Semilibertà e trattamento penitenziario, in V. GREVI (a cura di), Alternative alla detenzione e riforma penitenziaria, Zanichelli, Bologna, 1982, p. 72.

67. Sentenza Corte Costituzionale n. 188 del 1990.

68. Cassazione del 13 marzo 1983, Campria, in "Rassegna Penale", 1984, p. 171.

69. Decisione del Tribunale di Sorveglianza di Milano del 9 marzo 1997, Gaddi, in "Diritto Penale e Processo", 1998, p. 1124.

70. Cassazione del 29 ottobre 1996, n. 206752, Bruno.

71. Sentenza della Corte Costituzionale n. 357 del 27 luglio 1994.

72. G. LA GRECA, op. cit., p. 302.

73. Cassazione del 21 gennaio 1997, n. 207344, Cerra, citata in G. LA GRECA, in V. GREVI, G. GIOSTRA, G. DELLA CASA, op. cit., p. 304.

74. A. MARGARA, op. cit., p. 253.

75. G. LA GRECA, in V. GREVI, G. GIOSTRA, G. DELLA CASA, op. cit., p. 304.

76. G. DI GENNARO, R. BREDA, G. LA GRECA, op. cit., p. 179.