ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 1
Quadro normativo generale. Le relazioni familiari nella normativa penitenziaria

Carlotta Bargiacchi, 2002

L'ordinamento penitenziario, nel rispetto dei principi e dei diritti costituzionalmente garantiti, assegna grande rilevanza al mantenimento delle relazioni familiari.

La famiglia è presente nell'ordinamento penitenziario soprattutto come "soggetto verso cui il detenuto ha diritto di rapportarsi", e in questo senso è considerata come risorsa nel percorso di reinserimento sociale del reo, tanto che i rapporti con la famiglia sono uno degli elementi del trattamento individuati dall'art. 15 dell'Ordinamento Penitenziario.

Il problema della tutela della vita familiare introduce una serie di delicate problematiche riguardo al difficile equilibrio tra l'esigenza punitiva dello Stato e la garanzia dei diritti fondamentali. A questo delicato equilibrio fanno riferimento le Regole penitenziarie europee (1) quando all'art. 64 stabiliscono che "la detenzione, comportando la privazione della libertà, è punizione in quanto tale. La condizione della detenzione e i regimi di detenzione non devono quindi aggravare la sofferenza inerente ad essa, salvo come circostanza accidentale giustificata dalla necessità dell'isolamento o dalle esigenze della disciplina". Le relazioni familiari sono considerate un elemento essenziale nel successivo art. 65, dove si legge che "ogni sforzo deve essere fatto per assicurarsi che i regimi degli istituti siano regolati e gestiti in maniera da: (...) lettera c) mantenere e rafforzare i legami dei detenuti con i membri della loro famiglia e con la comunità esterna, al fine di proteggere gli interessi dei detenuti e delle loro famiglie".

La problematica relativa al rapporto tra detenzione e famiglia non riguarda solamente gli aspetti privativi riguardanti il soggetto recluso, ma produce i suoi effetti anche nei confronti dei familiari, che qualcuno ha infatti definito "vittime dimenticate". (2) Nel nostro ordinamento mancano totalmente gli strumenti di tutela nei confronti dei familiari, che pur non essendo direttamente autori di un reato, pagano comunque il peso della detenzione. Il dettato costituzionale dell'art. 27 stabilisce che la responsabilità penale è personale, ma nel momento in cui viene pronunciata una sentenza di condanna ad una pena detentiva a carico di un soggetto, le conseguenze di questa si riversano inevitabilmente anche sui suoi familiari.

Sarà compito di questo capitolo illustrare gli strumenti previsti dalla legge per rendere effettivo l'esercizio di questi diritti e il percorso che questa problematica ha avuto nel corso degli anni, dal Regolamento per gli istituti di prevenzione e pena del 1931 fino alle modifiche introdotte dal nuovo regolamento esecutivo approvato con D.P.R. n. 230 del 2000.

1.1. Il Regolamento per gli istituti di prevenzione e pena. R.D. 18 giugno 1931, n. 787

Subito dopo la formazione del primo governo Mussolini del 31 ottobre 1922, il Ministro Alfredo Rocco presentò un disegno di legge che conferiva al Governo la facoltà di emendare il codice penale e il codice di procedura penale, sulla base delle proposte di modifica al sistema delle pene e alle disposizioni concernenti i singoli reati e le pene ad essi relative, al fine di adeguarle alle nuove esigenze di vita economica e sociale.

La legge delega fu presto approvata, e con questa, che attribuiva al Governo del Re "la facoltà di emendare il codice penale, le leggi sull'ordinamento giudiziario...", il Parlamento non poté esercitare la sua funzione garantistica, rimanendo escluso dalla redazione dei nuovi codici e del regolamento di esecuzione, che vennero infatti adottati attraverso la prassi dei decreti-legge. Con la concentrazione dell'intero potere esecutivo nelle mani del Capo del governo, vennero adottate una serie di misure amministrative straordinarie che eliminarono tutte le istituzioni giuridiche a difesa della libertà personale e delle libertà politiche.

In questo clima nacque il regolamento carcerario del 1931, che si ispirava ad una filosofia di applicazione della pena in cui le privazioni e le sofferenze fisiche imposte dalla detenzione sembravano dover servire come mezzo per favorire l'educazione ed il riconoscimento dell'errore da parte del reo, e per determinare, attraverso il ravvedimento, un miglioramento personale. (3)

La sofferenza avrebbe dovuto indurre il reo a piegarsi su se stesso, a comprendere l'errore commesso e a maturare il proposito di correggersi. (4) Questa impostazione finiva per incidere anche sull'organizzazione del carcere, che veniva concepito come realtà separata dalla società civile e in cui l'isolamento, la mortificazione fisica e la durezza, avrebbero dovuto svolgere la funzione di rafforzare la capacità di pentimento e ravvedimento del reo.

Il carcere si configurava quindi come un luogo impermeabile e isolato dalla società libera, in esso i reclusi erano posti in un contesto di totale emarginazione e separazione, che andava "ben oltre le ovvie esigenze di sicurezza necessariamente destinate ad accompagnare la pena privativa della libertà". (5) La vita dei singoli detenuti era totalmente subordinata al controllo dalla direzione generale, che nella rigida applicazione delle oltre 330 norme del regolamento carcerario, disciplinava ogni minimo particolare della vita privata.

Il regolamento Rocco indicava inoltre in modo tassativo le attività il cui esercizio era consentito in carcere e individuava come unici elementi del trattamento le pratiche religiose, l'istruzione e il lavoro. Il trattamento inteso come un "insieme di interventi positivi attuati in un'atmosfera di relazioni umanamente significative" (6) era completamente estraneo al regolamento Rocco, in cui semmai si affermava la convinzione che l'istruzione, il lavoro e la religione fossero da soli capaci di risolvere i problemi di adattamento sociale dell'individuo, "quasi che potessero risolvere anche la più complessa problematica di carattere individuale, familiare e sociale". (7)

La concezione della pena come "utile funzione eliminatrice", così come la definiva lo stesso Alfredo Rocco, che trovava la sua applicazione in un concetto di difesa sociale imperniato sulla emarginazione dell'individuo che ha violato le regole comuni (8), certo lasciava ben poco spazio alle esigenze di mantenere relazioni umane valide.

Il carcere, concepito come realtà completamente separata dalla società, era chiuso a qualsiasi permeabilità verso l'esterno, le visite di alcune personalità (Ministri, segretari di stato, magistrati, vescovi, eccetera) erano concesse in via eccezionale, ma con l'assoluto divieto, sancito dall'art. 60 di rivolgere la parola ai detenuti; ed anche i colloqui con i familiari erano concessi ma con una disciplina molto restrittiva.

L'art. 96 del Regolamento del 1931 prevedeva che il colloquio non dovesse eccedere la durata di mezz'ora, e solamente in casi eccezionali l'Autorità dirigente poteva farlo protrarre fino ad un'ora. L'art. 101, indicava con quale frequenza i detenuti potessero essere ammessi ai colloqui, stabilendo che i condannati all'ergastolo potevano incontrare i familiari una volta al mese; tutti gli altri condannati una volta ogni quindici giorni.

Le indicazioni che disciplinavano l'ammissione ai colloqui erano molte restrittive, in quanto erano legittimati ad incontrare i detenuti solamente i prossimi congiunti, ma anche questi erano comunque soggetti ad una serie di limitazioni, inerenti soprattutto la loro integrità morale, per cui l'art. 101 prevedeva che:

Ai condannati non possono essere conceduti colloqui che coi prossimi congiunti, ma sono, di regola, escluse dai colloqui le persone che hanno riportato gravi condanne per delitti o che sono sottoposte a procedimento penale per delitto non colposo o alla libertà vigilata o all'ammonizione, le donne di facili costumi, coloro che tengono case di tolleranza e i delinquenti abituali, professionali o per tendenza.

L'articolo proseguiva poi prevedendo la possibilità che venissero invece autorizzate persone di "specchiata moralità", designate dai prossimi congiunti stessi, ad avere colloqui in loro vece. Non erano quindi possibili colloqui tra coniugi entrambi detenuti.

L'art. 58, che prevedeva il divieto ai minori degli anni diciotto di visitare gli stabilimenti, lascia inoltre supporre che non potessero essere effettuati colloqui con figli minori, per cui il soggetto detenuto veniva limitato anche nell'esercizio della sua genitorialità.

I procedimenti per l'ammissioni ai colloqui erano sempre subordinati al rilascio di un permesso scritto, dell'Autorità giudiziaria, se trattasi di imputati, della Autorità dirigente (equivalente all'attuale Direttore) o del Ministero se trattasi di condannati (art. 96 comma 1º).

I permessi rilasciati dalle suddette autorità avevano validità una sola volta, e solamente per il giorno indicato (art. 96 ultimo comma), cosicché se per un qualunque motivo il colloquio non poteva svolgersi, i familiari dovevano richiedere una nuova autorizzazione.

Oltre alla previsioni in tema di colloqui il regolamento Rocco si interessava alle famiglie anche in un'ottica assistenzialista, in linea con la concezione paternalistica dello Stato perseguita durante il periodo fascista, e in questo senso molte sono le previsione del regolamento carcerario del 1931, nel quale all'art. 12 n. 2 veniva compreso tra gli scopi del Consiglio di Patronato quello "di prestare assistenza alle famiglie di coloro che sono detenuti, con ogni forma di soccorso e, eccezionalmente, anche con sussidi in danaro". Alle modalità con cui veniva eseguita l'assistenza alle famiglie dei detenuti era poi interamente dedicato l'art. 14, che prevedeva ai vari punti le diverse situazioni di necessità in cui avrebbero potuto trovarsi le famiglie dei ristretti, e gli eventuali interventi che il Patronato poteva disporre per venire incontro a tali necessità, infatti l'articolo in questione prevedeva:

Pel conseguimento degli scopi indicati nel n. 2 dell'art. 12, il Consiglio di patronato:

  1. assume informazioni accurate sulle condizioni di famiglia dei detenuti, specialmente nei riguardi delle condizioni economiche e della vita morale;
  2. procura che le relazioni tra le famiglie e i detenuti si mantengano affettuose, esortando le famiglie a dare ai detenuti frequenti notizie e buoni consigli;
  3. si adopera per dar lavoro ai componenti delle famiglie dei detenuti, raccomandandoli presso officine ed aziende;
  4. segnala ai competenti comitati dell'Opera nazionale per la protezione della maternità e infanzia, le madri allattanti o incinte bisognose di soccorso a causa della carcerazione di un congiunto;
  5. assegna alle famiglie che ne hanno estremo bisogno sussidi in danaro.

1.2. L'ordinamento penitenziario. Legge 26 aprile 1975 n. 354 e successive modifiche

La riforma penitenziaria del 1975 apporta una vera e propria svolta nel modo di considerare il detenuto all'interno del mondo carcerario. Per la prima volta nella tradizione giuridica del nostro Paese il detenuto viene considerato come "persona", dotata di bisogni ed esigenze specifiche. (9)

L'affermazione di una nuova filosofia della pena, non più afflittiva, ma tesa al recupero del reo si comincia ad affermare nel nostro ordinamento giuridico a partire dal dibattito sorto durante i lavori dell'Assemblea Costituente relativi al terzo comma dell'art. 27 della Costituzione. La pena perde la sua caratterizzazione repressiva e social-preventiva, tipica dei sistemi penali incentrati sulla "neutralizzazione" e sull'"annullamento" del soggetto recluso, come risultava essere il Regolamento per gli istituti di prevenzione e pena del 1931, e acquista invece una vera valenza rieducativa.

Con l'approvazione dell'art. 27 della Costituzione si afferma il principio che le sanzioni dello Stato devono essere rieducative, e quindi tutto il complesso regime di soggezione speciale del condannato trova ragione e fondamento giuridico unicamente nella necessità di rieducarlo. Ciò implica che dovrebbe parlarsi di "potere-dovere" di punire dello Stato, nel senso che "il potere dello Stato, di comprimere beni giuridici, costituzionalmente sanciti, del cittadino (in prima l'esercizio del diritto di libertà personale) trova la sua giustificazione ed il suo limite, nel dovere dello stesso Stato di provvedere alla rieducazione del reo". (10) Pertanto sorgono in capo al detenuto una nuova serie di situazioni soggettive attive e passive, che ci spinge a ritenere che non si tratti di una "graziosa concessione dello Stato-amministrazione il riconoscere questo o quel diritto del condannato, ma di ritenere che la soggezione speciale del condannato stesso non cancella i diritti inviolabili dell'uomo (di cui all'art. 2 Cost.) anche se, per le necessità rieducative e d'ordine interno dello stabilimento penitenziario, la libertà di esercizio di alcuni dei medesimi viene necessariamente limitata". (11) Posti questi presupposti era quanto mai necessaria una revisione del regolamento carcerario del 1931. A questo proposito nel 1949 venne istituita una Commissione parlamentare d'inchiesta, composta da cinque deputati e cinque senatori, con il compito di indagare, vigilare e riferire al Parlamento sulle condizioni dei detenuti negli stabilimenti carcerari e sui metodi adoperati dal personale carcerario per mantenere la disciplina tra i reclusi.

La Commissione depositò la relazione conclusiva nel dicembre del 1950, e pur mantenendo lo schema generale del regolamento del 1931, correggendone solo gli aspetti più afflittivi, introdusse alcuni importanti elementi di novità, quali la riduzione di pena per i detenuti meritevoli e brevi licenze per gravi motivi familiari ed a fini rieducativi.

La Carta Costituzionale aveva affermato il principio della finalità rieducativa della pena (art. 27 comma 3º: "Le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato"), ma il cammino per arrivare alla legge penitenziaria del 1975 è stato lungo e tortuoso.

Dopo l'approvazione della Carta Costituzionale nell'ambito della discussione sulla riforma penitenziaria si verificarono gravi contrasti tra gli indirizzi conservatori degli uffici ministeriali della direzione generale per gli istituti di prevenzione e pena che erano stati investiti del compito di redigere i progetti di riforma, e che erano favorevoli al mantenimento dell'organizzazione centralizzata e gerarchica dell'amministrazione carceraria, e le spinte innovative provenienti invece dai lavori parlamentari.

Alla fine degli anni '60, però a seguito di una nuova ondata di proteste e mobilitazioni della popolazione carceraria caratterizzata da una forte componente politica proveniente dalla contestazione studentesca, la riforma penitenziaria ricevette un nuovo impulso, e così nel 1971 prese avvio il nuovo disegno di legge che portò nel 1975 all'adozione della legge n. 354 "Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative della libertà".

Con la nuova legge viene inaugurato un nuovo periodo in materia di trattamento penitenziario, perché introducendo il concetto di "individualizzazione" del trattamento, si abbandona l'antica logica della depersonalizzazione, e si punta invece alla valorizzazione degli elementi della personalità del detenuto ai fini del suo riadattamento sociale. (12)

Tale riadattamento si attua attraverso il trattamento penitenziario e la rieducazione.

L'art. 1 dell'Ordinamento penitenziario opera una distinzione tra questi due concetti, definendone i contenuti concreti. Il trattamento penitenziario deve uniformarsi a criteri di assoluta imparzialità (l'art. 1 comma 2º Ord. Penit evoca addirittura nella formulazione l'art. 3 comma 1º della Cost.), deve essere conforme a umanità e assicurare il rispetto della dignità umana, in conformità con i principi enunciati dalle "regole minime per il trattamento dei detenuti", approvate nel gennaio 1973 dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, e successivamente revisionate nel febbraio 1987 con il titolo "regole penitenziarie europee". Il trattamento rieducativo deve, invece, "essere attuato secondo un criterio di individualizzazione, in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti", secondo una strategia differenziata e flessibile, meglio rispondente alle esigenze del singolo detenuto o internato.

La novità principale è costituita dalla considerazione dei "contatti con il mondo esterno" come vere e proprie modalità di trattamento, quasi a confermare che, se l'ordine e la disciplina degli istituti penitenziari possono essere assicurati e mantenuti attraverso un'applicazione rigida delle norme sul trattamento penitenziario (anche se tale trattamento deve essere sempre "conforme ad umanità" e nel rispetto della "dignità della persona"), il recupero sociale necessita invece di una partecipazione attiva dei soggetti, che deve essere facilitata e promossa attraverso l'utilizzo di una serie di stimoli culturali, umani e affettivi. (art. 1 comma 6º Ord. Penit.).

Da qui emergono due principi fondamentali cui deve uniformarsi il trattamento, l'uno quello attinente ai contatti con l'ambiente esterno (tra questi la famiglia), che entrano a far parte delle usuali modalità di trattamento, e realizzano un momento significativo di testimonianza della nuova concezione di trattamento assunta dal legislatore del 1975;l'altro quello dell'individualizzazione, meglio specificata all'art. 13 dell'Ord. Penit., che prevede che il "trattamento e la rieducazione", che devono determinarsi in modo individualizzato, nella rispondenza "ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto" (art. 13). (13) Quindi il trattamento assume una connotazione sempre più individualizzata, e diretta ad un intervento mirato alla considerazione della situazione e dei bisogni personali del soggetto.

Tale specificazione trova adito anche nel regolamento di esecuzione (sia nel vecchio D.P.R. 431/76, che nel nuovo regolamento D.P.R. 230/2000), in cui all'art. 1 si ribadisce che il trattamento consiste in un'offerta di interventi diretti a sostenere gli interessi umani, culturali e professionali dei detenuti, nonché deve essere diretto a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, ed anche delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale.

1.3. L'individualizzazione del trattamento e l'osservazione della personalità

Il legislatore afferma che la finalità del trattamento deve essere quella di promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale (art. 1 comma 2º Reg. Esec) in modo da raggiungere l'obiettivo finale, individuato con il "reinserimento sociale" (l'art. 1 comma 6º Ord. Penit.).

Il metodo è delineato in modo sintetico ma abbastanza esauriente dall'art. 13 dell'Ord. Penit. che individua tre punti fondamentali: il punto di partenza è rappresentato dalle carenze del soggetto e delle cause del suo disadattamento sociale; il secondo punto è costituito dalla osservazione scientifica della personalità che deve condurre ad una conseguente offerta di interventi appropriati e che costituiscono poi il tramite e lo strumento per il conseguimento del terzo punto, rappresentato dal reinserimento sociale che è poi anche il fine cui il trattamento tende.

L'individualizzazione del trattamento comporta prima di tutto che questo risponda "ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto" (art. 13 comma 1º Ord. Penit.), e a questo fine è disposta nei confronti dei condannati e degli internati l'osservazione scientifica della personalità.

L'osservazione scientifica della personalità è diretta "all'accertamento dei bisogni di ciascun soggetto connessi alle eventuali carenze fisio-psichiche, affettive, educative e sociali"(art. 27 comma 1º Reg. Esec.); con tale formulazione, il regolamento sembra avvicinarsi in modo più aderente alla realtà rispetto a quanto non faccia la legge: l'accertamento dei bisogni sarebbe sintomo dell'abbandono di qualunque approccio deterministico (tanto medico che sociologico), laddove il minor interesse per il dato eziologico lascia spazio ad una rinnovata attenzione "per il modo in cui il soggetto ha vissuto e vive le sue esperienze". (14) Il secondo comma, nella sua prima parte, collega l'osservazione scientifica della personalità al trattamento, indicando il fine a cui l'attività dell'osservazione è diretta, e cioè all'individuazione dei bisogni individuali a cui il trattamento deve rispondere.

L'attenzione è posta in ugual misura verso le carenze fisio-psichiche, che verso "le altre cause del disadattamento sociale", segno evidente che si è ormai abbandonato l'orientamento criminologico deterministico che attribuiva un nesso inscindibile tra comportamento criminale e carenze fisiopsichiche. (15) Allo stesso tempo risulta superato anche l'orientamento deterministico sociologico che sosteneva invece che a cause simili corrispondessero necessariamente effetti comportamentali simili. (16)

Alla luce di quanto osservato, sembra potersi sostenere che le cause del disadattamento devono sempre venir analizzate in relazione alla storia specifica del soggetto, ed in particolare anche in relazione al proprio vissuto familiare.

L'osservazione, come viene espressamente chiarito dalla seconda parte del secondo comma, non deve essere un momento statico, in cui la valutazione viene fatta una tantum e assunta come valida per tutto il periodo successivo, ma deve essere proseguita durante tutto il corso dell'esecuzione. Nel primo momento l'osservazione serve ad inquadrare la problematica della singola personalità e a cogliere le indicazioni che servono a formulare una prima ipotesi di trattamento. Questa ipotesi va continuamente verificata, integrata e modificata sulla base di due criteri e cioè tenendo conto, da un lato dei mutamenti che a livello personale e di vita di relazione si manifestano presumibilmente soprattutto per effetto degli interventi attuati e, dall'altro, delle nuove esigenze che possono sopraggiungere, anche indipendentemente da quelli. Il rilevamento delle carenze personali e delle altre cause di disadattamento, cui si riferisce il secondo comma, avviene, come indicato dal primo comma dell'art. 27 del regolamento, attraverso l'accertamento dei bisogni che, in relazione ad esse, ciascun soggetto attualmente presenta. L'analisi deve essere rivolta al fine di capire in che modo il soggetto ha vissuto e attualmente vive le sue esperienze, cercando di individuare, in relazione a questo personale vissuto, la disponibilità del soggetto ad usufruire delle opportunità offertegli dal trattamento.

L'osservazione della personalità, se pur definita scientifica dalla legge, non deve necessariamente consistere in un intervento tecnico sostenuto dall'uso di specifici strumenti, ma deve invece attuarsi secondo schemi liberi che permettano una conoscenza approfondita del soggetto. (17) Proprio in quest'ottica sarebbe opportuno che gli operatori riuscissero a stabilire un rapporto interpersonale con i detenuti, in quanto questo potrebbe facilitare l'acquisizione di informazioni personali, che una volta annotate, andranno confrontate e valutate da tutto il gruppo di lavoro che costituisce l'equipe di osservazione.

L'osservazione della personalità viene compiuta da un gruppo di lavoro interdisciplinare, di cui fanno parte: il direttore dell'istituto, che presiede il gruppo e sotto la cui responsabilità e coordinamento si svolgono le attività; l'educatore; l'assistente sociale, che svolge un ruolo primario nel mantenere i contatti con la famiglia; altre figure non espressamente indicate dalla normativa, quali il medico e un rappresentante del personale di polizia penitenziaria; infine, tra il personale "non dipendente dall'Amministrazione" i professionisti indicati nell'art. 80 tra i quali uno specialista psicologo o psichiatra. È ragionevole pensare che possono essere chiamati a partecipare alle attività di osservazione altre figure di operatori che possano essere capaci di portare un contributo significativo.

Ogni componente ha una competenza specifica in un'area d'indagine, così lo specialista psichiatra o psicologo si occupa di definire la personalità del soggetto rilevandone la struttura psichica e gli aspetti salienti del suo funzionamento sotto il profilo intellettuale, affettivo, caratterologico e attitudinale; l'educatore deve indagare, attraverso l'osservazione comportamentale la qualità degli atteggiamenti umani fondamentali che orientano la vita del soggetto e l'insieme delle sue aspettative e delle speranze che incidono in modo sensibile sulle possibilità pratiche di realizzazione dell'intervento rieducativo; l'assistente sociale, infine, considera i problemi di relazione affettiva familiare e di rapporto con l'ambiente, che il soggetto presenta, tenendo conto anche della particolare situazione di crisi che può essersi determinata in questa sfera relazionale proprio a causa dello stato di detenzione.

I dati relativi alla famiglia e all'ambiente da cui il soggetto proviene presentano un rilevante interesse sotto diversi punti di vista: quello interpretativo, per i significati correlati alle vicende comportamentali del soggetto; quello dell'intervento immediato per il mantenimento dei legami affettivi e quello della previsione, per il ruolo importante che il fattore famiglia-ambiente può giocare in un programma di trattamento futuro. (18)

L'assistente sociale rileva soprattutto le difficoltà personali di integrazione del soggetto, partendo proprio dalla considerazione dei problemi di status e di ruolo che il soggetto vive nel suo ambiente familiare. (19) La competenza sul versante sociologico e antropologico che il servizio sociale esprime, svolge la sua funzione principalmente all'interno di un quadro di riferimento in cui si cerca di considerare e comprendere pienamente i profondi collegamenti esistenti tra momenti personali-strutturali e momenti relazionali-sociali dell'adattamento.

Il servizio di assistenza sociale svolge tra le varie competenze anche quella dell'inchiesta sociale, definita come una raccolta e una organizzazione dei dati che concernono la vita del detenuto sia nelle relazioni con la famiglia che con l'ambiente sociale di appartenenza, che offre la possibilità agli operatori che si occupano del trattamento e alla Magistratura di Sorveglianza che deve assumere una decisione, di orientare la propria attività sulla base di una valutazione complessiva che includa questi aspetti "esterni" alla vita in istituto e determinanti per la comprensione del caso e per la soluzione di problemi umani che esso rappresenta.

In passato era comunemente ritenuto necessario esporre minuziosamente nell'inchiesta una serie di dati anamnestico-descrittivi sia sul detenuto che sul nucleo familiare, quasi nel tentativo di ricostruire i vari passaggi psico-socio-pedagogici che avevano caratterizzato il processo evolutivo del caso, sino alla condizione attuale. Il motivo di tale procedura va naturalmente ricercato nel concetto particolare di diagnosi che accompagnava in quel tempo l'attività di osservazione in campo criminologico, così come in altri settori di intervento psicologico-sociale.

In tempi recenti si è fatto strada l'orientamento secondo cui l'inchiesta sociale, senza trascurare di dare un quadro significativo della "storia del caso" nei suoi aspetti più salienti, deve tuttavia considerare soprattutto la vita attuale del detenuto e della sua famiglia e il modo con cui le persone in causa percepiscono attualmente la condizione in cui si trovano e le relative prospettive di evoluzione. In tale ambito di indagine e di analisi, maggiormente informato a principi fenomenologici, la massima importanza viene data al processo di interazione esistente tra il soggetto, il suo ambiente prossimo e la comunità di appartenenza, con particolare riguardo ai problemi di ruolo e di status emergenti a seguito della carcerazione. Inoltre, il modo del detenuto e della sua famiglia, di percepire se stessi in relazione alle opportunità offerte dalla realtà circostante. Così come la capacità di progettare il futuro diventano elementi determinanti in questa prospettiva che privilegia, rispetto all'interpretazione del passato, la comprensione del presente in funzione della programmazione dell'immediato futuro.

Sul piano sostanziale si deve osservare che la validità dell'inchiesta sociale resta comunque fondamentalmente legata alla disponibilità del soggetto e dei suoi familiari a collaborare con l'assistente sociale nell'esame della situazione che li riguarda. Al di là dei mascheramenti e delle difese che sono comprensibilmente attuati con l'intenzione di far apparire agli operatori il lato migliore delle cose, non è difficile ottenere dagli interessati una collaborazione autentica. La diffidenza scompare, o almeno si attenua quando risulta chiaro che la chiave di lettura della realtà, in cui il detenuto si trova, offerta dai tecnici, in questo caso gli assistenti sociali, può fornire degli elementi di conoscenza indispensabili per i magistrati di sorveglianza. (20) È infatti facilmente intuibile come la non conoscenza da parte dei giudici rischi di tradursi automaticamente in un aumento di perplessità e di riserve sulla opportunità di concedere qualsiasi beneficio richiesto fruibile all'esterno del carcere. In questa prospettiva, può trovare almeno parzialmente risposta il problema della conciliabilità tra le esigenze della confidenzialità proprie di un rapporto del servizio sociale e quelle connesse a un'attività di indagine.

Nel corso della relazione di sintesi, che conclude l'attività di trattamento, l'apporto di ogni singolo operatore viene offerto come un elemento da rifondere nella dialettica della discussione per arrivare ad una visione e ad un'interpretazione integrate delle esigenze e dei problemi del soggetto.

La valutazione che costituisce la base del programma del trattamento, comprende almeno tre aspetti fondamentali:

  1. la comprensione del vissuto del soggetto riguardante il suo passato, gli avvenimenti che lo hanno condotto nella situazione attuale, i problemi personali e familiari che costituiscono lo sfondo affettivo e sociale su cui si colloca oggi la vicenda umana;
  2. la comprensione di come il soggetto si percepisce oggi, e come giudica se stesso e le sue capacità e come guarda agli altri;
  3. la comprensione delle intenzioni e delle disponibilità del soggetto nei confronti del futuro e delle possibilità concrete che il sistema penitenziario è in grado di offrirgli.

Sulla scorta di questo processo interpretativo unitario, che trova i suoi confini nella considerazione concreta e attuale dei problemi del soggetto, si può giungere alla formulazione di un programma di trattamento in cui le esigenze del soggetto stesso sono confrontate con le diverse opportunità disponibili nell'ambito del sistema, e il profilo degli interventi può essere delineato con riferimento a ciò che è veramente possibile e attuale.

In termini pratici significa che la relazione di sintesi fornisce gli elementi necessari per decidere sull'ammissione alle varie misure premiali, quali l'ammissione al lavoro all'esterno (art. 21 Ord. Penit.), per la predisposizione del programma trattamentale per gli ammessi alla semilibertà, per la formulazione del parere da trasmettere al magistrato di sorveglianza ai fini della concessione dei permessi premio.

Sulla base della formulazione del programma di trattamento individualizzato viene disposta l'assegnazione definitiva del condannato ad un istituto (art. 30 comma 3º e 4º Reg. Esec): a tal fine, si ha riguardo alla corrispondenza tra le indicazioni del trattamento contenute nel programma individualizzato, e si dovrebbe aver riguardo anche della vicinanza.

1.4. I rapporti con la famiglia come elementi del trattamento

Una delle novità più significative introdotte dalla legge di riforma dell'ordinamento penitenziario è la considerazione dei rapporti con la famiglia come elemento del trattamento, menzionati dall'art. 15 Ord. Penit., insieme ai "contatti con il mondo esterno" in relazione anche con quanto espresso nell'art. 1 ultimo comma dell'Ord. Penit.

L'innovazione ha una portata sia sul piano concettuale che su quello operativo. Sul piano concettuale esprime il convincimento che le relazioni affettive del detenuto con la famiglia rappresentino un aspetto importante della vita del detenuto, e un bene di alto valore umano che deve essere protetto dai danni derivanti dalla carcerazione, tanto che si richiede un preciso impegno, da parte dell'Amministrazione penitenziaria ad intervenire adeguatamente al riguardo. Sul piano operativo essa afferma il principio che il recupero del condannato non può prescindere dalla permanenza o dal ristabilimento di condizioni interiori di vita affettiva capaci di sostenerlo nella difficile situazione in cui si trova, dando concrete e vive immagini alla sua speranza di liberazione e di ritorno. (21) Tale principio trova esplicita menzione nell'Ordinamento Penitenziario, che all'art. 28 riconosce che "nella sua dimensione più ampia riconducibile alla sfera affettiva del detenuto.... la famiglia costituisce per l'ordinamento un sicuro punto di riferimento al quale dedicare particolare cura" (art. 28 Ord. Penit.). (22)

Il legislatore del 1975 ha rinunciato a dettare una disposizione di portata generale in tema di "rapporti con la famiglia e con il mondo esterno", a favore di una serie di articoli destinati a dare precisione e concretezza al principio: la sostanza rimane quella già codificata in un'unica disposizione nel corso dei lavori preparatori della riforma penitenziaria, ma migliore risulta la garanzia di quei rapporti in quanto regolati a livello di legge più che di regolamento di esecuzione. (23)

La scelta del legislatore ordinario, per il quale la famiglia rappresenta un punto di riferimento cui "dedicare particolare cura" (art. 18 Ord. Penit), è apprezzabile, ma non sufficiente a dare concretezza al favor familiae cui sono ispirati gli articoli 29-31 della Costituzione e in particolare, alle previsioni di cui agli articoli 30 comma 2º e 31 comma 1º della Costituzione, che stabiliscono che la Repubblica agevoli "con misure economiche ed altre provvidenze" l'adempimento dei compiti relativi alla famiglia, anche in caso di incapacità (o impossibilità) del genitore di assolvere ai propri doveri verso il coniuge e la prole.

In ambito penitenziario, i contatti con la famiglia non interessano tanto in una prospettiva di tutela dell'istituzione familiare e del ruolo genitoriale, né in quella di cercare di limitare il più possibile le ripercussioni della detenzione sulle persone estranee al reato, che inevitabilmente ne risultano coinvolte in quanto facenti parte dello stesso nucleo familiare; interessano, piuttosto, quali strumenti del trattamento rieducativo, nella misura in cui sono capaci di sviluppare le aspettative di vita futura dei soggetti detenuti. A questo riguardo la normativa penitenziaria viola, o quanto meno ignora la previsione costituzionale di tutela della famiglia, rapportandosi al nucleo familiare, non come ad un soggetto meritevole di tutela, ma piuttosto in senso strumentale, sfruttando la potenzialità che il mantenimento dei rapporti affettivi esercita sul comportamento del detenuto all'interno dell'istituto, e sulle concrete possibilità di successo del suo percorso di reinserimento sociale. In questo senso i rapporti con la famiglia costituiscono un elemento centrale del trattamento rieducativo, in quanto la famiglia è ritenuta dall'ordinamento un'importante risorsa, sia nell'immediato, con l'assistenza affettiva e materiale al soggetto recluso, sia nel proseguo della detenzione, durante la quale rappresenta sicuramente il punto focale di contatto con la società esterna, che soprattutto nella fase precedente la liberazione, in cui potrà essere di fondamentale importanza, per fornire un sicuro punto da cui poter ripartire per realizzare il reinserimento sociale.

Le prime indicazioni riguardo al vissuto familiare, sia con riferimento agli elementi biografici che psicologici, devono essere raccolti già dal primo colloquio all'ingresso in istituto, durante il quale, il soggetto deve essere invitato a "segnalare gli eventuali problemi personali e familiari che richiedono interventi immediati" (art. 23 Reg. Esec.), per i quali la direzione informa il centro di servizio sociale.

Le informazioni verranno successivamente integrate e approfondite attraverso l'osservazione scientifica della personalità, per la quale l'assistente sociale svolge un ruolo specifico di indagine relativamente al vissuto familiare.

Una delle previsioni che contribuiscono al mantenimento dei rapporti esistenti, è rappresentata dalla scelta del luogo di esecuzione della pena o della misura di sicurezza che, deve essere stabilito in linea di principio, "nell'ambito della regione di residenza" o qualora ciò non sia possibile in "località prossima" (art. 30 Reg. Esec.), nel testo di legge si prevede infatti che i trasferimenti vengano disposti anche per motivi familiari, o che comunque sia sempre favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alle residenze delle famiglie (art. 42 1º e 2º comma Ord. Penit.) in modo da non rendere difficoltosi i contatti con la famiglia e, in particolare le visite e i colloqui.

All'art. 14-quater 5º comma dell'Ord. Penit. si ribadisce il concetto che i trasferimenti devono determinare il "minimo pregiudizio possibile... per i familiari", anche quando si tratti di soggetti sottoposti al regime di sorveglianza particolare ex art. 14-bis Ord. Penit. In questa prospettiva quelli familiari si configurano tra i principali "interessi umani" che il trattamento rieducativo tende a sostenere (art. 1 Reg. Esec.), com'è confermato dalle norme regolamentari interne ad ogni istituto, che devono consentire "il possesso di oggetti di particolare valore morale e affettivo" (art. 10 Reg. Esec.), nonché, con le precauzioni del caso, la ricezione dall'esterno di oggetti e generi alimentari, attraverso i "pacchi alimentari" (art. 14 Reg. Esec.), strumenti anch'essi fondamentali per mantenere un contatto, se pur indiretto, con le famiglie. Il "pacco" ha sia per i detenuti che per i familiari un forte contenuto simbolico, in quanto costituisce il mezzo per i familiari di poter accudire il soggetto detenuto, e rappresenta per il detenuto la conferma dell'affetto dei propri familiari, che si prodigano per il suo benessere.

Il principale istituto previsto per il mantenimento dei contatti diretti tra i detenuti ed i loro familiari è quello dei colloqui. L'art. 18 dell'Ordinamento Penitenziario dispone che "i detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui...con i congiunti e con altre persone" (comma 1º), precisando che "particolare favore viene accordato ai colloqui con i familiari" (comma 3º).

La disciplina specifica delle modalità di accesso all'istituto e di colloquio è stabilita dal regolamento di esecuzione, che esige la previa richiesta del permesso di colloquio al direttore dell'istituto, e solo nel caso di imputati per i quali non è stata ancora pronunciata sentenza di primo grado, l'autorizzazione deve essere emessa dall'autorità giudiziaria procedente (art. 37 1º e 2º comma del Nuovo Reg. Esec.). Il presupposto per la concessione di detta autorizzazione è rappresentato dal rapporto di parentela, e non dall'esistenza di non meglio identificati "ragionevoli motivi" - come accade per le persone diverse dai congiunti e dai conviventi - cosicché si deve ritenere che l'autorizzazione al colloquio sia, sotto questo profilo, un provvedimento che non ammette margini di discrezionalità. Limiti all'ammissione al colloquio derivano piuttosto dalla necessità di un regolare andamento dell'istituto, che stabilisce i giorni e gli orari in cui i colloqui possono essere fruiti.

Il regolamento di esecuzione del 1976 prevedeva all'art. 35, che come principio generale i detenuti e gli internati usufruissero di un colloquio alla settimana (comma 7º), a meno che non ricorressero eccezionali circostanze per le quali le visite familiari (e i colloqui) potessero essere concesse anche fuori dei limiti stabiliti: ricorrendo tali circostanze, anche la durata del colloquio, che di regola non poteva superare l'ora, poteva essere prolungata (commi 8º e 9º Reg. Esec.). Su questo punto è poi intervenuta la circolare D.A.P. (24) n. 3136/5586 del 1985 che ha introdotto la possibilità di fare "quattro colloqui al mese", intendendo in questo modo superare la cadenza settimanale e permettendo che i colloqui si possano effettuare anche in giorni consecutivi. (25)

Motivo esplicito di concessione del permesso di colloquio e di un suo prolungamento è, inoltre, la "grave infermità" del condannato, e in assenza di controindicazioni normative, di un suo congiunto. (26)

Il favor familiae, cui questa disciplina è informata, emerge anche da una precisa scelta non restrittiva fatta dal legislatore: anzitutto, sono ammessi al colloquio tutti i congiunti, e non soltanto i prossimi congiunti come invece prevedeva in maniera esplicita l'art. 101 del regolamento del 1931. È questo un aspetto non marginale del diverso atteggiamento del legislatore nei confronti dei rapporti con la famiglia: si ricordi, infatti, che secondo gli articoli 96 e seguenti del regolamento 1931 la durata del colloquio era di mezz'ora (e in casi eccezionali di un'ora); la frequenza era quindicinale (settimanale per i condannati a pene assai brevi e mensile per gli ergastolani); ed erano escluse dai colloqui, anche se prossimi congiunti, le persone che non avevano una "specchiata moralità". Qualora infatti i familiari avessero riportato condanne, o fossero semplicemente sottoposti a procedimenti penali, o fossero donne di facili costumi, o delinquenti abituali, professionali o per tendenza, era prevista la possibilità che in via eccezionale i familiari esclusi dal colloquio designassero persone con una condotta morale ineccepibile, perché incontrassero il congiunto detenuto in loro vece.

In secondo luogo, acquista rilievo anche la famiglia di fatto, atteso che, introducendo un ampliamento rispetto alla legge cui dà esecuzione, l'art. 37 Reg. Esec. riserva alle "persone conviventi" con il detenuto un trattamento paritario, in materia di colloqui rispetto ai suoi congiunti. Si tratta di un'importante apertura verso situazioni non considerate dal legislatore e di un adeguamento del dato giuridico alla realtà, dato che tante sono invece le restrizioni che la cosiddetta "famiglia di fatto" subisce anche in altri settori.

A dimostrazione della importanza riconosciuta dal legislatore ai colloqui è da notare che il regolamento esecutivo prevedeva nella versione del 1976 e prevede in quella del 2000 che qualora i familiari non mantengano rapporti con il detenuto, la direzione segnali il fatto al centro di servizio sociale perché effettui gli opportuni interventi e qualora ne ravvisi la necessità anche al consiglio di aiuto sociale, che secondo la previsione dell'art. 75 dell'Ordinamento Penitenziario "cura che vengano fatte frequenti visite ai liberandi, al fine di favorire, con opportuni consigli ed aiuti, il loro reinserimento sociale".

Tra gli altri strumenti che consentono un mantenimento dei contatti con i familiari vanno considerate le previsioni relative all'uso del telefono e quelle attinenti alla corrispondenza (art. 18 Ord. Penit.), la cui disciplina è rimandata nel dettaglio alla norma regolamentare, che proprio in questi campi è stata ampiamente rinnovata.

Le legge Gozzini, apportando delle significative modifiche alla legge penitenziaria del 1975, ha introdotto la forma di contatto più diretta che i detenuti possono avere con i loro familiari, permettendo l'uscita dalle strutture carcerarie.

In questa prospettiva si colloca prima di tutto l'istituto dei permessi premio, disciplinato dall'art. 30 -ter Ord. Penit., volto proprio al mantenimento degli interessi affettivi. Prima della sua introduzione con l'art. 9 della legge n. 663 del 1986, l'ordinamento prevedeva solo l'art. 30 che regolamenta i "permessi di necessità" che possono essere concessi nel caso in cui un congiunto del detenuto versi in condizione di grave infermità, ammettendo l'uscita del detenuto o dell'internato in base al "permesso di recarsi a visitare, con le cautele previste dal regolamento, l'infermo", qualora vi sia "imminente pericolo di vita di un familiare o di un convivente" (comma 1º), od anche in presenza di "altri eventi familiari di particolare gravità" (comma 2º).

Prima dell'entrata in vigore della legge n. 663 del 1986, la magistratura di sorveglianza ha utilizzato questa possibilità di concessione di breve permesso con una certa ampiezza al fine, in alcuni casi, di portare conforto a detenuti particolarmente meritevoli sempre, tuttavia, nel concorso di particolari avvenimenti esterni riguardanti il soggetto. Con l'introduzione dei permessi premio l'interpretazione estensiva di questa norma quasi a carattere surrogatorio, non è stata più necessaria, costruendo la possibilità di soddisfare esigenze apprezzabili sul piano dei rapporti sociali senza sforzarsi di ricomprendere nel concetto di "eventi familiari di particolare gravità" situazioni che, a rigore, vi potevano essere ricondotte solo a prezzo di un notevole sforzo interpretativo.

Non si deve comunque ritenere che l'istituto dei permessi-premio abbia totalmente soppiantato quello dei permessi per gravi motivi di famiglia previsto dall'art. 30, in quanto profondamente diversa risulta essere la loro applicabilità, essendo il primo una misura premiale, e quindi subordinata alla buona condotta, alla partecipazione al trattamento e al raggiungimento dei termini di pena previsti per la concessione dei benefici, ed essendo invece il secondo uno strumento destinato alla tutela di esigenze familiari, e quindi concesso indipendentemente dai requisiti previsti per la fruizione dei benefici. Tale permesso può infatti essere concesso anche agli imputati.

La legge Gozzini introduce inoltre nell'ordinamento la possibilità che i detenuti scontino parte della pena fuori dalle istituzioni carcerarie secondo le modalità previste dalle cosiddette "misure alternative alla detenzione", che più di ogni altra cosa possono permettere un rapporto continuativo con i familiari.

Il particolare interesse che l'ordinamento attribuisce al valore delle relazioni con la famiglia in rapporto a questi istituti è sottolineato all'art. 57 dalla legittimazione che la legge riconosce ai prossimi congiunti a richiedere nell'interesse (anche) del detenuto i benefici di cui agli articoli 47, 50, 52, 53, 54, e 56 Ord. Penit., (27) che prevedono nell'ordine: detenzione domiciliare; semilibertà; licenze per il condannato semilibero; licenze per gli internati; liberazione anticipata; remissione del debito.

Altri cambiamenti normativi altamente significativi in quest'ambito sono stati introdotti con l'approvazione della legge n. 165 del 27 maggio 1998, detta legge Simeone-Saraceni, che ha reso possibile l'applicazione di procedure in grado di ridurre gli ingressi in carcere, consentendo a persone con condanne brevi, non superiori a tre anni, o nel caso di tossicodipendenti non superiori a quattro, di evitare l'ingresso in carcere nell'attesa che il Tribunale di Sorveglianza si pronunci circa la concessione di una misura alternativa alla detenzione.

La legge citata ha inoltre introdotto un ulteriore cambiamento significativo per la dimensione familiare, prevedendo la possibilità della concessione della detenzione domiciliare, alle persone condannate ad una pena detentiva non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, quando trattasi di donna incinta o madre di prole inferiore ad anni dieci; tale possibilità può essere concessa anche al padre, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole (art. 47-ter comma 1º lettera a e b).

La legge n. 40 dell'8 marzo 2001 dedicata alla tutela delle detenute madri rende ancor più facile l'applicazione della detenzione domiciliare, introducendo nell'Ordinamento Penitenziario un nuovo istituto detto "detenzione speciale", disciplinato dal nuovo art. 47-quinquies. La detenzione specialepuò essere concessa alle condannate madri di prole inferiore a dieci anni, dopo l'espiazione di almeno un terzo di pena, o di almeno quindici anni, se trattasi di condannate all'ergastolo, se non sussiste un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti e se vi è la possibilità di ripristinare la convivenza con i figli (art. 47-quinquies comma 1º Ord. Penit.). Secondo quanto previsto al comma 8º dell'art. 47-quinquies, al compimento del decimo anno di età del figlio, il Tribunale può decidere di prolungare il beneficio, se la detenuta è in possesso dei requisiti per la concessione della semilibertà, oppure disporre l'ammissione all'assistenza all'esterno dei figli minori di cui all'art. 21-bis (anch'esso introdotto dalla legge n. 40/2001). L'istituto previsto da questo articolo permette l'ammissione alla cura e all'assistenza all'esterno dei figli di età non superiore ai dieci anni, nell'applicazione di tutte le disposizioni relative al lavoro all'esterno, previsto dall'art. 21 Ord. Penit.

La detenzione speciale, così come l'ammissione all'assistenza all'esterno prevista per le detenute madri può essere concessa anche ai padri, se la madre è deceduta o impossibilitata ad accudire i figli (art. 47-quinquies comma 7º e art. 21-bis comma 3º Ord. Penit.).

Tra le altre previsioni del dettato normativo dell'ordinamento penitenziario, che comunque possono essere ricondotte al tema del mantenimento dei rapporti familiari, vanno considerate quelle relative ai diritti d'informazione e quelle riguardanti i diritti economici.

Sotto il primo aspetto deve essere considerato l'art. 29 Ord. Penit. che al 1º comma prevede il diritto per i detenuti di informare immediatamente i familiari del loro ingresso in istituto o dell'avvenuto trasferimento, mentre al secondo stabilisce che in caso di decesso o grave infermità "deve essere data tempestiva notizia ai congiunti", e in maniera corrispettiva devono essere informati i detenuti di ogni eventuale decesso o malattia riguardante i propri familiari.

Per quanto riguarda i diritti economici, l'art. 23 Ord. Penit. stabilisce che ai detenuti e agli internati vengano corrisposti gli assegni familiari nella misura stabilita dalla legge; l'art. 25 prevede in relazione al peculio che una parte di esso possa essere costituito da invii da parte della famiglia, o che la famiglia sia a sua volta destinataria di una parte di esso.

La situazione spesso difficile in cui si trovano molte famiglie in seguito all'evento detentivo che riguarda un loro membro necessita anche di un impegno dell'intera amministrazione, coadiuvata dall'assistenza sociale, che integra il trattamento dei detenuti e degli internati provvedendo all'assistenza delle loro famiglie, rivolgendo la loro azione a "conservare e migliorare le relazioni dei soggetti con i familiari" rimovendo le difficoltà che possono ostacolare il reinserimento sociale (art. 45 comma 2º Ord. Penit). A tale scopo il servizio sociale può servirsi della collaborazione con enti pubblici e privati. (art. 45 comma 3º Ord. Penit.).

In particolare, le citate attività devono perseguire l'obiettivo di raccogliere tutte le notizie utili per accettare i bisogni reali dei liberandi e studiare il modo di provvedervi secondo le loro attitudini e le condizioni familiari (art. 75 n. 2 Ord. Penit.); curare il mantenimento delle relazioni dei detenuti e degli internati con le loro famiglie (art. 75 n. 5 Ord. Penit.) e collaborare con i competenti organi per il coordinamento delle attività assistenziali .... diretta ad assicurare il più efficace e appropriato intervento in favore dei liberati e dei familiari dei detenuti e degli internati (art. 75 n. 8 Ord. Penit.).

Proprio in relazione al delicato periodo della dimissione l'ordinamento prevede che venga stabilito un particolare aiuto. (art. 45 Ord. Penit).

1.5. Le modifiche apportate dal nuovo regolamento esecutivo. D.P.R. 30 giugno 2000 n.230

L'emanazione del regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà avvenuta con D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 interviene dopo quindici anni dalla riforma penitenziaria del 1975, ed ancor prima della sua approvazione, la portata innovatrice del nuovo regolamento veniva celebrata dai mass-media, come un serio e concreto tentativo di "rendere più umano il volto del nostro carcere". (28)

L'approvazione del nuovo regolamento, come specificato nella relazione di accompagnamento, dimostra senza dubbio la volontà di adeguare la disciplina esecutiva della legge penitenziaria del 1975 con le modifiche apportate sia in campo normativo interno (legge n. 663 del 1986; legge n. 395 del 1990; legge n. 492 del 1992; legge n. 165 del 1998), sia ai parametri di valore individuati dalle fonti comunitarie e internazionali (Regole minime per il trattamento dei detenuti adottate dall'ONU nel 1955; Convezione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950 e ratificata dall'Italia nel 1955; alle Regole penitenziarie europee stipulate dal Consiglio d'Europa nel 1973 e modificate nel 1987; alla Risoluzione sulle condizioni carcerarie nell'Unione europea: ristrutturazione e pene sostitutive, adottata dal Parlamento europeo nel 1998.).

La portata innovativa del nuovo regolamento si impone anche in un più generale intento di razionalizzazione, intesa non soltanto ad armonizzare le disposizioni, "la cui applicazione, oscillante fra interpretazioni ragionevoli e fiscali, ha dato luogo a prassi eterogenee, che devono essere evitate", come specifica la relazione prima menzionata, ma anche come introduzione di modifiche migliorative di alcuni aspetti del regime penitenziario, che appaiono sorrette da "nuovi livelli di sensibilizzazione e di rispetto verso le persone recluse".

Si collocano infatti entro questo ambito le norme regolamentari che ampliano gli spazi in materia di colloqui e di telefonate.

Da un punto di vista umano il nuovo regolamento pone l'accento proprio sull'attenzione e la cura con cui si debbano trattare tutte quelle situazioni familiari e relazionali che, pur fisicamente fuori dal carcere, continuano ad incidere sulla condizione attuale dei detenuti e sulle loro aspettative di vita futura.

La relazione di accompagnamento infatti precisa che le nuove concessioni sono sostenute dalla "considerazione che un più frequente e intenso contatto dei reclusi con le persone di riferimento all'esterno, particolarmente i familiari, può avere solo effetti positivi: il rafforzamento o almeno il contrasto all'indebolimento delle relazioni con la famiglia, il contenimento dell'effettodell'isolamento della persona prodotto dalla reclusione, la riduzione delle tensioni dei detenuti e internati all'interno dell'istituto".

Molti infatti sono gli interventi che modificano la disciplina dei rapporti con la famiglia.

In primo luogo il nuovo testo dell'art. 14 tenta di uniformare la prassi operative dei diversi istituti riguardo alla ricezione dei pacchi inviati dall'esterno, da sempre strumenti privilegiati per il mantenimento dei rapporti affettivi. Al regolamento interno spetta elencare i generi e gli oggetti di cui è consentita la ricezione, oltre che l'acquisto e il possesso, ma il regolamento stabilisce il limite ordinario che prevede la possibilità di ricevere quattro pacchi al mese per un peso complessivo di 20 kg, che potranno contenere esclusivamente abbigliamento e generi alimentari il cui controllo non necessiti di manomissione (art. 14 comma 6º Nuovo Reg. Esec.). Tutte queste limitazioni vengono meno quando destinatarie risultino le detenute madri che abbisognano di tale merce per provvedere alla cura dei figli (art. 14 comma 10º Nuovo Reg. Esec.).

In materia di colloqui e di corrispondenza telefonica le modifiche apportate dal nuovo regolamento sono davvero significative.

Il comma 1º dell'art. 37 del Nuovo Reg. Esec. prevede innanzitutto l'adeguamento delle norme regolamentari alle modifiche introdotte dall'art. 4 della legge n. 663 del 1986 all'art. 18 dell'Ordinamento penitenziario, stabilendo che i colloqui e le telefonate dei condannati, degli internati e degli imputati dopo la pronuncia della sentenza di primo grado sono autorizzati dal direttore dell'istituto. Inoltre è stato soppresso l'obbligo di comunicare all'ispettore distrettuale l'elencazione di colloqui con persone diverse dai congiunti o conviventi, data la sostanziale inutilità di tale comunicazione, visto che la concessione rimane registrata negli atti dell'istituto.

Il comma 5º dell'art. 37 stabilisce che i colloqui ordinari si svolgano in locali interni senza mezzi divisori, fatte salve le ragioni sanitarie o di sicurezza che potrebbero imporne l'utilizzo.

Il comma 8º aumenta il numero dei colloqui, che passa da quattro a sei mensili, venendo riassorbiti i due supplementari che sotto la disciplina precedente erano condizionati ad una valutazione premiale dai presupposti piuttosto incerti rimessa al direttore, e scompare la previsione della cadenza settimanale prevista all'art. 35, comma 7º, già introdotta dalla circolare D.A.P. n. 3136/5586 del 30 maggio 1998. Sono esclusi dall'aumento ex lege i detenuti o internati per i reati di cui al primo comma dell'art. 4-bis dell'Ord. Penit.

Il 9º comma dell'art. 37 consente, che il limite quantitativo anzidetto sia derogato verso l'alto in caso di gravi infermità di particolari circostanze personali e familiari del detenuto o dell'internato, o quando il colloquio debba tenersi con figli di età inferiore ai dieci anni.

Al comma 13º, è infine introdotta la possibilità che si garantisca ai detenuti che lavorano di svolgere i colloqui nei giorni festivi.

A renderci chiara l'idea del cambiamento di prospettiva di questo nuovo regolamento nel modo di intendere i rapporti con la famiglia, che vengono ora completamente esclusi dall'ottica premiale, e vengono a pieno titolo inseriti nel percorso trattamentale di ricostruzione delle relazioni familiari e sociali del ristretto dobbiamo qui porre l'attenzione su due significative innovazioni che hanno coinvolto l'art. 61.

L'art. 61, intitolato "Rapporti con la famiglia e progressione nel trattamento", al comma 2º attribuisce al Direttore la possibilità, in linea con i pareri fornitigli dal gruppo di osservazione, di concedere: alla lettera a) colloqui oltre quelli di cui all'art. 37, e alla lettera b) l'autorizzazione ad essere visitati dalle persone ammesse ai colloqui, e il permesso di poter trascorrere con loro parte della giornata.

Questa norma risulta dalla modifica dell'art. 71 del vecchio regolamento esecutivo, che prevedeva tra le ricompense, concesse su iniziativa del direttore ai detenuti particolarmente meritevoli, al comma 2º lettera b), l'istituto della visita, ovvero la possibilità di trascorrere parte della giornata insieme ai propri familiari, in appositi locali o all'aperto, con la possibilità di consumare un pasto insieme.

L'istituto della visita, nelle sue previsioni pratiche rimane invariato, ma cambiano profondamente i presupposti di concessione; mentre per il vecchio art. 71 tale istituto era previsto in un ottica strettamente premiale, concessa infatti su iniziativa del direttore come ricompensa per i detenuti che si erano distinti per l'impegno dimostrato nella partecipazione alle attività trattamentali (lavoro, istruzione, eccetera), nel nuovo art. 61 svolgono un ruolo primario le specifiche indicazioni del gruppo trattamentale, che, anziché attenersi ad una mera valutazione della condotta posta in essere dal soggetto, tengano in considerazione le situazioni di particolare crisi conseguente all'allontanamento dei soggetti dal nucleo familiare, ed i problemi di relazione ad essa connessi, nell'interesse di attivare costruttive dinamiche familiari.

Tutto ciò si colloca perfettamente in linea con quella che risulta essere la nuova impostazione del regolamento esecutivo che fa ricadere sull'amministrazione penitenziaria la responsabilità di rendere effettivo il trattamento, provvedendo essa stessa a fornire un'offerta di interventi, che nell'ambito dei rapporti con la famiglia si sostanzia nell'obbligo di attivarsi nel tentativo di "migliorare, ristabilire o mantenere" le relazioni con i familiari, secondo il dettato dell'art. 18 Ord. Penit. A questo scopo sono state eliminate tutte le previsioni a carattere premiale che riguardavano i colloqui, o le visite con i familiari, costituendo in capo all'amministrazione un obbligo di concedere colloqui, telefonate e quant'altro nel numero previsto dalla norma regolamentare, e talvolta pur in numero superiore se si realizzano particolari situazioni, o nei casi espressamente previsti, senza nessuna subordinazione alla valutazione sulla condotta.

Lo schema originario di regolamento prevedeva una particolare forma di permesso, riconducibile all'istituto della visita, previsto dall'art. 61, che avrebbe consentito ai detenuti ed agli internati di trascorrere con i propri familiari, un periodo di tempo fino a 24 ore continuative in unità abitative appositamente predisposte all'interno dell'Istituto, limitando il controllo del personale di polizia penitenziaria alla sorveglianza esterna dei locali, con la possibilità di effettuare controlli all'interno solo in presenza di situazioni d'emergenza.

Si trattava di una novità molto rilevante perché costituiva un importante affermazione del diritto di ogni detenuto di mantenere relazioni naturali fondamentali per la realizzazione del proprio diritto di vita. (29) La proposta rappresentava infatti una possibile soluzione di apertura riguardo al delicato problema della sessualità in carcere.

La limitazione dell'affettività è una delle sofferenze più gravi imposte dalla detenzione, in quanto oltre al dolore della privazione del contatto intimo con i propri cari, il protrarsi nel tempo dell'astinenza sessuale può portare a gravi scompensi emotivi e comportamentali, fino a condurre il soggetto detenuto sulla strada delle deviazioni sessuali. Teoria sostenuta da molti sociologici, tra cui Clemmer, e Sykes, ed in Italia, da uno studio condotto dal Dott. Ceraudo compiuto nel carcere di Pisa, il quale appunto sostiene che "interrompere il flusso dei rapporti umani significa separare l'individuo dalla sua storia personale, significa amputarlo di quelle dimensioni sociali che lo hanno generato, nutrito e sostenuto". (30)

L'introduzione dei "permessi d'amore", che consentano ai detenuti di poter intrattenere rapporti affettivi con i propri cari in locali interni al carcere ma senza il controllo visivo del personale di custodia, è una soluzione ormai adottata da molti altri Paesi europei, tra cui la Spagna, la Norvegia, la Danimarca e la Svezia. In Italia, dopo un lungo dibattito si è arrivati alla formulazione di una proposta, ma l'intervento presentato per dare soluzione al problema dell'affettività in carcere non è stato attuato in quanto la previsione del controllo visivo da parte del personale di custodia, che in questo caso sarebbe stato escluso, è stabilita, sia pure in via generale dall'art. 18 comma 2º dell'Ord. Penit., e quindi da una norma di rango primario che non prevede la possibilità di deroga da parte di una norma di rango inferiore.

La Sezione consultiva del Consiglio di Stato, nel parere espresso sullo schema di regolamento nel corso dell'adunanza del 17 aprile 2000, aveva infatti rilevato come le scelte proposte nel nuovo regolamento non potessero essere legittimamente effettuate in sede regolamentare attuativa o esecutiva, in quanto "postulano piuttosto l'intervento del legislatore, al quale solo spetta il potere di adeguare sul punto una normativa penitenziaria che sembra diversamente orientata".

Un'altra innovazione di grande importanza riguarda l'art. 73, che disciplina l'isolamento, ma svincola la sanzione disciplinare dell'esclusione dalle attività in comune da uno dei suoi contenuti disciplinari più duri, ossia il divieto, per il detenuto o l'internato sottoposto ad isolamento continuo, di fruire dei colloqui (e della corrispondenza telefonica) con i familiari. (31)

Per quanto riguarda la corrispondenza epistolare e telegrafica l'art. 38 conferma l'assenza di limiti quantitativi ed introduce la possibilità per i reclusi di ricevere missive anche via fax (1º comma).

In ultimo, recependo le correzioni apportate in materia dall'art. 9 D.P.R. n. 248 del 1989 al vecchio art. 37, la disposizione dell'art. 39 stabilisce il diritto ad una telefonata settimanale ai congiunti e conviventi, a prescindere dalla avvenuta effettuazione o meno dei colloqui visivi. Anche in questo caso il limite può essere derogato in senso favorevole al detenuto, qualora ricorrano "motivi di urgenza e di particolare rilevanza, se la stessa si svolga con figli di età inferiore a dieci anni, nonché quando il detenuto venga trasferito" (art. 39 comma 3º). La norma pone dei dubbi interpretativi che per ragioni di interpretazione sistematica, parrebbe più opportuno risolvere nel senso di individuare tre categorie di deroga al limite, e cioè: motivi di urgenza e di particolare rilevanza; rapporti con figli di età inferiore a dieci anni; trasferimento del detenuto. (32) Di questo orientamento anche la relazione di accompagnamento che ribadisce che oltre alle previsioni sulla durata e la frequenza dei colloqui visivi, "anche per la corrispondenza telefonica si prevede la possibilità che essa venga concessa oltre i normali limiti, quando si svolge con figli di età inferiore agli anni dieci".

Per i detenuti o internati per uno dei delitti di cui al 1º comma dell'art. 4-bis Ord. Penit. le telefonate restano invece solo due al mese.

Coerentemente con le moderne esigenze di vita comune e l'ormai consuetudine nell'uso del telefono la durata delle telefonate è portata da sei a dieci minuti.

Molte sono le novità che riguardano i rapporti con la famiglia, anche in modo indiretto. L'art. 48, che disciplina il lavoro all'esterno, stabilisce che nella determinazione delle prescrizioni che corredano il provvedimento di assegnazione al lavoro all'esterno si deve tener conto "dell'esigenza di consumazione dei pasti e del mantenimento dei rapporti con la famiglia, secondo le indicazioni del programma di trattamento" (13º comma). Se pur non condivisa dalla Sezione consultiva del Consiglio di Stato nel parere n. 61/2000, poiché spronerebbe il già inopportuno processo di trasformazione dell'istituto ex art. 21 Ord. Penit. da mera "modalità trattamentale" in "modalità esecutiva attenuata" (33) e, in particolare, la sua tendenziale omologazione alla misura alternativa della semilibertà, la modifica è rimasta inalterata nel testo definitivo del regolamento, anche se si è eliminata la precisazione finale "anche in sostituzione dei colloqui con la stessa", alternativa sulla quale il Consiglio di Stato aveva incentrato l'attenzione per motivare l'indebita "sovrapposizione di campi di intervento trattamentale" prodotta dal comma in discussione; (34) e si è tentato di individuarne una ratio in linea col dettato legislativo, dando risalto all'inciso dell'art. 21 Ord. Penit. in forza del quale l'assegnazione al lavoro all'esterno deve avvenire "in condizioni idonee a garantire l'attuazione positiva degli scopi previsti dall'art. 15 Ord. Penit". (35)

Note

1. Regole Penitenziarie europee, adottate dal Comitato dei Ministri in virtù dell'art. 15.b dello Statuto del Consiglio d'Europa. Racc. C.M.C.E. 12 febbraio 1987.

2. J. MATTHEWS, Forgotten Victims. How prison affects the family, Nacro, London, 1983.

3. G. DI GENNARO, R. BREDA, G. LA GRECA, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Giuffrè, Milano, 1997.

4. D. VALIA, I diritti del recluso, in "Rassegna Penitenziaria Criminologica", 1998, p. 8.

5. G. NEPPI MODONA, Ordinamento penitenziario (voce), in "Digesto delle discipline penalistiche", vol IX, Utet, Torino, 1995, p. 43.

6. G. DI GENNARO, R. BREDA, G. LA GRECA, Op. cit., p. 115.

7. Ibid.

8. P. CORSO, I rapporti con la famiglia e con l'ambiente esterno: colloqui e corrispondenza, in V. GREVI, I diritti del detenuto e il trattamento penitenziario, Zanichelli, Bologna, 1981, p. 176.

9. V. GREVI, G. GIOSTRA, G. DELLA CASA, L'ordinamento penitenziario: commento articolo per articolo, CEDAM, Padova, 2000, p. 4.

10. DELL'ANDRO, in D.VALIA, op. cit., p. 14.

11. Ivi, pp. 15-16.

12. V. GREVI, G. GIOSTRA, G. DELLA CASA, op. cit., p. 4.

13. G. DI GENNARO, R. BREDA, G. LA GRECA, op. cit., p. 47.

14. G. DI GENNARO, R. BREDA, G. LA GRECA, op. cit., p. 92.

15. Ivi, p. 91.

16. Ibid.

17. Ivi, p. 89.

18. Ivi, p. 96.

19. R. BREDA, C. COPPOLA, A. SABBATINI, Il servizio sociale nel sistema penitenziario, Giappichelli Editore, Torino, 1999, p. 186.

20. R. BREDA, L'assistente sociale per adulti nel sistema penitenziario, in F. S. Fortuna (a cura di), Operatori penitenziari e legge di riforma: i protagonisti dell'ideologia penitenziaria, F. Angeli, Milano, 1985, pp. 206-210.

21. G. DI GENNARO, R. BREDA, G. LA GRECA, op. cit., pp. 170-171.

22. G. SPANGHER, Commento all'art. 28 Ord. Penit., in V. GREVI, G. GIOSTRA, G. DELLA CASA, op. cit., p. 246.

23. P. CORSO, op. cit., p. 178.

24. Dipartimento Amministrazione Penitenziaria.

25. Circolare D.A.P. 24 ottobre 1985 n. 3136/5586.

26. P.CORSO, op. cit., p. 178.

27. SPANGHER, in V. GREVI, G. GIOSTRA, G. DELLA CASA, op. cit., p. 248.

28. B. GALGANI, Il nuovo regolamento di esecuzione penitenziaria, in "Legislazione penale", 4/2000, p. 851.

29. P. CANEVELLI, Il commento al Nuovo regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, in "Diritto Penale e Processo", n. 10/2000, p. 1321.

30. F. CERAUDO, La sessualità in carcere: aspetti psicologici, comportamentali ed ambientali, in A. Sofri, F. Ceraudo, Ferri battuti, Archimedia, Pisa, 1999.

31. B. GALGANI, op. cit., p. 863.

32. Ivi, p. 864.

33. M. PAVARINI, La disciplina del lavoro dei detenuti, in V. GREVI (a cura di), L'ordinamento penitenziario tra riforme ed emergenza, Cedam, Padova, 1994, p. 219.

34. Consiglio di Stato parere n. 6/2000, p. 9.

35. P. CANEVELLI, op. cit., p. 1321.