ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Conclusioni

Valentina Adduci, 2002

Già negli anni '70 la Corte Costituzionale aveva sancito che lo scopo del sistema della giustizia minorile dovesse essere rappresentato dal recupero del minore che commette un reato. Tale scopo trova un riconoscimento legislativo nel D.P.R. 448 del 1988 contenente le disposizioni sul nuovo processo penale minorile. Molte delle disposizioni contenute in tale decreto sono volte a realizzare il recupero del minore attraverso la limitazione del contatto fra il minore stesso ed il processo penale, sulla base del principio della minima offensività.

Infatti secondo il principio della minima offensività, corollario del quale è la teoria del minimo intervento penale, il processo penale può rappresentare per il minore un'esperienza non solo inutile per l'accrescimento della sua personalità, ma anche dannosa in quanto potenzialmente atta ad interrompere o turbare l'evoluzione di una personalità ancora in formazione. Per questo motivo vengono elaborate, dal D.P.R. 448 del 1988, delle formule di chiusura del processo che non prevedono l'irrogazione di una pena, nonostante il riconoscimento della responsabilità penale del minore, in particolare la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto e l'estinzione del reato per esito positivo della prova.

Il perdono giudiziale, invece, venne introdotto dal codice penale del 1930 e successivamente contemplato nelle disposizioni istitutive del Tribunale per i Minorenni nel 1934. L'istituto emanato in piena epoca fascista doveva assolvere ad una funzione di ammonimento pienamente corrispondente con il paternalismo autoritario proprio di tale regime. Dopo l'introduzione della Costituzione repubblicana l'istituto, mantenuto in vigore, venne interpretato alla luce del principio rieducativo contenuto nell'articolo 27 del testo costituzionale. A partire dagli anni '70 il perdono giudiziale, interpretato sulla base del principio della minima offensività, venne visto come un istituto che permetteva l'evoluzione armonica della personalità del minore e il suo reinserimento nella società, evitando l'afflizione della condanna.

La dottrina e la giurisprudenza sono sostanzialmente divise fra la posizione di chi sostiene la validità di tali istituti, in quanto dotati di una valenza minimamente offensiva, capace di preservare le esigenze educative proprie di ogni minore, e di una valenza responsabilizzante, soprattutto per quanto riguarda il perdono giudiziale e la messa alla prova, e la posizione di chi, al contrario, sostiene che tali misure deresponsabilizzino il minore, il quale percepisce solamente la sua impunità.

L'analisi della prassi applicativa seguita dai Tribunali per i Minorenni di Trieste, di Firenze e di Napoli in relazione alle modalità di definizione del processo penale minorile esaminate ha messo in evidenza la scarsa applicazione di tali istituti. In particolare a Trieste i giudizi definiti con tali istituti hanno rappresentato il 7,4% del totale dei giudizi esauriti nel periodo osservato, a Firenze hanno rappresentato l'8,4% di tali giudizi e a Napoli il 4,6%.

A Trieste incide sulla scarsità di tale percentuale soprattutto l'esiguo numero di estinzioni del reato per esito positivo della prova, da ricollegare all'altrettanto scarso utilizzo della sospensione del processo con messa alla prova del minore.

Per quanto riguarda il Tribunale per i Minorenni di Firenze il motivo dello scarso utilizzo di tali formule terminative del processo penale minorile va individuato soprattutto nella minore applicazione che di tali istituti viene fatta nei confronti dei minori stranieri, che rappresentano la maggior parte della criminalità minorile, rispetto all'applicazione di essi nei confronti dei minori italiani. Infatti sia la prognosi favorevole in ordine all'astensione del minore dal commettere ulteriori reati, requisito indispensabile per l'applicazione del perdono giudiziale, sia l'occasionalità del comportamento, requisito richiesto dalla legge per l'applicazione dell'irrilevanza del fatto, in assenza di altre informazioni, sono valutati alla luce dell'assenza di precedenti penali, requisito che difficilmente i minori stranieri possiedono. La messa alla prova, inoltre, è applicata solo nel 20% dei casi a minori stranieri, in quanto spesso la loro condizione socio-familiare non si presenta come elemento favorevole su cui fondare un giudizio probabilistico in ordine alla buona riuscita della prova.

A Napoli la scarsa applicazione delle formule di chiusura del processo penale minorile analizzate si giustifica con la tipologia dei reati commessi dalla criminalità minorile locale, che si caratterizza per la particolare gravità dei reati commessi. Inoltre sono esclusi a priori, per una scelta di politica criminale, dall'applicazione di tali istituti i reati connessi con il fenomeno della criminalità organizzata, che a Napoli si identifica con la camorra. I minori stranieri, che costituiscono una parte marginale della criminalità minorile locale, fruiscono dell'applicazione degli istituti in esame in misura minore di quanto ne fruiscano i minori italiani. In particolare sono pressoché esclusi dall'applicazione dell'irrilevanza del fatto e della messa alla prova, ostando all'applicazione di esse rispettivamente, oltre alla difficoltà di accertare l'occasionalità del comportamento, la presenza di esigenze educative del minore che potrebbero essere interrotte dall'ulteriore svolgersi del processo, interpretate come percorsi educativi-formativi concreti seguiti dal minore (scuola o lavoro) e la presenza della famiglia del minore come strumento di sostegno per il mantenimento degli impegni assunti con il progetto di intervento.

Per concludere il tema dei minori extracomunitari si registra che in generale fruiscono degli istituti in esame in misura minore dei minori italiani. A tale dato fa eccezione la prassi seguita dal Tribunale per i Minorenni di Trieste in relazione al perdono giudiziale e all'irrilevanza del fatto, che vengono concessi ai minori stranieri a prescindere da qualunque informazione su cui fondare la prognosi di astensione dal commettere ulteriori reati e il requisito dell'occasionalità del comportamento, in virtù del principio in dubio pro reo.

Dall'analisi condotta nei tre tribunali in esame, emerge la disomogeneità da zona a zona delle risorse presenti sul territorio sulla base delle quali elaborare un progetto di intervento per la realizzazione della messa alla prova. In particolare Napoli si caratterizza per la scarsezza di tali risorse e probabilmente uno dei motivi per i quali nel progetto di intervento viene sempre prescritta la conciliazione con la vittima del reato sta proprio nella necessità di sopperire alla scarsa possibilità di reperire attività (di tipo lavorativo, di volontariato, scolastiche ecc.) da far svolgere al minore nel corso della prova.

A conclusione dell'analisi condotta si evidenzia l'insufficienza e l'inadeguatezza del processo penale minorile, pur nelle sue forme più progressiste, a far fronte a problematiche quali l'emarginazione, il basso livello di scolarizzazione, la mancanza di lavoro e il degrado urbano e familiare, che portano ampie fasce della popolazione minorile in Italia ad intraprendere la via del crimine. Il processo penale, per quanto incentrato al rispetto delle problematiche tipiche dei minori, non costituisce la sede più adatta per la soluzione dei fenomeni che originano la criminalità minorile, la soluzione dei quali dovrebbe essere perseguita attraverso politiche sociali portate avanti sia a livello centrale, sia a livello locale.