ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo 1
La giustizia minorile e il principio della minima offensività

Valentina Adduci, 2002

1.1. L'introduzione del Tribunale per i minorenni (R.d.l. 1404 del 1934)

Alla metà del XIX secolo, le scienze antropologiche cominciarono a manifestare l'esigenza di riformare la giustizia penale nei confronti dei minori, adattandola alle peculiari caratteristiche di tali soggetti. Nacque, così, in quasi tutti i paesi occidentali, il diritto penale minorile.

La caratteristica peculiare di tale diritto è l'essere destinato alla speciale categoria dei soggetti di minore età, soggetti in età evolutiva, nei quali le qualità psico-fisiche e la personalità sono in fase di sviluppo. Per questi motivi tali individui risultano essere più facilmente educabili, ma, allo stesso tempo, più facilmente soggetti ad influssi criminogeni derivanti da trattamenti penali non adeguati. L'autonomia del diritto penale minorile si attua a livello della considerazione della personalità e della tipologia delle conseguenze, mentre la tipologia dei reati è la stessa del diritto penale per adulti.

In Italia il codice penale del 1930 introduce una serie di norme specifiche per i minorenni. In tema di imputabilità prevede la presunzione assoluta di non imputabilità fino ai quattordici anni (art. 97 c.p.), mentre prima il limite era di dieci. Per il minore di età compresa fra i quattordici e i diciotto anni la capacità di intendere e di volere, che sottende alla imputabilità, deve essere accertata di volta in volta (art. 98 c.p.); non essendo prevista, per questa fascia di età, alcuna presunzione il soggetto sarà imputabile solo ove l'accertamento della capacità di intendere e di volere abbia avuto esito positivo. L'incapacità può essere causata da situazioni patologiche di anormalità biologica o psichica o da 'immaturità', concetto elaborato successivamente dalla giurisprudenza (1). Infine per i soggetti di maggiore età è prevista la presunzione assoluta di imputabilità, in quanto la loro incapacità di intendere e di volere è ricondotta a situazioni patologiche.

Il codice Rocco non prevede speciali fattispecie di reato per i minorenni, ma valgono anche per essi le fattispecie previste dal diritto comune, "previsioni incriminatrici valide per il tipo di rapporti sociali voluto dagli adulti e per gli adulti, vengono automaticamente applicate ai giovani senza alcuna mediazione con gli interessi e i valori di cui essi sono portatori" (2).

Non muta nemmeno la qualità della sanzione, consistente nella pena pecuniaria e nella detenzione. La pena può essere, però, ridotta fino ad un terzo rispetto ai limiti edittali previsti dal codice penale.

L'art. 142, abrogato dalla l. n. 354 del 1975 (ordinamento penitenziario), stabiliva che i minori dovessero scontare la condanna "in stabilimenti separati da quelli riservati agli adulti, ovvero in sezioni separate di tali stabilimenti, ed è loro impartita, durante le ore non destinate al lavoro, un'istruzione diretta soprattutto alla rieducazione morale..." (3).

L'art. 176 c.p. prevede l'istituto della liberazione condizionale, in base al quale il soggetto, se durante la detenzione ha tenuto un comportamento tale da fare apparire sicuro il suo ravvedimento, può trascorrere il resto della pena in regime di libertà vigilata.

Infine, il codice Rocco prevede, anche, il 'perdono giudiziale' (art. 169), istituto riservato esclusivamente ai minori. Con esso lo Stato rinuncia alla condanna o al rinvio a giudizio, anche se il giudice abbia accertato la responsabilità del minore imputato.

Pochi anni dopo l'entrata in vigore del codice penale, con R.D.L. n. 1404 del 20 luglio 1934 (convertito in L. 885 del 1935), venne introdotto il Tribunale per i Minorenni (4).

Questo tribunale è istituito presso ogni sede di Corte d'appello o di sezione di Corte d'appello. E' composto da due membri togati e due onorari (5). I primi sono magistrati, di cui uno della Corte d'appello e svolge le funzioni di presidente. I due membri onorari, necessariamente un uomo e una donna (v. nota n. 5) sono

benemeriti dell'assistenza sociale, scelti tra i cultori di biologia, di psichiatria, di antropologia criminale, di pedagogia, di psicologia, di sociologia che abbiano compiuto il trentesimo anno di età (6).

L'art. 50 dell'Ordinamento Giudiziario li chiama "esperti". Questi vengono nominati, con decreto del Capo dello Stato, su delibera del Consiglio Superiore della Magistratura per un triennio e possono anche essere riconfermati. Con il loro apporto il Tribunale per i minorenni aggiunge alla sua competenza giuridica competenze psicologiche, pedagogiche, sociologiche, ecc., che risultano di fondamentale importanza per un organo chiamato ad operare in situazioni complesse che coinvolgono soggetti deboli e bisognosi di tutela.

La previsione del R.D.L. 1404 in materia di composizione del Tribunale dei minorenni risulta conforme al testo dell'art. 102, secondo comma della Costituzione, introdotta successivamente rispetto al R.D.L. in esame, nel 1948. La Costituzione, infatti, mentre vieta l'istituzione di giudici speciali o straordinari, consente l'istituzione presso gli organi giudiziari ordinari di "sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura".

Il Tribunale per i minorenni ha competenza penale (giudica sui reati commessi da persone che, al momento del fatto, non hanno compiuto i diciotto anni), amministrativa (si occupa del disadattamento del minore applicando misure 'rieducative') e civile (competenza molto vasta nelle materie elencate nell'art. 38 del codice civile).

L'introduzione del Tribunale per i minorenni segna una svolta decisiva verso la creazione del diritto penale minorile, che viene completato con l'operare di un organo ad hoc per quei soggetti particolarmente deboli e con caratteristiche del tutto peculiari, della cui tutela si faceva portatore quel movimento antropologico e umanitario presente in gran parte dei paesi occidentali, di cui abbiamo detto precedentemente.

L'esigenza di forme 'speciali', attraverso cui deve operare tale tribunale emergeva chiaramente già dall'art. 11 del R.D.L. 1404 (implicitamente abrogato dall'art. 9 del D.P.R. 448 del 1988), che stabiliva che "speciali ricerche devono essere rivolte ad accertare i precedenti personali e familiari dell'imputato sotto l'aspetto fisico, psichico, morale e ambientale" e ciò "senza alcuna formalità di procedimento quando si tratta di determinare la personalità del minore e le cause della sua irregolare condotta".

Gli scopi del decreto furono, oltre alla specializzazione del giudice, il riadattamento del minorenne, la prevenzione della delinquenza minorile attraverso la rieducazione dei devianti e il ritorno alla vita sociale dei minori 'traviati'.

Per realizzare tali fini, il R.D.L. 1404 previde una serie di istituti per minori condannati o corrigendi, compresi all'interno di un Centro di rieducazione, istituito accanto al Tribunale. Furono previste le case di rieducazione, per il recupero dei minori irregolari nella condotta o nel carattere; i focolari di semilibertà e pensionati giovanili, aventi la finalità di favorire un'adeguata socializzazione; i gabinetti medico-psico-pedagogici; gli istituti di osservazione, che dovevano compiere una approfondita valutazione della personalità del minore; le prigioni scuola, dove venivano espiate le pene inflitte ai minori; il riformatorio giudiziario, misura di sicurezza per i minori socialmente pericolosi; gli uffici di servizio sociale per i minorenni, in cui operavano, come adesso, gli assistenti sociali. Inoltre furono previsti scuole, laboratori e ricercatori speciali, che però, non furono mai attivati. Questi istituti caratterizzati da una finalità prevalentemente rieducativa, si rivelarono presto inadeguati al raggiungimento di tale scopo, diventando del tutto simili alle carceri comuni. Spesso, infatti, le istituzioni totali, quali quelle suelencate, che permeano in ogni aspetto della vita dei singoli soggetti non sortiscono l'effetto di educare e reinserire nella società esterna, ma, al contrario, accentuano la spaccatura con il mondo esterno, attraverso meccanismi di etichettamento e di stigmatizzazione ai danni dei soggetti internati. (7)

In realtà il decreto rispecchia senz'altro il contesto politico-sociale in cui fu ideato. In effetti esprime l'esigenza di ordine dello Stato forte tipica del regime fascista: il controllo su ogni aspetto della vita di ciascun individuo, specie dei giovani che venivano irreggimentati fin dalla fanciullezza, doveva servire a prevenire la devianza. All'interno di questo sistema capillare di organizzazione della vita delle masse l'unico tipo di devianza che si poteva manifestare era quella spiegata in termini di malattia. Si applicava la pena come terapia per il delinquente 'malato'. La pena, pertanto non poté mai realizzare il fine del recupero sociale del condannato, in quanto produceva l'effetto negativo di emarginare i minori etichettandoli come 'malati'.

La più grave pecca del sistema del diritto penale minorile era l'"eccessiva rigidità" (8): da una parte, infatti, si erano mantenute le fattispecie di reato e le tipologie di sanzioni (pena pecuniaria e detentiva) già previste per gli adulti, dall'altra, con il R.D.L. 1404, si introdussero poche regole procedurali particolari caratterizzate dai limiti di cui si è già detto. Neanche le successive modifiche al decreto rendevano il processo penale adeguato alla particolare condizione dei minorenni.

Sulla legge n. 152 del 1975 intervenne la Corte Costituzionale, con sentenza n. 46 del 1978, dichiarando la non estensibilità ai minori della preclusione di concessione della libertà provvisoria, che era prevista per i soggetti adulti dall'art. 1 della legge.

Una parziale eccezione all'inadeguatezza della normativa procedurale minorile era rappresentata dalla novellistica del 1984, in riferimento alla riduzione differenziata del limite massimo di custodia cautelare a seconda della fascia d'età.

La legge n. 330 del 1988, recante la nuova disciplina dei provvedimenti restrittivi della libertà personale nel processo penale, poteva addirittura produrre l'effetto paradossale di vedere giudicato (e magari scarcerato) il maggiorenne il giorno successivo all'arresto, mentre al coimputato minorenne protratto lo stato di detenzione cautelare per l'impraticabilità del giudizio direttissimo.

Con la Legge n. 330 del 1988 si poteva verificare un effetto perverso per cui, mentre il maggiorenne poteva essere giudicato il giorno successivo all'arresto, al coimputato minorenne poteva essere protratta la detenzione cautelare a causa dell'impraticabilità del giudizio direttissimo così vicino al momento dell'arresto. Una novella del 1984 segna un'inversione di tendenza riguardo alla riduzione differenziata a seconda della fascia d'età del limite massimo della custodia cautelare.

In conclusione, prima del 1988, il sistema penale minorile era caratterizzato dalla sua scarsa specificità rispetto alla condizione minorile. Palomba sostiene che proprio questo aveva dato luogo

a mancanza di chiarezza sui fini del sistema proprio negli indispensabili presupposti tecnici e filosofici con conseguenti ricadute negative in termini di coerenza del sistema cui non ha ovviato l'opera di adeguamento passata attraverso la cultura degli interpreti della legge. (9)

1.2. La Costituzione Repubblicanadel 1948: gli articoli 27, terzo comma e 31, secondo comma come fonti costituzionali

Con l'avvento della Costituzione Repubblicana del 1948, si ha l'introduzione di una serie di nuovi principi, che assurgono al rango di fonte primaria dell'ordinamento giuridico. Questi principi riflettono i valori emersi nell'Assemblea Costituente, come reazione al totalitarismo fascista e sono frutto del compromesso fra le posizioni liberale-individualista, marxista-collettivista e cristiano-sociale. In particolare l'esperienza della dittatura fascista e della Resistenza avevano sviluppato una forte sensibilità al tema delle libertà, dei diritti del cittadino (10): si riscontra, infatti, nel testo della Costituzione particolare attenzione al tema dei diritti civili (che riflettono istanze personalistico-cristiane e individualistico-liberali), politici e sociali (che riflettono istanze marxiste).

Come conseguenza di ciò trovano spazio in Costituzione anche principi in materia di diritto penale, che sono classificabili in tre categorie:

  1. principi fondamentali di carattere penale, che riguardano la personalità del reo, la struttura oggettiva e soggettiva del reato, le sanzioni, la formulazione del precetto penale, la sua applicazione e i poteri del giudice (artt. 10, 24, 25, 26, 27, 68, 75, 79, 87, 90, 96, 101);
  2. diritti di libertà (di pensiero, di stampa, di religione, di circolazione, di sciopero, di riunione, ecc.), anche se incidono solo indirettamente sul diritto penale; infatti la loro compressione ad opera della legge penale può portare ad un giudizio di illegittimità costituzionale di quest'ultima, o ad una incompatibilità parziale, caso in cui la norma costituzionale avrà solo efficacia scriminante ex art. 51 del codice penale;
  3. clausole che qualificano il nostro tipo di ordinamento, in quanto individuano i valori che il legislatore penale deve tutelare e quelli che il diritto penale deve conseguire (artt. 4, 35, 37 in materia di lavoro; art. 32 in materia di salute; art. 38 in materia di assistenza sociale; artt. 29, 31 in materia di famiglia, protezione della maternità, dell'infanzia e della gioventù; art. 41 in materia di attività economica pubblica e privata; ecc.) (11).

Per molto tempo è stato sminuito il ruolo della Costituzione nel diritto penale; in realtà, come sostiene Bricola, la carta costituzionale, in quanto fonte primaria, costituisce il fondamento anche del nostro sistema penale, delineandone il nuovo volto. (12) Infatti, l'attività del legislatore penale è limitata e, allo stesso tempo, indirizzata dal principio solidaristico-sociale (art. 3 Cost.) e da quello personalistico (art. 2 Cost.), principi base della Costituzione.

Di particolare importanza per il nostro studio risultano essere gli artt. 27, terzo comma, che fa parte della prima categoria di norme costituzionali con rilevanza sul diritto penale, e 31, secondo comma, che fa parte della terza categoria di tali norme.

Partiamo dall'analisi del terzo comma dell'art. 27 della Costituzione, il quale prevede che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". All'epoca dell'Assemblea Costituente era ancora aperto il dibattito sulla funzione della pena fra Scuola classica e Scuola positiva (13). Dai lavori preparatori alla Costituzione, infatti, emerge la preoccupazione dei costituenti che una esplicita presa di posizione della carta costituzionale su tale argomento equivalesse a risolvere il dibattito fra le due Scuole a favore dell'una o dell'altra. Retrocedendo, nella formulazione dell'articolo, il principio rieducativo rispetto al divieto di trattamenti inumani, secondo l'istanza di molti studiosi democristiani e altri moderati (Moro, Leone, Bettiol, Bellavista), si optò per una formulazione che mantenesse lo Stato in una posizione di neutralità rispetto ai dibattiti scolastici (14).

A causa della sua genericità il principio della rieducazione è stato diversamente interpretato nel corso degli anni a seconda delle diverse concezioni politco-criminali. Negli anni '50, periodo di forte allarme sociale e caratterizzato da alti indici di criminalità, la dottrina neutralizza la portata innovatrice del principio rieducativo per privilegiare teorie retributive orientate in senso religioso, secondo le quali la rieducazione è solo uno scopo eventuale. Negli anni '60 la maggiore importanza assunta dalle forze politiche progressiste porta ad un'evoluzione dell'interpretazione del principio rieducativo. Si aderisce, infatti, alla concezione polifunzionale della pena, secondo cui la pena ha funzione satisfattoria, generalpreventiva e specialpreventiva. Quest'ultima funzione diventa un obiettivo inderogabile, sulla base dell'art. 27. La rieducazione del condannato deve mirare a favorire la tendenza a vivere osservando la legge e il riadattamento sociale.

Nella prima metà degli anni '70 la spinta politica innovatrice che parte dai movimenti del '68 porta alla valorizzazione del principio rieducativo su tutti i diversi livelli della fenomenologia punitiva: a livello del sistema sanzionatorio, a livello della teoria generale del reato e a livello del principio della colpevolezza quale presupposto della punibilità. Nella seconda metà degli anni '70, con il fenomeno del terrorismo e la conseguente legislazione d'emergenza, il principio rieducativo entra in crisi e si assiste alla rivalutazione della prevenzione generale e della difesa sociale.

Attualmente il dibattito sugli scopi della pena parte dal presupposto che la prevenzione generale e la prevenzione speciale sono volte ad impedire le offese a beni o interessi bisognosi e meritevoli di tutela penalistica, vale a dire che la pena si giustifica solo dove sia necessaria per prevenire le aggressioni più intollerabili ai beni giuridici (principio del diritto penale come extrema ratio). Inoltre, per il principio della proporzione, l'entità della sanzione penale deve essere stabilita in funzione della gravità dell'illecito.

La dottrina ha elaborato molteplici accezioni del principio rieducativo. La rieducazione può essere identificata con la risocializzazione o il recupero sociale, come è avvenuto nei primi anni '70; ma, in realtà, molti reati possono essere commessi solo da soggetti ben inseriti nei circuiti socio-economici. La rieducazione è stata identificata anche come correzione morale; ma questa visione è facilmente criticabile se si considera, innanzitutto, il pericolo insito nella pretesa che esista una morale unica e, inoltre, la presenza di reati di mera creazione legislativa, che esulano dall'ambito della morale.

Oggi la dottrina appare concorde nel ritenere che la rieducazione sia la tendenza a vivere nella legalità, senza commettere reati e che il verbo "tendere", usato nell'art. 27, significhi subordinare il processo rieducativo all'accertamento di una disponibilità psicologica del destinatario.

Nell'interpretazione della Corte Costituzionale fino alla prima metà degli anni '70 la rieducazione veniva definita con termini ambigui e generici quali "emenda", "recupero sociale", "riadattamento". Già in quegli anni, però, la portata innovatrice del precetto costituzionale è recepita dalla Corte che, nella sentenza n. 204 del 1974, afferma che la legge deve garantire il diritto ad accertare se la quantità di pena espiata abbia assolto al suo fine rieducativo, anche riesaminando la necessarietà del protrarsi della pretesa punitiva. In questo modo la Corte sancisce la necessità di predisporre i mezzi e le forme atti a garantire la finalità rieducativa.

Successivamente si consolida un'interpretazione del principio rieducativo come "risocializzazione", da intendersi come ritorno del soggetto nella comunità e, quindi, nella vita sociale. Si abbandonano, dunque, le idee di "correzione" e di "trattamento risocializzante", che suggeriscono un cambiamento del reo imposto in modo autoritario, per privilegiare una "solidaristica offerta di opportunità" di correggere la propria antisocialità (15). In questa linea la reintegrazione, l'intimidazione e la difesa sociale, pur essendo valori che trovano il loro fondamento nella Costituzione, non possono giustificare "il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell'istituto della pena" e, peraltro, tale finalità trova attuazione non solo nelle fase dell'esecuzione della pena, ma anche nella fase della creazione legislativa del sistema sanzionatorio, investendo la stessa teoria della pena (16).

Per quanto riguarda i minori si nota come l'art. 27 della Costituzione non faccia riferimento a tali soggetti. Nemmeno dai lavori preparatori della Costituzione emerge un qualche riferimento all'applicazione del principio rieducativo ai soggetti di minore età. Questa lacuna verrà colmata dall'opera della Corte Costituzionale.

Nei confronti dei minori il principio rieducativo assume un significato e un'importanza peculiari, dati dal fatto che in questi soggetti il processo educativo non è compiuto, ma è in evoluzione, come la loro personalità. Tutto il sistema penale minorile è, quindi, improntato quasi esclusivamente alla rieducazione, che viene considerata un interesse-dovere dello Stato, a cui è subordinata la pretesa punitiva, come emerge dalla sent. n. 49 del 1973 della Corte Costituzionale. La sent. n. 168 del 1994 specifica che la funzione rieducativa della pena per i soggetti di minore età "è da considerarsi, se non esclusiva, certamente preminente".

Il D.P.R. 448 del 1988, che detta la disciplina del processo penale minorile, afferma esplicitamente che il processo penale "non deve interrompere i processi educativi in atto". Predispone, pertanto, interventi atti a non intralciare lo svolgersi del processo educativo-evolutivo-relazionale (per esempio sospensione del processo e messa alla prova, sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, perdono giudiziale, ecc.) (17), in quanto una sua interruzione può destabilizzare una personalità in via di strutturazione (18). Inoltre fa riferimento anche ai bisogni educativi del minore espressi, ma non ancora soddisfatti, che devono essere assecondati dal progetto individuale educativo perseguito con il processo. (19)

Concludendo si può affermare che nel processo penale minorile si va ben al di là della funzione rieducativa della pena prevista dal terzo comma dell'art. 27 della Costituzione, in quanto lo scopo principale di tale processo è costituito dalla protezione dei diritti del minore, dal fornire sollecitazioni per lo sviluppo della sua personalità e per la percezione della società organizzata, in una parola dell'educazione del minore (20). Lo scopo della difesa sociale è subordinato allo scopo principale dell'educazione del minore, in quanto nella valutazione del legislatore, la prevenzione e protezione attua una maggiore difesa sociale (21).

Passiamo all'analisi dell'articolo 31, secondo comma della Costituzione, secondo il quale la Repubblica "protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo".

Nell'ambito della Giustizia minorile proteggere la gioventù significa soprattutto preservare il processo educativo in atto nel minore e favorire, anzi, avere come obiettivo la sua educazione, tenendo conto della specificità della condizione minorile. Gli istituti che la Repubblica garantisce per il perseguimento di questi scopi sono il Tribunale per i minorenni e il sistema del processo penale minorile, che, con la loro specialità rispetto al tribunale ordinario e alla procedura penale per adulti, si adattano alle peculiari esigenze dei minorenni.

La Corte Costituzionale ha preso posizione in questo senso già con la sentenza n. 25 del 1964 in cui mette in evidenza la necessità che la Giustizia minorile sia dotata di una "particolare struttura in quanto è diretta in modo specifico alla ricerca delle forme più adatte per la rieducazione dei minorenni".

Con la sentenza n. 222 del 1983 la Corte riconduce al secondo comma dell'art. 31 la necessità della specializzazione del giudice minorile, della prevalente esigenza rieducativa del processo minorile e delle valutazioni del giudice fondate su prognosi individualizzate in funzione del recupero del minore deviante.

Nella sentenza n. 78 del 1989 la Corte sostiene che, in coerenza con queste finalità, per i reati commessi dai minori è prevista la competenza del Tribunale per i minorenni, in quanto struttura "diretta in modo specifico alla ricerca di forme adatte per la rieducazione dei minorenni" e con la sentenza n. 143 del 1996 aggiunge che "le disposizioni relative al processo minorile introducono garanzie specifiche riferite all'iter processuale ed alla possibilità di avvalersi dei servizi minorili, allo scopo di approfondire la conoscenza della personalità e delle condizioni di vita del minore, nonché la rilevanza sociale del fatto per cui si procede".

La sentenza n. 109 del 1997 identifica la protezione della gioventù ex articolo 31, secondo comma con l'"esigenza di specifica individualizzazione e flessibilità del trattamento che l'evolutività della personalità del minore e la preminenza della funzione rieducativa richiedono" (22).

Con il processo penale minorile si realizza, pertanto, un chiaro collegamento fra l'art. 31, secondo comma e l'art. 27, terzo comma della Costituzione. La Repubblica predispone un sistema di Giustizia minorile con finalità soprattutto educative. A questo proposito scrive Melita Cavallo:

ogni provvedimento dell'Autorità giudiziaria minorile deve tutelare l'interesse superiore del minore, e sicuramente il diritto all'educazione rappresenta per un ragazzo l'interesse primario, anche in pendenza di un procedimento penale a suo carico, e anche in sede di esecuzione di pena, persino quando la pena è di tipo detentivo di lunga durata (23).

Come era, del resto, opinione di Gian Paolo Meucci, presidente del Tribunale per i minorenni di Firenze negli anni '70, "si può educare nelle forme della giurisdizione" (24).

1.3. La giurisprudenza costituzionale verso il nuovo processo penale minorile

Nell'ambito della giustizia minorile la Corte Costituzionale ha rivestito un ruolo centrale, così come in molti altri settori dell'ordinamento giuridico. Le sentenze della Corte sono servite ad adattare le norme poste in essere dal legislatore alle esigenze specifiche dello speciale settore della giustizia rivolto ai soggetti di minore età, così come previste in Costituzione dagli artt. 27, terzo comma e 31, secondo comma. Inoltre attribuendo autorevolezza alle istanze di gran parte della dottrina in tale materia, hanno costituito un imput, un punto di partenza di massima importanza verso la riforma del processo penale minorile del 1988.

Già dagli anni '60 la Corte ha preso posizione sull'esigenza di specificità della giustizia minorile, come settore autonomo rispetto a quello previsto per gli adulti e volto prevalentemente alla rieducazione. La sentenza n. 25 del 1964 (25), infatti, partendo dall'art. 31, secondo comma della Costituzione, stabilisce che "la giustizia minorile ha una particolare struttura in quanto è diretta in modo specifico alla ricerca delle forme più adatte per la rieducazione dei minorenni". Questa costituisce la prima di una serie di sentenze, nelle quali la Corte Costituzionale afferma l'esigenza di tutela dei minori sulla base del secondo comma dell'art. 31 della Costituzione.

Nella sentenza n. 49 del 1973 (26) si sottolinea l'esistenza di un "peculiare interesse-dovere dello Stato al recupero del minore", al quale è addirittura subordinata la realizzazione o meno della pretesa punitiva.

La sentenza n. 16 del 1981 ricomprende la previsione della deroga alla pubblicità del dibattimento, nell'ambito dei mezzi approntati dall'ordinamento per il conseguimento della finalità di tutela dei minori. La Corte sostiene che la pubblicità dei fatti può comportare conseguenze negative sia allo sviluppo spirituale, sia alla vita materiale del minore.

La sentenza n. 222 del 1983 (27) pone l'accento sul fatto che la "tutela dei minori si colloca tra gl'interessi costituzionalmente protetti; ed il Tribunale per i minorenni, considerato nelle sue complessive attribuzioni, oltre che penali, civili ed amministrative, ben può essere annoverato fra quegli 'istituti' dei quali la Repubblica deve favorire lo sviluppo ed il funzionamento così adempiendo al precetto costituzionale che la impegna alla protezione della gioventù". Secondo la Corte il principio espresso nel secondo comma dell'art. 31 della Costituzione richiede l'adozione di un sistema di giustizia minorile basato sulla specializzazione del giudice e sulla "necessità di valutazioni da parte dello stesso giudice, fondate su prognosi individualizzate in funzione del recupero del minore deviante" (28). Questa finalità del recupero del minore, sostiene la Corte, deve essere perseguita "mediante la sua rieducazione e il suo reinserimento sociale, in armonia con la meta additata al comma 3 dell'art. 27 della Costituzione, nonché dall'art. 14, paragrafo 4, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (adottato a New York il 19 dicembre 1966 e la cui ratifica ed esecuzione sono state disposte con legge 25 ottobre 1977 n. 881)".

Anche la sentenza n. 206 del 1987 evidenzia che la finalità della giustizia minorile deve essere il recupero del minore deviante attraverso la sua rieducazione e il suo reinserimento sociale, aggiungendo che tale finalità può essere perseguita anche attraverso l'attenuazione dell'offensività del processo. Quest'ultima asserzione della Corte è particolarmente interessante, in quanto richiama il principio della minima offensività, che costituirà uno dei principi fondamentali del nuovo processo penale minorile del 1988.

Da questo primo gruppo di sentenze emergono con chiarezza alcuni punti fermi dell'intera giurisprudenza costituzionale in materia di giustizia minorile, negli anni precedenti alla riforma del 1988. Innanzitutto emerge il principio secondo il quale il minore è un soggetto da tutelare in quanto tale. E' la Repubblica il soggetto che deve apprestare la tutela dei minori, ed è vincolata a tale obbligo anche nel caso in cui il minore abbia commesso un reato. In questo caso si configura per lo Stato un interesse-dovere al recupero e alla rieducazione del minore stesso, finalità da perseguire attraverso gli organi giurisdizionali minorili. In sostanza si delinea una visione del processo penale minorile come occasione di recupero sociale del minore, prima che di affermazione della pretesa punitiva da parte dello Stato. Dall'indicazione della necessità di prognosi individualizzate per il recupero del minore, emerge la posizione di centralità nel processo, assegnata dalla Corte, all'imputato minorenne.

Da molte sentenze, poi, si desume la preferenza accordata dalla Corte Costituzionale a istituti che si pongono come alternativa alla sanzione ed alla detenzione. Basti citare, a titolo di esempio, la sentenza n.120 del 1977, con la quale la Corte sottolinea l'importanza del perdono giudiziale per consentire al minore di uscire dal circuito penale al più presto, in quanto questo istituto deriva "dalla minore fiducia del legislatore nella capacità rieducativa del carcere per i minorenni e dalla maggiore fiducia nella possibilità del loro recupero sociale dopo il primo incontro con la giustizia penale". La sentenza n. 46 del 1978, con la quale la Corte interpreta la Legge n. 52 del 1975 in modo tale da ritenere che sia possibile applicare la libertà provvisoria ai minori infradiciotenni sulla base di valutazioni del giudice, fondate su prognosi individualizzate e in cui si afferma che il principio rieducativo costituisce la finalità del processo penale minorile anche, e soprattutto, nella fase dell'esecuzione, così che il ricorso all'istituzione carceraria deve essere considerato come 'ultima ratio' per i minorenni (29). Dopo la sentenza della Corte Costituzionale anche la Corte di Cassazione si è pronunciata in questo senso il 6 marzo del 1979 affermando che "la legislazione sostanziale e processuale è volta nel suo complesso a favorire, attraverso istituti e servizi diversi dalla detenzione, il recupero e il reinserimento sociale del minore".

Un'altra importante sentenza della Corte Costituzionale è la n. 190 del 1970, nella quale viene dichiarata l'insufficienza della sola assistenza del difensore nel processo penale minorile. E' necessaria anche una "assistenza morale", che il minore può ricevere solo dall'esercente la potestà o la tutela. Pertanto lo svolgersi del processo nel contraddittorio delle parti può essere assicurato solo con l'intervento anche dell'esercente la potestà o la tutela (sentenza n. 99 del 1975).

Il lavoro della Corte Costituzionale di interpretazione e specificazione delle norme contenute nella Costituzione e l'estrapolazione da queste di principi generali in materia di giustizia minorile, denunciavano l'inadeguatezza di un sistema di giustizia minorile, che appariva, alla metà degli anni '80, sicuramente superato. Si apriva, così, la strada ad una riforma dell'intero sistema. (30)

1.4. Le fonti internazionali

Sul piano internazionale il riconoscimento dei diritti dei minori ha seguito l'evoluzione dell'affermazione dei diritti dell'uomo. All'interno di questa categoria generale si viene delineando la categoria particolare dei minori, alla quale si ricollegano poco a poco, a partire dai primi anni del '900, specifici diritti e peculiari esigenze di tutela. Risale, infatti, al 1902 una Convenzione sulla tutela del minore, approvata all'Aja nell'ambito di una Conferenza di diritto privato. Nel 1913 a Bruxelles ebbe luogo la Conferenza internazionale per la protezione dell'infanzia. Pochi anni dopo, nel 1919, l'OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) stabilì l'età minima per i bambini impiegati nel lavoro delle industrie a 14 anni e vietò il lavoro notturno per i minori di 18 anni, segnando così un passo fondamentale verso l'evoluzione del diritto internazionale minorile.

Il minore viene considerato, per la prima volta, soggetto di diritti solo con la Dichiarazione dei diritti del fanciullo, approvata nel 1924 a Ginevra. Il minore assume la dignità di cittadino.

La 'Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo' del 1948 segna una tappa imprescindibile verso l'affermazione, a livello internazionale, della dignità della persona. Con essa i diritti umani diventano definitivamente oggetto della tutela internazionale e si ergono a 'diritti positivi universali'. La 'Dichiarazione Universale' non contiene principi specifici in materia di minori, ma sancisce dei principi collegati più o meno direttamente con tale materia. In particolare l'art. 1 afferma l'uguaglianza e la libertà di tutti gli esseri umani indipendentemente dall'età. Degno di nota è anche l'art. 26 che sancisce il diritto all'istruzione come strumento per lo sviluppo della personalità.

La materia minorile è, invece, l'oggetto specifico della 'Dichiarazione dei diritti del fanciullo' del 1959. In questo importante documento si afferma che il minore, a causa della sua immaturità fisica ed intellettuale, necessita di una particolare protezione giuridica, adeguata alla sua condizione e che deve costantemente essere tenuto presente "il superiore interesse del fanciullo", che costituisce un interesse primario per l'intera società. Si sancisce anche il diritto a un'istruzione elementare obbligatoria e gratuita.

Nella materia specifica della devianza minorile e dell'amministrazione della giustizia minorile hanno un'importanza fondamentale le 'Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile' (dette anche 'Regole di Pechino'), approvate dal VI Congresso dell'ONU nel 1985. Questo documento costituisce la fonte internazionale a cui si sono ispirati i più moderni codici di procedura penale minorile; anche quello italiano (D.P.R. 448 del 1988) accoglie i principi più innovativi di tali regole.

Le 'Regole di Pechino' rappresentano un esplicito riconoscimento dell'evoluzione della filosofa o, meglio, del movimento culturale e scientifico che sta alla base della giustizia minorile e dei vari modelli sperimentali praticati. Secondo Rutherford (31) tale evoluzione si è articolata in tre fasi. La prima di tali fasi è incentrata sulla punizione e sulla pena detentiva. Seguendo l'orientamento della Scuola Classica, il comportamento delinquenziale viene percepito come una scelta razionale anche per i minori, per i quali diviene necessaria una punizione proporzionale, con funzione sia retributiva, sia di simbolo della disapprovazione sociale. La seconda fase è orientata all'assistenza ("welfare"). Si ritiene che la delinquenza minorile sia prodotta dal contesto sociale e familiare, quindi, che per prevenirla, siano necessari interventi assistenziali che incidano sulle condizioni di svantaggio sociale e personale. L'ultima fase, la terza, è rappresentata dal più recente orientamento basato sul trattamento. La delinquenza è attribuita a disadattamenti più o meno gravi del soggetto; occorre, pertanto, una diagnosi differenziale e individualizzata di tali disequilibri al fine di elaborare uno specifico trattamento.

Ammettendo che questi tre modelli hanno indubbiamente contribuito all'evoluzione del sistema della giustizia minorile, non si può non rilevare, come fa anche Rutherford, che abbiano fallito i loro obiettivi, in quanto, essendosi basati su astratte generalizzazioni, sono risultati inadeguati, sul piano applicativo, a confrontarsi con la complessa realtà della delinquenza minorile.

Rutherford, dal canto suo, propone un approccio centrato sullo sviluppo ("developmental") e orientato alla prevenzione. Egli sostiene che l'adolescente abbia sempre delle potenzialità di sviluppo, che le istituzioni non debbano reprimere. Quando il minore commette un reato le istituzioni devono attendere un suo cambiamento, fornendo delle "facilitazioni allo sviluppo" ed evitando di stigmatizzarlo e di separarlo dal suo ambiente. Anche questa visione è criticabile a causa della generalizzazione che compie riguardo al fenomeno della delinquenza minorile. In realtà la problematicità dei casi e dei comportamenti è tale da rendere indispensabile articolare e specificare le tipologie di intervento. (32)

È da notare, inoltre, che dalla metà degli anni '70, nel Nord Europa, soprattutto in Svezia e in Norvegia, e in altri paesi europei, si è avuto un ritorno al principio di responsabilità incentrato sulla punizione e sul rafforzamento del controllo sociale, ma è mancata una sua interpretazione unitaria e sistematica.

L'evoluzione del sistema della giustizia minorile attraverso l'elaborazione di questi orientamenti dottrinali e sociologici, ha dato luogo alla sperimentazione di vari modelli applicativi ad essi ispirati. Alcuni di questi modelli hanno segnato una tale svolta innovativa da essere considerati oggi un punto fermo per gli studiosi di tutto il mondo. Sicuramente il modello più innovativo, alternativo all'istituzionalizzazione, è il sistema del 'probation', introdotto in Inghilterra nel 1907 e, poi, diffusosi in tutto il mondo. Esso consiste in una forma di sospensione della pena, sottoposta alla condizione che il soggetto non commetta altri reati nel periodo in cui è applicata tale misura. Tutto ciò avviene sotto la supervisione di un 'probation officer', che controlla e supporta il minore nella fase dell'esecuzione. Inoltre il servizio 'After-care' si occupa dei minori prima, durante e dopo l'esecuzione della condanna, con il fine di riabilitare e risocializzare.

Un altro sistema molto interessante realizzato in Francia dal 1945 è la 'education surveillée'. Con questo modello si persegue essenzialmente le finalità di coinvolgere la famiglia nel processo educativo del minore che ha commesso un reato e di mantenere il minore nel suo ambiente naturale.

Più recentemente, negli anni '80, sono state elaborate in alcuni paesi del Nord-Europa, come l'Olanda, delle sanzioni alternative aventi finalità di responsabilizzazione e di socializzazione, denominate 'work projects' (progetti-lavoro) e 'training-projects' (progetti-formazione). In sostanza i minori sono soggetti a prescrizioni e all'obbligo di partecipare a progetti lavorativi e formativi, sotto la supervisione di un coordinatore.

Accanto a questi sistemi che operano solo dopo che il minore è entrato nel circuito penale ed ha ricevuto una sanzione, esiste un sistema di misure che intervengono prima che il minore entri in contatto con la giustizia o durante le prime fasi del processo, per evitare che prosegua nelle sue forme ordinarie. Questa categoria di misure, nata negli Stati Uniti, si indica con il termine inglese 'diversion', attribuitole per la prima volta da Lemert nel 1971. Caratteristica di tale sistema è che si basa sulla discrezionalità del giudice, il quale fonda le sue decisioni sul criterio di opportunità e non su criteri giuridici formali. Questo ampio margine di discrezionalità lasciato al giudice, che ben si adatta al sistema giuridico anglosassone, secondo De Leo indebolisce "le garanzie formali relative ai diritti dei minori, per cui sarebbe necessario rafforzare le garanzie 'di fatto', organizzative, funzionali, professionali" (33).

Come già precedentemente accennato, gli orientamenti sperimentali internazionali, oggetto di questo rapido excursus, sono stati esplicitamente recepiti nelle 'Regole minime per l'amministrazione della giustizia minorile'.

L'articolo 1 di tali Regole sottolinea l'importanza della prevenzione sociale per la protezione dei minori. Dopo l'affermazione della specificità dell'intervento penale nei confronti dei minori ad opera dell'articolo 2, l'articolo 5 stabilisce che l'obiettivo della giustizia minorile sia la tutela del giovane e che le pene debbano essere proporzionate alle circostanze del reato e all'autore dello stesso. All'art. 6 si prevede l'esercizio di un potere discrezionale, "in considerazione delle speciali esigenze del minore così come della varietà delle misure applicative; tale potere dovrà essere esercitato da persone particolarmente qualificate. L'articolo 7 stabilisce le garanzie procedurali: la presunzione di innocenza, il diritto alla presenza dei genitori, il diritto alla notifica delle accuse, il diritto al confronto, il diritto a non rispondere e il diritto di appello. L'articolo successivo sancisce il diritto del minore alla riservatezza, contro eventuali danni causati da una pubblicità inutile e denigratoria.

È importante l'articolo 11 che prevede la possibilità di ricorrere a misure extra-giudiziarie, ossia l'affidamento ai servizi della comunità, per trattare i casi dei giovani che delinquono senza ricorrere al processo formale (diversion).

L'articolo 12 afferma l'importanza della specializzazione dei servizi di polizia e il 14 sottolinea che il minore debba essere giudicato da un'autorità competente. Il minore ha diritto all'assistenza legale e a quella affettiva e psicologica dei genitori (articolo 15).

L'articolo 17 stabilisce alcuni principi guida per il giudizio e la sentenza: le restrizioni della libertà personale devono essere limitate al minimo indispensabile, non si applica la pena capitale, né punizioni corporali.

La decisione al termine del giudizio è trattata nell'articolo 18, il quale prevede sanzioni alternative molto diversificate: a) disporre un sostegno, un orientamento, una sorveglianza; b) applicare misure di probation; c) disporre l'intervento dei servizi della comunità; d) applicare multe, risarcimento e restituzione; e) disporre un regime ausiliario o altri regimi; f) disporre la partecipazione a gruppi o ad altre attività analoghe; g) disporre il collocamento in una famiglia, in una comunità o in un altro ambiente educativo; h) adottare altre decisioni pertinenti. L'articolo 19 prosegue affermando che il collocamento in istituzione deve essere l'extrema ratio, mentre l'art. 20 raccomanda di evitare ritardi inutili e nocivi.

L'art. 24 assicura ai minori, in ogni fase del procedimento, un'assistenza che favorisca il reinserimento sociale.

Infine l'art. 26 stabilisce gli obiettivi del trattamento in istituzione: devono essere assicurati ai minori "assistenza, protezione, educazione e competenza professionale affinché siano posti in grado di avere un ruolo costruttivo e produttivo nella società". Le istituzioni che accolgono i minori devono essere separate da quelle degli adulti.

A livello comunitario bisogna ricordare la Raccomandazione n. 87/20 del Consiglio d'Europa, riguardante le risposte sociali alla delinquenza minorile. Questo documento ribadisce che la giustizia minorile deve avere come obiettivi l'educazione e il reinserimento sociale. Inoltre la pena detentiva deve essere l'extrema ratio, alla quale devono essere preferite "pene adatte ai minori".

Nel 1989 l'ONU ha dato vita alla 'Convenzione sui diritti del bambino', che ha lo scopo di tutelare i minori di diciotto anni. Le previsioni in materia di giustizia minorile stabiliscono che non siano applicabili ai minori né la pena capitale, né l'ergastolo. Anche qui si sostiene la necessità di ricorrere alla pena privativa della libertà solo come ultima ratio, e, laddove non se ne possa fare a meno, i minori privati della libertà devono ricevere un trattamento adeguato alla loro condizione di soggetti in età evolutiva, trattamento che prevede, fra le altre cose, di mantenere i contatti con la famiglia. Si sottolinea, anche, che lo scopo della giustizia minorile deve essere l'educazione del minore tesa alla promozione della sua persona. Viene istituito, infine, un organismo di controllo sul rispetto dei diritti dei minori, il quale, indicando impegni agli Stati, ha il potere di tutelare e promuovere tali diritti.

Nel 1990 l'Assemblea Generale dell'VIII Congresso delle Nazioni Unite, riguardante la prevenzione del crimine e il trattamento dei delinquenti, ha approvato due importanti documenti: i 'Principi direttivi di Riyad sulla prevenzione della delinquenza giovanile' e le 'Regole Minime delle Nazioni Unite per la protezione dei minori privati della libertà'.

Nel primo di tali documenti si afferma che la prevenzione della delinquenza minorile è essenziale per la prevenzione del fenomeno della delinquenza in generale; è necessario, pertanto, che la società nel suo complesso si adoperi per favorire uno sviluppo armonioso dell'infanzia e dell'adolescenza. A tal fine, la pubblica amministrazione deve predisporre piani di prevenzione con la collaborazione del potere centrale con i poteri locali. Per quanto riguarda la procedura, poi, si raccomanda ai governi di approvare leggi che tutelino i minori, tenendo conto della loro specifica condizione, e di evitare mezzi di correzione duri e degradanti.

Nelle 'Regole Minime delle Nazioni Unite per la protezione dei minori privati della libertà' si afferma che la giustizia minorile deve "promuovere il benessere fisico e morale dei minori". Anche questo documento sottolinea che la pena privativa della libertà per i minori deve essere l'ultima possibilità, nonché una misura riservata ai casi eccezionali. Inoltre, sono previste una serie di garanzie riguardanti le modalità di accoglimento e i requisiti che devono possedere gli istituti.

A differenza degli altri, gli ultimi tre documenti citati (la 'Convenzione sui diritti del bambino' del 1989, e i due documenti redatti nell'VIII Congresso dell'ONU del 1990), sono successivi cronologicamente rispetto alle disposizioni istitutive del nuovo processo penale minorile, che risalgono al 1988; pertanto non costituiscono delle fonti di tali disposizioni. È apparsa, comunque, importante la loro citazione al fine di fare emergere il continuum dell'interesse e dell'impegno che gli organismi internazionali hanno manifestato verso la materia dei minori, e, in particolare, dei minori che hanno commesso un reato. Si sottolinea che comunque tali documenti rappresentano una guida nella interpretazione delle disposizioni in materia di processo penale minorile.

1.5. L'iter parlamentare del D.P.R. 448 del 1988

Il problema della riforma del processo penale minorile emerse già negli anni '70, quando, in sede parlamentare, si discusse se comprendere nella legge delega per la riforma del codice di procedura penale, anche la riforma del rito minorile.

Inizialmente si pensava che l'intervento penale nei confronti dei minori dovesse essere oggetto di un provvedimento autonomo, a causa della specificità della materia. Per questo motivo la prima legge delega per la riforma del codice di procedura penale, la legge n. 108 del 1974, conteneva solo due disposizioni relative al processo penale minorile: prevedeva l'esclusione della connessione in caso di imputati minori e l'esercizio facoltativo del potere di arrestare il minore colto nella flagranza di un grave reato. A causa della non esauriente trattazione della materia, emerse il problema di quale sarebbe stata la sorte delle disposizioni processuali contenute nel R.d.l. 1404 del 1934. Per risolvere tale questione il Consiglio Superiore della Magistratura organizzò un incontro di studio, nell'ambito del quale emersero tre opinioni distinte: secondo la prima, la legge delega doveva contenere la riforma del processo penale minorile; il secondo orientamento era, invece, favorevole all'estraneità del processo penale minorile dall'ambito di operatività del nuovo rito; per il terzo, la legge delega autorizzava il legislatore a modificare la disciplina minorile, ma non dava il potere di innovarne i principali contenuti.

La tesi favorevole all'adozione di un provvedimento autonomo per disciplinare il processo minorile, fu accolta da una Commissione di studio per i problemi minorili, istituita presso il Ministero di Grazia e Giustizia, la quale elaborò uno schema di disegno di legge delega al Governo, per l'emanazione di una nuova legge in materia di intervento penale in campo minorile. Il Ministro di Grazia e Giustizia presentò questo disegno di legge delega alla Camera dei Deputati nel corso della VI e della VII legislatura, ma non venne mai posto all'ordine del giorno.

Nel 1978 la Commissione consultiva per il nuovo codice di procedura penale ribadì che il processo penale minorile non avrebbe potuto continuare a svolgersi secondo le regole del vecchio codice di procedura penale, anche dopo l'emanazione di quello nuovo. Infatti il decreto del 1934, istitutivo del Tribunale per i minorenni, opera un rinvio non ricettizio al codice di procedura penale (art. 34).

Nel 1979 tale Commissione presentò alla Camera dei deputati un disegno di legge delega, che modificava in molte sue parti la delega del 1974, configurando, così, la seconda delega. Non veniva, però, ancora affrontata la materia del processo penale minorile.

Si affrontò tale materia solo nell'ambito dei lavori della Commissione giustizia; infatti, nel 1982, fu approvato un testo, che comprendeva, nella direttiva n. 87, "principi e criteri per la disciplina del processo a carico di imputati minorenni al momento della commissione del reato". Da questo momento in poi, "la storia della delega minorile procede di pari passo con quella della delega generale" (34).

La direttiva n. 87 fu collocata all'articolo 3 del testo approvato dalla Camera dei deputati. Il Senato apportò solo qualche modifica, lasciando, comunque, intatta la struttura e la collocazione della delega minorile. Dopo una seconda approvazione della Camera dei deputati, si pervenne alla emanazione della legge n. 81 del 1987, legge delega per la stesura del nuovo codice di procedura penale.

In realtà la legge n. 81 del 1987 conferisce al Governo altre deleghe, oltre a quella dell'emanazione di un nuovo codice di procedura penale; fra queste, oltre alla delega per la definizione della disciplina del processo penale a carico di imputati minorenni, prevista, come già detto, all'articolo 3, sono previste, anche, la delega per la fissazione di una data di entrata in vigore delle nuove disposizioni (art. 4), la delega per l'emanazione delle norme per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario al nuovo processo penale e al nuovo processo penale minorile (art. 5), la delega per l'emanazione di norme di attuazione e transitorie (art. 6) e, infine, viene delegata la facoltà di emanare disposizioni integrative o correttive (art. 7). Fra tali deleghe, però, come fa notare La Greca (35), solo la delega minorile ha un oggetto autonomo rispetto al codice di procedura penale anche se "i suoi legami con la delega generale sono stretti": il rito deve essere disciplinato secondo i principi generali del nuovo processo penale (art. 3).

La commissione, presieduta dalla Dott.ssa Livia Pomodoro (attuale Presidente del Tribunale per i minorenni di Milano), incaricata di dare attuazione alla delega contenuta nell'articolo 3, presentò un progetto preliminare alla commissione redigente, presieduta dal Prof. Gian Domenico Pisapia, con l'auspicio che questa disciplina venisse inserita nel codice di procedura penale. Il Governo, invece, presentò alla Commissione parlamentare, istituita secondo quanto previsto dall'articolo 8 della legge delega, un testo destinato ad essere emanato con un decreto separato. Nonostante la Commissione parlamentare si fosse subito espressa a favore dell'inserimento della procedura penale minorile all'interno del codice di procedura penale, si formarono due orientamenti distinti. Il primo propendeva per una soluzione unitaria, affermando che la disciplina minorile, pur essendo peculiare, costituisce solo una specificazione del rito ordinario. Il secondo orientamento, a favore della autonomia della delega in materia minorile, basa le sue argomentazioni sui dati testuali (l'articolo 5 della legge delega distingueva fra il nuovo processo penale e quello a carico di imputati minorenni, a proposito della delega ad emanare le norme per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario), sulla specialità della materia minorile e sulla volontà di non appesantire ulteriormente un codice già molto complesso.

È da notare, inoltre, che sulla possibilità che il Governo desse attuazione alla delega conferitagli attraverso una pluralità di distinti decreti legislativi si era pronunciata, nel 1975, la Corte Costituzionale. Con la sentenza n. 41 del 1975, la Corte aveva consentito la pluralità di decreti delegati solo quando si fosse trattato di materie autosufficienti e scindibili, come nel caso in esame, in cui la materia minorile è prevista in un apposito articolo (art. 3).

Alla fine prevalse l'opinione della autonomia della delega in materia minorile e furono emanati due distinti decreti. La delega riguardante il processo minorile ha trovato attuazione con il D.P.R. n. 448 del 1988, integrato dal D.P.R. n. 449 dello stesso anno e dal D.L. n. 272 del 1989, contenente le norme di attuazione, di coordinamento e transitorie.

"La soluzione adottata nel 1987 è quella di un riconoscimento forte alle peculiari caratteristiche del processo minorile, in armonia, per quanto è possibile, con lo schema processuale ordinario" (36).

L'articolo 3 della legge delega contiene delle vere e proprie deviazioni dal modello generale del nuovo processo penale. In particolare la direttiva b) esclude l'esercizio dell'azione civile nel processo penale minorile; la direttiva c) esclude la pubblicità delle udienze penali minorili, contraddicendo la regola generale della pubblicità delle udienze; infine, la direttiva e) prevede che il giudice possa sospendere il processo per procedere ad un apprezzamento della personalità del minore.

In effetti l'articolo 3 della legge delega pone come direttiva per il legislatore delegato "i principi generali del nuovo processo penale", ma prevede anche che essi subiscano delle modificazioni e integrazioni "imposte dalle particolari condizioni psicologiche del minore, dalla sua maturità e dalle esigenze della sua educazione".

L'articolo 1 del D.P.R. n. 448 del 1988, recependo quanto previsto dall'articolo 3 della legge delega, prevede che nei procedimenti a carico di imputati minorenni si applichino le disposizioni speciali, contenute nel decreto n. 448 stesso e, "per quanto da esse non previsto", le disposizioni generali previste nel codice di procedura penale. Viene accolto, così, il principio di sussidiarietà (37).

1.6. Le scelte ideologiche del nuovo processo penale minorile

Con l'entrata in vigore del D.P.R. 448 del 1988 cambia la considerazione dell'imputato minorenne. Da soggetto debole da tutelare, mai soggetto autonomo di diritti, il minore "diventa un interlocutore in grado di dialogare con l'adulto magistrato" (38). La Relazione al testo definitivo del decreto afferma che il minore è diventato "titolare di diritti soggettivi perfetti": il diritto ad avere un proprio giudice e il diritto ad avere un proprio processo. Il processo stesso diviene, così, oggetto di un diritto soggettivo del minore. La Relazione prosegue sottolineando l'esigenza che dal processo minorile siano eliminate le stimolazioni inutilmente negative e siano valorizzate "le stimolazioni positive insite in un confronto con la società civile e con le sue regole". Questo significa che le valenze sostanziali del processo devono essere usate a vantaggio del minore; in tal modo il processo diventa, per il minore, occasione di recupero e di presa di coscienza del suo disagio e, per la società, diviene strumento attraverso cui conoscere quel disagio e eliminarne le cause. Così si giustificano i principi che si discostano dal codice di procedura penale ordinario, primo fra tutti l'obbligo per il giudice di illustrare, all'imputato minorenne, il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza e il contenuto e le ragioni etico-sociali delle decisioni (articolo 1, secondo comma del D.P.R. 448 del 1988) (39). Proprio questa disposizione è considerata da Giannino la chiave interpretativa di tutto il sistema penale minorile, come sistema "volto a recuperare le valenze responsabilizzatrici del processo, rendendo il minore consapevole della vicenda processuale e facendogli capire il significato della risposta della società al suo comportamento" (40).

L'attitudine responsabilizzante è considerata anche da Palomba (41) uno dei principali caratteri del processo penale minorile. Questo autore definisce la responsabilizzazione come "un processo educativo volto a far acquisire il principio di realtà dinanzi alle regole attraverso la sollecitazione a definirsi, a decidere, a decidere insieme, ad accettare, a impegnarsi, a rispondere". Il processo di responsabilizzazione del minore serve a provocare il recupero del controllo sociale spontaneo da parte del minore stesso.

Questa attitudine del processo penale minorile emerge da molte disposizioni e considerazioni:

  • la rapidità della reazione sociale, derivante dai termini brevi per la chiusura delle indagini preliminari, allo scopo di evitare che il differimento dell'instaurazione formale del processo renda la regola priva di incisività
  • il, già citato, dovere di illustrazione del significato dell'attività del processo e delle decisioni (art. 1, secondo comma)
  • l'acquisizione di elementi sulle condizioni e le risorse personali, familiari e ambientali del minore, anche allo scopo di accertarne il grado di responsabilità (art. 9)
  • l'assistenza dei genitori e dei servizi minorili dell'amministrazione della giustizia e dei servizi istituiti dagli enti locali (art. 12), prevista, oltreché per superare i problemi psicologici, anche per favorire la responsabilizzazione
  • le misure cautelari, alcune delle quali favoriscono la responsabilizzazione, come le prescrizioni o autorizzazioni "inerenti alle attività di studio o di lavoro ovvero ad altre attività utili per la sua educazione" (artt. 20, 21 e 22)
  • la sospensione del processo e messa alla prova (artt. 28 e 29), che rappresenta il massimo livello di responsabilizzazione, in quanto il minore deve decidere se accettare la prova, concorrere alla formulazione del progetto e mantenere fede al patto assunto
  • la possibilità di disporre l'accompagnamento coattivo del minore all'udienza preliminare, possibilità che, anche se rappresenta il momento più autoritario del processo, è finalizzata all'attivazione della natura relazionale del processo (art. 31, primo comma).

Un'altra caratteristica propria del processo penale minorile è da individuare nella natura finalistica di tale processo (42). Infatti, mentre il processo penale generale si configura come attività processuale volta ad accertare la sussistenza del fatto ('processo penale del fatto') e la sua attribuibilità all'imputato, il processo penale a carico di imputati minorenni si caratterizza per il fatto di avere una funzione ulteriore rispetto a quella dell'accertamento della verità, la funzione del 'recupero del minore'. La Corte Costituzionale ha più volte indicato questa funzione (43), facendola assurgere a "peculiare interesse-dovere dello Stato al recupero del minore", a scapito della realizzazione della pretesa punitiva, la quale risulta subordinata rispetto al recupero del minore (sentenza n. 49 del 1973) (44). Questa finalizzazione è giustificata dal fatto che l'imputato è anche un soggetto di minore età, cioè un soggetto protetto dalla Costituzione nel suo diritto allo sviluppo. Il processo penale minorile si caratterizza come 'processo penale della personalità', oltreché del fatto.

La natura finalistica del processo penale minorile emerge chiaramente da numerose disposizioni:

  • l'applicazione delle disposizioni sul processo penale minorile deve avvenire "in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minorenne" (art. 1, primo comma del D.P.R. 448 del 1988)
  • il dovere di informazione sul significato delle attività processuali (art. 1, secondo comma), che trova giustificazione in quanto queste abbiano una specifica finalità
  • gli accertamenti sulla personalità del minore, che sono rivolti anche allo scopo di "disporre le adeguate misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti civili" (art. 9)
  • il divieto di pubblicazione e di divulgazione (art. 13), volto chiaramente alla tutela del minore
  • l'esigenza di non interrompere i processi educativi in atto quando si decide in ordine alle misure cautelari (art. 9, secondo comma)
  • la dichiarazione di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto "quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne" (art. 27, primo comma)
  • l'estinzione del reato a causa dell'esito positivo della prova (artt. 28 e 29)
  • la possibilità di disporre la comparizione coattiva dell'imputato non comparso (art. 31, primo comma), che dimostra la finalizzazione del processo anche nel suo articolarsi nelle varie attività.

La caratterizzazione finalistica del processo penale minorile assume una valenza educativa, intesa sia come rispetto delle esigenze educative del minore, sia come capacità educativa del processo stesso. La finalità educativa del processo penale minorile è vista sotto tre diversi aspetti (45):

  1. il processo è un'occasione educativa: le disposizioni relative al processo minorile devono essere applicate rispettando le esigenze educative; il dovere del giudice di illustrare il significato delle attività processuali e delle decisioni è posto in funzione dell'educazione del minore; la possibilità di disporne l'accompagnamento coattivo è funzionale al dovere di illustrazione; e, infine, la determinazione del progetto per la messa alla prova con il consenso del minore favorisce i processi educativi
  2. il processo non deve interrompere i processi educativi in atto: questa è la finalità esplicita delle misure cautelari e della dichiarazione di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto e, allo stesso tempo, la ragione implicita del divieto di pubblicazione e di divulgazione
  3. il processo è un'occasione per attivare relazioni educative: a tale fine vengono condotte indagini sulla personalità del minore imputato e viene determinato il progetto per la messa alla prova in modo che preveda il coinvolgimento delle risorse dell'ambiente di vita del minore.

Il primo profilo, riguardante il processo come occasione educativa, viene criticato da Giannino (46), il quale ritiene che questa interpretazione del processo penale minorile sia il frutto di un equivoco. Infatti, egli esclude a priori che le finalità del processo minorile possano essere educative, in quanto sono le stesse del processo penale per adulti, di cui, il processo minorile, segue le regole formali ed interpretative, con l'unica specificità del tenere conto della particolare condizione minorile.

Anche Enza Roli, assistente sociale dell'Ufficio di servizio sociale per i minorenni di Torino, critica la funzione educativa del processo penale minorile, definendo come "improbabile" la convivenza fra 'dispositivo penale' e 'dispositivo educativo', contenuti nel D.P.R. 448 del 1988 (47). In particolare essa sostiene che il vero problema di tale decreto sia costituito dal "forzato e incoerente assemblaggio fra dispositivo penale e dispositivo educativo-assistenziale, che accompagna la diffusa logica trattamentale della messa alla prova e delle misure cautelari", in quanto ciò comporta di considerare la procedura penale "un pretesto per promuovere un intervento riabilitativo". Inoltre, individua elementi di contrasto insanabile fra la sfera penale e quella educativa. Innanzitutto sono diversi gli strumenti, attraverso i quali realizzare gli scopi prefissi: la coazione per la sfera penale e il consenso per l'educazione; anche i contenuti sono diversi, normativi per l'ambito penale e di aiuto per l'ambito dell'educazione; i titolari stessi dell'intervento sono soggetti diversi, mentre il giudice è il titolare dell'intervento penale, l'operatore è titolare dell'intervento educativo; infine, mentre l'intervento penale deve avere dei tempi prefissati, l'intervento educativo ha tempi indefiniti e indefinibili a priori.

Accanto all'attitudine responsabilizzante e alla finalizzazione educativa del processo penale minorile, occorre evidenziare anche la sua natura garantista. Il processo penale minorile assicura all'imputato tutte le garanzie tipiche del 'processo penale del fatto', proprie del codice di procedura penale (48). Oltre a queste sono previste per gli imputati di minore età delle garanzie specifiche, dettate dalla loro particolare condizione (49):

  • il minore ha diritto all'assistenza dei genitori o di altra persona idonea da lui indicata e dei servizi minorili (art. 12)
  • il minore ha diritto alla riservatezza, che si realizza attraverso il divieto di pubblicazione e di divulgazione (art. 13)
  • il minore è tutelato contro il rischio di 'stigmatizzazione' dalla previsione di una disciplina specifica del Casellario Giudiziale per i minorenni (art. 14) e dalla eliminazione delle iscrizioni prevista nell'art. 15.

Dopo aver analizzato le principali caratteristiche del processo penale minorile, passiamo all'analisi dei principi ispiratori di tale processo, che si discostano da quelli contenuti nel codice di procedura penale (50).

Il 'principio di adeguatezza' prevede che le modalità di applicazione delle disposizioni sul processo penale minorile debbano essere adeguate alla personalità del minore e alle sue esigenze educative. Ciò discende direttamente dal carattere finalistico, educativo e responsabilizzante del processo. Sono espressione di questo principio: il dovere di informazione (art. 1, secondo comma), al fine di adeguare le attività processuali alle capacità del minore di comprendere il loro significato; gli accertamenti sulla personalità del minore (art. 9), aventi lo scopo di disporre le "adeguate misure penali"; la pronuncia di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto (art. 27), al fine di adeguare il procedimento alle esigenze educative del minore; l'esigenza di non interrompere i processi educativi in atto, come criterio per valutare l'adeguatezza delle misure cautelari.

Il 'principio della minima offensività' fa riferimento al rischio che il processo risulti superfluo o dannoso per il minore. Il rischio di superfluità del processo contrasta con il criterio di economicità-funzionalità del sistema penale ed impone che l'attività processuale sia iniziata o proseguita solo laddove sia oggettivamente necessaria. Il processo può, inoltre, risultare dannoso per il minore, potendo compromettere uno sviluppo armonico della sua personalità ancora in evoluzione; pertanto il processo non dovrà compromettere le esigenze educative del minore, né interrompere i processi educativi in atto (51). Alcuni degli istituti che si ispirano al principio della minima offensività sono: la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto; l'estinzione del reato per esito positivo della prova; le disposizioni destigmatizzanti (52).

Il 'principio di destigmatizzazione' si collega al 'principio della minima offensività', in quanto tutela il minore dal rischio, derivante dal processo, che venga sottoposto a processi di 'autosvalutazione' o di 'eterosvalutazione', cioè sottovalutazione ed 'etichettamento' da parte della società. Sono espressione di questo principio: la non pubblicità del dibattimento; il divieto di pubblicazione e di divulgazione di notizie idonee a consentire l'identificazione del minorenne; le disposizioni restrittive in merito alle iscrizioni nel Casellario giudiziale (l'esistenza di un Casellario speciale presso il Tribunale per i minorenni e la previsione che, al compimento del diciottesimo anno di età, siano inviati al Casellario ordinario per gli adulti solo i provvedimenti di condanna a pena detentiva, anche se con sospensione condizionale); l'estinzione del reato per esito positivo della prova; la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto.

Il 'principio di autoselettività' si basa sull'esigenza di deflattività del sistema penale in genere, per cui il processo penale minorile risulta essere un processo autoselettivo dei fatti e dei soggetti. Oltre alle disposizioni ispirate all'esigenza di deflattività proprie del processo penale ordinario, il processo penale minorile ne conosce altre specifiche: l'irrilevanza sociale del fatto, che permette di espellere dal circuito penale le condotte caratterizzate dall'esiguità e l'estinzione del reato per esito positivo della prova, che permette di compiere una selezione in base alla condotta tenuta successivamente rispetto al reato.

Mentre il processo penale ordinario è caratterizzato dal 'principio della disponibilità del rito', poiché l'imputato può non essere presente, il processo penale minorile, invece, è caratterizzato dall'opposto 'principio della indisponibilità del rito', in quanto il minore può anche essere fatto partecipare al processo coattivamente. Inoltre il processo penale minorile è ispirato al 'principio della indisponibilità dell'esito del processo', mentre l'imputato maggiorenne può patteggiare la pena con il pubblico ministero.

Infine, il 'principio della residualità della detenzione' impone che la pena detentiva sia considerata come extrema ratio. In effetti nel D. P.R. 448 sono presenti notevoli restrizioni dei casi di arresto in flagranza (art. 16, primo comma) e di custodia cautelare (art. 23) e trovano notevole espansione le sanzioni sostitutive (art. 30). Inoltre concorrono a rendere la detenzione l'ultima delle possibilità, la dichiarazione di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto (art. 27) e la sospensione del processo per la messa alla prova (art. 28).

Secondo Pazè (53) la marginalizzazione dell'uso del carcere è da attribuire non tanto all'adesione del legislatore all'ideologia liberal-garantista, quanto all'essersi prefisso lo scopo di proteggere il diritto del minore a crescere serenamente come persona, senza intralci al raggiungimento della sua maturità fisica e mentale. Lo stesso intento aveva già indotto ad abbandonare altre istituzioni totali, quali collegi, manicomi e riformatòri, dannose per il minore. Il legislatore ha ritenuto opportuno ritenere il carcere una risorsa estrema, alla quale ricorrere solo quando ogni altro intervento risulti inutile. Predilige, così, lo scopo della prevenzione, incentrata sull'offerta, al minore in difficoltà, di "occasioni di cambiamento di vita e di riflessione critica sui modelli negativi": "si costruisce per il domani una società più sicura". Al contrario l'opposta filosofia processuale, basata sulla repressione, predilige un uso più ampio del carcere, anche preventivo, per esigenze di ordine pubblico ed ottiene risultati immediati, che tranquillizzano l'opinione pubblica, ma labili ed a breve termine. L'autore, però, fa notare che per l'attuazione dello scopo preventivo, occorrono strumenti efficaci e notevoli risorse sia economiche che umane.

La residualità della pena detentiva ha comportato, come rileva Occhiogrosso (54), la netta diminuzione dei minori detenuti. Osserva come questo sia in linea con

l'atteggiamento culturale prevalente che tende sempre più a distinguere la condotta deviante dell'adulto da quella del minorenne e a considerare la delinquenza minorile come un problema sociale, superando la tradizionale ottica che la collocava nell'area dell'ordine pubblico.

L'autore rileva che la diminuzione della popolazione carceraria minorile determina l'insorgenza di nuovi problemi. Infatti i detenuti versano oggi in una condizione peggiore rispetto a quella precedente, in quanto, in primo luogo, la loro stigmatizzazione è più accentuata perché oggi l'ingresso in carcere non può essere più causato da vicende di lieve entità. Inoltre c'è il problema della solitudine: spesso il minore non vive in un gruppo, che spesso manca, soprattutto nei centri di prima accoglienza, e questo isolamento finisce per rappresentare una punizione dura, anche se involontaria, che può portare ad effetti depressivi. La condizione più delicata è quella dei minori detenuti per reati di criminalità organizzata: il minore viene trasferito in un carcere lontano dal suo territorio per motivi di protezione, la quale, però, finisce per essere la punizione più severa.

Per completare un quadro esauriente delle scelte compiute dal legislatore del 1988, occorre accennare al ruolo riservato ai servizi minorili. Il processo penale minorile, essendo un processo penale della personalità, sposta l'attenzione del giudice sulle caratteristiche personali del soggetto imputato, quindi necessariamente assegna ampio spazio ai servizi minorili a scapito del diritto penale, che subisce un'autolimitazione.

L'articolo 6 prevede che "In ogni stato e grado del procedimento l'autorità giudiziaria si avvale dei servizi minorili dell'amministrazione della giustizia. Si avvale altresì dei servizi di assistenza istituiti dagli enti locali". Il loro ruolo di soggetti necessari del processo penale minorile si evince dall'articolo 12, secondo comma, per il quale "in ogni caso al minorenne è assicurata l'assistenza dei servizi indicati nell'articolo 6".

Come emerge dalla lettera dell'articolo 6, i servizi minorili si distinguono in servizi giudiziari e servizi locali. I primi dipendono dal Ministero della Giustizia e svolgono un ruolo, strettamente legato al processo, di referenti necessari del giudice. I servizi locali, invece, fungono da raccordo fra il sistema penale e il sistema sociale. Questa differenziazione dei ruoli emerge dagli articoli 19, terzo comma e 28, secondo comma nei quali è previsto che i servizi giudiziari sono affidatari del minore, mentre i servizi locali devono coadiuvare l'operato dei primi, collaborando con essi.

Il pubblico ministero e il giudice possono avvalersi dei servizi minorili per gli accertamenti sulla personalità del minorenne (art. 9).

Il D.P.R. 272 del 1989 recante le norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del D.P.R. 448 del 1988, contiene la previsione di centri di rieducazione per minorenni, detti Centri per la giustizia minorile, dipendenti dal Ministero della Giustizia ed aventi competenza regionale. Tali Centri si articolano nei seguenti servizi:

  1. gli uffici di servizio sociale per minorenni
  2. gli istituti penali per minorenni
  3. i centri di prima accoglienza, che assicurano la permanenza del minore arrestato o fermato fino all'udienza di convalida
  4. le comunità, la cui organizzazione deve essere di tipo familiare
  5. gli istituti di semilibertà con servizi diurni per misure cautelari, sostitutive e alternative.

1.7. L'importanza del principio della minima offensività come ratio dei principali istituti

Il principio della minima offensività è uno dei principi fondanti del processo penale minorile, in quanto è il principio che dà attuazione allo scopo che il legislatore si è prefisso nel disciplinare tale processo, il recupero del minore che ha commesso un reato. Lo scopo del recupero del minore, che la Corte Costituzionale ha definito, già negli anni '70 (55), "interesse-dovere dello Stato", sulla base degli articoli 31 e 27 della Costituzione, prevale addirittura sull'interesse dello Stato a perseguire gli autori di fatti costituenti reato secondo un criterio retributivo e repressivo.

Tale finalità del processo si realizza attraverso l'educazione del minore, intesa sia come capacità educativa del processo stesso, sia come capacità di non interferire con le esigenze educative del soggetto e di non interrompere i processi educativi in atto. Implicitamente si ammette, quindi, che il processo penale può risultare 'offensivo' per il minore e si individua questa sua potenziale 'offensività' nell'attitudine a interrompere o turbare l'evoluzione armonica della personalità del ragazzo, ancora in formazione. Occorre, pertanto, ridurre al minimo indispensabile il rischio di compromettere una corretta crescita psicologica del minore, sia limitando i suoi contatti con il sistema penale, sia rendendo meno offensivi i contatti che risultino inevitabili.

Il D.P.R. 448 del 1988 sicuramente accoglie queste istanze in molte disposizioni. In particolare le disposizioni che prevedono formule di chiusura del processo senza l'irrogazione di una pena (irrilevanza del fatto, messa alla prova, perdono giudiziale e incapacità di intendere e di volere) e quelle relative all'arresto in flagranza e alla carcerazione preventiva sono più propriamente espressione della 'teoria del minimo intervento penale'.

Questa teoria, che costituisce un corollario del principio della minima offensività, caratterizza la fase attuale, iniziata da circa un ventennio, dell'evoluzione del sistema della giustizia minorile nei paesi occidentali (56) e fa riferimento ai principi socio-criminologici della Scuola di Chicago (57) e, in particolare all'Interazionismo simbolico (58).

La concezione del minimo intervento penale consiste nel cercare di ridurre al minimo possibile l'intervento penale, per limitare la permanenza del soggetto nelle istituzioni detentive e, soprattutto, di fare in modo che questa permanenza sia sempre accompagnata dall'attenzione alla sua personalità e alla sua fase evolutiva. La pena non deve avere una funzione afflittiva, ma deve consentire, in linea con i principi criminologici dell'Interazionismo simbolico e del controllo sociale, un chiaro e non manipolante confronto fra l'individuo e la propria azione deviante, fra il soggetto e le norme della propria cultura e della società (59). Pertanto la pena acquista una funzione di attivazione della responsabilità del soggetto e delle risposte di responsabilizzazione da parte della giustizia minorile e dei servizi. Il trattamento non è punizione, né terapia, né assistenza, ma è un modo di organizzare risposte e risorse complesse con l'obiettivo della responsabilizzazione giudiziaria, nel periodo delimitato del processo e della sanzione.

Prima dell'introduzione del D.P.R. 448 del 1988 gli strumenti del Tribunale per i minorenni contro la devianza erano rappresentati da interventi di correzione morale, finalizzati a prevenire che situazioni di difficoltà del minore sfociassero in comportamenti penalmente rilevanti. All'interno degli Istituti di correzione si realizzavano attività di contenimento, non di educazione.

Secondo le correnti sociologiche che stanno alla base della teoria del minimo intervento penale, il carcere anziché facilitare l'opera di recupero del soggetto la rende più difficile. Infatti il minore è un soggetto in cerca di identità, non importa se positiva o negativa, ma all'interno del carcere, stigmatizzato in un ruolo delinquenziale, trova continue conferme per lo sviluppo in negativo della sua identità. Foucault (60) parla, a questo proposito, di processo di "professionalizzazione" al crimine, per indicare l'interiorizzazione e la specializzazione del detenuto nel ruolo che la società gli attribuisce, etichettandolo come 'delinquente' (61).

Il fallimento di tale intervento fa emergere chiaramente l'importanza di superare le insufficienze umane che si esprimono attraverso comportamenti devianti, non con l'annientamento, ma con il recupero della persona per la realizzazione di un adeguato progetto educativo (62).

La riforma del 1988 all'intervento penale repressivo ed annientante ha preferito l'intervento sociale preventivo, rompendo la tradizionale autarchia del sistema penale. Infatti anche la comunità locale e i suoi servizi sono stati profondamente coinvolti, essendo chiamati a collaborare ai programmi di recupero.

Coerentemente a quanto finora osservato, mentre prima del 1988 c'era l'obbligo di arresto in flagranza di reato, con la riforma del processo penale minorile, ispirata al minimo intervento penale, l'arresto in flagranza è possibile da parte della Polizia solo per reati che comportano una pena superiore ai nove anni. Negli altri casi la polizia può solo accompagnare il minore nell'abitazione o in una comunità pubblica o autorizzata, se il reato non è colposo ed è punito con pena superiore nel massimo a cinque anni.

Il sistema penale minorile antecedente al 1988 faceva un ampio ricorso alla carcerazione preventiva. Nella convinzione che questo strumento fosse controproducente, specialmente quando veniva applicata ad un soggetto per la prima volta, in quanto "la segregazione del minore con altri soggetti ugualmente etichettati poteva comportare una spinta addizionale al delitto, pensandosi il soggetto come delinquente e organizzando il suo comportamento in conformità" (63), il legislatore del 1988 ha limitato la sua applicazione. La carcerazione preventiva è diventata una misura di carattere residuale; può essere disposta dal giudice e non per autonoma decisione della Polizia a seguito dell'arresto o del fermo.

Sono espressione della teoria del minimo intervento penale anche le seguenti formule indulgenziali di chiusura del processo:

  1. la sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto
  2. il perdono giudiziale
  3. la dichiarazione di estinzione del reato per esito positivo della prova
  4. l'assoluzione per non imputabilità

Con l'applicazione di questi istituti lo Stato rinuncia alla realizzazione della pretesa punitiva, a prescindere dalla responsabilità dell'imputato. Infatti l'irrilevanza del fatto presuppone tale responsabilità, ma realizza ugualmente l'espulsione dell'imputato dal sistema penale basandosi sull'esiguità del fatto commesso e sul rischio che la prosecuzione del processo pregiudichi il processo educativo del soggetto; il perdono giudiziale comporta l'accertamento della responsabilità dell'imputato, ma permette che il giudice non pronunci la condanna o il rinvio a giudizio se presume che il minore si asterrà dal commettere ulteriori reati; la sospensione del processo e la conseguente messa alla prova postula la responsabilità dell'imputato, ma non viene applicata la pena se il minore tiene fede al patto di cambiare modo di vita; infine nel caso della dichiarazione di non imputabilità il processo è esaurito dal giudizio sulla personalità dell'imputato, indipendentemente dall'accertamento della sua responsabilità (64).

Con queste formule terminative del processo, l'ideologia del minimo intervento penale attua visibilmente il sacrificio del principio retributivo, per privilegiare l'esigenza della protezione della personalità del minore (65).

Alcune disposizioni che riguardano singole attività processuali si ispirano al principio della minima offensività tout court (66). Esse sono le disposizioni così dette 'destigmatizzanti', la possibilità, durante l'udienza preliminare, di allontanare il minore, "nel suo esclusivo interesse, durante l'assunzione di dichiarazioni e la discussione in ordine a fatti e circostanze inerenti alla sua personalità" (art. 31, secondo comma) e l'esclusione della condanna del minorenne al pagamento delle spese processuali e di quelle per il suo mantenimento in carcere, con la conseguente estinzione dei crediti pregressi (art. 29 del D.L. 272 del 1989).

Per quanto riguarda le disposizioni 'destigmatizzanti', il divieto di pubblicazione e di divulgazione di notizie idonee a consentire l'identificazione del minorenne (art. 31 del D.P.R. 448 del 1988) e la non pubblicità del dibattimento (art. 33) sono disposizioni dettate con lo specifico fine di "mantenere la percezione sociale positiva del minore evitando che si sappia che egli è diventato indiziato o imputato in un processo penale: e ciò al fine di evitare un pregiudizio per i suoi processi educativi" (67). Anche le disposizioni restrittive in merito alle iscrizioni nel casellario giudiziale hanno una chiara valenza destigmatizzante. In effetti il casellario giudiziale contiene la storia giudiziaria di un individuo e comporta l'associazione definitiva di tale individuo al suo precedente penale, contribuendo notevolmente a produrre un'identificazione negativa, sia da parte della società, sia da parte dell'individuo stesso. Per attenuare l'offensività di tale istituto, il D.P.R. 448 ha previsto che il rilascio delle iscrizioni nel casellario per minorenni possa essere effettuato "soltanto alla persona a cui si riferiscono o alla autorità giudiziaria" (art. 14, terzo comma), anziché "a tutte le amministrazioni pubbliche e gli enti incaricati di pubblici servizi", come prevede l'articolo 688 del codice di procedura penale. Allo stesso scopo è prevista l'eliminazione delle iscrizioni relative ai provvedimenti diversi dalle sentenze di condanna a pene detentiva, anche se condizionatamente sospesa, al compimento della maggiore età (68) (art. 15).

Fa parte della categoria delle disposizioni destigmatizzanti anche la previsione dell'obbligo di adottare le opportune cautele nell'esecuzione di interventi restrittivi da parte della polizia giudiziaria (art. 20 del D.L. 272 del 1989), dettata al fine di tutelare il minore dall'attenzione del pubblico e da ogni tipo di pubblicità.

Note

1. La Corte di Cassazione nella sent. n. 886 del 1980 afferma che l'accertamento della capacità di intendere e di volere del minore costituisce un "giudizio psicologico nel quale va tenuto conto non solo dello sviluppo intellettuale, ma anche di quello morale, che è necessariamente connesso con le condizioni di vita familiare e sociale del soggetto".

2. F. Palomba, Il sistema del processo penale minorile, Giuffrè, Milano, 2002, p. 5.

3. il D.l.vo 272 del 1989 (norme di attuazione e coordinamento del D.P.R. 448 del 1988) prevede esplicitamente gli istituti penali per minorenni (Ipm) fra i servizi facenti parte dei centri per la giustizia minorile.

4. I primi tribunali per i minorenni risalgono alla metà dell'800 in alcuni Stati americani e ai primi del '900 in Europa (Francia, Olanda e Germania).

5. Il testo originario del R.D.L. 1404 prevedeva un solo membro laico; ma la L. n. 1441 del 1956 ha aggiunto la presenza di una donna.

6. Art. 2 del R.D.L. 1404 del 1934.

7. Questa tesi è sostenuta da Foucault in Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino, 1993 e da Goffman in Asylums. Le istituzioni totali. Le condizioni sociali dei malati di mente e di altri internati, Einaudi, Torino, 1968.

8. F. Palomba, op. cit., p. 8.

9. F. Palomba, op. cit., p. 9.

10. S. Merlini, Autorità e democrazia nello sviluppo della forma di governo italiana, Giappichelli, Torino, 1997, pagg. 88, 89.

11. F. Mantovani, Diritto penale, Cedam, Padova, 1992, pagg. 25-28.

12. Bricola, Teoria generale del reato, in Nuovo Digesto italiano, XIX, 1974, 18 ss.

13. La Scuola classica pone a fondamento del diritto penale la responsabilità morale e la concezione etico-retributiva della pena; la Scuola positiva pone a base del diritto penale la pericolosità sociale del soggetto e la concezione difensiva della pena.

14. G. Fiandaca, Il terzo comma dell'art. 27, in A. Pizzorusso Commentario della Costituzione, artt. 27-28, Zanichelli e Società editrice del Foro Italiano, 1991.

15. F. Mantovani, op. cit., pag. 756.

16. Corte Cost., sent. n. 313 del 1990.

17. v. infra 1.6.

18. P. Giannino, Il processo penale minorile, Cedam, 1997. L'autore, inoltre, sostiene che le espressioni "processi educativi" e "esigenze educative" usate dal D.P.R. 448 del 1988 hanno determinato una visione del processo come avente natura educativa di per sé. Egli, invece, nega che il processo penale possa mai costituire un'esperienza educativa per il minore.

19. In questa accezione viene usata dal D.P.R. 448 l'espressione "esigenze educative".

20. P. Pazè, Le scelte ideologiche del nuovo processo, in Il processo penale minorile: prime esperienze. Atti del convegno di Bari, a cura di F. Occhiogrosso, Unicopli, 1991.

21. P. Pazè, op. cit.

22. La Corte Costituzionale in questa sentenza richiama la precedente sentenza n. 125 del 1992.

23. M. Cavallo, Ragazzi senza. Disagio, devianza e delinquenza, Bruno Mondadori, Milano, 2002, p. 161.

24. M. Cavallo, op. cit., p. 161.

25. Questa sentenza è già stata citata nel par. 1.2.

26. v. nota precedente

27. v. nota n. 1

28. L'esigenza di prognosi individualizzate in funzione del recupero del minore è stata sostenuta dalla Corte anche nella sentenza n. 46 del 1978, nella n. 128 del 1987, nella n. 78 del 1989 che parla di "prognosi particolarmente individualizzate", nella n. 182 del 1991, nella n. 143 del 1996 e nella n. 109 del 1997.

29. Il principio della pena detentiva come extrema ratio, o principio di residualità della detenzione, costituirà uno dei principi fondanti del nuovo processo penale minorile istituito nel 1988.

30. Si consideri che anche le norme internazionali, di cui si dirà nel prossimo paragrafo, ebbero un ruolo determinante verso la riforma del 1988.

31. A. Rutherford, Growing out of crime, Penguin Books, Middlesex, 1986.

32. Questa critica alla visione di Rutherford è mossa da G. De Leo nell'op. cit. di F. Palomba, p. 41.

33. In F. Palomba, op. cit., p. 44.

34. G. La Greca, Dalla delega del 1974 al decreto 448 del 1988, in Il nuovo codice di procedura penale, a cura di G. Conso, V. Grevi, G. Neppi Modona, Cedam, Padova, 1990, vol. VII.

35. G. La Greca, op. cit.

36. Le parole riportate sono di La Greca, op. cit.

37. P. Giannino, Il processo penale minorile, Cedam, 1997.

38. P. Giannino, Il processo penale minorile, Cedam, 1997.

39. Da questa disposizione emerge chiaramente che il minore è considerato un interlocutore in grado di dialogare e confrontarsi con il magistrato.

40. P. Giannino, op. cit.

41. F. Palomba, Il sistema del processo penale minorile, Giuffrè, 2002.

42. Palomba, op. cit.

43. Per la giurisprudenza della Corte Costituzionale in tale materia si rimanda alla lettura del par. 1.3.

44. Già citata ai par. 1.2 e 1.3.

45. Palomba, op. cit.

46. Giannino, op. cit.

47. E. Roli, Dispositivo penale e dispositivo educativo nel nuovo processo minorile: una convivenza improbabile, in Il processo penale minorile: prime esperienze. Atti del convegno di Bari, a cura di F. Occhiogrosso, ed. Unicopli, 1991.

48. G. Battistacci, Il nuovo processo penale a carico di imputati minorenni, in Le nuove disposizioni sul processo penale. Atti del convegno di Perugia- 14, 15 aprile 1988, Cedam, 1989.

49. Infatti, come già ricordato, secondo alcuni autori, fra cui Palomba, il processo penale minorile è un processo penale oltreché del fatto, anche della personalità.

50. Palomba, op. cit.

51. Per un'analisi più approfondita del principio della minima offensività si rimanda alla lettura del par. 1.7.

52. Le disposizioni destigmatizzanti sono quelle ispirate al 'principio di destigmatizzazione', che viene analizzato qui di seguito.

53. P. Pazè, Le scelte ideologiche del nuovo processo, in F. Occhiogrosso (a cura di), op. cit.

54. F. Occhiogrosso, Il processo nella prospettiva dei nuovi diritti, in F. Occhiogrosso (a cura di), op. cit.

55. Sentenza n. 49 del 1973, già citata ai par. 1.2, 1.3 e 1.6

56. Si ricorda che, invece, in alcuni Stati degli Stati Uniti d'America (per es. il Texas) è prevista la pena di morte anche per i soggetti minorenni al momento della commissione del reato.

57. La Scuola di Chicago è una corrente sociologica americana, nata negli anni '20, che poneva al centro del suo studio il controllo sociale, inteso non come attività repressiva, ma come la diffusa opera quotidiana di costruzione di opinioni, significati e modi di vita. Caratterizzata dall'interesse per il funzionamento dei meccanismi sociali che regolano la vita di tutti i giorni, per l'interazione e la comunicazione, basava le sue ricerche su una concezione ecologica e organicistica della società, che considerava gli spazi urbani come unità sociali fondamentali. Sono famose le etnografie effettuate nelle periferie delle grandi città. I più illustri esponenti di tale scuola sociologica sono R. Park, E. Burgess, N. Anderson.

58. L'Interazionismo simbolico è una corrente sociologica, nata negli Stati Uniti negli anni '30 e sviluppatasi pienamente solo nel secondo dopoguerra. La tesi centrale di questo indirizzo è che l'individuo sia un prodotto sociale, il cui "sé", cioè la cui personalità, si forma grazie ai processi di interazione sociale, che avvengono attraverso dei simboli, i cui significati sono condivisi socialmente (per esempio il linguaggio). Il metodo di cui si avvale questa corrente è quello microsociologico, cioè lo studio di interazioni quotidiane all'interno di piccoli gruppi (metodo diverso da quello dominante nella sociologia statunitense contemporanea, che, invece, privilegia strumenti statistici). Il principale esponente di questa corrente è E. Goffman. Le rappresentazioni sociali della delinquenza.

59. Questa visione emerge negli studi di F. Poletti, Le rappresentazioni sociali della delinquenza giovanile, La Nuova Italia, 1988 e di G. De Leo, La devianza minorile, Carocci ed., 1998.

60. M. Foucault è uno dei più illustri esponenti della 'storiografia revisionista', corrente sociologica che propone una rilettura storica delle riforme penali, confutando la tesi che alla base di esse stia sempre la progressiva umanizzazione del controllo del crimine.

61. M. Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, 1993.

62. F. Giacca, Il D.P.R. 448/1988 tra la concezione del minimo intervento penale e le attuali tendenze riparative: riflessione sui nuovi modelli e le strategie di intervento, Diritto & Diritti (2001).

63. A. C. Moro, Erode fra noi, Mursia, 1989.

64. G. Sergio, Udienza preliminare minorile, in F. Occhiogrosso (a cura di), op. cit.

65. P. Pazè, in F. Occhiogrosso (a cura di), op. cit.

66. Per queste disposizioni è più appropriato parlare del principio della minima offensività in generale, anziché della teoria del minimo intervento penale, in quanto quest'ultima riguarda in particolare l'ambito della pena e dell'istituzione carceraria.

67. F. Palomba, op. cit.

68. Le iscrizioni relative alla concessione del perdono giudiziale, invece, devono essere conservate presso il casellario minorile fino al compimento del ventunesimo anno di età (art. 15, secondo comma).