ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo III
La "catena" della devianza: traffico, sfruttamento e criminalità

Massimo Di Bello, 2000

Sezione I
Le motivazioni socio-psicologiche della devianza degli immigrati

3.1. Premessa

Sin dal sorgere della Criminologia (1), le teorie che si proponevano di spiegare la criminalità e la devianza in genere si distinsero, secondo le scuole di pensiero che le elaborarono, in due orientamenti, frequentemente in posizione antagonistica: l'indirizzo individualistico e l'indirizzo sociologico.

Il primo, incentra il suo studio sulla personalità del singolo individuo delinquente ed individua le cause della criminalità nei fattori endogeni: esso sostiene la predisposizione individuale alla delinquenza, cioè la probabilità dei soggetti segnati da certe caratteristiche di pervenire al crimine. Viceversa, il secondo, movendo dal postulato che il reato non è un fatto individuale isolato ma un prodotto dell'ambiente, incentra lo studio della criminalità sulla realtà socio-ambientale e ricerca le cause della delinquenza in fattori esogeni: il delitto è un fenomeno sociale generale, non eliminabile, ma modificabile nella qualità e quantità col mutare del contesto sociale in cui si manifesta. Ciascun dei due indirizzi, poi, ha sviluppato al suo interno numerose teorie che, di volta in volta, hanno centrato l'attenzione sui fattori fisico-biologici e psicologici (psichiatrici e psicodinamici) della criminalità (2), ovvero sui modi di manifestazione dei fatti criminosi (e delle relative correlazioni con le circostanze ambientali) e sulle motivazioni sociopsicologiche della devianza (3).

Lontane dal determinismo esclusivamente biologico della criminalità, ma molto vicine all'indirizzo socio-psicologico, si pongono le principali teorie sulla devianza degli immigrati, che ne considerano il comportamento deviante come la risultante del disadattamento sociale e dei sentimenti di esclusione e di frustrazione vissuti nel Paese di destinazione.

Nonostante gli studi e le ricerche d'inizio secolo sui due più grandi flussi migratori del nostro tempo (4) avessero evidenziato che gli stranieri commettevano reati meno frequentemente dei nativi, all'immigrazione è stato comunque conferito il significato di fattore criminogeno.

Un'importante riflessione su questo delicato tema è data dal rapporto che, poco più di trent'anni fa, Franco Ferracuti (5) presentava alla Quinta Conferenza dei Direttori degli Istituti di ricerca criminologica del Consiglio di Europa, tenutasi a Strasburgo nel novembre 1967. Questo studio può essere considerato ancora oggi lo stato dell'arte dei problemi teorici e metodologici affrontati nell'analisi del fenomeno.

Nel suo saggio, Ferracuti riassume le tendenze degli studi e i risultati delle ricerche a lui contemporanee e ne conclude che, a quel tempo (6), la criminalità dei lavoratori stranieri non fosse maggiore di quella dei nativi. Secondo l'autore, il pregiudizio dello "straniero più criminale dell'autoctono" era, in buona probabilità, la conseguenza di una sorta di reazione xenofoba (7).

Numerose sono le teorie ricordate da Ferracuti, tutte centrate sugli aspetti socio-psicologici della devianza: l'attrito che si svilupperebbe tra il sistema culturale di origine degli immigrati e quello del Paese di destinazione; gli effetti della mobilità, che indebolirebbe l'attaccamento alla comunità locale e favorirebbe i legami tra gruppi secondari; le conseguenze del processo di adattamento e di difesa alle frustrazioni che il migrante subisce durante il processo migratorio; le situazioni anomiche (8); le modificazioni psicologiche connesse allo spostamento migratorio, per cui le tensioni provocate dalla migrazione potrebbero ridurre le possibilità di adattamento di un individuo o portarlo a vere e proprie malattie mentali, la cui conseguenza potrebbe essere la commissione di reati.

Giorgio Marbach, nel suo studio sull'armonizzazione a livello europeo delle statistiche sulla criminalità dei lavoratori stranieri (9), le ha classificate in teorie culturali, teorie economiche e teorie composite. Secondo le prime, la devianza degli immigrati è il risultato del differenziale esistente tra il sistema di valori e di norme di condotta della popolazione immigrata ed il modo di vita e l'apparato normativo del Paese ospite. Le teorie economiche considerano elemento scatenante del comportamento antisociale degli immigrati lo "squilibrio economico" tra le condizioni di vita e di lavoro di questi e quelle dei nativi. Le teorie composite individuano la causa della criminalità straniera nella mancata integrazione, dovuta sia a fattori culturali che economici.

Nel loro insieme, queste teorie raggruppano le tre motivazioni comunemente accettate per dare una spiegazione, la più verosimile possibile, alla devianza degli immigrati.

3.2. Il conflitto culturale

Secondo Thorsten Sellin (10), il sociologo americano che, alla fine degli anni '30, ha proposto la teoria dei conflitti culturali, in ogni società vi è un sistema di valori e di norme di condotta, che indicano il comportamento da tenere a coloro che si trovano in determinate situazioni e che vengono trasmesse di generazione in generazione. La capacità di interiorizzare i valori e le norme dipende dal grado di omogeneità culturale della società in cui esse operano: nelle società semplici, le norme di condotta diventano leggi e godono di un consenso generale; nelle società moderne, più complesse, è possibile che si generino conflitti tra sistemi culturali contigui.

I conflitti culturali possono essere di due tipi: conflitti primari, quelli, cioè, determinati dall'attrito diretto tra differenti culture; conflitti secondari, che hanno luogo, invece, nella stessa cultura.

I conflitti primari si verificano quando i sistemi culturali si sovrappongono, per cui, fino a quando non sia intervenuta una piena integrazione, il persistere dei valori culturali di origine crea conflitto con i nuovi valori. Questo determina un indebolimento dei primi senza pervenire ancora all'assimilazione dei secondi e genera una situazione d'incertezza nell'individuo e un conseguente indebolimento dei sistemi individuali di controllo della condotta. Questa situazione si è verificata frequentemente durante il colonialismo: quando, ad esempio, in Algeria fu introdotto il codice penale francese, gli antichi usi di quei popoli furono trasformati in reati, punibili con la pena capitale. Per la popolazione autoctona è stato difficile accettare che le pratiche di "giustizia" e di composizione dei torti, fino ad allora esistenti, fossero ora da abiurare. Si possono ricordare: il diritto-dovere del padre o del fratello di uccidere la donna che si rendeva responsabile di adulterio; la legge dell'onore, che consentiva l'omicidio per vendetta di chi avesse ucciso o offeso un parente, etc.

Successive estensioni ed approfondimenti hanno posto in luce come anche i conflitti secondari possano tradursi in fattori di insicurezza e favorire la condotta deviante. Tali conflitti sono dovuti ad un processo di differenziazione sociale che può avvenire sia per effetto della discriminazione, del rigetto e dell'emarginazione da parte della società ospitante, sia a causa della modificazione della cultura originaria sotto l'influsso del nuovo ambiente di vita.

È quanto è stato riscontrato in America nei primi anni '30 in riferimento al problema dell'integrazione degli immigrati. La teoria ha consentito di spiegare, in contrasto con la dominante interpretazione "razziale", il differente tasso di criminalità tra i neo-immigrati, ancora legati ai vecchi valori, e gli immigrati della seconda generazione, per i quali, invece, i valori originari andavano perdendo significato ma non si era ancora raggiunta una piena assimilazione della nuova cultura.

Con la teoria dei conflitti culturali sono state spiegate anche le differenze esistenti tra i diversi comportamenti devianti degli immigrati e, soprattutto, perché, negli Stati Uniti dei primi decenni del Novecento e nei Paesi centro-settentrionali dell'Europa degli anni '60, le differenze fra autoctoni ed immigrati fossero maggiori per i "delitti di passione" che per quelli predatori e strumentali.

Sellin, ad esempio, osservando la situazione del suo Paese, notava che gli immigrati commettevano soprattutto "delitti di passione" o violavano più frequentemente le leggi in materia di produzione e commercio di alcolici, di gioco d'azzardo, di prostituzione. La spiegazione è stata ravvisata nella diversità delle norme di condotta nel Paese di origine rispetto al sistema normativo del Paese ospite. Alcune delle popolazioni immigrate, infatti, provenivano da Paesi in cui era lecito portare armi, o da Paesi in cui vi era un diverso atteggiamento nei confronti della prostituzione o del gioco d'azzardo, o, ancora, una diversa considerazione dell'onore familiare (11).

Per quanto riguarda l'Europa centro-settentrionale, tutte le ricerche condotte in Belgio, in Svizzera, in Germania, dimostrarono che gli immigrati commettevano meno reati degli autoctoni, ma, tuttavia, le differenze nei tassi di criminalità erano minori per i reati come le violenze, le minacce, le lesioni. Si trattava di delitti che gli immigrati commettevano con una certa frequenza (anche se meno dei nativi), per difendere il loro onore o per le frustrazioni che subivano.

Anche in questo caso, la spiegazione fu ravvisata nel fattore culturale. Una parte dei migranti, infatti, proveniva da Paesi nei quali vigeva la regola del "farsi giustizia da sé" e dove erano frequenti il sopruso, il ricorso alla forza, la vendetta per i torti subiti, perché lo Stato era ancora debole e nelle società vi era ancora una pluralità di gruppi e di poteri in continuo conflitto tra loro.

Un'indagine condotta in Belgio, ad esempio, mise in luce che alcune delle violazioni commesse dagli immigrati italiani erano dovute alla trasposizione nell'ambito di insediamento degli usi e dei costumi propri della terra natia.

In Sicilia, come in altre regioni meridionali del nostro Paese, era vigente il vecchio costume della "fuitina": il ratto consensuale o la fuga dei promessi sposi, spesso minorenni, per vincere l'opposizione dei genitori o, talvolta, per celebrare il matrimonio in economia, senza dover, cioè, sopportare le spese dei pranzi o dei rinfreschi. Così, alcuni giovani siciliani furono condannati per ratto di minore perché, seguendo questo vecchio costume, prima delle nozze erano scappati di casa con una ragazza minorenne. Denunciati ed interrogati, questi giovani e i loro genitori, avevano "unanimemente sostenuto che questa pratica è corrente da loro e che si tratta di un vecchio costume siciliano" (12).

Una situazione analoga è stata descritta in una ricerca (13), condotta a Detroit negli anni '30, riguardante i reati più frequentemente commessi dai giovani appartenenti alla comunità ungherese. Secondo questa indagine, i giovani ungheresi che commettevano furti venivano severamente condannati dalla comunità di appartenenza, ma altrettanto approvati se questi rubavano il carbone dalla ferrovia per uso domestico.

Le ragioni di questa tolleranza affonda le radici nel tempo. I contadini ungheresi avevano per secoli goduto del diritto di far legna da ardere nella tenuta del signore. Ma quando dal 1848, con l'emancipazione dei servi della gleba, il signore feudale perse la proprietà del villaggio conservando solo quella dei boschi, la situazione cambiò. Privati dell'antico privilegio, i contadini finirono per imporre ai signori il diritto di "rubare" loro una certa quantità di legna secca. Così, quando emigrarono a Detroit, questi portarono con loro tale regola, trasferendola al carbone della ferrovia (14).

Alcuni antropologi (15) hanno utilizzato la teoria del conflitto culturale anche per spiegare il comportamento deviante di alcuni gruppi nomadi, nell'ultimo decennio in Italia ed in altri Paesi europei.

Le ricerche condotte a riguardo hanno posto in luce che, fra i Roma e alcuni altri gruppi di zingari, rubare ai Gage (16) è ammesso e considerato positivamente, mentre è fortemente disapprovato e punito all'interno della comunità. Sin da molto piccoli, viene loro insegnato a chi è consentito rubare e a chi, invece, è vietato; a chi è bene parlare dei furti commessi ed a chi, viceversa, è male. Ed in questo è ravvisabile il principale motivo dell'assenza di ogni senso di colpa in chi si dedica ai furti quotidianamente (17).

I Roma, pur concependosi come gruppo fortemente contrapposto ai Gage, si disperdono tra questi ultimi per procacciarsi le risorse, attraverso le attività ambulanti, la mendicità o i furti. Secondo gli antropologi, proprio nella sentita dicotomia tra tali gruppi si nasconde il significato che il furto assume nell'ideologia Roma.

Per potersi difendere dal potere contaminante del denaro proveniente dai Gage, i Roma gli attribuiscono funzioni diverse ed opposte da quelle attribuitegli dai primi. Se per questi la ricchezza è un "bene" da accumulare, per i nomadi è da sprecare, disperdere, dilapidare con spese eccessive o feste; se per i Gage il denaro è fonte di discriminazione sociale e di differenziazione negli stili di vita, per i nomadi la quantità di denaro non modifica le loro abitudini.

In una concezione di questo genere, è chiaro che anche il furto serve per difendere l'identità dei Roma; la sua funzione "non è di permettere l'accumulazione della ricchezza, ma di distinguere i Roma dai Gage". Il furto e la mendicità, infatti, sono contrapposti agli ideali di "onestà e di laboriosità" di questi ultimi e, dunque, per un Roma, "rubare ai Gage è un modo per riaffermare l'incolmabile distanza che lo separa" da lui (18).

Dunque, attraverso la teoria del conflitto culturale è possibile, in certa misura, dare un'interpretazione sui comportamenti devianti degli immigrati e sulle loro differenze. In certa misura, perché in realtà la teoria in esame non riesce a sottrarsi ad alcune importanti obiezioni (19). In primo luogo, essa non è in grado di spiegare le diverse reazioni soggettive ai tanti conflitti culturali della nostra epoca, atteso che il crimine coinvolge solo una minoranza degli individui. In secondo luogo, perché generalizza eccessivamente le differenze culturali esistenti fra le diverse società: gran parte dei comportamenti devianti presi in esame da questa teoria, infatti, sono condannati in tutte le società, compresa quella di origine dell'immigrato. In terzo luogo, non riesce a fornire adeguata spiegazione dei mutamenti avvenuti nelle manifestazioni devianti degli immigrati, dopo la prima metà degli anni '70.

3.3. La carenza del controllo sociale

È una collaudata legge criminologica che quanto più stabile ed ordinato è un contesto sociale, tanto meno rilevanti sono le condotte devianti degli individui. La correlazione tra devianza e disorganizzazione sociale rappresenta, infatti, una costante criminologica: il deviante è un soggetto normale, che vivendo in una società, in una comunità, in un gruppo disorganizzato, tende a disorganizzare anche la propria condotta.

La teoria del controllo sociale, o teoria dei contenitori (20), rappresenta un tentativo di integrazione dei fattori individuali ed ambientali della devianza. Essa considera in modo specifico l'azione dei "controlli interni" ed "esterni", capaci congiuntamente e vicendevolmente di regolare la condotta umana.

I "contenitori interni", quelli, cioè, legati alla struttura dell'individuo, sono responsabili dell'adeguamento del comportamento agli stimoli socio-ambientali e sono rappresentati da un buon autocontrollo, da un buon concetto di sé stessi, dall'alta tolleranza alle frustrazioni, dalla capacità di socializzazione, dal senso di responsabilità, dall'abilità a trovare soddisfazioni sostitutive, dalle razionalizzazioni idonee a ridurre la tensione.

I "contenitori esterni", di tipo normativo-culturale, costituiscono il freno che agisce nell'immediato contesto sociale del soggetto e che gli permettono di non oltrepassare il limite normativo. Essi sono rappresentati dalle aspettative sociali, dalla sorveglianza ed efficacia dei sistemi di controllo sociale, dalle opportunità di sfoghi alternativi, dalle opportunità di consensi nel proprio ambiente, dall'identità e dal senso di appartenenza ad un gruppo. A questi si aggiungono la famiglia e gli altri gruppi di rinforzo (istituzioni, apparati di prevenzione e repressione, etc.) normalmente preposti al controllo ed al "contenimento" dell'individuo.

La carenza di "contenitori" interni o esterni costituisce per il soggetto un elemento di vulnerabilità che rende conto, nel singolo caso, delle ragioni della condotta deviante. Per le evidenti correlazioni esistenti tra essi, la mancanza di contenitori interni può essere compensata da un valido sistema di contenitori esterni e viceversa.

In ragione di questi "freni" alcune ricerche hanno spiegato il livello particolarmente basso di criminalità di alcuni gruppi di immigrati degli anni '60 nei Paesi europei importatori di manodopera.

In una ricerca condotta sugli immigrati pakistani ed indiani di Bradford, ad esempio, si pervenne alla conclusione che le ragioni del loro basso livello delinquenziale erano da ricercare nell'esistenza di comunità solidali e coese nelle quali essi vivevano. L'importanza del consenso, dell'integrazione e dell'esistenza di "persone significative di riferimento" fu riscontrata anche in una ricerca sugli immigrati italiani di Liegi (21).

Secondo un altro studio, condotto a Ginevra (22) nella prima metà degli anni '60, le possibilità che un italiano commettesse un reato variavano a seconda del grado di integrazione sociale raggiunto. Gli immigrati italiani, infatti, potevano essere distinti in tre categorie: una prima, della quale facevano parte i cosiddetti "stagionali", coloro, cioè, che ogni anno ritornavano in Italia per uno o due mesi; una seconda, nella quale rientravano coloro che avevano un permesso di soggiorno, legati per un anno ad un lavoro fisso; una terza, nella quale rientravano le persone con un permesso "d'établissement", coloro, cioè, di lunga permanenza (oltre dieci anni) che godevano di tutti i diritti dei cittadini di quel Paese ad esclusione dei diritti politici.

Fu riscontrato che gli italiani appartenenti alla prima ed alla terza categoria commettevano reati meno frequentemente di quelli della seconda. Questo fu correlato al diverso grado di integrazione raggiunto: infatti, l'essere "stagionale" garantiva loro un buon inserimento, quantomeno nella comunità dei loro connazionali; viceversa, quando ottenevano un permesso di soggiorno, questi si trovavano nella fase più delicata dell'immigrazione in quanto "si distaccavano sempre più dal gruppo di origine senza essersi ancora sufficientemente integrati nella società di accoglienza" (23). Infine, dopo dieci anni, avevano ormai raggiunto un buon livello di integrazione nella nuova comunità.

In altre parole, se gli immigrati italiani che violavano la legge aumentavano passando dagli stagionali a quelli con un permesso di soggiorno valido un anno, per diminuire nuovamente fra i residenti ultradecennali, era anche perché gli appartenenti alla prima ed alla terza categoria godevano di più solidi legami con la comunità (locale o di connazionali) circostante.

La teoria del controllo sociale è stata utilizzata anche per dare ragione del maggior tasso di criminalità degli immigrati della seconda generazione rispetto a quelli della prima. Anche in questo caso, la differenza fu attribuita all'indebolimento dei fattori di contenimento della condotta deviante e, in particolare, dei legami tra figli e genitori. La prima grande ricerca in merito (24) fu condotta nei primi decenni del secolo sui contadini polacchi immigrati negli Stati Uniti. Si legge in questo studio che, quando questi vivevano nel loro Paese, erano organizzati in famiglie forti e solidali e svolgevano la funzione educativa "in modo molto più ricco e meglio ordinato che in America. [...] I figli venivano iniziati ben presto a tutte le attività dei genitori e in questo modo assimilavano e imitavano in maniera irriflessa la loro organizzazione di vita". Ma la situazione cambiava una volta giunti in America. I giovani, sottoposti agli stimoli di una società più progredita, riducevano le partecipazioni alle attività dei genitori, apprendevano gli usi ed i costumi della nuova società dalla vita di strada e, spesso, erano essi stessi a fungere da mediatori tra la società circostante ed i genitori. Così, veniva ad essere irrimediabilmente intaccata ogni autorità e controllo sui figli che, anzi, quando entravano in contatto con la nuova realtà si lasciavano sedurre dai piaceri e dai desideri indotti da uno stile di vita completamente differente. In queste condizioni, era naturale che, per ottenere ciò che soddisfacesse quei desideri e quei piaceri commettessero furti o rapine.

Agli stessi risultati si giunse, qualche anno più tardi, attraverso una ricerca effettuata sulle bande giovanili di Chicago (25). Gran parte dei giovani che facevano parte delle centinaia di bande di quella città venivano da famiglie italiane, polacche, irlandesi, slave. Si sostenne che ciò era dovuto alla progressiva "perdita di controllo sui figli da parte degli immigrati" (26), come del resto era normale che accadesse in un ambiente sociale così diverso da quello originario. L'assimilazione troppo rapida e superficiale del "modello americano" aveva, di fatto, accelerato la disintegrazione del controllo della famiglia sui figli ed indebolito, di conseguenza, un importante contenitore della devianza.

Non sono mancate, poi, ricerche che hanno dimostrato il contrario e, cioè, che gli immigrati della seconda generazione commettono meno reati di quelli della prima, anche se più frequentemente degli autoctoni (27). In questo caso è stato dimostrato che le ragioni del minore tasso di criminalità è da rapportare all'integrazione favorita dalle strutture istituzionali, quali ad esempio, la scuola, che crea le condizioni favorevoli per ridurre gli svantaggi sociali iniziali e rafforza i legami con figure "significative" di riferimento.

Se, generalmente, la teoria del controllo sociale arriva oltre il limite della teoria del conflitto culturale, anche per questa, tuttavia, vi sono importanti obiezioni, in parte analoghe a quelle mosse per l'altra. In primo luogo, la teoria del controllo sociale non riesce a dar conto delle trasformazioni che nel corso del tempo hanno avuto i comportamenti devianti degli immigrati, né tantomeno della differenza tra la devianza espressa dagli immigrati del Nord e quelli del Sud del nostro Paese. In secondo luogo, per comprendere gli effetti dell'indebolimento del controllo sociale, sarebbe opportuno integrare detta teoria con i concetti di anomia, di stimolo-risposta all'aggressione-frustrazione, di associazione differenziale, di identificazione differenziale, secondo gli insegnamenti della sociocriminologia e nella prospettiva di una devianza multifattoriale.

3.4. Gli svantaggi sociali ed il senso di privazione relativa

Sin dalle origini della ricerca criminologica, povertà e squalificazione sociale sono state a lungo considerate tra le cause principali della criminalità, fino a darne una definizione in chiave di esclusivo determinismo economico (28).

Nonostante il fondo di indubbia verità, questa teoria ha, però, il limite di non saper spiegare l'alto indice di criminalità anche nelle classi sociali più abbienti. In più, trascura il fatto che la criminalità appropriativa è solo una delle forme motivazionali della delinquenza, accanto a quella per aggressività, passionalità, sessualità, ludismo, etc.

Un approccio più corretto nell'analisi dei rapporti tra criminalità e condizioni economiche sembra essere, invece, quello di inferire il ruolo che l'economia seguita a giocare nella condotta deviante da meccanismi più complessi ed in maniera più mediata. In questo tipo di approccio, infatti, andrebbero considerati tutti i fattori (culturali, biologici, psicologici, giuridico-politici) che, insieme a quelli economici, influiscono sulla genesi della condotta antisociale. Ed ecco che si ripropone il tema della necessaria considerazione multifattoriale della criminalità, tanto più quando il discorso investe gli immigrati.

Che sia questo l'approccio più corretto è testimoniato anche dalle successive evoluzioni della teoria, che individuano nell'economia e negli aspetti economici della società i fattori di maggior influenza sui fattori culturali, entrambi responsabili di molte scelte comportamentali. "La frustrazione si sviluppa in seguito a un processo di valutazione, poiché (alcuni) individui giungono a credere che vi sia poco o nulla che essi possano fare per migliorare la loro posizione relativa, ed è da questa frustrazione che può sorgere la violenza o altro comportamento criminale" (29).

Attraverso la considerazione dei fattori economico-culturali della devianza, è stato possibile spiegare la differenza che si è registrata, nel nostro Paese, tra gli immigrati nel Nord rispetto a quelli del Sud. È stato rilevato, infatti, che sia gli immigrati regolari che quelli irregolari violano più frequentemente le norme al Nord che al Sud.

Per quanto paradossale questo possa sembrare, (date le più favorevoli condizioni del mercato del lavoro, le maggiori possibilità di trovare una casa, di conseguire una discreta retribuzione al Nord), le ricerche più serie (30) hanno posto in luce che per gli extracomunitari vi sono maggiori possibilità di inserimento nell'area meridionale del Paese (31).

Qualche studioso (32) ha correlato tale situazione alle affinità culturali tra alcune popolazioni immigrate e la popolazione meridionale autoctona. Così, il basso livello di criminalità dei tunisini in Sicilia è stato spiegato come l'effetto di una sorta di omogeneità culturale tra il Paese di origine e quello di arrivo. Generalizzando una tale ipotesi, si potrebbe ritenere che, per i nordafricani le arre meridionali del nostro Paese siano più vicine a loro anche culturalmente. Tuttavia, si tratta di mere ipotesi, non ancora sottoposte al vaglio di rigorose ricerche empiriche. In ogni caso, comunque, la maggiore integrazione genera minore frustrazione ed attenua il senso di privazione relativa, agendo, così, da freno sulla determinazione criminosa.

In chiave di minore frustrazione è stata spiegata anche la differente delittuosità tra gli immigrati di prima e di seconda generazione ed i mutamenti che sono avvenuti nei comportamenti devianti degli stessi a partire dalla seconda metà degli anni '70.

Si è sostenuto che il maggior tasso di criminalità registrato tra gli immigrati della seconda generazione è da rapportare al diverso gruppo di riferimento ed alla più elevate aspirazioni di questi rispetto a quelli della prima generazione. Alcune ricerche (33) hanno mostrato, infatti, che il progetto migratorio di molti immigrati negli Stati Uniti o nelle "aree forti" dell'Europa, nei primi anni del secolo, era a breve termine e ben lontano dalla volontà di scalare la gerarchia sociale. Il loro intento era solo quello di accumulare un po' di soldi per assicurare una vita più dignitosa alle proprie famiglie nel Paese di origine. Il loro gruppo di riferimento non era costituito dalla società ospitante, ma dai familiari e dagli amici lasciati nelle terre natie, ed era con questi che stabilivano una comparazione, ricavandone soddisfazione e rassicurazione.

Ben diversa era la situazione per gli immigrati di seconda generazione. Per questi, infatti, il gruppo di riferimento non poteva essere rappresentato dai figli di coloro che non erano immigrati, per il buon motivo che non li conoscevano. Il termine di confronto, invece, era costituito o dagli immigrati di seconda generazione provenienti da altri Paesi, ovvero dagli stessi autoctoni; di conseguenza il loro livello di aspirazione era più elevato (34). In una situazione di questo genere, gli immigrati di seconda generazione facevano proprie le mete del successo economico e sociale delle società in cui vivevano, anche se dovevano ben presto accorgersi delle insormontabili difficoltà per raggiungerle. In questo, le motivazioni del loro agire illegale (35), nella volontà, cioè, di superare gli ostacoli legali tra sé e l'affermazione sociale ambita.

Nell'ultimo ventennio, però, la condizione degli immigrati della seconda generazione è notevolmente cambiata: per essi, infatti, le possibilità di affermarsi economicamente e socialmente si sono ridotte. Si legge in qualche studio sull'immigrazione europea (36) che nell'epoca attuale si è accentuata la tendenza alla trasmissione degli svantaggi da una generazione all'altra.

Anche a prescindere dalle differenze generazionali, la teoria della privazione relativa spiega perché gli immigrati commettano oggi più reati di un tempo. La causa dell'attuale maggiore delittuosità degli stranieri non è solo il prodotto delle precarie condizioni socio-economiche, ma smpre più spesso l'effetto di un mutamento nei progetti migratori e nei gruppi di riferimento. Gran parte degli immigrati, sedotti dalle iperstimolazioni pubblicitarie, lasciano la propria terra per raggiungere le mete del materialismo consumistico e il loro gruppo di riferimento è rappresentato dalla popolazione del Paese ospite. La validità di queste ipotesi sono confermate dalle parole di autorevoli studiosi:

"Molti di questi migranti sono giovani istruiti, provenienti dalle aree urbane dove sono stati socializzati ai valori consumistici occidentali, spesso dalla televisione o da altri mass media. Molti appartengono alle élite intellettuali dei Paesi di origine. Essi sono coinvolti nella rivoluzione delle aspettative crescenti del mondo sottosviluppato e sono in cerca non di lavori ma di alti redditi e di standard di vita occidentali, in termini sia di libertà sociale che di consumo" (37).

Così, una tra le più importanti ricerche etnologiche condotta a Milano, ha dimostrato che gli algerini implicati in fatti criminosi in questa città non erano stati spinti ad emigrare dalla miseria e dalla disoccupazione. La loro condizione sociale ed economica nel Paese di origine non era tale da progettare la fuga verso migliori condizioni di vita: trovare un'occupazione stabile che gli garantisse un modesto ma certo reddito non sarebbe stato impossibile. Tuttavia, quelle condizioni erano troppe lontane dalle proprie aspettative: così hanno interiorizzato gli stili di vita e le mete (sociali ed economiche) dei giovani europei.

Attualmente si ricorre ancora con frequenza alla teoria della devianza come fallimento dell'integrazione sociale (38) e alla teoria della costruzione sociale della devianza (o dell'etichettamento) (39).

Ma nuove e più preoccupanti dinamiche hanno interessato i flussi migratori di quest'ultimi dieci anni, rendendo queste teorie inadeguate a rappresentare il nuovo contesto in cui si sviluppano i rapporti tra immigrazione e criminalità.

A questo sono dedicate le pagine che seguono.

Sezione II
Il traffico e lo sfruttamento degli immigrati

3.5. Immigrazione e criminalità: un rapporto "derivato"

In linea con le più tradizionali teorie socio-psicologiche che nel corso degli anni hanno tentato di dare una spiegazione alla criminalità degli immigrati, l'ISTAT, in una pubblicazione del 1994, ha osservato che in Italia vi è stato un "inserimento progressivo degli stranieri nell'area criminale" e che "una considerevole quota di immigrati, provenienti per lo più dai Paesi extracomunitari, non trovando quelle opportunità di inserimento sperate, ha finito per costituire un serbatoio inesauribile per l'arruolamento di manovalanza criminale a basso costo" (40). Nel 1998 l'Istituto Nazionale di Statistica è ritornato sul problema attribuendo l'elevata presenza straniera nell'area criminale a fattori connessi alle particolari disagiate condizioni economiche, alle situazioni di clandestinità, ai conflitti culturali, all'assenza di legami familiari (41).

Nonostante l'attualità delle motivazioni poste a base delle varie argomentazioni, queste teorie spiegano solo alcuni dei processi criminogeni, ma non riescono a rendere conto in modo adeguato delle trasformazioni e della grandezza dei fenomeni che oggi sono sotto gli occhi di tutti e che caratterizzano lo scenario dei rapporti tra migrazioni e criminalità.

Si avverte, infatti, l'esigenza di un modello di analisi più vivace e più aderente alla realtà, che sappia combinare le analisi ricordate con un'indagine capace di considerare la criminalità dell'immigrato come dipendente da una serie di fattori, tra cui un ruolo determinante assume l'ingresso delle organizzazioni criminali nel traffico dei migranti. La tesi è che una parte della criminalità commessa dagli stranieri, soprattutto se irregolari o clandestini, è in correlazione con le operazioni di traffico e con lo sfruttamento delle organizzazioni criminali che si dedicano alle migrazioni illegali.

Grazie ad una capace opera di ricerca e di individuazione delle zone economicamente depresse, la criminalità organizzata è riuscita a rendere altamente remunerativo il trasferimento di consistenti masse di persone, spinte dalla necessità della sopravvivenza, verso Paesi ad economia avanzata, estendendo la sua attività oltre il trasporto illegale ed orientando la destinazione dei soggetti interessati attraverso forme diversificate di pubblicità illusoria. In questo traffico, gli interessi degli immigrati, relativamente alla domanda ed all'offerta di trasporto, convergono con quelli delle grandi organizzazioni criminali, pronte a fornire servizi di carattere illegale. Infatti, la speranza di trovare lavoro e la possibilità di eludere la normativa o l'attività di controllo degli ingressi in un Paese, malgrado l'attuazione di una politica migratoria restrittiva, spinge questi soggetti a rivolgersi all'organizzazione criminale, la sola pronta a soddisfarne la domanda.

L'esistenza di queste compagini criminali di notevole spessore ed importanza che agiscono nello specifico settore, anche se coordinando in maniera diversificata le proprie attività, appare ormai certa ed evidenziata dai seguenti fattori:

  • entità dei flussi migratori;
  • diversa nazionalità delle vittime;
  • violenza nella gestione;
  • redditività finanziaria del business e suo reinvestimento in attività criminali ancor più redditizie.

Questo traffico, poi, proprio per le condizioni di clandestinità, comporta quale naturale conseguenza che i soggetti interessati vadano ad occupare, nei Paesi di approdo, posizioni "marginali", caratterizzate dalla precarietà, dall'emarginazione sociale e dal degrado ambientale in cui, con estrema probabilità, dovranno vivere. Le speranze di riscatto sociale, di emancipazione e di benessere economico, infatti, si infrangono contro la crudezza della realtà che li attende non appena giunti nel Paese di destinazione.

Se non già prima, nella fase successiva all'ingresso scatta la morsa del controllo malavitoso, con i vari abusi, angherie e vessazioni che ne conseguono. Sottoponendo questi individui a condizioni di vita più disagiate e degradate di quelle che li hanno costretti ad affrontare i rischi dell'immigrazione clandestina, la criminalità organizzata riesce ad instaurare uno stato di perenne dipendenza che sfocia, sovente, in vere e proprie forme di schiavitù. L'asservimento al potere di queste compagini delinquenziali è totale ed incondizionato fino all'estinzione del debito contratto (42) (destinato ad ingigantirsi nel tempo).

I livelli e le modalità di sfruttamento sono vari e diversi, a seconda del genere e dell'età, ma tutti accumunati dalle diverse pratiche costrittive che vanno dal ricatto psicologico alla minaccia violenta, e spesso il dazio da pagare a chi sfrutta non è solo economico ma anche fisico, sessuale, psicologico. A sottolineare il livello disumano di costrizione vi è, poi, l'inammissibilità di deroghe alle imposizioni, pena l'applicazione di variegati sistemi di punizione che, non di rado, possono comprendere anche la soppressione del soggetto o interessare i prossimi congiunti.

D'altra parte, le condizioni di miseria, di precarietà e di subordinazione costituiscono le premesse sufficienti perché gli immigrati si trovino quasi automaticamente inseriti nei circuiti delle "opportunità" criminali. Per quanto paradossale possa sembrare, è in questo modo che si aprono ampie possibilità di realizzazione di un qualsiasi reddito e di inserimento lavorativo, sia pure saltuario e marginale. Gli immigrati si ritrovano, così, trasformati in un esercito illegale di forza-lavoro di riserva che la malavita può gestire secondo le proprie finalità: da una parte, avviandolo nel mercato del lavoro nero, dall'altra, spingendolo verso attività più propriamente illegali, quali la prostituzione, il traffico e lo spaccio di sostanze stupefacenti, l'accattonaggio, i furti e le rapine. Anche le attività più diffuse ed apparentemente innocue, come il commercio ambulante, spesse volte sono indirettamente gestite dalle organizzazioni criminali attraverso la fornitura della mercanzia, generalmente di contrabbando o provento di furto e rapine.

Insomma, gli immigrati, in virtù del traffico e del conseguente sfruttamento cui vengono sottoposti, costituiscono, per le èlite criminali dei Paesi di origine, terreno fertile per il reclutamento di manovalanza (fedele ed omertosa, se non altro per ragioni di solidarietà etnica), utilissima per espandere all'estero la propria influenza.

3.6. La criminalità organizzata straniera in Italia

Al fine di avere un quadro, il più completo possibile, delle dinamiche che vanno dal traffico alla devianza degli immigrati, è necessario in via preliminare considerare l'azione criminale di alcuni importanti sodalizi stranieri che operano in Italia. L'opportunità di questa premessa è sottolineata non solo dal fatto che essa fornisce un quadro della dimensione transnazionale del fenomeno migratorio clandestino, ma anche dal fatto che gran parte delle organizzazioni straniere implicate nel traffico dei migranti sembrano responsabili di una "certa" devianza espressa dagli stranieri nel nostro Paese.

L'argomento, di particolare interesse sotto il profilo criminologico e per altri aspetti, meriterebbe una trattazione specifica, che consentirebbe di individuare le peculiarità dei sodalizi e le conseguenti strategie di contrasto. Ci si trova, infatti, di fronte a sistemi delinquenziali fortemente differenziati quanto a strutture e strategie criminali, per i quali sono necessarie azioni di monitoraggio allargate a contesti internazionali, analisi integrate di vasto respiro, iniziative di natura preventiva ed investigativa raccordate nell'ambito di una cooperazione a livello comunitario e con Paesi terzi.

Per queste ragioni, la nostra indagine fornirà soltanto alcuni limitati ma significativi riferimenti.

Le molteplici manifestazioni devianti degli immigrati nel nostro Paese costituiscono, ad un tempo, la proiezione, lo sviluppo e la trasposizione nell'ambito di insediamento delle caratteristiche tipiche della loro fenomenologia criminale. Questo processo di "adeguamento", caratterizzato a volte da esigenze di mimesi altre volte da strategie violente di vera e propria occupazione, è andato configurando una minaccia poliedrica. Se, per un verso, il pericolo derivante dall'internazionalità del grande crimine risiede principalmente nell'inquinamento dei circuiti economici e finanziari legali (43), a vulnerare direttamente l'ordine pubblico intervengono specifiche attività delittuose di bande straniere ormai saldamente radicate sul territorio nazionale (44).

Il nostro Paese, infatti, è diventato il terreno d'impianto per una molteplicità di forme malavitose, tutte assimilabili alle "nostre mafie" per taluni aspetti peculiari e, tuttavia, connotate dai moduli organizzativi, affiliativi e strategici più disparati.

Particolare rilievo assume la cd. "mafia russa" (45), le cui proiezioni operative interessano in misura preoccupante il nostro Paese.

Le varie mafie etniche dell'ex URSS hanno registrato una crescita esponenziale in correlazione con l'instabilità economico-politica dei luoghi di origine. Forti di un'organizzazione che si sostanzia in un vero e proprio sistema illegale, queste organizzazioni criminali sono direttamente inserite, oltre che nei tradizionali ambiti delittuosi, anche nei traffici di materie prime, nella produzione alimentare, nelle imprese di trasporto, nell'importazione di beni di consumo e di apparecchiature elettroniche, nelle attività bancarie, assicurative e finanziarie. All'estero, si muovono essenzialmente con i tratti e le metodologie delle grandi holding affaristico-finanziarie, nella prospettiva del sistematico reinvestimento dei proventi delle attività illecite nei settori legali. La rimarchevole caratura transnazionale, la capacità di inquinamento dei circuiti legali e la rete di connivenze con alcuni apparati, fanno dei sodalizi russi un vero e proprio sistema economico-criminale, caratterizzato dall'osmosi tra componente delinquenziale e segmenti affaristico-finanziari (46).

Per quanto riguarda il nostro Paese, uno studio condotto dall'Osservatorio permanente sulla criminalità (47) ha posto in luce come il territorio nazionale costituisca per questi gruppi essenzialmente ambito operativo di "secondo livello" e ne subisca il radicamento in settori di minore visibilità sul piano dell'ordine pubblico, ma di notevole incidenza sulla sicurezza economica nazionale. In particolare, la penetrazione nel campo immobiliare e nelle infrastrutture turistiche, nonché nei mercati finanziari, finalizzata al rinvenimento di sempre nuovi e più sofisticati strumenti per il riciclaggio dei capitali di provenienza illecita.

La criminalità organizzata russa, tuttavia, affianca alle citate condotte di sfumata percepibilità, attività delinquenziali di più immediato impatto sociale, come il traffico di sostanze stupefacenti, anche grazie ad intese con i sodalizi italiani. La stessa acquisizione di esercizi commerciali sottenderebbe, in alcuni casi, pratiche estorsive o usurarie. Il traffico di armi, esplosivi e materiale strategico, proveniente dall'arsenale bellico dell'ex superpotenza sovietica, rappresenta un'altra attività cui sono dedite le cosche russe. Importante anche il settore della prostituzione, dove centinaia di proprie connazionali vengono introdotte nel Paese e successivamente sfruttate nel sex-business della prostituzione da strada o, più spesso, nelle attività di "intrattenimento" presso i locali notturni della riviera adriatica.

È da sottolineare che la capacità della mafia russa di infiltrarsi nel tessuto economico-sociale in modo silente è alla base di una comprovata abilità strategica, la cui prima fase è costituita dall'insediamento sul territorio. I vari esponenti malavitosi, infatti, cercano di precostituirsi dei motivi che legittimino la loro presenza e prestano particolare cura a non infrangere le leggi dello Stato, per non attirare l'attenzione delle forze di polizia. Successivamente, contraggono matrimoni "di comodo" con cittadini italiani, reclutati, per lo più, tra soggetti emarginati, in fin di vita o pregiudicati di basso profilo delinquenziale, al fine di ottenere permessi di soggiorno per ricongiungimento familiare e, soprattutto, la cittadinanza italiana. In tal modo si pongono le basi per l'avvio delle diverse attività delittuose.

Un elevato tasso di aggressività caratterizza i gruppi albanesi, la cui forte spinta espansionistica, quanto ad ambiti di intervento e ad aree di influenza, ne rende particolarmente visibile la presenza entro i nostri confini. Ciò ha consentito un accurato monitoraggio delle caratteristiche criminali di tale etnia, di recente oggetto di approfondita analisi da parte della D.I.A.

La criminalità albanese desta particolare preoccupazione soprattutto nel Mezzogiorno, sia per la spiccata capacità di intessere rapporti di collaborazione con i sodalizi italiani, sia per la possibilità di contrasti con le consorterie locali per il controllo del territorio o di alcuni settori di attività. Intanto, in varie realtà del Centro-Nord gli albanesi hanno già egemonizzato lo sfruttamento della prostituzione e diversi ambiti microcriminali, oltre a gestire una gran parte degli ingenti e remunerativi commerci di armi e stupefacenti dall'area balcanica, sovente associati al traffico dei clandestini, secondo una strategia che sfrutta le difficoltà di contrastare questo fenomeno. Già da tempo, inoltre, la criminalità albanese si mostra proiettata verso nuovi e più redditizi spazi, anche oltre i confini alpini, specie nel mercato della droga, mostrando caratteristiche in grado di costituire vere e proprie consorterie organizzate di tipo mafioso.

Le attività criminali di maggior impatto e visibilità rimandano, in primo luogo, allo sfruttamento dei canali dell'immigrazione irregolare per una serie di altri traffici dall'area balcanica e, soprattutto, per l'immissione di ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti sul mercato italiano. Tuttavia, dai dati statistici forniti dal Ministero dell'Interno, è possibile notare una partecipazione diffusa degli albanesi in tutte le tipologie di reato. Le segnalazioni di reato presenti nello schedario "ar.po." delle forze di polizia riguardanti i cittadini albanesi, testimoniano un progressivo incremento dal 1992 al primo semestre del 1998:

Tabella 15
Cittadini albanesi presenti nello schedario AR.PO delle forze di polizia nel periodo 1992- I sem. 1998. Segnalazioni di reato
Anno Numero segnalazioni
1992 2325
1993 4565
1994 8602
1995 12877
1996 19753
1997 15950
I sem. 1998 5926

Fonte CED - Elaborazione DIA

La disaggregazione per regione consente di individuare le aree di maggiore insistenza della malavita albanese: già nel 1992 la Lombardia era la regione più interessata dalla delittuosità dei gruppi albanesi, insieme al Friuli Venezia Giulia, il Lazio, il Piemonte e la Puglia. Dal 1993, esclusa la Lombardia, che si manterrà per tutto il periodo considerato la regione maggiormente interessata dalla criminalità albanese, si nota uno spostamento in termini di valori relativi verso le regioni quali l'Emilia, la Toscana, il Piemonte, che diventano luoghi di presenza costante di questa criminalità (48).

La generale separatezza dalla società circostante delle comunità cinesi in Italia ha favorito l'insediamento di realtà criminali organizzate, che sviluppano la propria attitudine parassitaria soprattutto in danno dei connazionali, di cui ne strumentalizzano la spiccata consapevolezza identitaria, ricorrendo ad una diffusa pratica intimidatoria.

La malavita cinese va ampliando la propria presenza in alcuni ambiti imprenditoriali, tentando di espandersi verso le piazze del Settentrione, mentre, secondo le più recenti informazioni provenienti dagli apparati di polizia (49), essa starebbe investendo nel Meridione ingenti capitali, anche a fini di riciclaggio, avviando fabbriche, laboratori ed imprese commerciali.

Un analogo processo di infiltrazione riguarda alcuni gruppi criminali cinesi attivi nel segmento dell'immigrazione clandestina e del lavoro nero, nonché in alcune attività proprie dell'associazionismo mafioso. A questo riguardo, appare meritevole di attenzione l'eventualità di ingerenze nella comunità asiatica da parte delle potenti e ramificate Triadi.

La struttura organizzativa propria delle Triadi è stata adottata, in tempi relativamente recenti, dai gruppi criminali che sono andati costituendosi nell'isola di Taiwan e ad Hong Kong e che, dopo essere entrati in contatto con le organizzazioni internazionali di trafficanti di eroina, hanno iniziato tale lucrosa attività illecita. Per questo motivo, quando si parla di mafia cinese, bisogna prestare attenzione a definirla con l'espressione "Triadi", dato che solo una ristretta élite delle organizzazioni criminali di matrice cinese è propriamente riconducibile ad esse.

Nel nostro Paese, dato che l'immigrazione cinese è prevalentemente originaria dello Zhejiang, (mentre sono scarse le presenze di criminali provenienti da Taiwan o da Hong Kong), le attività criminali poste in essere dai gruppi cinesi non sono direttamente riferibili alle Triadi. Inoltre, la presenza di forti mafie indigene ha ridotto significativamente il potere di infiltrazione della mafia cinese nei vari settori illeciti.

Le consorterie cinesi gestiscono prevalentemente l'immigrazione clandestina dei connazionali, curando la "canalizzazione" di questi ultimi nei circuiti del commercio di droga, delle bische clandestine e delle estorsioni, ovvero in quelli del lavoro nero, specie nei comparti manifatturiero e della ristorazione. Inoltre, nel corso di numerose indagini si è avuto modo di accertare che i gruppi di clandestini, al momento del passaggio dei vari confini, vengono obbligati a trasportare droga per conto delle Triadi, così come si è accertato che la quasi totalità dei documenti falsi utilizzati per i clandestini vengono acquistati dalle organizzazioni criminali ad Hong Kong dagli stessi componenti delle Triadi.

In Italia è assai diffusa la falsificazione di documenti di soggiorno, passaporti, patenti ed altri documenti cinesi. Basti pensare che le denunce relative al falso d'identità sono passate da 4 del 1987 a 100 del 1998, e quelle relative al falso in genere, nello stesso arco temporale, da 37 a 290.

A conferma delle potenzialità criminali dei sodalizi criminali cinesi, non completamente espresse, è da dire che si sono avute, nel medesimo arco temporale, 97 denunce per associazione a delinquere di tipo mafioso, passando dalle 8 del 1994 alle 33 del 1998. Per quel che riguarda il riciclaggio di denaro, esso è presente nel 1998 con 33 denunce. Altra fattispecie che vede un progressivo incremento è quella relativa al porto abusivo e detenzione di armi, che passa da una denuncia nel 1987 alle 35 del 1998.

Ormai significativamente insediati in ambito nazionale sono anche i gruppi criminali nigeriani, che vanno proiettandosi dalla Campania e dal Lazio verso il nord del Paese e mostrano la propensione a reinvestire i proventi illeciti in attività commerciali di cui è fruitrice la stessa colonia.

Secondo le informazioni raccolte nelle relazioni annuali sullo stato della criminalità organizzata in Italia (50), le aggregazioni nigeriane starebbero innestando anche nelle regioni più prospere del Nord centrali di smistamento dei clandestini e degli stupefacenti, nonché circuiti di prostituzione gestiti con la violenza e l'intimidazione.

Forti dei vincoli di natura etnico-tribale, che conferiscono loro un'accentuata coesione interna ed un'ampia possibilità di reclutamento, si confermano particolarmente attive nel narcotraffico, nel lenocinio, nel falso documentale e monetario, nell'esportazione illegale di valuta.

La Nigeria ha cominciato a distinguersi nel settore della criminalità nella seconda metà degli anni '80 (51). Ancora nel 1990 i corrieri nigeriani sorpresi in alcune località italiane sembravano appartenere ad una manovalanza sostanzialmente dipendente dalle organizzazioni criminali di altri Paesi, oppure impegnata in proprio nell'ambito del piccolo spaccio di droga, tutt'al più controllato dai boss locali. In questi ultimi anni, però, si è osservato uno strano fenomeno: sono diminuiti gli arresti di cittadini nigeriani, mentre sono aumentati, in proporzione, quelli di corrieri africani di diversa nazionalità e le quantità di droga provenienti dalla Nigeria. Anzi, spesso, vengono coinvolti corrieri locali che si mettono in contatto con i nigeriani residenti o immigrati. Ormai essi non sono più piccoli spacciatori, ma agiscono come fornitori, organizzatori, supervisori, mediatori o corrieri di livello. A ciò si aggiunga che, per sviare i controlli doganali, si assiste ad una gestione molto oculata e duttile delle rotte stabilite per i corrieri.

In Italia, solitamente, l'eroina arriva direttamente dalla Nigeria, in piccole quantità trasportate dal singolo "in visita turistica". Può essere l'impresa di un individuo isolato che si appoggia a connazionali residenti, ma più spesso si tratta di corrieri ingaggiati dai "baroni" nigeriani che giungono nel territorio accompagnati da donne che praticano la prostituzione (52).

Un dato rilevante per l'analisi criminale che stiamo svolgendo è costituito dal fatto che gran parte delle etnie africane coinvolte in episodi devianti sembra direttamente o indirettamente collegata all'operatività delle organizzazioni criminali nigeriane (53).

I gruppi sopra indicati, al di là delle differenze che attengono alle connotazioni organizzative ed ai profili funzionali, appaiono accomunati dal passaggio da una fase di primo insediamento ad una successiva, di più articolata strutturazione. Tale processo, destinato ad acutizzare sia i conflitti interni, legati alla conquista della leadership, sia il confronto tra sodalizi per l'occupazione di settori illeciti, può essere costellato da episodi estremamente cruenti che, seppur privi di specifica valenza destabilizzante, presentano gravi ed immediate ricadute sul piano della visibilità e dell'allarme sociale.

3.7. I grandi traffici: il business dell'immigrazione clandestina

La criminalità organizzata straniera ha gradualmente assunto spessore e capacità tali da potersi affrancare dalle tradizionali sudditanze rispetto alle consorterie endogene, fino a conquistare posizioni egemoniche in alcune realtà territoriali e in specifici settori criminali, quali lo sfruttamento della prostituzione, il traffico di droghe leggere e sintetiche, il traffico di armi.

La crescita esponenziale della criminalità organizzata straniera in queste attività illecite è stata favorita, tra l'altro, dall'intensificarsi dell'immigrazione illegale, quale risposta alle politiche restrittive degli Stati interessati dal fenomeno migratorio.

Nell'immigrazione clandestina, infatti, si possono individuare almeno due importanti componenti: la prima è rappresentata dalla costituzione di un mercato per la domanda e l'offerta di servizi e merci illegali, quali trasporto, accoglienza, ospitalità e documenti falsi; la seconda è rappresentata dal fatto che essa finisce per costituire un canale d'ingresso per merci illegali, quali droga e armi.

In entrambi i casi, dunque, l'immigrazione clandestina rappresenta un serbatoio di alimentazione della criminalità. Tanto più se si considera che la criminalità organizzata, in virtù dei servizi offerti, riesce a stabilire un rapporto di supremazia nei confronti dei migranti, sovente costretti a comportamenti variamente devianti: si pensi all'utilizzo degli stessi quali vettori privilegiati nel trasporto di droga ed armi oltre i confini dei Paesi di origine; alle diverse forme di sfruttamento cui sono sottoposti una volta approdati nel Paese di destinazione, che vanno dal lavoro nero all'accattonaggio, dalla prostituzione alla manovalanza criminale nei settori illeciti dello spaccio della droga, dei furti, delle rapine, delle estorsioni, etc. È chiaro, poi, che l'immigrazione clandestina favorisce di per sé l'importazione di elementi criminali che giungono e permangono illegalmente sul territorio per iniziare nell'anonimato le proprie attività illegali.

Non vi è dubbio, dunque, che nel traffico di clandestini siano ravvisabili consistenti interessi di gruppi criminali consorziati che assicurano l'organizzazione del viaggio in tutte le sue complesse e difficili fasi. Non potrebbe essere altrimenti, se si considerano le difficoltà di vario genere cui va incontro il clandestino nel suo spostamento (che può durare anche molti giorni), che sarebbero insuperabili senza "assistenze" specializzate.

Dimensioni del fenomeno

In ragione delle caratteristiche dei flussi migratori che hanno interessato di recente tutti i Paesi a più alto tenore di vita, ed in particolare quelli aderenti all'Unione Europea, non è possibile disporre di cifre certe circa la reale presenza di stranieri clandestini in Italia. Come già abbiamo ricordato, un tale computo può essere effettuato solo in via presuntiva, in base a stime che, in quanto tali, si prestano a facili confutazioni. Pertanto, appare corretto fornire unicamente gli indicatori disponibili, riferiti ai casi nei quali i clandestini hanno formato oggetto di attenzione da parte delle forze di polizia.

Un primo significativo elemento può essere colto nei provvedimenti di contrasto all'immigrazione irregolare, esemplificativi sia della provenienza che delle rotte seguite dai flussi dei migranti.

Occorre, tuttavia, precisare che, anche in questo caso, non è possibile avere un'assoluta certezza sul numero di soggetti "trafficati". In modo particolare, manca la possibilità di discernere le situazioni in cui l'immigrato si sia affidato alle organizzazioni criminali sin dall'origine della sua avventura, da quelle in cui il traffico riguardi solo l'ultimo tratto del viaggio. La distinzione non ha solo un rilievo formale, perché è chiaro che quanto più lungo e difficile è l'itinerario da seguire, tanto più alto sarà il prezzo da corrispondere e, dunque, tanto maggiori le possibilità di asservirsi alle organizzazioni criminali. Inoltre, non vi è la possibilità di distinguere tra i soggetti che, di fatto sequestrati nei Paesi di origine, vengono trafficati per altre destinazioni, come spesso accade per le donne ed i bambini da avviare nei circuiti della prostituzione, della pedofilia e del commercio di organi, da quelli che scelgono volontariamente di affidarsi ai gruppi criminali per assicurarsi il successo dell'espatrio.

Pur tenendo ben in mente questi rilievi, si può tentare di individuare la dimensione del fenomeno, consapevoli dell'approssimazione dei dati a disposizione.

Secondo i dati forniti dal Ministero dell'Interno, l'immigrazione irregolare in Italia, nel 1999, ha riguardato 113.390 soggetti. I respingimenti alla frontiera sono stati complessivamente 36.937, cui vanno aggiunti gli 11.500 respingimenti disposti dai questori, le 12.036 espulsioni con accompagnamento alla frontiera, le 520 espulsioni su conforme provvedimento dell'Autorità giudiziaria, le 11.399 "riammissioni attive" nei paesi di provenienza (54), per un totale di 72.392 stranieri rimpatriati.

Per quanto riguarda più specificamente il respingimento alla frontiera, lo studio delle nazionalità dei respinti (relativo al 1997) ha consentito di stabilire la loro provenienza, nell'ordine, dai seguenti Paesi: Albania, Iraq, Romania, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Polonia, Marocco, Colombia e Turchia. Gli accordi in tema di respingimento, stipulati tra il governo italiano e l'Albania, hanno consentito di ridimensionare il numero di immigrati clandestini di nazionalità albanese.

Infatti, se risulta evidente dai dati sulla composizione per nazionalità degli immigrati clandestini negli anni 1997-1998, che gli albanesi si trovavano ancora in vetta alla graduatoria e che il loro numero in valore assoluto era aumentato, passando da 14.023 del 1997 a 18.303 del 1998, emerge contemporaneamente una flessione del rapporto proporzionale tra il numero degli albanesi ed il totale dei clandestini rintracciati, pari al 46,9% del 1998 contro il 62,8% del 1997. Tra le altre nazionalità, colpisce la diminuzione nel 1998 degli irakeni, che fino all'anno precedente si collocavano in seconda posizione per scendere alla sesta, superati dagli ex jugoslavi (passati da 521 intercettati nel 1997 a 1.579 nel 1998), e dai curdi, sia turchi (da 1.695 a 1.804) che irakeni (da 588 a 6.222).

Le rotte dell'immigrazione clandestina

Per quanto attiene alle rotte seguite dai flussi, assume rilievo la circostanza che le frontiere terrestri sono fortemente interessate dall'immigrazione clandestina. Viene, pertanto, ridimensionato il luogo comune secondo il quale sarebbero le coste italiane le aree pressoché esclusive dell'ingresso illegale nel Paese.

I dati del Ministero dell'Interno testimoniano, infatti, che i flussi provenienti via mare hanno interessato soprattutto le coste pugliesi, come evidenziato dagli oltre 20.426 clandestini di prevalente etnia kosovara e curda rintracciati nella provincia di Lecce, a partire dal luglio 1998. L'ampiezza del fenomeno è sottolineata anche dai 6.491 provvedimenti adottati dalla Questura di Brindisi e concernenti i respingimenti alla frontiera, nonché le espulsioni comminate mediante intimazione o accompagnamento alla frontiera. A quelli elencati sono da aggiungere, con riferimento alla Puglia, i 5.921 analoghi provvedimenti del questore e del prefetto di Bari.

Alle frontiere terrestri, invece, durante il 1998 sono state effettuati ben 10.427 provvedimenti di respingimento ai quali vanno aggiunte le "riammissioni attive" che hanno raggiunto il numero di 14.938, per un totale di 25.365 provvedimenti.

L'insieme degli elementi evidenziati, così come le informazioni acquisite anche grazie alla collaborazione del Ministero degli Affari Esteri, fanno ritenere che la pressione immigratoria clandestina sia destinata ad aumentare nel nostro Paese, in linea con il più generale trend evolutivo del fenomeno.

Il flusso di immigrazione più consistente proviene dai Balcani e dal Nord-Africa, in ragione del clima politico instauratosi in quelle aree. La malavita ha approfittato del dramma che si consuma in qui territori ed ha organizzato traffici di clandestini, nei quali sono coinvolte consorterie radicate nei Paesi di partenza e reti che gestiscono i traffici internazionali in accordo con le organizzazioni italiane.

Secondo uno studio condotto dall'Osservatorio permanente sulla criminalità, i flussi clandestini provenienti dall'Est europeo sfruttano, in particolare, le frontiere terrestri e, soprattutto, quelle di Trieste e Tarvisio, che si cerca di attraversare a bordo di autoveicoli commerciali. Una volta giunti in territorio nazionale, i clandestini vengono abbandonati nelle aree di servizio lungo le autostrade, e proseguono il loro viaggio verso le destinazioni finali a bordo di treni o di altri autoveicoli ricorrendo agli espedienti più vari.

L'itinerario maggiormente seguito dai cittadini dei Paesi dell'Europa centro-orientale si snoda attraverso la Grecia, l'Italia, l'Austria e, talvolta, la Francia, per proseguire verso la Germania, il Benelux, la Danimarca, il Regno Unito e la Svezia. In particolare, gli immigrati dall'Est europeo provengono per lo più da Mosca (Russia), Kiev (Ucraina), Minsk (Bielorussia), Varsavia (Polonia), Bucarest (Romania) e Praga (Repubblica Ceca). In Italia, l'esistenza di questa rotta clandestina è stata confermata dai clandestini rumeni rintracciati in prossimità delle frontiere del Nord-Est (Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia). Particolare ed autonomo rilievo, invece, assume l'immigrazione turca che, oltre ad avvalersi della c.d. rotta balcanica, utilizza anche itinerari marittimi con sbarchi sulle coste italiane.

Le informazioni riportate dall'Osservatorio permanente sulla criminalità testimoniano che Mosca, unitamente a Kiev e Minsk, è diventata un centro importante per lo smistamento di clandestini verso l'Europa occidentale, ed in particolare in Germania. Numerosi cittadini asiatici, segnatamente pakistani, indiani, vietnamiti, afghani, e cinesi raggiungono Mosca come prima tappa del loro viaggio.

Anche Praga ha assunto un notevole rilievo nel traffico di stranieri, in particolare cinesi, vietnamiti ed irakeni, i quali generalmente giungono nella Repubblica Ceca facendo scalo all'aeroporto di questa città. I clandestini vengono trasferiti successivamente verso i Paesi dell'Europa occidentale attraverso itinerari diversi, non mancando di permanere alcuni giorni in altri Stati (tra cui l'Italia) prima di raggiungere la meta finale del viaggio. Essi viaggiano in gruppo a bordo di veicoli fino in prossimità delle frontiera ove vengono aiutati dai membri delle reti di immigrazione ad attraversare il confine (55).

L'immigrazione clandestina dei cittadini ex jugoslavi di etnia albanese, provenienti dal Kosovo, ha segnato un aumento sostanziale e permanente fin dal 1997, assumendo proporzioni assai rilevanti durante il 1998. Il quotidiano arrivo dall'Albania di numerosi clandestini di diversa nazionalità ed etnia (albanese, kosovara, indiana, cinese, pakistana, etc.) è dovuto anche al consolidamento di potenti organizzazioni criminali operanti in loco (56).

L'organizzazione dell'immigrazione clandestina

Per comprendere meglio le dinamiche sottese all'immigrazione clandestina, si può dare uno sguardo alla situazione che si è venuta a creare nel basso Adriatico, a partire dal collasso dello Stato albanese, e alla gestione del business dei clandestini da parte delle organizzazioni criminali che si sono costituite in Albania (57).

Da molti anni la Puglia rappresenta uno degli approdi privilegiati dei flussi clandestini che, partendo dai Paesi le cui coste si affacciano sull'altra sponda dell'Adriatico, mirano a giungere nella nostra penisola per stabilirvisi o per transitare verso altre destinazioni.

Un rapido esame dei percorsi delle etnie coinvolte nell'immigrazione clandestina può rendere l'idea della riconosciuta professionalità agli albanesi da parte delle altre organizzazioni criminali:

  • i kosovari, comparsi per la prima volta nel 1998 nelle statistiche sugli immigrati, raggiungono l'Albania meridionale dai campi profughi in Montenegro ed Albania; una parte di essi non transita per i campi profughi ma, a causa del minamento della frontiera con l'Albania, è costretta ad attraversare la Macedonia, passando per la zona di questo Paese a prevalenza etnica albanese;
  • i curdi, invece, percorrono una via di terra che dalla Turchia porta in Bulgaria e/o Grecia e quindi in Macedonia, oppure una via marittima su navi compiacenti che partono dal Medio Oriente;
  • i cinesi, i pakistani e gli indiani arrivano per via aerea e fanno ricorso al traghettamento clandestino per il tratto finale;
  • gli africani viaggiano in nave fino in Albania, oppure vengono sbarcati direttamente sulle coste del Salento.

Proprio l'evidente presenza di immigrati clandestini di diverse etnie, rende altamente probabile (se non certa) l'esistenza di un'articolata organizzazione transnazionale (58).

Secondo le acquisizioni della D.I.A., le basi dei trafficanti di uomini sono sicuramente da ricercare nel Paese delle Aquile e, molto probabilmente, non solo nelle città rivierasche quali Durazzo, Saranda e Valona, che sono le aree dove i clandestini si imbarcano, ma anche nelle città interne che costituiscono le tappe intermedie o di origine dei clandestini.

In ogni centro, due o più gruppi gestiscono in modo monopolistico oltre al traffico di clandestini, anche quello delle prostitute, delle armi e della droga. Difficile individuare la strutturazione gerarchica di questi gruppi: la documentazione giudiziaria cita nomi sempre diversi, e questo potrebbe essere dovuto ad una fluidità delle organizzazioni criminali albanesi, oppure all'uso di nomi falsi. Ciò va posto sullo sfondo di un Paese che ha gravi difficoltà a garantire anche solo l'identificazione dei soggetti coinvolti in attività criminali.

Quel che è certo è che esiste una componente professionale almeno per quanto riguarda gli equipaggi degli scafi, che vengono pilotati con considerevole perizia. Del resto le politiche dei prezzi praticate dagli scafisti (59), che prevedono differenze tariffarie a seconda della zona di provenienza e della composizione dei gruppi (60); che aggiungono altri servizi illegali al puro e semplice traghettamento; che offrono garanzie "assicurative" (61), etc., attestano una discreta professionalità anche per quel che riguarda il rapporto con la "clientela". Ciò fa pensare che, almeno le frange che si occupano di questo business criminale siano relativamente stabili e composte da elementi che hanno acquistato un considerevole know-how in materia (62).

Certamente lo status delle organizzazioni albanesi è in crescita, e questa considerazione poggia su una duplice osservazione: per un verso, l'Albania è inserita in circuiti di emigrazione clandestina di scala mondiale; per altro verso, esse godono di una fitta rete di collegamenti con la malavita italiana, in modo particolare con la Sacra Corona Unita.

Secondo la D.I.A., infatti, al di là dei casi sporadici in cui le altre organizzazioni criminali gestiscono per intero il traffico dei migranti, sempre più spesso si ravvisano collegamenti con la malavita albanese. Le Triadi cinesi, ad esempio, conducono i filippini ed i cinesi fino all'Albania, mentre la mafia turca gestisce i flussi dei pakistani, dei curdi e di altre nazionalità fino al Paese delle Aquile (63). Da questo momento è compito dei sodalizi albanesi trasportare i clandestini verso l'Italia. Insomma, dall'Albania all'Italia il traffico è nelle mani della criminalità organizzata albanese: la particolare professionalità acquisita nel traffico degli extracomunitari ha portato ad una sorta di monopolio internazionale nel passaggio dei clandestini attraverso l'Italia (o destinati in Italia), facilitato anche dalla rete di referenti albanesi sparsi in varie città italiane come Padova, Milano, Torino, Roma, Caserta. Tali referenti, nei luoghi di residenza, hanno, inoltre, cominciato a gestire, per conto dell'organizzazione, lo sfruttamento della prostituzione.

Per quel che riguarda i rapporti con la criminalità italiana, la D.I.A. ha posto in luce come l'afflusso degli extracomunitari attraverso i canali clandestini crea nuove e lucrose opportunità non solo per i gruppi criminali che organizzano la tratta, ma anche per le compagini delinquenziali italiane. Esse sfruttano la situazione per ottenere, a costi più contenuti, consistenti forniture di armi e di droga.

Tuttavia, in origine, la Sacra Corona Unita e i contrabbandieri "indipendenti" non guardavano con particolare favore a questo traffico, vedendovi in esso solo una delle cause dell'intensificarsi dei controlli sulle coste e, quindi, dei rischi per le loro attività. Ma ciononostante, il traffico ed i relativi importi finanziari crescevano e si alimentavano generando un'osmosi di interessi tra i criminali albanesi e quel grigio strato di delinquenza comune pugliese che, talora, sfiorava soggetti appartenenti alla criminalità organizzata.

Già nel 1994 fu verificata l'esistenza di un sodalizio criminoso operante tra l'Italia e l'Albania finalizzato alla gestione dell'immigrazione clandestina nello Stato italiano, attraverso l'Adriatico, di cittadini extracomunitari di diverse etnie, talvolta destinati ad altri Paesi europei. A tal fine l'associazione si avvaleva di due strutture organizzate, simmetricamente operanti nei due Stati divisi dal Canale d'Otranto (64). Questi stretti collegamenti venivano confermati dalle successive attività investigative (65).

Le modalità operative possono essere così descritte:

  • le organizzazioni criminali forniscono documenti di identità, di espatrio e di soggiorno falsi, spesso intestati anche agli appartenenti al sodalizio e recanti le fotografie degli immigrati;
  • trasferiscono i migranti in Italia;
  • assicurano loro, una volta giunti in Italia, il trasporto nelle località di destinazione.

Secondo la documentazione giudiziaria relativa ai più significativi procedimenti penali in materia (vd. nota nr. 9), una volta avviato il contatto con chi vuole raggiungere il nostro Paese, si procurano al potenziale clandestino i necessari documenti falsi, spesso appartenenti a persone decedute, sui quali vengono apposte le nuove fotografie (66); i clandestini vengono fatti arrivare nelle località albanesi prospicienti l'imbarco e stipati in abitazioni periferiche in uso all'organizzazione, o in alberghi compiacenti, in attesa dell'imbarco, quindi avviene il trasferimento in Italia, comprensivo del trasporto dal luogo di sbarco alla località di destinazione. Gli immigrati possono giungere nel nostro Paese con imbarcazioni dell'organizzazione, nascosti a bordo di automezzi o attraverso i normali collegamenti aerei e navali tra l'Italia e l'Albania. L'espatrio è reso più facile dalla complicità della polizia albanese che, previa ricompensa, permette di lasciare il Paese senza troppi controlli.

Una volta giunti sul territorio italiano, talvolta, dopo una prima tappa in abitazioni in uso all'organizzazione, i clandestini raggiungono la destinazione finale a bordo di autovetture procurate dall'organizzazione, ovviamente dopo aver pagato nuove somme di denaro per l'ulteriore servizio. Sovente l'organizzazione assicura alle persone trasferite in Italia anche un'assunzione fittizia presso aziende compiacenti, così da evitare ai clandestini il rischio dell'espulsione (67).

Giunti sulle coste italiane, i clandestini vengono prelevati dai c.d. "tassisti" che stazionano appositamente lungo le coste e che, dietro compenso di circa 100/150.000 lire, li accompagnano alla più vicina città o stazione ferroviaria (68). Essi si preoccupano anche di supervisionare dalla terraferma per comunicare ai complici in mare l'eventuale presenza delle forze di polizia.

Con riguardo a questa rete clandestina di accoglienza non vi sono segnali univoci. Se numerosi sono i casi in cui l'organizzazione offre un automezzo in attesa, un luogo ove dormire, addirittura un cambio di abiti per rendere i clandestini meno visibili, non può affermarsi che tutte le operazioni illecite di passaggio siano così articolate. In molti casi, infatti, gli scafisti si limitano ad abbandonare i clandestini al loro destino, cioè alle cure delle forze dell'ordine, prima, e dei centri di accoglienza, poi (69).

Un discorso a parte va fatto per i clandestini provenienti dall'America Latina. È noto che veri e propri professionisti, chiamati pasadores, gestiscono con metodi ben più sofisticati l'entrata clandestina in diversi Paesi, tra cui l'Italia, di immigrati provenienti dal Perù e dal Cile. Si tratta di un business molto meno appariscente di quello condotto dagli albanesi, basato su un'ottima conoscenza delle normative, reso possibile da documenti falsi, corruzione di funzionari pubblici compiacenti, e un calibrato mix di mezzi di trasporto. I pasadores incassano mediamente 5.000 dollari a clandestino, cifra non lontana da quella, come visto, versata da chi imbocca il canale salentino dell'immigrazione clandestina dall'Est euro-asiatico.

La differenza sostanziale tra gli albanesi e gli altri gruppi professionisti dell'immigrazione clandestina è, però, da ravvisare in una vera e propria sinergia aziendale, che fa dei passeur albanesi veri e propri spedizionieri criminali che trasportano sulle proprie imbarcazioni, oltre ai clandestini, droga ed armi.

3.7.1. Il traffico di stupefacenti e di armi

I canali dell'immigrazione clandestina, che già da soli garantiscono enormi guadagni, hanno costituito il passe-partout con il quale sono state aperte le porte di numerosi altri illeciti business, tra i quali il traffico degli stupefacenti e delle armi.

Questo non significa che il nostro Paese non conoscesse tali fenomeni criminali già prima di divenire meta privilegiata dei flussi migratori (in specie di quelli clandestini) (70). L'analisi delle attività delle mafie storiche testimonia, infatti, un fitto reticolo di rapporti ed alleanze (di tipo commerciale e strategico) tra le diverse organizzazioni criminali, italiane ed estere, dedite a queste specifiche attività. La storia giudiziaria di questi ultimi vent'anni ha, infatti, dimostrato che, nel corso del tempo, la mafia siciliana, la 'ndrangheta, la camorra e la sacra corona unita hanno avuto collegamenti con i cartelli colombiani, la mafia turca, le triadi cinesi, la mafia russa.

Tuttavia, non può passare inosservato che, accanto ai tradizionali circuiti di questi lucrosi traffici, si sia affiancato, nell'ultimo decennio, un canale parallelo, di fatto reso più conveniente, in termini di sicurezza, mezzi, persone e costi, dai canali dell'immigrazione clandestina. Situazione, questa, che ha determinato l'insorgere di nuove sinergie operative tra le strutturate mafie internazionali e le nuove realtà criminali, cresciute in progressione e parallelamente al potere economico che queste attività hanno loro assicurato.

Per avere un quadro più chiaro delle dinamiche criminali sottese all'immigrazione clandestina, si può dare uno sguardo all'organizzazione e alla gestione di questi traffici da parte della malavita albanese, come poste in luce dalle recenti acquisizioni della D.I.A.

Il coinvolgimento della criminalità albanese nel traffico di sostanze stupefacenti è emerso, con evidenza, a seguito dei conflitti regionali esistenti in quell'area geografica e dell'embargo. Prima della guerra, il tradizionale circuito mafioso, prevalentemente legato al narcotraffico proveniente dalla Turchia e dall'Unione Sovietica, transitava sul territorio jugoslavo lungo due direttrici: la prima proveniente dalla Romania, la seconda dalla Bulgaria. Si trattava essenzialmente di eroina ed oppio. In questo contesto, mafie serbe e mafie turche collaboravano o si scontravano per il controllo delle grandi direttrici di trasporto verso l'Europa centrale ed occidentale. Lo smercio finale della droga, attraverso la Jugoslavia meridionale e l'Albania verso l'Adriatico, era sotto il diretto controllo dei kosovari.

Le guerre nell'ex Jugoslavia hanno, di fatto, ridisegnato i rapporti e le rotte: per un verso, hanno comportato l'indebolimento dell'asse serbo ed il conseguente rafforzamento di quello kosovaro-albanese, che si è specializzato anche nel traffico di armi e di clandestini; per altro verso, hanno spostato verso sud la rotta dei Balcani, lungo la direttrice Bulgaria - Macedonia - Kosovo - Albania. Di qui le droghe vengono imbarcate verso l'Italia, porta di accesso ai mercati europei di eroina (71). Ciò, tuttavia, non ha comportato il completo abbandono della classica rotta balcanica, ma l'affiancamento ad essa di quella adriatica, con l'utilizzo di potenti scafi (72) che, attraverso il canale d'Otranto, trasportano carichi misti di clandestini e droga e da qui raggiungono il centro ed il nord dell'Europa.

Con l'immissione nel traffico degli stupefacenti, la criminalità albanese, pur essendo frammentata in molti gruppi, si è candidata ad entrare nell'élite delle grandi organizzazioni criminali internazionali (73), riuscendo ad offrirsi come fornitrice qualificata di ognuna di queste: in Italia, infatti, numerose operazioni di polizia hanno dimostrato che la malavita organizzata albanese approvvigiona di stupefacenti contemporaneamente le organizzazioni pugliesi, campane, calabresi, siciliane e le altre straniere.

Per i quantitativi trafficati, i cannabinoidi rappresentano il business più praticato dai gruppi criminali albanesi. E i quantitativi di tale sostanza giunti in Italia sono stati così imponenti che i prezzi di vendita al minuto della marijuana sono crollati rapidamente. Con una politica aggressiva di immissione sul mercato italiano ed europeo a prezzi molto vantaggiosi di questa sostanza stupefacente di ottima qualità, i produttori ed i trafficanti albanesi ne hanno stimolato la domanda, assicurandosi, almeno per quanto riguarda l'Italia, quasi il monopolio delle forniture.

Contemporaneamente, i criminali albanesi hanno cominciato l'escalation verso le droghe più importanti, non trascurando, comunque, con una tecnica consolidata anche negli altri affari, il business originario.

Infatti, la criminalità albanese, ormai da diversi anni, traffica anche l'eroina (74) e la cocaina (75). L'eroina, in genere, arriva nel nostro Paese, in quantitativi considerevoli, seguendo la rotta balcanica classica (76). Ma l'eroina di provenienza turco-macedone ha trovato un altro sbocco naturale lungo la canalizzazione del traffico verso il sud dell'Albania (rotta adriatica), attraverso le bande albanesi, per giungere al mare e, successivamente, nelle mani della criminalità pugliese, calabrese e siciliana. Molto probabilmente, il "privilegio dello smercio" all'ingrosso della droga turca deriva dagli accordi tra albanesi e mafia turca nel traffico di clandestini curdi (77).

La cocaina proviene quasi esclusivamente dal Sud America. In alcuni casi si è evidenziato che l'importazione illecita di questa sostanza segue la tratta USA - Budapest - Tirana - Italia. Questo itinerario permette di evitare gli aeroporti dell'Europa occidentale, ben sorvegliati e troppo rischiosi per i corrieri di nazionalità albanese (78).

Con le medesime modalità usate per i clandestini, e sfruttando proprio le rotte di questo traffico, avviene il trasporto della droga, intrapreso sulla scia della ormai consolidata esperienza acquisita. La droga segue i medesimi spostamenti dei clandestini: solo una piccola percentuale rimane in Puglia, mentre la maggior parte viene dirottata in tutte le regioni della nostra penisola.

Come già ricordato, sovente accade che proprio i clandestini vengano impiegati per il trasporto degli stupefacenti, un modo con il quale possono pagare il passaggio tra le due sponde dell'Adriatico. I sequestri di ingenti quantitativi di droga, o il rinvenimento di borsoni pieni di stupefacenti nei pressi dei luoghi di sbarco, sono la dimostrazione più eloquente di questo crescente traffico. Generalmente questa metodica viene utilizzata esclusivamente per il trasporto della marijuana, in quanto la possibile ed eventuale perdita del carico dovuta all'inesperienza criminale del corriere viene tamponata dai minori oneri di acquisto e di valore intrinseco dello stupefacente. Difficilmente vengono utilizzati i clandestini quali vettori di droghe di maggior valore intrinseco. In questi casi, è comunque accertato che l'organizzazione del trasporto è affidata a membri fidati delle organizzazioni criminali.

Per quanto riguarda lo smistamento in territorio italiano, esso è generalmente effettuato tramite corrieri, che utilizzano indifferentemente autoveicoli pubblici o privati, se non addirittura il treno. Sovente i trafficanti, consapevoli della pericolosità dello stivaggio e del trasporto, preferiscono vendere le partite direttamente allo sbarco o immediatamente dopo in Puglia, dove hanno un insediamento più stabile ed un controllo maggiore. Essendosi evoluti presto dallo spaccio al minuto e rivolti al traffico vero e proprio, caratterizzato da un maggiore dinamismo nel possesso di stupefacenti, diventa importante, per un'efficace azione di contrasto, individuarne la tratta già alla partenza dall'Albania o comunque immediatamente all'arrivo, perché il lasso di tempo nel quale la droga rimane nelle mani del trafficante albanese è minimo.

L'entità del traffico di stupefacenti che ha interessato l'Italia nel triennio 1996-1998 può essere desunto dall'attività dalle forze dell'ordine, che solo nel 1998 ha riguardato il sequestro di oltre 58 tonnellate di droga. Anche se il quantitativo è inferiore a quello del 1997, il dato non è, tuttavia, confortante in quanto sono aumentati del 49,1% e del 34,53% i sequestri di droghe c.d. pesanti, quali l'eroina e la cocaina.

Le ripercussioni di questo traffico sulla criminalità comune sono notevoli, dal momento che esso costituisce una fonte di guadagno anche per essa, ed il suo spaccio costituisce spesso uno dei mezzi di sostentamento, se non di sfruttamento, per molti extracomunitari.

Meno appariscente e, tuttavia, inquietante è il traffico di armi.

In Italia, a fronte del generale calo nel rinvenimento di armi, è stato riscontrato un aumento delle armi da guerra e di materiali esplodenti che, oltre ad essere utilizzati per il compimento di atti intimidatori a fini estorsivi, sono stati impiegati sovente per la realizzazione di delitti efferati, riconducibili a logiche destabilizzanti e stragiste attuate dalle organizzazioni di stampo mafioso (79).

I recenti avvenimenti verificatisi nell'Est europeo e l'instabilità che caratterizza la situazione politica nei Balcani aumentano le possibilità, per le aggregazioni criminali, di disporre di armi da guerra, sofisticate e di estrema pericolosità (80). In modo particolare, a seguito della grave crisi economico-finanziaria in Albania, nel marzo del 1997, sono scomparse, dagli arsenali delle forze armate e di polizia, decine di migliaia i Kalashnikov, pistole, bombe a mano granate, bazooka ed altri armamenti. L'esplosione della rivolta antigovernativa ha avuto il suo epicentro a Valona, ma si è estesa ben presto a tutto il resto del sud e, successivamente, anche al nord, e con essa sono aumentate le sottrazioni di armamenti dai depositi militari. Le armi in essi contenuti hanno fortemente alimentato i circuiti illegali, facendo crollare i prezzi di acquisto.

Parte di queste armi è stata utilizzata nelle continue sommosse di quel periodo, ma moltissime altre sono finite nel "tourbillon" degli affari illeciti che i delinquenti albanesi hanno cominciato ad intessere da tempo con le criminalità transfrontaliere.

La nostra penisola è diventata, così, uno fra i principali crocevia di armi ed esplosivi provenienti dall'Albania. Va, però, rilevato che le armi arrivano numerose anche dal Montenegro, attraverso le rotte dei contrabbandieri pugliesi, che si avvalgono di questi tradizionali canali clandestini per porre in essere lucrosissimi traffici illeciti tra i quali, appunto, le armi.

Molte armi vengono utilizzate in Italia dalle organizzazioni criminali albanesi per assicurarsi con la violenza il controllo di alcuni specifici settori illeciti. Ma, certamente, anche le organizzazioni italiane hanno usufruito dei servigi di questi nuovi trafficanti di armi.

Sul modo in cui le armi riescano a sbarcare in Italia le certezze sono poche. Tuttavia, sembra fondata l'illazione che spesso i canali di approvvigionamento siano gli stessi del traffico degli stupefacenti e dei clandestini. In realtà, a soggetti di nazionalità albanese sono stati sequestrati pochi grossi carichi di armi. Gli stessi scafisti, però, sono, di solito, armati fino ai denti e non è detto che quelli che riescano ad eludere i controlli di polizia non sbarchino anche le armi. Diversi sono, invece, i rinvenimenti su imbarcazioni o in prossimità della battigia.

Quanto al trasporto, è stato rilevato che solitamente le armi vengono smontate e nascoste tra le attrezzature di bordo o nei bagagli dei clandestini, così da rischiare il sequestro solo di una parte dell'arma. Lo smistamento sul territorio è invece assicurato dai referenti delle organizzazioni criminali e va di pari passo con la presenza delle varie colonie di criminali albanesi nel Paese. Infatti, la disponibilità ed il ritrovamento delle armi provenienti dall'Albania è segnalato normalmente nelle regioni a più alta densità criminale proveniente da quell'area geografica (81).

3.8. Lo sfruttamento della prostituzione femminile

La numerose ricerche condotte dai più qualificati osservatori (in modo particolare dalle Organizzazioni Non Governative) (82) hanno alzato il velo sull'immigrazione clandestina e sulla sue dinamiche, favorendo la diffusione delle notizie riguardanti i soggetti interessati da questo fenomeno. In particolare, esse concordano tutte nel sostenere il ruolo crescente che il traffico assume nei processi di sfruttamento dei migranti. In primo luogo, nello sfruttamento della prostituzione.

Una sostanziale conferma di questo "mercimonio" umano proviene dalle testimonianze di alcune ragazze ribellatesi alle violenze dei propri trafficanti o "protettori" (e che hanno avuto la forza di richiedere l'ausilio delle forze di polizia) dalle quali si desume l'esistenza di più gruppi criminali consolidati e di diversa estensione e nazionalità. Le più recenti indagini conoscitive (83), infatti, dimostrano che, nonostante esista anche un traffico ad opera di singole persone, prevale nettamente quello effettuato tramite organizzazioni criminali che si servono di reti internazionali, spesso sostenute da appoggi politici ed economici nei Paesi di origine, di transito e di destinazione. Queste organizzazioni provvedono, di fatto e con qualsiasi mezzo, a disinformare, reclutare, trasferire e smistare, dal Paese di origine a quello di destinazione, le giovani donne da avviare alla prostituzione, come risposta al desiderio di una vita migliore rispetto a quella che le ha spinte ad espatriare.

L'estrema mobilità di questi soggetti criminali e la facilità dei loro insediamenti, consentono alcune osservazioni circa la natura e le informazioni che le organizzazioni risultano possedere.

Si rilevano in particolare:

  • ottima conoscenza del territorio destinato ad "ospitarli";
  • capacità di adeguamento, secondo un criterio uniforme, dei prezzi per le prestazioni in una determinata zona o area;
  • notevole interscambio di notizie ed informazioni tra soggetti criminali dediti allo sfruttamento della prostituzione;
  • scarsa presenza, all'interno dei gruppi etnici interessati, di quei contrasti tipici del mondo della prostituzione. Infatti, tra essi vi è una sostanziale, quanto tacita, intesa tra i diversi soggetti-sfruttatori (84) per quanto riguarda la ripartizione territoriale e le zone di esercizio della prostituzione (85);
  • scarsa conflittualità con altre organizzazioni criminali nazionali ed internazionali operanti ed insistenti, a livello di controllo territoriale, su una determinata zona entro cui viene svolta l'attività;
  • tempestivo ed immediato "ricambio" dei soggetti sfruttati nelle diverse zone d'esercizio, durante le "rotazioni" o a seguito dell'interruzione dell'attività dovuta ad operazioni di polizia, effettuate nell'ambito dei controlli sulla regolarità del soggiorno;
  • facilità di provvedere allo "scambio", "vendita" o "acquisto" di giovani donne (nel Paese d'origine o tramite intermediari), fra i diversi gruppi operanti nel settore.

È comprensibile che, qualora l'approccio non fosse effettuato da una rete organizzativa, ma attuato da una sola persona, verrebbero a mancare sia le diffuse modalità di promozione-disinformazione, operate nei Paesi di origine del traffico, che la figura dello sfruttatore legato alle organizzazioni, senza per questo nulla togliere alla figura criminale specifica.

I limiti della rilevazione

Pur in assenza di indicatori specifici, che potrebbero confermare la drammatica condizione di tante vittime "silenziose", è possibile affermare che oggi lo sfruttamento sessuale appare una pratica largamente diffusa.

Le difficoltà insite nel tentativo di cogliere gli aspetti essenziali di questo fenomeno provengono da due diversi fattori: il primo, di ordine statistico, poiché l'esercizio del meretricio non è soggetto ad alcun tipo di rilevazione; il secondo, di ordine materiale, per la riluttanza delle vittime che, temendo ritorsioni, non denunciano le violenze subite. Ci troviamo, così, di fronte ad una "popolazione rara", cioè d'immediato impatto visivo ma invisibile a livello statistico, se non in minima parte. Vale a dire solo quando vi siano delle specifiche attività di repressione che consentono una minima quantificazione ed un limitato studio sulle caratteristiche di questa attività.

Inoltre, la sottostima del fenomeno dipende anche dal fatto che la prostituzione si manifesta in settori della popolazione straniera che passano frequentemente da posizioni di regolarità a quelle di irregolarità. Questo passaggio, di fatto, determina un'ulteriore limite della rilevazione, dovuto alla mimetizzazione ed alla massima dispersione territoriale dei vari gruppi interessati e, pertanto, all'impossibilità di intercettarli, raccoglierli ed aggregarli statisticamente.

Infine, vi è da considerare che, in senso rigoroso, si può parlare di "donne trafficate" solo con riferimento a coloro che vengono costrette a svolgere coercitivamente la prostituzione. È questa la forma più grave di sfruttamento sessuale. In altri casi, invece, le donne sono più spesso vittime di raggiri o di false promesse, anche se, comunque, queste hanno come fine quello dello sfruttamento.

La precisazione non ha solo un rilievo formale. Essa è importante per comprendere i limiti propri di questo tipo di rilevazione, che non riesce a distinguere le situazioni in cui una donna sia stata costretta a lasciare il proprio Paese di origine e destinata con la violenza alla prostituzione nel Paese di approdo, da quelle in cui la donna conosceva il destino che l'attendeva una volta giunta a destinazione. Senza contare che spesso tra le donne trafficate vi sono anche quelle che già esercitavano la prostituzione nel proprio Paese e che, dunque, non possono essere definite vittime in senso proprio.

Le fasi storiche

Nell'analisi che stiamo svolgendo assume rilievo la ricostruzione delle principali fasi storiche all'interno delle quali la prostituzione straniera inizia ad essere socialmente visibile e ad essere evidenziata la presenza di gruppi di donne trafficate. Si tratta di piccole ondate di flussi caratterizzate dalla diversa nazionalità di origine e arrivate a ridosso delle componenti migratorie più ampie - entrate regolarmente o irregolarmente - che hanno interessato l'Italia nell'ultimo ventennio (86).

La prima fase va dai primi anni '80 fino al 1988. Il fenomeno ha riguardato l'America Latina (Brasile, Colombia, Perù, Santo Domingo): si trattava di donne singole che, per ragioni familiari in patria o in Italia, erano illuse o costrette a scegliere la strada. Fenomeno parallelo, ma più limitato, è stata anche la prostituzione maschile (viados ed altri). Accanto a queste situazioni vi erano, poi, le donne dell'Est, destinate al canale dei night club, club privati, dove venivano offerte prestazioni sessuali a pagamento.

La seconda fase inizia nel 1988/89 e si prolunga fino al 1992. Essa è legata ad un fenomeno centrale: la coscienza che l'Aids si trasmette attraverso rapporti eterosessuali. È l'evento che cambia i soggetti del mercato sessuale: si ritirano le donne italiane, restano anziane e tossicodipendenti e chi gestisce il mercato della prostituzione ricorre al sesso esotico. D'altra parte, la caduta del muro di Berlino e la guerra iniziata nell'ex Jugoslavia aprono le porte ai flussi migratori dell'Est. Da questo momento si comincerà a parlare di "tratta di donne, uomini e minori per sfruttamento sessuale" (87).

Diventano più consistenti le provenienze dall'Africa sub-sahariana e dai Paesi dell'Est europeo. Si tratta di diverse migliaia di donne provenienti dalla Nigeria, dal Ghana, dal Togo, dal Senegal. Emergono in parte le "polacche", anche se il termine indicava generalmente le donne dei Paesi dell'Europa dell'Est (quindi oltre alle polacche, anche le russe, le ucraine, le rumene, le slovene e le bosniache). In tale periodo, comunque, anche le donne ungheresi erano definite "polacche", nonostante la loro presenza datava già qualche anno prima. Il mercato è gestito direttamente nei Paesi di origine da concittadini, agevolati anche dalle forti connivenze di alcune ambasciate (88).

La terza fase, a tutt'oggi in atto, è caratterizzata da un breve periodo di stasi (1993-1994) ed una forte ripresa dei flussi con l'arrivo di donne albanesi. Sono i connazionali gli sfruttatori diretti, molto legati alle autorità locali (89) che forniscono documenti di viaggio, veri o falsi, visti d'ingresso falsi, permessi di soggiorno, biglietti aerei o via nave, passaggi in gommoni. Ma forti sono anche le connivenze con la criminalità organizzata nostrana.

Dal 1995 si assiste all'arrivo di nuovi gruppi di donne dall'ex Jugoslavia, dai Paesi dell'Est (90) (Albania, Ungheria, Bulgaria, Ucraina, Romania, Russia, Repubblica Ceca) con caratteristiche diverse, anche stagionali, coscienti del fatto che, una volta arrivate in Italia, avrebbero dovuto prostituirsi per risarcire il debito contratto al momento della partenza. Quello che non sapevano erano le condizioni di sfruttamento aggressivo e violento delle quali sarebbero state oggetto e che non avrebbero consentito loro di sciogliere l'accordo iniziale. Ciò di conseguenza determina il protrarsi della durata del rapporto di subordinazione che le lega ai rispettivi protettori e ne determina le forme di "sfruttamento".

La situazione attuale

La prostituzione di donne immigrate nel nostro Paese conta tra le 14.000 e le 19.300 unità (91), variamente distribuite sul territorio nazionale.

Le presenze maggiori sembrano essere concentrate nel Nord del Paese, con cifre comprese tra le 7.700 e le 10.130 unità, seguite dal Centro con 5.600/7.000 unità e dal Sud con 1.470/2.170 unità.

Le regioni (92) con un numero più alto di donne straniere dedite alla prostituzione sono il Lazio e la Lombardia, rispettivamente, con 4.000/5.000 e 3.250/4.150 unità stimate. Esse rappresentano, tra l'atro, sin dall'apparire del fenomeno immigratorio, le regioni a maggior attrazione insediativa, sia per le opportunità occupazionali nella piccola impresa e nelle attività di servizio, che per le opportunità di socializzazione offerte dalle grandi metropoli, in particolare Roma e Milano. Queste stesse città, infatti, sembrano essere quelle con una maggiore presenza di prostitute: nell'insieme raggiungono circa un quarto del totale complessivo rispetto alle stime minime, e poco più di un terzo rispetto alle stime massime.

L'altra regione nella quale il fenomeno è stimato in proporzioni rilevanti è la Campania, con 1.000/1.500 unità, delle quali una buona parte è insediata nella città di Napoli e nel suo immediato entroterra.

L'Emilia Romagna ed il Piemonte, entrambe con valori da 1.200/1.950 unità, si collocano nell'ordine medio di grandezza, con punte significative presenti nella città di Bologna, Rimini e Ravenna e di Torino.

Il Veneto ed infine l'Abruzzo, hanno presenze che oscillano, rispettivamente, tra le 600 e le 800 unità e tra le 210 e le 300 unità. Nelle altre regioni il fenomeno risulta più contenuto, ed anche in esse la preponderanza delle presenze si registra nelle grandi città di provincia.

In una ricerca effettuata nel 1996 dall'associazione parsec e dall'Università di Firenze (93) si stima che la percentuale delle donne vittime del traffico per fini sessuali si aggira intorno al 7,8-8,9% del totale. Ritenendo ancora valide queste percentuali e rapportandole ai totali summenzionati, si può stimare che in Italia il mercato illegale della prostituzione conti un numero di vittime del traffico compreso tra una stima minima di 1.092/1.246 unità ed una massima di 1.506/1.718 unità. Ma la cifra potrebbe essere superiore se si considerano tutte quelle donne fatte transitare per l'Italia e destinate ad altri Paesi europei.

Le modalità di esercizio

Al di là di ogni tentativo di ricondurre il fenomeno entro termini esclusivamente numerici o definizioni che sarebbero, comunque, inesatte, si può tentare un'analisi delle caratteristiche attraverso le quali si esercita lo sfruttamento della prostituzione. In quest'analisi è fondamentale tener conto di alcune variabili di particolare importanza la cui incidenza, per quanto difficilmente quantificabile, è certamente da valutare per comprenderne meglio le manifestazioni e stabilire, così, quante e quali possibilità di determinazione abbia avuto la volontà delle prostitute coinvolte, o se esse non siano più spesso vittime della volontà criminale altrui. Tra esse ricordiamo, l'età, la nazionalità, le modalità di ingresso in Italia, il rapporto sfruttatore-vittima e il tipo di violenza esercitata.

Se analizziamo le modalità attraverso cui si svolge la "prostituzione coatta", si possono identificare tre tipologie, comunemente riconosciute:

  • una prostituzione nei locali pubblici e/o notturni, mascherata da attività professionali (ballerina, entraîneuse, estetista, accompagnatrice). Si tratta di una modalità particolarmente diffusa nel Nord-Europa, meno visibile in Italia, ma molto presente nei locali notturni e nei club privati;
  • una prostituzione in locali chiusi (appartamenti privati, case-vetrine di quartieri a luci rosse, pensioni, alberghi), quella di maggior livello economico, più protetta da occhi indiscreti e più tollerata dall'opinione pubblica;
  • una prostituzione di strada, in luoghi aperti, la più visibile, diffusa, dove finisce gran parte delle donne estere immigrate, costrette a vendersi in condizioni di semischiavitù o schiavitù (94).

Lo stesso insediamento o la mobilità geografica delle prostitute può essere indice dell'esistenza di "gruppi stanziali" che gestiscono una tale attività su un determinato territorio, ovvero di gruppi dediti allo sfruttamento della prostituzione c.d. itinerante.

Per quel che riguarda i primi, sembra possibile ipotizzarne l'esistenza in base alla permanenza delle prostitute in una determinata zona. In tal caso è lecito supporre che l'area prescelta sia stata giudicata affidabile dagli sfruttatori, in quanto offrirebbe specifiche "qualità favorevoli" per l'esercizio della prostituzione: alta densità di traffico automobilistico, presenza di zone verdi o abbandonate nelle vicinanze del "marciapiede", scarsa illuminazione, minore presenza di unità di controllo delle forze di polizia.

Riguardo alla gestione della prostituzione c.d. itinerante la situazione è più complessa e bisogna distinguere tra:

  • forme di pendolarismo giornaliero;
  • forme di spostamento di lunga durata (più di sei mesi fino ad un anno) a carattere intranazionale e/o transnazionale (da un Paese ad un'altro Paese estero) che non presuppongono necessariamente una residenza o domicilio abituale, ma che si caratterizzano con modalità di rotazione da un area geografica all'altra;
  • forme organizzative e spostamenti spontanei ed individuali (o di piccolissimi gruppi a carattere parentale-amicale), effettuati con mezzi di trasporto tra i più vari ma, comunque, scelti dalle interessate. Spontanea ed individuale è anche la scelta del luogo di svolgimento delle attività, della determinazione dei prezzi e delle modalità di spesa dei proventi acquisiti dalle prestazioni. In pratica in questa tipologia confluiscono le ragazze che hanno (e mantengono) una grossa autonomia decisionale su tutte le modalità tecnico-organizzative dell'esercizio della professione;
  • forme di supporto logistico alle attività inerenti alla prostituzione organizzate da terzi su basi di un sostanziale consenso da parte delle ragazze; si tratta di modalità relazionali centrate molto spesso su legami affettivo-sentimentali tra le parti coinvolte, dove sussiste una corresponsabilizzazione delle scelte o comunque non si ravvedono forme coercitive di subordinazione. Comuni appaiono anche le scelte relative agli spostamenti (scelta del luogo, modalità di svolgimento delle attività, ecc.);
  • forme di supporto logistico organizzate da terzi su basi marcatamente coercitive o, comunque, centrate sulla violenza e sulla soggezione psicofisica. In questo caso, gli organizzatori si identificano quasi sempre con i cosiddetti "protettori" (95), che determinano e gestiscono l'organizzazione dell'esercizio della professione. Inoltre, questi soggetti detengono una forte influenza sugli spostamenti da fare e sulla scelta del luogo dove andare, sulle modalità di svolgere l'attività e sulla qualità del soggiorno, sulle tariffe da applicare alle prestazioni e sulla ripartizione finale dei proventi. I rapporti con i protettori sono basati sulla paura delle ragazze e sulla minaccia continua di ritorsioni, non solo sulle dirette interessate ma anche sui loro familiari (come nel caso più eclatante delle nigeriane e delle albanesi).

Nel loro insieme, queste tipologie si riscontrano trasversalmente all'interno di ciascuna nazionalità delle donne che praticano la prostituzione, anche se il peso dell'una o dell'altra cambia proprio in funzione della nazionalità stessa e del "modello" sottostante l'esercizio della professione.

Infatti, alcune donne, pur se avviate originariamente alla prostituzione attraverso forme diverse di violenza o di raggiro, riescono in un certo lasso di tempo (96) a riottenere una certa autonomia decisionale ed in parte ad affrancarsi dalla condizione di assoggettamento, nonostante continuino a svolgere attività di prostituzione. Questo "passaggio" di status è stato riscontrato, in modo particolare, nei soggetti provenienti dal Sud America e da alcuni Paesi dell'Est europeo (97). L'età media di tali donne, provenienti dalla Colombia, dal Perù, dal Brasile, dall'Argentina, dalla Romania, etc., è maggiore di quella riscontrata in altri gruppi etnici presenti nel settore del traffico finalizzato alla prostituzione. Conseguentemente, la loro capacità negoziale e di reazione nei confronti degli sfruttatori risulta essere maggiore e rappresenta un limite alla prosecuzione dell'attività di sfruttamento.

Non bisogna dimenticare, infatti, che lo stato di soggezione nei confronti dei trafficanti-sfruttatori è soggetto ad un lento declino con il trascorrere del tempo. Il processo di maturazione dovuto all'età, ma anche l'abitudine ad esperienze di indubbia durezza, risvegliano la volontà delle vittime di reagire allo sfruttamento cui sono state costrette a sottostare. Ciò costituisce un rischio di notevole portata per gli sfruttatori che vedrebbero interrotta la loro redditizia attività.

Nei citati gruppi etnici la violenza esercitata nei confronti delle donne, pur se adeguata a raggiungere gli scopi prefissati, è in genere più misurata rispetto a quella praticata dagli albanesi o dai nigeriani, per i quali il valore della vita delle donne trafficate è pressoché nullo, anche se riferito ai futuri potenziali guadagni ottenibili con il loro sfruttamento.

La riconquistata autonomia decisionale con il conseguente svincolo da ogni forma di obbligazione e subordinazione alla volontà altrui, pone le premesse per una scelta consapevole sulla prosecuzione e sulla durata temporale dell'attività in maniera del tutto autonoma.

Alcune recenti vicende giudiziarie confermano che lo sfruttamento delle prostituzione interessa gran parte delle etnie presenti sul territorio ed a questa attività criminale, non sarebbero estranei neanche appartenenti a gruppi di nomadi collegati a pregiudicati italiani. (98)

Il fenomeno, in riferimento ai vari gruppi etnici interessati, pur distinguendosi per il regime particolarmente duro cui sono sottoposte le donne, presenta, oltre a caratteri similari, alcune differenze di notevole importanza riguardanti:

  • costo dell'espatrio e modalità di pagamento e di restituzione del prestito;
  • modalità di "promozione", di consenso e di ingaggio delle ragazze per l'espatrio;
  • diversi sistemi di emancipazione e processi di progressivo distacco dal circuito ideato dai trafficanti;
  • mantenimento di relazioni di varia natura con il Paese d'origine e con la figura dei trafficanti-protettori.

Queste differenze nelle caratteristiche dello sfruttamento della prostituzione suggeriscono l'opportunità di delineare il fenomeno così come risulta organizzato nelle aree di attuale e maggiore interesse, anche per i riflessi che questo ha sul territorio italiano.

Lo sfruttamento delle donne Sud-americane

I gruppi di donne appartenenti all'area geografica dell'America del Sud, risultano provenire dalla Colombia, dal Venezuela, dal Brasile (ricomprendendo tra queste, anche un'alta percentuale di elementi di sesso maschile, più noti con il termine di "viados") e, più limitatamente, dai restanti Paesi di quel continente. Vengono solitamente aiutate ad espatriare in Italia o giungono con visti turistici o di lavoro, con l'impegno di corrispondere all'organizzazione, una volta arrivate a destinazione, una somma di denaro nell'ordine di dieci o venti milioni (99). Si è, inoltre, riscontrato, specie in passato, l'utilizzo di alcuni dei soggetti stessi per il trasporto di sostanze stupefacenti, in sostituzione del pagamento del viaggio (100).

Molte delle donne in questione, risultano già in partenza esercitare la prostituzione e riescono pertanto a gestire con maggiore facilità le problematiche connesse allo sfruttamento di cui sono oggetto.

In più, l'età media risulta intorno ai trenta anni e ciò costituisce solitamente un ostacolo allo sfruttamento selvaggio di cui sono oggetto altre donne più giovani. L'estinzione dell'iniziale debito contratto appare come l'unica condizione richiesta per sottrarsi alle pretese avanzate dai soggetti delinquenziali con cui sono in contatto, anche se l'estrema onerosità dello stesso, le costringerà per qualche anno, in genere, a praticare la "professione" senza alcuna redditività. Affrancate dal debito, al termine del periodo indicato, sono solite proseguire l'attività riunendosi in piccoli gruppi, con i caratteri tipici delle "squillo" (101).

Gli elementi di sesso maschile (transessuali o travestiti), invece, si caratterizzano per l'estrema fragilità psicologica che molto spesso li spinge a fare largo uso di sostanze alcoliche e/o stupefacenti. La loro attività, anche dopo l'estinzione del debito, non è quasi mai del tutto autonoma in quanto comporta spesso contatti con soggetti delinquenziali stranieri o nazionali, specie per la necessità di rifornirsi di sostanze stupefacenti.

Non sono rari, inoltre, gli episodi di violenza, che li vedono quali autori o vittime di fatti criminosi. Dal punto di vista del comportamento, tali soggetti manifestano in genere insofferenza verso i normali controlli effettuati dagli organi di polizia, cui tentano di sottrarsi anche reagendo con violenza.

Lo sfruttamento delle donne dell'Ex URSS

La caduta del regime totalitario dell'ex URSS ha comportato il frazionamento del "blocco sovietico" in Repubbliche autonome, che si rifanno a substrati etnici diversi. Le gravi difficoltà di ordine politico, sociale ed economico hanno portato, di fatto, alla nascita e al proliferare della c.d. "mafia russa" che, approfittando della situazione favorevole, si è oltremodo estesa, monopolizzando le attività illegali più lucrose tra cui lo sfruttamento della prostituzione (102).

Le organizzazioni criminali così sorte, che si avvalgono perfino dell'opera di giuristi, economisti e professionisti, hanno avviato un'opera di penetrazione negli apparati statali e di corruzione dei funzionari, ottenendo in breve tempo un notevole potere sul territorio ed il controllo, pressoché totale, di imprese commerciali, ristoranti, servizi pubblici, casinò e locali di intrattenimento (night club) dove si esercita la prostituzione (103).

Lo sfruttamento sessuale è diffusissimo e dilagante anche per le strade, controllate dalle bande con una rigida ripartizione territoriale.

L'ampiezza del territorio consente di "reclutare" giovani donne nei diversi Stati dell'ex URSS, per poi costringerle ad esercitare la professione nelle grandi città o in altri Paesi sviluppati economicamente. La donna fatta così oggetto di traffici, nella maggior parte dei casi, arriverà a destinazione dopo essere stata venduta ad elementi criminali di diversa nazionalità, che la sfrutteranno rifacendosi della spesa sostenuta al momento dell'acquisto.

Se è pur vero che gli "acquirenti" non fanno quasi mai parte dell'organizzazione criminale che ha operato la vendita, è però logico ipotizzare un rapporto interattivo nelle attività delinquenziali di queste organizzazioni, trattandosi certamente di vie e canali di "rifornimento" di esseri umani, consolidati ed in continua attività.

Le consistenti dimensioni del fenomeno sono la dimostrazione più evidente che lo sfruttamento della prostituzione, in Russia, è attività monopolizzata dalla criminalità organizzata in generale (104). Dalle connessioni dirette con altre organizzazioni criminali internazionali, inizialmente concernenti lo sfruttamento della prostituzione sotto la copertura di attività di "show-business", scaturiscono ulteriori contatti e profitti da reinvestire in altre attività criminali di elevata pericolosità sociale.

La progressione esponenziale di questi legami internazionali tra organizzazioni criminali russe e quelle di altri Paesi ha come naturale conseguenza un aumento considerevole dello sfruttamento sessuale, al momento ancora apparentemente limitato in Italia, dove le donne di nazionalità russa sono maggiormente impiegate in attività di spettacolo.

Lo sfruttamento delle donne albanesi

I primi sbarchi di albanesi, nel 1991, hanno portato in Italia, migliaia di disperati: uomini, donne, bambini, famiglie o parti di famiglie, tutti, o quasi, vittime del lucroso affare dell'immigrazione clandestina gestito dalle potenti organizzazioni criminali. Un malaffare (105) che consente loro di spartirsi notevoli somme ogni notte.

Per le ragazze albanesi, i contatti iniziali con i loro aguzzini (ed una serie di passaggi successivi) avvengono generalmente attraverso e all'interno di gruppi amicali, e quindi con approcci affettivo-sentimentali, anche se tali gruppi sono formati per lo più da delinquenti, da persone senza scrupoli. In misura minore, da singole persone: parenti e fidanzati, o meglio da persone che si dichiarano tali in maniera strumentale. Si registrano tuttavia, anche a livello giudiziario, sempre più spesso, veri e propri sequestri di persona ai danni di giovani donne perpetrati in Albania.

I percorsi e gli itinerari per espatriare sono quelli generalmente utilizzati dai flussi migratori irregolari (106). Ma non è esclusa la possibilità di entrare in maniera "regolare" (107), ad esempio, con passaporto falso di nazionalità comunitaria e con visto turistico, oppure con falso visto umanitario.

Arrivate a destinazione, le donne vengono "istruite" con la violenza fino a quando non smettono di ribellarsi. Vengono private dei passaporti, a volte rifornite di documenti falsi, obbligate ad accettare qualsiasi prestazione, costrette a ritmi massacranti e a consegnare gran parte dei guadagni ai protettori. In più, ricattate con la minaccia di rivelare la natura della loro attività ai parenti rimasti nel Paese d'origine o di ritorsioni dirette su loro stesse e le famiglie in caso di ribellione, vengono costrette a prostituirsi anche durante una eventuale gravidanza o ad abortire ripetutamente (108).

Uno degli aspetti che concorre a rendere difficile la stima della pericolosità del fenomeno è l'alta mobilità geografica che caratterizza una parte considerevole delle ragazze che si prostituiscono. Esse sono costrette ad insediarsi per brevi periodi in diversi luoghi di "lavoro", a seconda dei programmi che stabiliscono le organizzazioni a cui - volenti o nolenti - fanno riferimento. Il rapporto tra la ragazza "trafficata", e pertanto costretta coercitivamente a svolgere la professione in strada, e i "protettori" è generalmente diretto.

Le informazioni provenienti dalla D.I.A., però, evidenziano anche tipologie organizzative più complesse, con forme di supporto logistico organizzate da terzi, che non compaiono direttamente e che si occupano esclusivamente della gestione degli introiti. Inoltre, sono dotati di una serie di esecutivi con compiti di accompagnatori e controllori delle attività quotidiane di meretricio, su basi marcatamente coercitive o, comunque, centrate sulla violenza e sulla soggezione psico-fisica.

Le ragazze costituiscono merce di scambio tra le cosche albanesi: ognuna di loro può essere ceduta da un'organizzazione ad un'altra ed il prezzo, oscillante intorno ai 4-5 milioni di lire, può variare in considerazione dell'età e dell'avvenenza della ragazza, nonché della sua disponibilità nei confronti dei "clienti" (109).

Già nel 1993, grazie ad un'indagine effettuata dalla Procura della Repubblica di Ascoli Piceno, venivano delineate le direttrici e il "modus operandi" delle consorterie dedite allo sfruttamento della prostituzione con le seguenti caratteristiche (110):

  • reclutamento diretto effettuato in Albania da parte degli stessi soggetti (od altri ad essi collegati) che si occuperanno dello sfruttamento in Italia;
  • procacciamento di opportuni documenti adatti all'espatrio;
  • predisposizione logistica di luoghi e ricoveri, sia case che alberghi, da utilizzare per momentanee basi di partenza per l'attività di aggregazione e di controllo delle meretrici;
  • frequenti spostamenti di città, con preordinazione dei luoghi di ricovero;
  • continuo "turn over" delle ragazze nelle varie località di meretricio, in base ad una preordinazione programmata del loro impiego;
  • esistenza di una cassa comune del denaro guadagnato, gestita dal capo dell'organizzazione;
  • uso di mezzi coercitivi e violenti anche in funzione di deterrente e di esemplarità;
  • presenza di un soggetto con funzioni "direttive" e "decisionali", capo indiscusso al quale è dovuta anche la percentuale sui ricavi delle ragazze.

Nel corso degli anni, in tutto il centro-nord della penisola il fenomeno si è esteso con le stesse caratteristiche riscontrate in principio, facendo logicamente supporre che tali metodiche di gestione, ormai ben collaudate, siano il sintomo di una realtà più complessa di quanto non appare, sottendendo spesso organizzazioni più articolate sul territorio.

A Milano, ad esempio, si riscontra l'esistenza di diverse bande (111), sovente abbastanza piccole ma perniciose, che presentano tuttavia analoghe caratteristiche di quelle su esposte. Ma generalmente in tutta la penisola è un fiorire di gruppi criminali composti da cittadini albanesi dediti allo sfruttamento della prostituzione con metodiche analoghe a quelle dei gruppi più grandi. Nel tempo, queste "bande" hanno cominciato a gestire non solo la prostituzione delle connazionali ma anche quella di altre etnie, sbaragliando con la violenza gli avversari. Inoltre, hanno allargato la propria organizzazione, in principio essenzialmente su base etnica, a soggetti non solo italiani ma anche di altre nazionalità.

Lo sfruttamento delle donne nigeriane

Significativo anche lo sfruttamento delle donne di origine nigeriana che presenta caratteri distintivi rispetto alle altre etnie interessate dal fenomeno. Occorre precisare, però, che quando si parla di prostituzione nigeriana si suole fare riferimento ad uno sfruttamento più "diffuso" quanto ad etnie coinvolte, ricomprendendo il termine anche le donne provenienti dal Senegal e dal Ghana.

L'immigrazione organizzata e massiccia in Italia di donne africane dell'area sub-sahariana ha avuto un forte incremento nel 1989-90 (112) ed è continuata in misura minore dal 1991 ad oggi. Le donne provengono tutte dalle stesse aree del Sud della Nigeria, dalle città di Benin City, Lagos o da qualche cittadina dell'interno ed appartengono alle tribù Igbo, Yoruba, Bini, Edo. Molte di esse sono sposate, altre separate, abbandonate dai mariti ed hanno figli, lasciati ai genitori. Alcune sono giovanissime (anche minorenni): mediamente esse hanno un'età compresa tra i 17 anni e i 30. Altre, ancora, avevano un lavoro o erano studentesse.

La Corte di Assise di Rimini, nella sentenza nr. 6/'96, ha stigmatizzato una vera e propria riduzione in schiavitù operata da un'articolata organizzazione italo-nigeriana finalizzata all'asservimento di ragazze che, spinte in Italia dalla prospettiva di buoni guadagni per lavori onesti, venivano prima vendute ed in seguito costrette ad esercitare il meretricio.

Il contesto sociale in cui tutto questo avviene non dà possibilità di sottrarsi allo stato di completa soggezione che si instaura fra il "padrone" e lo "schiavo" (113).

A tale proposito i fatti emersi nel corso del processo non lasciano dubbi: gli imputati si impossessarono o, comunque, mantennero persone in una condizione analoga alla schiavitù, attraverso l'acquisizione, anche mediante compera, della padronanza assoluta su giovani donne, tenendole in uno stato totale di privazione della libertà e in uno stato di completo asservimento. Le giovani venivano vendute secondo un valore economico di compravendita in relazione alle caratteristiche fisiche e di età, da un minimo di venti a un massimo di cinquanta milioni di lire.

Dalle informazioni raccolte da alcune giovani sfuggite al controllo delle loro padrone, nonché dall'ascolto di conversazioni telefoniche intercettate durante le indagini preliminari, due appaiono i personaggi chiave di questa organizzazione: le madame (o maman) e gli sponsor.

Il reclutamento delle ragazze in Nigeria è opera delle prime (114) che, lusingando le sprovvedute connazionali con la prospettiva di buoni guadagni per lavori onesti, provvedono alle pratiche di emigrazione ed anche all'organizzazione del viaggio in Italia, ricorrendo, per lo più, al finanziamento di denaro anticipato da altre persone dette, appunto, sponsor. Tali personaggi, quasi sempre maschili, sono i responsabili della vendita delle ragazze e del procacciamento dei passaporti per superare i controlli doganali.

Le giovani donne, lasciata la Nigeria, spesso dopo varie peripezie (115), vengono, alla fine, introdotte in Italia attraverso l'uso di passaporti falsi (116). A questo punto ricompare la figura della madame, a cui vengono assegnate le ragazze che da questo momento sono sotto la sua costante sorveglianza. Il rapporto madame-sottomessa individua una condizione di totale asservimento delle ragazze, legate alle rispettive "padrone" da condizionamenti di natura economica, sociale, ma anche culturale e psicologica.

Le madame acquistano in Italia le ragazze generalmente con la redazione di un contratto scritto, che si aggiunge al contratto che le stesse hanno concluso in Nigeria per emigrare: quest'ultimo è un vero e proprio prestito di somme, oscillanti tra i venti e i trentacinque milioni di lire, che esse devono restituire ratealmente con i proventi del lavoro loro promesso. Il prestito iniziale più la somma spesa dalla madame per l'acquisto della ragazza (117) costituisce il "riscatto" che la giovane deve pagare per essere liberata. Le madame provvedono all'alloggio, ai vestiti ed ai beni anche di prima necessità delle giovani acquistate, subito costrette alla prostituzione, con minacce e percosse, in una determinata zona di proprietà delle singole madame, detta in gergo joint. Qui vengono accompagnate personalmente dalle stesse madame che le sorvegliano e si fanno consegnare il denaro ricavato dall'attività di prostituzione, conteggiato a titolo di parziale pagamento del riscatto finale. Per il tempo poi in cui non convivono nello stesso alloggio vigilano le sottomesse anche attraverso altre madame.

Dalle informazioni raccolte nel corso del processo di Rimini da numerose persone reclutate, acquistate o controllate dalle madame, si desume l'esistenza di un'unica organizzazione che gestisce simile attività, senza tollerare alcuna forma di concorrenza. Tale organizzazione si avvale di strutture logistiche idonee a gestire l'impressionante numero di giovani donne oggetto del commercio, tenute sotto controllo anche mediante la diretta gestione dei documenti di identità. La zona strategica in cui opera in Italia l'organizzazione è il territorio della provincia di Rimini, luogo di prostituzione e nello stesso tempo base di partenze e di ritorno della prostituzione "pendolare" (118), oltre che stabile base e dimora della stragrande maggioranza delle madame e delle loro sottomesse.

Ciò che ha reso possibile una migliore comprensione del fenomeno è stata la rottura di quel cerchio di solidale omertà che sembrava legare in un comune destino le madame e le sottomesse. Proprio grazie alle dichiarazioni di diverse ragazze nigeriane, che denunciavano di essere state reclutate in Nigeria e vendute in Italia alle loro madame, si è incominciato a penetrare il contesto ambientale in cui le giovani vivono, un contesto caratterizzato da diffusa omertà e paura e spesso dal terrore di ritorsioni e rappresaglie.

Certamente nella comprensione dei fatti e delle situazioni emerse deve essere considerata in modo adeguato la diversità culturale delle persone coinvolte: certi fatti, se valutati muovendo da una visione eurocentrica della realtà, possono senz'altro apparire, ad un sommario esame, poco verosimili.

Quel che è certo è l'esistenza di un vero e proprio mercato di esseri umani. Dalle lettura degli atti del processo, infatti, si è saputo di vere e proprie contrattazioni sul prezzo della "merce", che oscillava secondo la bellezza e il carattere (119). I termini usati in tali dialoghi sono "vendere", "ritirare", "compratori", "venditori", compenso per la "mediazione". I prezzi variano secondo l'offerta, in certi periodi scarsa e in altri abbondante; essi subiscono variazioni a distanza di poche ore e, una volta raggiunto il prezzo definitivo, una parte dell'importo deve essere immediatamente versata. Qualora la madame non abbia l'intera caparra che serve, vengono prestate garanzie, per lo più reali da parte di altre madame amiche.

Il rapporto di asservimento delle ragazze nei confronti delle madame trova poi fondamento, oltre che nelle minacce di ritorsioni e rappresaglie, anche in un rituale magico (120) compiuto al momento della conclusione in Nigeria del "contratto di emigrazione". Tale contratto, infatti, è assistito anche da garanzie in qualche modo personali, e cioè con la ritenzione di capelli e di peli recisi, nonché di unghie tagliate, il tutto conservato in un involucro personalizzato dall'apposizione del nome della vittima e dei familiari, monito della vendetta degli "spiriti" nel caso di obblighi non onorati. Le madame, mediante il patto suggellato con il giuramento solenne, creano un legame di strettissima dipendenza con la persona sottomessa, la quale ha un interesse vitale a recuperare quella parte di sé lasciata ad altri, nella credenza che, in caso contrario, possano abbattersi su di lei e la sua famiglia sventure estreme. Soltanto al momento del riscatto, e cioè dell'integrale pagamento della somma stabilita dalla madame, la sottomessa potrà ritornare in possesso dei suoi capelli, del suo sangue, della sua fotografia, in sostanza della sua libertà personale, o meglio, di una parte mancante della sua persona.

Il timore derivante alle obbligate da queste credenze e superstizioni proprie della loro cultura trovano riscontro di attendibilità in elementi già emersi nella fase delle indagini preliminari. In particolare è utile confrontare alcuni passi di conversazioni telefoniche intercettate:

"la tua foto e i tuoi capelli ce li ho io - il sangue che hai giurato è qui, e quel giuramento dice che se tu non paghi a te ti arriva del male. L'altra ha già pagato i soldi e nessuno la cerca più"; "quando hai pagato non devi più preoccuparti per il giuramento"

dice una madame quando una ragazza le confida:

"ho paura di morire, perché sono ancora giovane"

In un'altra conversazione poi la ragazza si mostra preoccupata in particolare di rientrare in possesso di una parte della propria persona:

"vengo il prossimo sabato, così prendo la mia foto e i miei capelli"

ovviamente lasciati in pegno alla madame, la quale a sua volta le rammenta subito il debito residuo da pagare:

"quando porti i soldi? Devi pagare ancora dieci milioni"

trovando una disponibilità incondizionata nella sottomessa:

"per favore madame, io ho solo tre, madame considerami tua figlia".

La sostanziale mancanza di tutela dei diritti fondamentali della persona, determinata dalla condizione di clandestinità, dalla indisponibilità dei documenti, ritenuti in garanzia dalla madame, dalla mancanza di autonomia economica e, comunque, dalla mancanza di radici nel territorio, tali da determinare l'impossibilità di fatto di efficaci richieste di aiuto, costituisce una condizione di soggezione permanente, favorevole, di per sé, all'accettazione di pratiche anche contrastanti con personali convinzioni etiche.

Inoltre, sotto l'aspetto psicologico, la convivenza forzata con la madame e con le altre sottomesse acquiescenti, in un clima di vigilanza continua, di intimidazione e violenza per le persone renitenti, di censura concernenti le comunicazioni con amici e familiari in patria, rende la sottomessa consapevole di vivere una condizione di sostanziale mancanza di libertà e di costrizione ad una attività obbligatoria in favore della madame.

Un'ulteriore conferma di tale situazione di asservimento si può desumere dalla "festa" finale di liberazione dal pagamento del debito con la quale la madame insieme alle sue sfruttate suggella in maniera socialmente evidente l'affrancamento e, cioè, il riscatto del contratto e, dunque, il recupero della libertà personale.

Le nuove vittime dall'Est e dal Nord-Africa

Oggi è segnalato un nuovo fenomeno: l'arrivo dall'Est ha ripreso forza (121). Si tratta di donne e minorenni ucraine, russe, moldave, ceche, rumene, irretite dalle organizzazioni criminali albanesi o di compatrioti che, in pieno accordo con la criminalità organizzata italiana (mafia locale), gestisce questi flussi sia al chiuso (locali, pensioni, case) che sulla strada, che continua a rimanere il luogo di maggior richiamo.

Qualche segnale vi è anche tra le comunità maghrebine (Tunisia e Marocco). In questo caso, a gestire le prostitute sono o connazionali o la stessa criminalità dell'Est o italiana.

3.9. Lo sfruttamento minorile

I minori, costituiscono per le organizzazioni criminali "merce" o "materia prima" privilegiata per alcuni lucrosi affari illeciti: si pensi ai circuiti della prostituzione, della pedofilia, della produzione di materiale pornografico, delle adozioni illegali, del traffico di organi (122).

La scelta di operare in determinati settori illegali non è affidata al caso; essa, anzi, si basa su una profonda conoscenza delle legislazioni penali dei Paesi in cui si svolgono queste attività e dipende, soprattutto, dalla domanda (illegale) generata nel mercato di determinate prestazioni (prostituzione, pedofilia, pornografia, droga, etc.).

In Italia, il fenomeno dello sfruttamento di minori stranieri, pur se non sembra aver raggiunto dimensioni preoccupanti, è in sensibile aumento, soprattutto perché sta assumendo connotazioni in cui l'intervento giudiziario non appare sempre facile (123).

Del fenomeno possiamo distinguere almeno quattro diverse forme.

La prima è quella più tradizionale, in cui lo sfruttamento è in qualche modo collegato alla violazione della legislazione sul lavoro minorile. Tuttavia, scarsissime sono le notizie relative all'impiego irregolare di minori stranieri. Numerose ricerche testimoniano di casi di bambini cinesi impiegati nelle industrie tessili nei periodi di maggiore produzione; si tratta di una gestione prevalentemente a conduzione familiare, che però non sempre determina l'abbandono degli studi. Un altro settore in cui vi è un numero rilevante di minori impiegati irregolarmente è quello dei servizi domestici, ma probabilmente vi sono casi anche nel settore agricolo ed edilizio.

Una seconda casistica riguarda, invece, l'utilizzo dei minori nella vendita abusiva di fiori (nomadi), accendini (cinesi), sigarette, abbigliamento e tappeti (nord-africani). L'impiego del minore di 14 anni spesso è legato al fatto che è un soggetto non imputabile. Anche in questo caso, i minori in genere svolgono un'attività che non sempre compromette la frequenza scolastica: infatti, generalmente, il minore lavora insieme o sostituisce il genitore nel lavoro pomeridiano o serale.

Ben più gravi sono le altre due tipologie di sfruttamento, dove l'impiego del minore quattordicenne, oltre ad essere determinato specificamente dalla sua inimputabilità, si inserisce all'interno di pericolose organizzazioni criminali.

In primo luogo, nel settore dell'accattonaggio dove i minori, quasi esclusivamente di sesso maschile, vengono reclutati con modalità in parte analoghe a quelle utilizzate per il reclutamento delle donne da avviare alla prostituzione. La sostanziale differenza tra gli uni e le altre è che, nel caso dei minori, le famiglie sono in genere informate dagli organizzatori del traffico e vi partecipano, ricevendo una parte dei guadagni. Identiche a quelle delle prostitute sono le modalità del trasferimento in Italia, ove vengono accompagnati da colui che li affiderà allo sfruttatore. Differente, invece, la collocazione alloggiativa rispetto alle donne, poiché i minori sono costretti a vivere in aree periferiche e dimesse, per lo più in immobili abbandonati, spesso in pessime condizioni igieniche.

I minori vengono costretti ad elemosinare per oltre dieci ore al giorno e a versare allo sfruttatore l'ammontare della questua, che viene inizialmente trattenuta per intero al fine di coprire le spese di trasferimento (124). Solo in un secondo momento una parte del ricavato, in genere inferiore a quella concordata, viene inviata alle famiglie originarie tramite persona di fiducia. Sovente i minori sono sottoposti ad ogni genere di violenza, fisica o psicologica, determinata dal tentativo di affrancarsi da tale schiavitù o dallo scarso rendimento. In altri casi, invece, la violenza è totalmente gratuita e finalizzata al mantenimento dello stato di soggezione del minore nei confronti dello sfruttatore. Pur non esistendo elementi che colleghino i vari sfruttatori in gruppi più o meno organizzati, è certo che fra di essi esistono accordi di mutuo soccorso (125), che consentono ai singoli di mantenere il controllo dei minori in circostanze sfavorevoli. Significativo, inoltre, il fatto che i minori più anziani, sia in senso anagrafico che "lavorativo", siano adibiti alla raccolta degli introiti giornalieri, quasi ciò rappresentasse la prima tappa di una carriera criminale.

Un altro tipo di sfruttamento minorile si riferisce all'utilizzo dei minori per piccoli furti (borseggi, furti in appartamento, furti di ciclomotori, etc.) ed in altri reati. Anche in questo caso, come nel precedente, sono soprattutto i minori nomadi ad essere coinvolti, spesso sotto la minaccia di percosse da parte dei propri genitori, tanto che, in più di un'occasione è stata prospettata la possibilità di una vera e propria riduzione in schiavitù (126).

A tal proposito va ricordato che la Convenzione di Ginevra del 1956, considera schiavitù le ipotesi in cui "un fanciullo o un adolescente minore di anni 18 è consegnato, sia dai suoi genitori o da uno di loro, sia dal suo tutore, a un uomo, contro pagamento o meno, in vista dello sfruttamento della persona e del suo lavoro". Molti dei casi riportati nel testo rientrerebbero in questa fattispecie.

Una forte preoccupazione desta anche il coinvolgimento dei minori stranieri nello spaccio di stupefacenti, fenomeno abbastanza recente ma che, soprattutto in alcune città (Torino, Genova) ha assunto dimensioni inquietanti. Si tratta in genere di minori nord-africani, presenti in Italia senza permesso di soggiorno, a volte entrati clandestinamente, ma spesso affidati dai genitori a parenti o ad amici di famiglia che vivono in Italia. L'inserimento nel racket dello spaccio avviene in genere attraverso altri connazionali che utilizzano i minori per fare da corrieri, ma sarebbe estremamente utile verificare quanti siano i minori stranieri che sono divenuti tossicodipendenti. Anche in questo caso, anche quando vengono colti in flagrante, è difficile trovare una soluzione adeguata: numerose sono le difficoltà nell'attuare il provvedimento di espulsione, sia per quanto recentemente stabilito dal T.U. delle leggi sull'immigrazione (127), sia per la mancata attestazione della cittadinanza (in genere i minori non posseggono documenti di identificazione ed è difficile che le ambasciate collaborino in operazioni di rimpatrio); i minori quasi sempre rifiutano di rientrare spontaneamente nel Paese di provenienza. Anche l'inserimento dei minori in istituto è tutt'altro che semplice, per le carenze di strutture adeguate e per l'ostilità dei minori ad adattarsi alla vita in istituto.

Un ultimo tipo di sfruttamento riguarda la prostituzione (128) di minorenni straniere.

Nel mondo la forma più comune ed estesa di traffico di minori è, infatti, quella che ha lo scopo di sfruttarli a fini sessuali o commerciali legati alla prostituzione. Organizzazioni criminali dedite alla prostituzione minorile, al turismo sessuale, alla produzione di materiale pornografico attraverso lo sfruttamento dei giovani e dei giovanissimi sono presenti in diverse zone del pianeta. In particolare, l'End Child Prostitution in Asian Tourism (ecpat) allerta contro le pratiche di traffico di bambini allo scopo del loro utilizzo nei mercati della prostituzione: giovanissimi provenienti dalla Tailandia, da Taiwan e dalla Russia vengono forzati alla prostituzione nelle strade di Johannesburg in Sud Africa; bambini vengono trafficati in Australia da diversi Paesi asiatici; centinaia di giovani donne vengono immesse nei mercati internazionali del sesso attraverso agenzie legali ed illegali; bambini vietnamiti vengono espatriati dal loro Paese verso la Cambogia e la Thailandia; bambine tailandesi vengono fatte emigrare e vendute in bordelli in Australia ed in Giappone; più di 200.000 ragazzine nepalesi, minori di sedici anni, lavorano nei bordelli indiani ed a questa cifra si aggiunge ogni anno un numero di nuove trafficate che va dalle 5.000 alle 7.000 unità. In Europa, i bambini trafficati a scopi sessuali di solito provengono dall'Asia, dall'Africa o dai Carabi; tuttavia, nell'Europa occidentale si sta assistendo all'afflusso crescente di minori provenienti dell'Est europeo.

Contro lo sfruttamento sessuale dei minori, la Risoluzione della Commissione ONU dei diritti umani (129) n. 1992/'72 e la stessa Convenzione internazionale sui diritti del bambino del 1989, ratificata in Italia con la Legge 176/'91, impegnano gli Stati aderenti a proteggere il fanciullo contro ogni forma di sfruttamento sessuale. A tal fine, gli Stati adottano in particolare ogni adeguata misura a livello internazionale, bilaterale e multilaterale per impedire:

  • che dei fanciulli siano incitati o costretti a dedicarsi ad una attività sessuale illegale;
  • che dei fanciulli siano sfruttati a fini di prostituzione o di altre pratiche sessuali illegali;
  • che dei fanciulli siano sfruttati ai fini della produzione di spettacoli o di materiale a carattere pornografico (allo stesso tema sono dedicati anche gli art. 35 e 36).

In Italia, sono diversi gli articoli del codice penale che tutelano i minori contro forme di sfruttamento e di violenza sessuale: la Legge 15 febbraio 1996, nr. 66, che introduce specifiche aggravanti per le violenze sessuali a danno dei minori; la Legge 3 agosto 1998, nr. 269, che introduce, (integrando la sezione I del capo III del titolo XII del libro II del codice penale), norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, prevedendo nuove forme di riduzione in schiavitù; il T.U. 286/98 che ha contemplato delle aggravanti per coloro che favoriscono l'ingresso nel Paese di minori stranieri da destinare alla prostituzione (art. 12/3º).

Lo sfruttamento sessuale dei minori nel nostro Paese è fenomeno abbastanza recente, e vede coinvolte soprattutto minorenni provenienti da Paesi dell'Est, in particolare dall'Albania, dall'ex Jugoslavia, dalla Romania, dalla Repubblica Ceca. È possibile stimare la loro presenza in diverse centinaia di minorenni, sebbene è un dato in costante crescita. Anche se mancano riscontri oggettivi circa l'esistenza di una qualche organizzazione criminale strutturata ed interamente dedita al traffico e/o alla tratta dei minori a scopo sessuale, si è, tuttavia, resa evidente in varie occasioni la diffusa presenza sul territorio italiano di alcuni giri di prostituzione che afferiscono a gruppi di immigrati che si servono, fra l'altro e sempre più spesso, di minorenni da avviare in questa attività (130). L'attenzione, in particolare, va rivolta non solo alla prostituzione minorile in sé, che in Italia sembra avere un'incidenza relativamente bassa, quanto allo sfruttamento dei minori nei circuiti telematici della pedofilia e nella pornografia cartacea e/o visiva, attività, queste, spesso prodromiche alla stessa prostituzione.

Una volta in Italia, la minorenne viene obbligata, attraverso percosse, segregazione e stupri, a prostituirsi sui marciapiedi o anche in locali notturni. Recenti indagini hanno evidenziato che spesso le prostitute straniere minorenni sono "affittate" o "vendute" ad altri gruppi di sfruttatori, anche italiani, o ad altre organizzazioni che gestiscono il racket in altri Paesi europei (Germania, Francia). Anche in questo caso è estremamente difficile trovare soluzioni, sebbene siano ormai diversi i centri realizzati dal volontariato ma anche dagli enti locali, che aiutano queste ragazze, offrendogli ospitalità, assistendole nella denuncia degli sfruttatori (che tra l'altro permette alla minorenne di usufruire di un permesso di soggiorno per motivi giudiziari) e, se possibile, a rientrare in patria. Tuttavia, un dato che dovrebbe destare preoccupazione è la formazione di organizzazioni di sfruttatori (131) in cui sono coinvolti anche minori. Questo fenomeno è stato spesso registrato nella prostituzione, ma inizia ad interessare anche altri settori di sfruttamento minorile. Non sono confermate, invece, le illazioni su un presunto traffico di minori da utilizzare nel commercio clandestino di organi umani, né, tantomeno, un traffico finalizzato alle adozioni illegali.

Sezione III
La criminalità organizzata e la devianza criminale indotta

3.10. Dal traffico alla devianza criminale: tre premesse fondamentali

Le molteplici manifestazioni devianti tra gli stranieri, specie tra i nuovi immigrati, vengono generalmente considerate quali indicatori delle persistenti difficoltà di integrazione che i vari provvedimenti normativi di questi anni sono riusciti a risolvere solo parzialmente.

Nonostante le numerose analisi e gli approfondimenti sviluppati su tale problema siano concordi nel ritenere che l'elevata presenza straniera nell'area criminale sia da imputare maggiormente alle situazioni di marginalità e di precarietà, non è da sottovalutare, tuttavia, il ruolo assunto, specie negli ultimi anni, da talune organizzazioni criminali che, operando nei Paesi di origine, provvedono all'arruolamento di manovalanza da incanalare nei flussi clandestini d'ingresso. In un contesto di questo genere è plausibile ritenere che l'immigrato clandestino o irregolare, oltre ad accettare le regole imposte dall'organizzazione criminale, sarà in ogni momento disponibile a svolgere attività illegali, essendo egli, il più delle volte, debitore nei confronti dell'organizzazione stessa per il servizio di traffico o per le "assistenze" offertegli.

Prima di verificare un'ipotesi di questo genere, tuttavia, sono indispensabili alcune importanti premesse.

In primo luogo, l'analisi integrata dei dati relativi alla presenza straniera regolare ed irregolare, nonché la provenienza delle vittime del traffico e dello sfruttamento, inducono a restringere l'osservazione a quelle etnie maggiormente rappresentate sul territorio. Questo tipo di operazione, però, non vuole stabilire una correlazione diretta e necessaria tra consistenza numerica dei gruppi etnici presi in considerazione e criminalità da questi espressa. Si vuole solo concentrare l'attenzione su quelle specifiche nazionalità che sono maggiormente coinvolte nelle operazioni di traffico, sia in qualità di trafficanti che di vittime. Da questo punto di vista è giustificata la scelta di privilegiare l'osservazione dei gruppi etnici provenienti dalle regioni del mondo a forte pressione migratoria, quali l'Europa dell'est e l'Africa settentrionale e sub-sahariana, e dalle quali derivano i gruppi albanesi, ex jugoslavi, rumeni, polacchi, marocchini, tunisini, nigeriani. Ma l'attenzione non va distolta neanche da alcune altre nazionalità, quali ad esempio la cinese, per le quali la devianza è pur sempre espressione di una situazione di marginalità e di precarietà "gestita" dalla criminalità organizzata. Sono, invece, trascurabili altre etnie la cui consistenza numerica e l'incidenza criminale sul totale dell'agire illegale non sono dotate di particolare significatività.

Un'altra importante premessa riguarda il cosiddetto "tasso di criminalità". Con questa espressione si suole indicare il valore dato dal rapporto tra la consistenza numerica di una popolazione ed il livello di criminalità che questa esprime in un determinato arco temporale.

L'importanza del tasso di criminalità risiede nel fatto che il valore espresso da questo rapporto può consentire, per un verso, di stabilire il grado di partecipazione degli stranieri rispetto al totale dell'agire illegale; per altro verso, di operare un raffronto quantitativo tra la criminalità straniera e quella italiana, così da poter smentire o confermare le illazioni circa una presunta maggiore propensione degli immigrati a commettere specifici reati. Senonché, i limiti nella rilevazione delle presenze straniere, uniti alle difficoltà rilevatorie delle statistiche giudiziarie, rendono il valore ottenuto soltanto presuntivo e, comunque, inadeguato a costituire la base di ipotesi scientifiche.

In modo particolare, per stabilire in misura precisa il numero di stranieri presenti sul territorio bisognerebbe avere certezza di quanti di essi, tra i regolari, siano insediati stabilmente nel Paese e, quanti, invece, lo siano con carattere di temporaneità; a maggior ragione (132), si dovrebbe conoscere con certezza la consistenza numerica della componente irregolare. Sul piano giudiziario, poi, oltre ai citati limiti delle rilevazioni statistiche, il problema riguarda soprattutto la cosiddetta "cifra oscura" della criminalità e quella parte di delinquenza ad "opera di ignoti", che non consentono di conoscere la "criminalità reale". In un caso, infatti, sfuggono alla rilevazione tutti quei fatti criminosi che avvengono nel contesto sociale e che, pur costituendo violazione di norme penali, non vengono denunciati per motivi quali la paura, il pudore o la sfiducia nella giustizia; nell'altro, manca la possibilità di rilevare quella quota di persone che ha commesso delitti ma che non entra nel circuito penale (133). Ne deriva, dunque, un rapporto falsato il cui valore è indicativo ma non certo.

In generale, e con estrema cautela, si può solo affermare che il tasso di criminalità di alcune etnie non è cresciuto parallelamente all'intensificarsi della loro presenza (regolare). Infatti, il numero dei permessi di soggiorno non è aumentato significativamente rispetto agli aumenti significativi di alcuni reati. Il che potrebbe voler dire due cose: o confermare la relatività del tasso di criminalità come parametro di misurazione; ovvero, supporre che sia aumentata la componente irregolare o clandestina.

Una terza ed ultima premessa fa riferimento a specifiche tipologie di reato. Una volta accolta la tesi per cui una parte della criminalità straniera è strettamente connessa al traffico ed allo sfruttamento dei clandestini, (o comunque, agli interessi della criminalità organizzata che si occupa della "gestione" degli immigrati irregolari), il problema principale è di individuare, tra i diversi reati commessi dagli stranieri, quelli più direttamente riconducibili in quest'area di devianza indotta.

Il reato di produzione e traffico di stupefacenti, il reato di istigazione, sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione, i reati di falsità, il reato di associazione a delinquere, possono essere presi come indicatori dell'aumento del traffico e dello sfruttamento degli immigrati. In particolare, i reati inerenti agli stupefacenti, oltre che confermare i rapporti sempre più stretti tra il traffico di esseri umani e questo settore criminale, possono rivelare lo sfruttamento degli immigrati nelle attività di spaccio al minuto. Lo sfruttamento della prostituzione, in quanto commesso da stranieri, può costituire un campanello di allarme dell'entità del traffico ai fini dello sfruttamento sessuale. Le falsificazioni, in modo particolare quelle documentali, possono testimoniare l'attività criminale organizzata dei gruppi che si occupano della gestione dei clandestini successiva al traffico e del loro coinvolgimento nei processi di falsificazione. L'associazione a delinquere può essere considerata indice della strutturazione ed organizzazione dei gruppi e delle attività illecite. Queste fattispecie appartengono a quelli che abbiamo definito "mercati illegali" (134), comparti dell'illecito, cioè, caratterizzati dalla domanda di servizi o merci illegali e dall'offerta degli stessi da parte delle organizzazioni criminali (135).

Tuttavia, i mercati della droga, della prostituzione, della falsità documentale, non sono gli unici; rispondono alle logiche del mercato (illegale) tutta una serie di altre attività illecite che, sebbene non direttamente connesse all'immigrazione clandestina, finiscono per essere attratte nell'area degli interessi della criminalità organizzata che si occupa della gestione dei "trafficati". È il caso del mercato della ricettazione, del traffico di auto rubate, della pornografia cartacea o visiva, della pedofilia, dove, sempre più spesso, vengono impiegati gli stessi immigrati, a seconda dei casi come vittime o manovalanza.

L'influenza della criminalità organizzata sulla devianza espressa dagli immigrati si manifesta, poi, anche in riferimento ad altri reati, quelli, cioè, estranei alle logiche del mercato. Pensiamo ai furti, alle rapine, alle estorsioni, fattispecie che costituiscono il primo anello di una lunga catena criminale cui vengono costretti gli immigrati e i primi passi di una carriera criminale. Non è un caso, infatti, che questi reati compaiono sovente quali "reati a margine" in procedimenti penali per associazione a delinquere finalizzata ai grossi traffici.

Con queste premesse e con l'estrema cautela che esse suggeriscono, svolgeremo la nostra indagine.

3.11. La criminalità "evidente" degli stranieri: incidenze ed incrementi a confronto

Per ricavare elementi significativi di riferimento si prenderanno in considerazione i dati di più incisivo riscontro della criminalità "evidente" espressa dagli stranieri nel nostro Paese. Gli indicatori utilizzati nelle pagine che seguono sono dati dalla quota degli stranieri sul totale (rispetto agli stranieri e globale) dei denunciati (e dei condannati) per i vari reati. La scelta di privilegiare l'osservazione sulla base delle denunce, deriva da due ordini di ragioni. In primo luogo, perché i dati relativi al numero dei denunciati sono quelli maggiormente dettagliati riguardo alle etnie ed alle singole tipologie di reato. In secondo luogo, perché le denunce rappresentano un indice di misurazione, non solo della criminalità, ma anche dell'allarme sociale.

L'aggressione al patrimonio è stata l'attività criminale più diffusa tra i delinquenti stranieri: in base ai dati riferiti al periodo 1994-1997, infatti, gli immigrati costituiscono in media quasi il 15% dei denunciati per i reati appartenenti a questa categoria (136). Sarebbe, tuttavia, errato pensare che questa sia l'unica attività illecita svolta dagli stranieri in Italia. Dal 1994 al 1997 la quota di questi ultimi sui denunciati è aumentata fortemente per molti altri reati. In particolare, i denunciati per i reati contro la famiglia, la moralità pubblica ed il buon costume sono passati dall'8,13% al 12,38%; per i reati contro lo Stato e l'ordine pubblico, dal 4,11% all'8,83%; per i reati contro l'economia e la fede pubblica, dal 4,29% al 7,08%; per i reati contro la persona, dal 3,94% al 5,46%.

Queste percentuali risultano più elevate se si esaminano i dati relativi alle fattispecie in esse contemplate: furti, rapine, estorsioni, ricettazione, produzione e commercio di stupefacenti, induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, falsità, omicidi, lesioni volontarie, violenze sessuali, etc.: tale circostanza sembra suggerire l'ipotesi di un progressivo passaggio della criminalità straniera dall'esecuzione dei tipici reati contro il patrimonio a forme più complesse ed allarmanti di devianza.

In valore assoluto, negli anni 1994-1997, il reato per il quale è stato denunciato il numero più alto di stranieri è il furto: con 54.845 denunce, essi hanno rappresentato circa il 30% delle denunce a loro carico e il 22,9% del totale dei denunciati per il medesimo reato. Peraltro, il numero dei denunciati stranieri è cresciuto costantemente, passando da 11.823 a 16.525 unità, con un incremento pari a 39,7 punti percentuali. È interessante notare che, nello stesso periodo, i denunciati italiani sono, invece, diminuiti del -4,9%. Questo, tuttavia, non significa che gli stranieri abbiano sostituito in tutto o in parte gli autoctoni in questo reato.

Infatti, i dati relativi alle condanne dimostrano che il numero dei condannati italiani per furto è aumentato dal 1994 al 1997, passando da 26.860 (83,27%) a 36.689 (84,49%). In realtà, la consistenza degli stranieri implicati nella fattispecie in esame si giustifica per il fatto che gli immigrati sono implicati in una più vasta tipologia di furti: borseggi, taccheggi, furti in appartamento e furti d'auto (137). In ragione di queste diverse modalità di esecuzione del reato, si comprende come il furto non esprima soltanto una devianza c.d. "da necessità", ma rappresenti anche un'attività di interesse di gruppi organizzati.

Analogamente a quanto è avvenuto per il furto, le modalità di esecuzione e la "visibilità" della rapina hanno destato un particolare allarme nella popolazione. L'impatto traumatico è sottolineato dalle diverse manifestazioni cui può dar luogo questa fattispecie. Si può fare riferimento, ad esempio, alle rapine perpetrate a danno delle banche, degli uffici postali, delle gioiellerie ma anche a quelle, meno remunerative ma sicuramente più frequenti ed allarmanti, che avvengono per strada, nei negozi e finanche nelle abitazioni dei cittadini. È fra queste ultime che si pone prevalentemente l'attività criminale degli immigrati, così come in quelle situazioni che, nate come semplici furti, degenerano in rapina a causa del ricorso alla violenza per assicurarsi l'impunità o il possesso della refurtiva.

Nel periodo 1994-1997, gli stranieri denunciati per rapina sono stati complessivamente 6.618, registrando un'incidenza del 3,59% rispetto al totale delle denunce a stranieri. La percentuale è, invece, maggiore se si considera la distribuzione tra italiani e stranieri, dove questi ultimi si attestano su un valore del 18,3%. La presenza della componente straniera è aumentata nel periodo, passando da 1.411 a 1.880 denunce, pari ad un incremento di 33,2 punti percentuali, a testimonianza del progressivo interesse verso questa specifica tipologia criminale (138). Il dato è confermato dall'incremento delle condanne che sono passate da 762 a 1.035, con un'incidenza cresciuta dal 12,97% al 14,57%. Di contro, gli italiani, pur mantenendo una posizione di assoluta prevalenza (81,7%), hanno, tuttavia, subito una leggera flessione, passando da 8.422 a 7.770 denunce con un decremento pari al -7,7% (139). Il dato conferma la crescita più rapida degli stranieri rispetto agli autoctoni, senza, peraltro, ricadere per questo nell'ipotesi della sostituzione.

Un'altra fattispecie lesiva del patrimonio per la quale si assiste ad un crescente interesse della criminalità straniera è rappresentato dall'estorsione.

Gli stranieri denunciati nel periodo 1994-1997 sono stati complessivamente 1.288, con un'incidenza del 6,3% rispetto al totale delle denunce per questo reato. Il rapporto con il totale delle denunce a stranieri mostra, invece, che gli immigrati hanno "preferito" quest'illecito per lo 0,69%. Nonostante l'esiguità delle incidenze, l'interesse della criminalità straniera verso questa tipologia specifica di reato è testimoniata dal forte incremento registrato nel periodo. Infatti, i denunciati, passando da 242 del 1994 a 382 del 1997, sono aumentati del 57,8%. L'incisività degli stranieri è, inoltre, sottolineata non solo dal fatto che il numero di denunce al loro carico è progressivamente cresciuto negli anni in considerazione, ma anche dal fatto che gli italiani, pur rappresentando il 93,7% del totale, hanno subito un decremento complessivo del -17,8% (140).

In definitiva, dunque, la contenuta presenza degli stranieri nelle statistiche penali relative all'estorsione non deve trarre in inganno e far pensare ad una minore pericolosità degli stranieri in relazione a questo reato: l'incremento delle denunce a loro carico ed il decremento di quelle relative agli italiani registrano i valori percentuali più alti tra i reati contro il patrimonio considerati.

Tabella 16
Denunciati stranieri per reati contro il patrimonio: furto-rapina-estorsione. Periodo: 1994-1997
Reati Totale Stranieri Italiani
A. % A. %
Furto 246.141 54.845 22,9 191.296 77,1
Rapina 36.264 6.618 18,3 29.646 81,7
Estorsione 20.557 1.288 6,3 19.269 93,7
Altri 247.393 19.647 7,9 227.746 92,1
Totale periodo 550.355 82.398 14,9 467.957 85,1

Elaborazione su dati ISTAT

Le singole tipologie di reato finora analizzate non costituiscono gli unici reati cosiddetti "strumentali" in cui la partecipazione straniera è rilevante. Accanto ad esse ed in misura ancor più rilevante si pone una serie di fattispecie che, in quanto collegati ai "mercati illegali", possono essere prese come indicatori di ipotesi di sfruttamento dei migranti in determinati settori criminali da parte della criminalità organizzata. Per queste ragioni, esse suggeriscono l'opportunità di una trattazione specifica e separata.

Intanto, però, è necessario dare contezza del contributo degli immigrati in ordine anche a quei reati, omicidio, lesioni, violenze sessuali, etc., che solitamente vengono definiti reati espressivi. Non è escluso, infatti, che gli incrementi registrati tra i denunciati e i condannati per questi crimini sia da ricondurre all'uso sistematico della violenza con cui vengono composti i dissidi tra i vari gruppi criminali, come sovente accade tra i gruppi malavitosi nigeriani ed albanesi per il controllo del mercato della droga e della prostituzione; ma non è neanche inverosimile che queste stesse pratiche violente vengano utilizzate quali "strumenti" per un'efficace intimidazione degli stessi immigrati da canalizzare nei circuiti della prostituzione, dell'accattonaggio, dei furti, delle rapine e della devianza in genere. È il caso di centinaia di donne e uomini, adulti e minori stuprati, maltrattati, se non anche addirittura uccisi.

A livello statistico, i reati che hanno registrato un più alto numero di denunce e di condanne sono quelli che aggrediscono il bene giuridico della persona nelle sue molteplici espressioni: gli attentati alla vita, all'integrità psico-fisica, alla libertà sessuale.

Questa situazione è confermata dai dati relativi agli stranieri denunciati per omicidio volontario. Nell'arco temporale preso in esame, il numero complessivo di denunce per lo specifico reato (948) è cresciuto costantemente, registrando un incremento di 29,06 punti percentuali. Passando da 203 a 262 denunciati, gli stranieri hanno portato la propria incidenza dall'8,59% al 10,14%. All'interno della sola componente straniera, invece, l'omicidio ha rappresentato lo 0,5% delle denunce.

Gli italiani, pur rimanendo in vetta al numero di denunciati per omicidio volontario (8.202, con un'incidenza del 89,6%), sono cresciuti più lentamente degli stranieri (9,36%), peraltro, registrando un andamento discontinuo. Lo stesso dicasi per le condanne, dove il contributo degli stranieri si attesta mediamente al 13% circa del totale.

Altra figura delittuosa di rilievo è rappresentata dalle lesioni volontarie, per le quali, nel periodo considerato, sono stati denunciati complessivamente 4.398 stranieri (pari ad un'incidenza del 4,5%). Rispetto al totale dei denunciati per questo reato, sia la componente italiana che straniera hanno registrato un trend evolutivo crescente nei valori assoluti, passando rispettivamente da 19.735 a 27.061 e da 874 a 1.408. Tuttavia, gli stranieri sono cresciuti più velocemente che gli italiani (61% contro 37%) e ciò ha determinato un leggero calo nell'incidenza di questi ultimi (da 95,75% a 95%, contro un'incidenza straniera passata da 4,25% a 5%).

Nell'area della criminalità violenta rilevano anche tutte quelle fattispecie accorpate nella tipologia della violenza sessuale. Come noto, la disciplina sanzionatoria di questi delitti è stata oggetto di un recente intervento normativo (Legge 15 giugno 1996 nr. 66) che ha abrogato alcuni delitti contro la moralità pubblica ed il buon costume, ad eccezione di quelli relativi ad atti, pubblicazioni e spettacoli osceni, introducendo nuovi articoli sulla violenza sessuale, configurati oggi come delitti contro la persona. In ragione di questa modifica, il dato statistico varia sensibilmente a partire dal 1996 ed incide sulla relativa classe di appartenenza. Nonostante ciò, è possibile individuare, con le opportune cautele, il contributo degli stranieri in ordine a questa specie di delitti.

L'esame delle denunce e delle condanne, confortato dai riscontri operativi delle forze dell'ordine, ha posto in luce il ruolo assunto da talune etnie nella commissione di questo reato, sempre più spesso connotato dalla violenza di gruppo. Se è vero che gli episodi più comuni di violenza sessuale siano da imputare prevalentemente alla condizione personale degli autori, privi di legami familiari e troppo lontani da ogni "considerazione affettiva" nel Paese di accoglienza ed a situazioni di alterazione psichica dovuto all'uso di sostanze alcoliche o stupefacenti, è anche vero, però, questa pratica viene sovente associata alla sfera della prostituzione coatta. Alcuni gruppi criminali, infatti, ricorrono all'uso sistematico della violenza e dello stupro nei confronti di donne e bambini, per sottometterne la volontà ed indurli a prostituirsi.

I denunciati stranieri per il reato in parola sono cresciuti progressivamente nel periodo in considerazione, portandosi da 156 del 1994 a 405 del 1997, per un valore assoluto complessivo di 1.107 unità. L'incremento più rapido degli stranieri rispetto agli italiani (159,6% contro il 77,9%) ha avuto l'effetto di accrescere l'incidenza dei primi (dal 12,05% al 16,66%) e di decrescere quella dei secondi (dall'87,95% all'83,34%), che registrano un'incidenza media dell'85,07%.

Sul piano delle condanne, il dato risulta disponibile solo relativamente al biennio 1996-1997 ed evidenzia un valore assoluto di 335 condannati. Nel biennio, comunque, vi è stata una flessione dell'incidenza straniera (dal 15,24% all'11,77%) ed un incremento di quella italiana (dall'84,75% all'88,22%).

Il ricorso alla forza caratterizza, in ultimo, anche i delitti di violenza, resistenza ed oltraggio a pubblico ufficiale. In queste tipologie rientra una variegata serie di comportamenti, tutti accomunati da un atteggiamento di insofferenza nei confronti dell'Autorità. Le ipotesi più frequentemente ricorribili sono quelle in cui si renda necessario l'accompagnamento dello straniero per identificazione, fotosegnalamento, notifiche dei provvedimenti di espulsione; ma frequenti sono anche i casi in cui la violenza, la resistenza o l'offesa provengano da un soggetto nei confronti del quale deve essere adottata una misura restrittiva della libertà personale.

Anche in questi reati, il contributo degli stranieri come degli italiani è progressivamente cresciuto nel periodo 1994-1997. Tuttavia, mentre per gli italiani, che pure hanno registrato un significativo incremento delle denunce (passate 15.103 a 17.948), si è avuto un calo della propria incidenza sul totale, per gli stranieri al progressivo incrementarsi dei valori assoluti ha fatto riscontro l'incremento del proprio peso percentuale. Questi, infatti, passando da 1.756 denunciati a 3.538, hanno portato la propria incidenza dal 10,41% al 16,46%. Nel complesso, gli stranieri denunciati hanno raggiunto quota 10.002, con un incremento complessivo del 101,5% contro un incremento del 18,83% appena degli italiani.

Figura 7
Confronto grafico tra gli andamenti denunciati stranieri per alcune significative tipologie di reato. Periodo: 1994-1997
Figura 7

Elaborazione su dati ISTAT

Le costanti etniche

La distribuzione delle denunce e delle condanne per Paese di origine degli stranieri varia a seconda dei reati.

Per individuare le costanti etniche, è necessario sommare, per ciascuna etnia, il numero di denunce relative a questi reati, comparato alla somma dei totali delle denunce a stranieri per le medesime fattispecie. Le etnie individuate sono, così, risultate, in peso percentuale, nell'ordine descritto nella tabella che segue.

Tabella 17
Denunciati secondo l'etnia e reati di furto, rapina, estorsione, omicidio volontario, lesioni volontarie, violenze sessuali, violenza, resistenza ed oltraggio a P.U. - Valori percentuali. Periodo: 1994-1997
Nazionalità Valori percentuali
Ex Jugoslavia 30,75%
Marocco 15,97%
Algeria 9,55%
Albania 8,13%
Tunisia 5,47%
Romania 4,99%
Polonia 2,68%
Nigeria 1,03%
Cina 0,30%
Altre 21,08%

Elaborazioni su dati ISTAT

Le nove nazionalità, nei valori così individuati, risultano essere, in via generale, quelle maggiormente implicate nelle fattispecie esaminate. Per valutare il peso assunto dalla singola etnia rispetto a ciascun reato preso in esame, è necessario, tuttavia, comparare il numero dei denunciati (o condannati) per provenienza etnica ed il totale relativo all'intera popolazione straniera. Sulla base di questi risultati si potranno poi valutare gli eventuali incrementi che il singolo gruppo etnico registra nel periodo considerato rispetto alle altre etnie.

I risultati ottenuti da questa operazione sono così di seguito riportati:

  • per il furto: - con 21.079 denunce, gli ex jugoslavi rappresentano il 38,43% dei denunciati stranieri per questa fattispecie; seguono nell'ordine, i marocchini, con un totale complessivo di 6.620 ed un'incidenza del 12,07%; gli algerini, con 6.026 denunciati pari ad un valore percentuale del 10,98; gli albanesi, con 4.285 ed un'incidenza del 7,81%; i rumeni, che con 3.384 denunciati rappresentano il 6,17%; i tunisini, con 1.717 denunciati e un'incidenza del 3,13%; i polacchi, con 1.553 denunce e un'incidenza del 2,83%; i nigeriani, con 134 denunce e un'incidenza dello 0,24%; infine i cinesi con sole 26 denunciati, pari ad un'incidenza dello 0,04%;
  • per la rapina: - i marocchini, 1.513 denunciati ed un'incidenza del 22,86%; gli ex jugoslavi, con 1.304 denunciati pari al 19,70% di incidenza; gli algerini, con 625 denunce ed un peso percentuale di 9,44 punti; gli albanesi, con 613 denunciati ed un'incidenza del 9,26%; i tunisini, con 455 denunce ed un'incidenza di 6,87 punti percentuali; i rumeni, con 289 denunciati ed un'incidenza del 4,36%; i polacchi, con 230 denunciati ed un'incidenza di 3,47 punti percentuali; i nigeriani, i cui denunciati sono stati 79 e la cui incidenza è del 1,19%; i cinesi, con 24 denunce rappresentative dello 0,36% del totale stranieri per questo reato;
  • per l'estorsione: - gli albanesi, 217 denunciati rappresentativi del 16,84% rispetto alle denunce specifiche; i marocchini, 202 denunciati e un'incidenza del 15,68%; gli ex jugoslavi, con 179 denunciati e un'incidenza del 13,89%; i nigeriani, con 83 denunce ed un peso del 6,44%; i tunisini, con 73 denunce e un'incidenza di 5,66 punti percentuali; i cinesi, rappresentanti il 5,43% delle denunce con 70 denunciati; i rumeni, 44 denunce e un'incidenza del 3,41%; gli algerini, 28 denunce per il 2,17% di incidenza; i polacchi, con 15 denunciati e un'incidenza dell'1,16%;
  • per l'omicidio: - gli albanesi, 236 denunciati e un'incidenza del 24,89%; i marocchini, 169 denunce pari ad un'incidenza del 17,82%; i tunisini, con 120 denunciati e un'incidenza del 12,65%; gli ex jugoslavi, 96 denunce per un'incidenza del 10,12%; gli algerini, con 55 denunce e un'incidenza del 5,80%; i polacchi, con 24 denunce e un'incidenza del 2,53%; i rumeni, con 14 denunce pari ad un valore percentuale di 1,47 punti; i nigeriani, con 6 denunciati e un'incidenza dello 0,63%; i cinesi, con sole 4 denunciati e un'incidenza dello 0,42%;
  • per le lesioni: - i marocchini, 1.217 denunciati e un'incidenza del 27,67%; i tunisini, 561 denunce e un'incidenza del 12,75%; gli ex jugoslavi, 513 denunce e un'incidenza di 11,66 punti percentuali; gli albanesi, 309 denunce pari ad un'incidenza del 7,02%; gli algerini, 188 denunciati e un'incidenza del 4,27%; i nigeriani, 106 denunce con un incidenza del 2,41%; i polacchi, con 80 denunce e un'incidenza di 1,81 punti percentuali; i cinesi, con 53 denunciati e un'incidenza dell'1,20%; i rumeni, con 46 denunce e un'incidenza dell'1,04%;
  • per le violenze sessuali: - gli albanesi, con 265 denunciati pari ad un valore percentuale di 23,93 punti; gli ex jugoslavi, con un'incidenza del 21,22% con 235 denunce; i marocchini, con 149 denunciati rappresentativi del 13,45%; i tunisini, con 96 denunce e un'incidenza dell'8,67%; i rumeni, con 45 denunce e un'incidenza del 4,06%; gli algerini, con 29 denunce e un'incidenza del 2,61%; i polacchi, con 18 denunciati pari ad un'incidenza dell'1,62%; i nigeriani, con 17 denunce e un'incidenza dell'1,53%; i cinesi, con 4 denunce e un'incidenza dello 0,36%;
  • per violenza, resistenza ed oltraggio: - i marocchini, con 2.782 denunciati ed un'incidenza del 27,81%; i tunisini, rappresentanti il 13,14% degli stranieri denunciati per questo reato con 1.315 denunce; gli ex jugoslavi, con 950 denunciati e un'incidenza di 9,49 punti percentuali; gli algerini, con 621 denunciati e un'incidenza del 6,20%; gli albanesi, con 521 denunciati ed un'incidenza del 5,20%; i nigeriani, 392 denunce pari ad un'incidenza del 3,91%; i polacchi, con 209 denunciati ed un'incidenza del 2,08%; i rumeni, con 134 denunce pari all'1,33% di incidenza; i cinesi, con 63 denunce per un'incidenza dello 0,62%.
Figura 8
Distribuzione per etnia delle denunce per i reati di furto, rapina, estorsione, omicidio volontario, lesioni volontarie, violenze sessuali, violenza, resistenza ed oltraggio a P.U. - Valori assoluti. Periodo 1994-1997
Legenda
  • Ex Jugoslavia
  • Marocco
  • Algeria
  • Albania
  • Tunisia
  • Romania
  • Polonia
  • Nigeria
  • Cina
  • Altri
Furto
Rapina Estorsione
Omicidio volontario Lesioni volontarie
Violenze sessuali Violenza, resistenza e oltraggio

Elaborazioni su dati ISTAT

Tabella 18
Distribuzione per etnia delle denunce per i reati di furto, rapina, estorsione, omicidio volontario, lesioni volontarie, violenze sessuali, violenza, resistenza ed oltraggio a P.U. - Valori percentuali. Periodo 1994-1997
Paesi Furto Rapina Estorsione Omicidio Lesioni Violenze sessuali Violenza, resistenza ed oltraggio
Marocco 12,07 22,86 15,68 17,82 27,67 13,45 27,81
Algeria 10,98 9,44 2,17 5,80 4,27 2,61 6,20
Tunisia 3,13 6,87 5,66 12,65 12,75 8,67 13,14
Nigeria 0,24 1,19 6,44 0,63 2,41 1,53 3,91
Ex Jugoslavia 38,43 19,70 13,89 10,12 11,16 21,22 9,49
Albania 7,81 9,26 16,84 24,89 7,02 23,93 5,20
Romania 6,17 4,36 3,41 1,47 1,04 4,06 1,33
Polonia 2,83 3,47 1,16 2,53 1,81 1,62 2,08
Cina 0,04 0,36 5,43 0,42 1,20 0,36 0,62
Altri 18,27 22,45 29,27 23,62 30,12 22,49 30,14

Elaborazioni su dati ISTAT

I valori esaminati dimostrano due assunti fondamentali. In primo luogo, è possibile notare che l'allarme sociale nei confronti degli stranieri intanto ha un senso se si operano delle distinzioni in ordine alla fenomenologia criminale dei gruppi etnici singolarmente considerati; in secondo luogo, sembrano smentire le ipotesi di sostituzione o di concorrenza con la criminalità italiana che, almeno in queste tipologie, registra valori assoluti e percentuali di gran lunga superiori.

D'altra parte, sembra ingiustificata anche la tesi secondo cui vi siano dei settori criminali monopolizzati da alcune etnie rispetto ad altre. Per verificare un'ipotesi di questo genere si dovrebbero raggiungere valori quanto meno vicini alla metà dei totali. È chiaro che ciò è possibile se si raggruppano i vari gruppi etnici secondo le aree di provenienza, ma sarebbe come fare passi indietro, verso sterili generalizzazioni. Infatti, una tale operazione avrebbe senso solo qualora si riuscisse a dimostrare che, per ciascuna area di provenienza, la criminalità espressa da ciascun gruppo etnico sia direttamente o indirettamente collegata al ruolo assunto da una etnia rispetto alle altre (in termini, cioè di prevaricazione). Ma non vi sono elementi certi per poterlo affermare (141).

Un discorso diverso e certamente più valido è, invece, quello di valutare la rapidità di crescita delle singole etnie nella commissione di specifici reati. Da un punto di vista statico, infatti, valutando i dati che abbiamo esaminato, si potrebbe classificare la pericolosità dei gruppi etnici in base ai valori registrati. Tuttavia, a dimostrazione che la criminalità non è solo un problema di quantità registrate, se si considerano gli incrementi delle denunce (ma questo vale per tutti gli indici) si potrà notare che quelle stesse etnie che hanno valori assoluti o percentuali più bassi rispetto alle altre sono le stesse che hanno registrato una più rapida crescita. Qualche esempio renderà più chiara questa affermazione: nel furto, gli ex jugoslavi, che hanno registrato il numero più alto di denunce, hanno registrato un incremento del 12,99%; i marocchini, che si attestano al secondo posto per valore assoluto di denunciati, registrano un incremento del 19,29%; gli albanesi che sono quarti per numero di denunce, sono cresciuti del 122,45%, e così via. Lo stesso dicasi per gli altri reati, seppur con qualche significativa eccezione: nell'omicidio, ad esempio, gli albanesi si confermano primi non solo per numero di denunciati ma anche per incremento (168,75%); tuttavia, nonostante i marocchini siano secondi quanto a numero di denunce, gli ex jugoslavi (con meno denunciati) hanno registrato un incremento maggiore, pari al 12,33%; così anche i tunisini (13,33%), e via discorrendo. Nelle lesioni volontarie, nonostante siano i marocchini ad essere maggiormente rappresentati tra i denunciati, sono i rumeni a registrare un incremento maggiore, pari al 733,33%, seguiti dagli ex jugoslavi (143,20%) e dagli albanesi (136,36%); nelle violenze sessuali, gli albanesi, primi per numero di denunciati, sono secondi ai rumeni (quinti) che registrano un incremento del 525%.

Il confronto è ancor più significativo se si considerano gli incrementi degli autoctoni: 7,50% per gli omicidi, 37,12% per le lesioni volontarie, 77,94% per le violenze sessuali, etc. Tutti valori molto lontani da quelli relativi agli stranieri (142), però superiori a quelli di alcune etnie.

3.12. I mercati illegali: i reati di criminalità organizzata e le attività criminali consorziate

Entro limiti percentuali accettabili, le attività criminali perpetrate da delinquenti stranieri devono essere considerate un danno sociale "fisiologico". Altrettanto, però, non può dirsi riguardo alle specifiche tipologie dei delitti associativi che indicano sempre una preoccupante evoluzione della criminalità, quali che siano lo spessore delle organizzazioni criminali ed i ruoli dei singoli nell'ambito delle stesse.

Né i codici (penale e di procedura penale) né le leggi speciali elencano, peraltro, i reati di criminalità organizzata, ovvero ne forniscono una definizione. Sia pure con qualche perplessità, può dirsi, comunque, che devono ritenersi tali tutti i reati che, a qualsiasi titolo ed in qualsiasi modo, sono collegabili ad associazioni criminali o alle attività di queste. Più in particolare, sono reati di criminalità organizzata sia tutti i reati associativi, sia tutti i reati specifici che risultano commessi avvalendosi della forza intimidatrice delle associazioni criminali, ovvero al fine di agevolare le loro attività delittuose.

La nozione di criminalità organizzata, peraltro, è nozione "vagamente sociologica", che può esser specificata e chiarita ricorrendo ad un'interpretazione sistematica delle disposizioni del codice di procedura penale e di quelle a queste complementari. Un'attenta lettura di queste norme impone di concludere che esistono, nella realtà, due grandi categorie di delitti afferenti al crimine organizzato: quelli di criminalità organizzata in senso stretto (i delitti tipici di mafia) e quelli di criminalità organizzata comune o eversiva. Nei primi rientra, tra l'altro, l'associazione a delinquere di stampo mafioso e l'associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope; nei secondi, accanto ad una più vasta tipologia, l'associazione a delinquere semplice. Nell'ambito di quest'ultima, poi, può collocarsi anche un complesso di altri reati (143) che, pur non caratterizzando tipicamente ed esclusivamente il crimine organizzato, rientrano tra quelli necessariamente strumentali rispetto alle attività di questo.

I reati associativi presuppongono l'esistenza di un accordo stabile, diretto all'attuazione di un programma delittuoso precedente e, comunque, autonomo rispetto agli accordi particolari relativi ai singoli delitti (144).

Le associazioni a delinquere (art. 416 e 416bis c.p.)

Secondo la definizione del nostro codice penale, l'associazione criminale (art. 416 c.p.) è un consorzio di persone (minimo tre) riunite dalla finalità di commettere più delitti. La gravità di questa fattispecie è testimoniata, oltre che, naturalmente, dalla pena per essa prevista, anche dal fatto che il legislatore ha arretrato la soglia di punibilità alla mera promozione, organizzazione o costituzione del sodalizio: è la finalità del consorzio che ne determina l'illiceità travolgendo anche le condotte di mera partecipazione.

Questa definizione generica, che caratterizza la criminalità organizzata semplice, trova, poi, una specificazione per l'associazione di tipo mafioso (145) (art. 416bis c.p.), connotata dal ricorso alla "forza di intimidazione del vincolo associativo" e dalla condizione di assoggettamento e di omertà delle vittime che ne deriva per il perseguimento dei propri fini illeciti.

La norma che prevede il vincolo mafioso ha il pregio di aver dato, per la prima volta, una definizione di ciò che debba intendersi per "mafia", fornendo i connotati salienti entro i quali inquadrare il fenomeno, estendendo la previsione a tutte le altre associazioni che perseguono scopi e finalità analoghe a quelle della mafia. Omertà ed assoggettamento stanno, infatti, dal punto di vista sociologico, a base della subcultura delle organizzazioni mafiose, cui s'innesta il loro potere che si traduce soprattutto nella rigida selezione degli aderenti e nella ferma capacità degli stessi di imporsi regole di spietata funzionalità, rispettate assolutamente, senza eccezioni di sorta. Parallelamente alla severità nella selezione, è invalsa la prassi di utilizzare, nelle attività illecite più semplici ed in quelle più pericolose, i malavitosi comuni, che però non hanno alcuna possibilità di venire a conoscenza dei segreti dell'organizzazione.

Tuttavia, bisogna rilevare che si tratta di una definizione appiattita sulla realtà italiana. La difficoltà di provare la forza intimidatrice del vincolo associativo e la conseguente condizione di assoggettamento e di omertà, rende difficile l'estensione di questa norma anche alle c.d. "nuove mafie", a quelle organizzazioni criminali straniere, cioè, di nuova costituzione che operano sul nostro territorio. Molto spesso, infatti, nonostante la certezza circa l'esistenza di una struttura organizzata che opera con le medesime modalità dei sodalizi mafiosi, i soggetti che appartengono a questi consorzi vengono perseguiti per associazione semplice finalizzata a specifiche attività delittuose.

A conferma della difficoltà di applicare l'art. 416bis anche alla criminalità organizzata straniera sta l'enorme divario tra il numero di denunciati ed arrestati per ciascuna delle due tipologie.

Secondo le rilevazioni effettuate dalla D.I.A., per il periodo 1991-I semestre 1996, gli stranieri extracomunitari denunciati per associazione a delinquere semplice sono stati nel complesso 1.816, mentre gli arrestati sono stati 1.181, per un totale di 2.997 unità. Viceversa, l'associazione a delinquere di stampo mafioso è stata contestata, nello stesso periodo, a 149 (118 denunce e 31 arresti) cittadini extracomunitari.

I Paesi in via di sviluppo considerati "a rischio", per aver alimentato l'immigrazione di soggetti confluiti nelle associazioni criminali nel periodo indicato, sono riportati nelle tabelle che seguono.

Tabella 19
Denunciati (D) ed arrestati (A) per associazione a delinquere semplice secondo la nazionalità (art. 416 c.p.). Periodo: 1991-I semestre 1996
Paesi 1991 1992 1993 1994 1995 I sem. 1996 Totale D.+A.
D. A. D. A. D. A. D. A. D. A. D. A.
Marocco 11 14 24 22 37 17 18 24 67 59 12 12 317
Algeria 6 2 2 6 / / 6 18 4 8 5 5 62
Tunisia 11 5 16 13 18 18 16 27 4 6 8 6 148
Nigeria 6 18 6 5 4 7 57 23 29 10 4 5 174
Ex Jugoslavia 22 30 77 24 28 55 105 31 243 61 14 18 708
Albania 8 / / 4 21 27 118 53 106 62 45 35 479
Romania 7 10 2 / 6 4 9 2 6 23 1 / 70
Polonia 1 / 9 / 1 12 2 / 6 4 2 / 37
Cina / 2 10 3 4 7 37 28 14 5 / 1 111
Altri PVS 101 73 50 56 100 72 114 54 133 74 43 21 891
Totale 173 154 196 133 219 219 482 260 612 312 134 103 2.997

Fonte: D.I.A. - Elaborazione: Osservatorio permanente sulla criminalità

Tabella 20
Denunciati (D) ed arrestati (A) per associazione a delinquere di tipo mafioso secondo la nazionalità (art. 416bis c.p.). Periodo 1991-I semestre 1996
Paesi 1991 1992 1993 1994 1995 I sem. 1996 Totale D.+A.
D. A. D. A. D. A. D. A. D. A. D. A.
Marocco / 1 / 2 1 / / / / / 1 / 5
Tunisia / / / / / / 2 / / / / / 2
Colombia / / 2 / / / 2 / 1 / / / 5
Uruguay 6 12 / / 1 / / / / 1 / / 20
Ex Jugoslavia 2 1 / / 1 / / 1 4 1 / / 10
Albania / 1 / / / / / / 2 / 1 / 4
Polonia / / / / 1 / / / / / / / 1
Cina / / / / / / 9 / 13 2 1 5 30
Egitto / / / / 1 / 4 / 45 / / / 50
Turchia / / / / / / 3 / / / 3 / 6
Altri PVS / 1 1 1 2 1 2 1 3 / 4 / 16
Totale 8 16 3 3 7 1 22 2 68 4 10 5 149

Fonte: D.I.A. - Elaborazione: Osservatorio permanente sulla criminalità

I dati mostrano chiaramente non solo che il numero dei denunciati ed arrestati per associazione semplice è maggiore che per l'associazione di stampo mafioso, ma anche che in quest'ultima tipologia rientrano, con viva sorpresa dell'osservatore, anche etnie finora non considerate a causa della scarsa incidenza nelle altre figure di reato. È il caso dei soggetti provenienti dall'Egitto, dall'Uruguay, dalla Colombia, mentre si ha una tacita conferma di altri gruppi già emersi nell'analisi precedente.

È stato rilevato che ciascuno dei soggetti criminali in questione ha avuto collegamenti con altre organizzazioni criminali, italiane e straniere, in proporzioni percentuali descritte nella figura che segue.

Da questa si evince come Cosa Nostra si sia dimostrata, più di Camorra e 'ndrangheta, orientata ad utilizzare, con maggiore frequenza, contatti "operativi" con i criminali extracomunitari provenienti dai Paesi in via di sviluppo.

Figura 9
Rapporti proporzionali dei collegamenti tra i denunciati e gli arrestati extracomunitari per associazione di stampo mafioso e le organizzazioni mafiose italiane e straniere. Periodo: 1991-I sem. 1996
Figura 9

Fonte: D.I.A. - Elaborazione: Osservatorio permanente sulla criminalità

Gli specifici collegamenti sono, poi, descritti schematicamente nella figura successiva, nella quale si evidenzia che mentre dall'Egitto, dall'Ex Jugoslavia e dalla Tunisia, sono provenuti criminali collegati con tutte le organizzazioni italiane di maggiore spessore, da altri Paesi in via di sviluppo sono provenuti criminali collegati soltanto con taluna di esse:

Figura 10
Principali collegamenti tra criminali provenienti dai P.V.S. e associazioni di tipo mafioso italiane. Periodo: 1991-I sem. 1996
Figura 10

Fonte: D.I.A. - Elaborazione: Osservatorio permanente sulla criminalità

I reati relativi agli stupefacenti

La disciplina penale in materia di sostanze stupefacenti è contenuta nel T.U. approvato con d.p.r. 9/10/1990 nr. 309, modificato, in alcune sue fondamentali disposizioni, dall'esito del referendum abrogativo del 18/19 aprile 1993 (146).

Al di là dell'area del consumo, delimitata unicamente dalla finalità di uso personale, il sistema penale contempla due gruppi fondamentali di fattispecie criminose: da una parte, i reati consistenti nella produzione e commercio di sostanze stupefacenti; dall'altra, i reati che si concretizzano nell'agevolazione o istigazione all'uso degli stessi. Il primo gruppo, poi, è ulteriormente scindibile in due sottogruppi, a seconda che le relative fattispecie abbiano un carattere individuale (art. 73), ovvero consistano in reati associativi (art. 74).

In definitiva, il reato di criminalità organizzata finalizzata alla produzione e al traffico illecito di sostanze stupefacenti si configura quando le attività previste nell'art. 73 (147) siano eseguite da una compagine delinquenziale che abbia le caratteristiche di un'associazione a delinquere (148).

L'osservazione è importante ai fini della nostra indagine, in quanto, nel valutare l'incidenza della componente straniera nelle fattispecie testé menzionate, è necessario comprendere i livelli in cui essa opera, se cioè nell'ambito delle attività individuali (ad esempio lo spaccio), ovvero quale membro di un'articolata organizzazione criminale.

Secondo alcuni autori, nel mercato della droga in Italia, gli stranieri avrebbero sostituito gli italiani nelle mansioni maggiormente dequalificate, perché normalmente "le posizioni più remunerative vengono occupate da criminali indigeni, mentre quelle che implicano maggior rischio e minore remunerazione vengono affidate alle minoranze immigrate" (149). La sostituzione, cioè, sarebbe avvenuta ai livelli più bassi della struttura, nelle attività di spaccio, trasferendo in tal modo il maggior rischio di essere individuati ed arrestati e non richiedendo una particolare "competenza criminale" (150).

In effetti, nel mercato della droga il sistema di distribuzione si presenta fortemente stratificato: vi sono spacciatori di strada, spacciatori a peso, distributori, grossisti, importatori. In più, il numero dei soggetti e la stessa "qualità" del reato variano a seconda del tipo di sostanza stupefacente (151), e con essi anche il rapporto tra italiani e stranieri.

Se guardiamo alla serie dei dati relativi alle persone oggetto di informativa di polizia giudiziaria, nel periodo 1991-1997, distinti secondo la tipologia di reato contestato, è possibile individuare tre differenti livelli: un livello basso, costituito dagli spacciatori di strada; uno medio, più piccolo, dei trafficanti; uno alto, dei trafficanti che agiscono in associazioni criminali più o meno stabili e organizzate.

La ripartizione delle competenze all'interno di questo vasto mercato e le variazioni nel corso del periodo in esame sono evidenziate dalla tabella di seguito, dove vengono aggregati i dati complessivi relativi agli italiani e agli stranieri (152).

Tabella 21
Numero di persone indagate per produzione, traffico e spaccio di stupefacenti. Valori assoluti e percentuali. Periodo: 1991-1997
Reati 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997
Associazione per traffico 5,0 7,1 7,3 8,7 7,9 9,0 8,6
Produzione e traffico 7,2 8,4 9,6 10,9 10,6 11,0 10,3
Spaccio 87,5 84,1 82,5 80,0 80,9 79,7 81,0
Altri 0,3 0,4 0,6 0,4 0,6 0,3 0,1
Totale v.a. 30.762 38.384 33.143 36.125 32.664 32.903 32.991

Se disaggreghiamo i dati riportati secondo la componente italiana o straniera, possiamo cogliere alcuni aspetti importanti dei mutamenti avvenuti e verificare se ed a quale livello vi sia stata sostituzione.

Tabella 22
Numero di persone italiane indagate per produzione, traffico e spaccio di stupefacenti. Valori assoluti. Periodo: 1991-1997
Reati 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997
Associazione per traffico 1.280 2.512 2.288 2.946 2.333 2.603 2.273
Produzione e traffico 1.587 2.488 2.613 3.335 2.771 2.699 2.130
Spaccio 22.813 27.644 21.596 21.567 19.704 20.223 19.293
Altri 60 146 203 149 183 80 27
Totale 25.740 32.810 27.700 27.997 25.174 25.605 23.723
Tabella 23
Numero di persone straniere indagate per produzione, traffico e spaccio di stupefacenti. Valori assoluti. Periodo: 1991-1997
Reati 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997
Associazione per traffico 168 206 143 193 268 377 560
Produzione e traffico 593 721 557 600 685 955 1.271
Spaccio 4.238 4.646 5.656 7.334 6.524 6.046 7.437
Altri 17 1 87 1 1 2 /
Totale 5.022 5.574 6.443 8.128 7.478 7.380 9.268

Dal 1991 al 1997, gli spacciatori stranieri sono aumentati, mentre sono diminuiti gli italiani; d'altra parte gli stranieri sono aumentati anche nei livelli medio-alti, dove, in verità, l'incremento è stato più forte. Nel 1997, infatti, questi ultimi hanno rappresentato il 28% degli spacciatori, ma addirittura il 37% dei trafficanti di stupefacenti. Nel reato associativo, invece, hanno rappresentato il 20% circa degli indagati. L'espansione degli stranieri nelle posizioni più qualificate del mercato della droga dipende da diversi fattori. In primo luogo, essa può essere l'effetto indesiderato dall'attività delle forze di polizia, che con i suoi successi può determinare dei "vuoti" in alcuni livelli: si pensi alla "crescente presenza di cittadini di origine maghrebina dedita allo spaccio di stupefacenti, anche a livello medio-alto, agevolati dalla situazione determinatasi a seguito del radicale ridimensionamento dei canali di approvvigionamento e smistamento propri della malavita del Brenta, che per anni aveva avuto il monopolio del settore criminoso" (153). In secondo luogo, l'espansione è riconducibile alle trasformazioni che negli anni '90 si sono avute nelle domanda e nell'offerta degli stupefacenti. Negli ultimi dieci anni, infatti, in Italia è cresciuta la domanda delle cosiddette "droghe sintetiche" e degli anfetaminici (ecstasy, adam, MDM, etc.); quest'evoluzione è chiaramente evidenziata dai dati relativi agli spacciatori ed ai trafficanti indagati dal 1991 al 1997: in questo periodo, infatti, vi è stata una crescita di coloro che trattano cocaina e anfetaminici ed un contestuale declino di chi offre eroina. Contemporaneamente, una limitata diminuzione degli spacciatori e dei trafficanti di hashish ed un fortissimo aumento di quelli di marijuana (154).

Per quanto ne sappiamo, quest'evoluzione è stata determinata dall'introduzione nel mercato di grandi quantità di quest'ultima sostanza (di ottima qualità ed a prezzi molto vantaggiosi) da parte della criminalità albanese.

In virtù di tali mutamenti si è assistito ad una distribuzione dei reati legati alla droga fortemente variegata tra autoctoni ed immigrati. Infatti, nell'arco del periodo in esame, il numero degli spacciatori italiani è diminuito per l'eroina e l'hashish, ma è aumentato per la cocaina e la marijuana; nel medesimo arco temporale, gli stranieri sono, invece, cresciuti in tutti i settori e a tutti i livelli, anche se con intensità diversa. L'effetto è stato una sostituzione agli italiani degli spacciatori stranieri nei settori dell'eroina e dell'hashish e l'occupazione da parte degli autoctoni dei settori più dequalificanti del mercato della cocaina e della marijuana.

Pertanto, in riferimento ai diversi livelli di stratificazione del mercato sembrerebbe più corretto parlare di monopolio criminale.

I dati riportati nella tabella che segue, confermano una tale osservazione.

Tabella 24
Numero di italiani indagati per produzione, traffico e spaccio di stupefacenti per tipo di sostanza stupefacente. Valori assoluti. Periodo 1991-1997
Reati per tipo di sostanza stupefacente 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997
Eroina Traffico 1.399 2.282 2.105 3.648 2.571 2.795 1.750
Spaccio 12.334 13.330 9.469 9.790 7.803 7.131 5.581
Cocaina Traffico 811 1.376 1.715 1.645 1.499 1.350 1.324
Spaccio 1.832 2.478 2.471 2.280 2.102 2.129 2.470
Hashish Traffico 453 598 627 695 709 729 597
Spaccio 7.347 9.174 6.798 7.105 7.244 6.861 5.500
Marijuana Traffico 24 67 72 138 113 228 563
Spaccio 450 957 1.105 1.238 1.338 2.440 4.462
Anfetaminici Traffico 8 18 158 97 126 139 115
Spaccio 97 251 374 627 793 954 625
Tabella 25
Numero di stranieri indagati per produzione, traffico e spaccio di stupefacenti per tipo di sostanza stupefacente. Valori assoluti. Periodo: 1991-1997
Reati per tipo di sostanza stupefacente 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997
Eroina Traffico 354 390 306 310 417 533 542
Spaccio 2.464 2.762 3.759 4.681 4.358 4.019 4.476
Cocaina Traffico 286 394 246 276 280 432 463
Spaccio 129 132 134 193 361 427 610
Hashish Traffico 80 76 105 165 149 141 120
Spaccio 1.533 1.580 1.590 2.242 1.680 1.234 1.642
Marijuana Traffico 12 8 5 14 12 209 683
Spaccio 40 88 107 142 126 244 616
Anfetaminici Traffico / / 4 2 4 11 9
Spaccio 5 4 16 21 18 22 27

Anche in riferimento a queste fattispecie si pone la necessità di individuare le etnie maggiormente coinvolte. Un'osservazione preliminare è, però, d'obbligo.

Le rilevazioni ISTAT, di cui ci serviremo, non consentono di differenziare le diverse ipotesi che danno luogo ai reati in questione, raggruppando, esse, il numero dei denunciati e dei condannati in una fattispecie comprensiva.

Limitando la nostra analisi al periodo 1994-1997, è possibile notare che, sul numero complessivo di denunce (27.616), le etnie maggiormente coinvolte nei reati di droga sono quelle provenienti, nell'ordine, da: Marocco (10.782), Tunisia (6.099), Algeria (2.750), Albania (991), ex Jugoslavia (540), Senegal (516), Nigeria (485), Egitto (365), Israele (327).

Figura 11
Distribuzione denunce per reati legati agli stupefacenti secondo il Paese di provenienza. Periodo: 1994-1997
Figura 11

Elaborazioni su dati ISTAT

La forte concentrazione è testimoniata dal fatto che i primi tre Paesi coprono il 71,41% del totale delle denunce a carico degli stranieri per il reato considerato. In realtà, però, l'evoluzione interna al periodo rivela che nel tempo solo alcune etnie sono cresciute (significativamente) rispetto alle altre, cogliendo le tendenze del mercato di questi ultimi anni.

L'area africana, pur essendo la maggiore responsabile del contributo straniero, con un numero di denunciati cresciuto da 5.271 a 6.200 unità, ha visto calare il suo peso percentuale che, nel periodo 1994-1997 è passato dall'86,73% al 78,83%, e ciò a causa della progressiva crescita delle etnie est-europee. All'interno, mentre la componente tunisina è rimasta su livelli elevati ma costanti, il Marocco è divenuto il gruppo più grosso per numero di denunce tra i Paesi stranieri (ben 3.025 nel 1997, ossia il 38,46%). La crescita dell'area africana è da imputarsi, però, anche alla componente algerina che è passata da 81 denunce del 1991 a ben 836 del 1997 (da 2,49% a 10,62% sul totale). Oltre al peso determinante del Marocco, della Tunisia e dell'Algeria, si segnalano anche la Nigeria, che si è mantenuta sempre sui livelli precedenti, il Senegal, l'Egitto e il Ghana.

L'area dell'America meridionale ha visto crescere la sua incidenza sul totale dei denunciati, passando dall'1,82% al 3,89%. Al suo interno, i valori più significativi sono stati quelli del Cile e della Colombia.

L'area che invece si pone come la nuova protagonista di questi ultimi anni è quella degli "altri Paesi europei" che registra un forte incremento delle denunce (da 204 a 839), aumentando la sua incidenza dal 3,35% al 10,66% del totale. La responsabilità di questo peso è da imputarsi alla ex Jugoslavia e, in particolar modo, all'Albania. La ex Jugoslavia, già presente nel 1991 con 86 denunciati costituiva il Paese maggiormente rappresentativo dell'area di appartenenza. Anche se in modo discontinuo, il suo peso è progressivamente cresciuto (142 nel 1997) ma non in maniera simile all'Albania. Questo Paese che nel 1991 non registrava alcuna denuncia, ha incrementato enormemente la sua incidenza (dallo 0,7% del 1994 al 7,50% del 1997), passando dalle 43 denunce del 1994 a ben 590 del 1997 e ponendosi così a ridosso del blocco dei Paesi africani.

Il quadro che emerge dalle denunce è sostanzialmente confermato dal dato relativo alle condanne.

I reati relativi alla prostituzione

Dove l'ipotesi della sostituzione ha colto perfettamente i mutamenti di questi ultimi anni è nel mercato della prostituzione, attività non propriamente illegale e, pur tuttavia, considerata deviante.

Con l'avvento della Legge Merlin (20/2/1958, nr. 75) è stata abrogata la disciplina penalistica in tema di prostituzione contemplata dagli artt. 531-536 del codice penale (155), che puniva le condotte di prostituzione non regolamentata idonee a mettere in pericolo la salute pubblica e privata, nonché l'ordine e la sicurezza pubblica. In base alla nuova disciplina, la prostituzione può essere esercitata liberamente, ma vengono punite quelle attività volte a favorirne o a sfruttarne l'esercizio.

Da un punto di vista socio-giuridico, il favoreggiamento e lo sfruttamento consistono in un complesso di differenziate condotte (156), tutte aventi a presupposto forme di violenza fisica o morale, finalizzate a trarre un utile dalle particolari condizioni ambientali in cui si sviluppa l'attività di meretricio e dalle difficoltà del suo esercizio. Situazioni, queste, derivanti dalle inevitabili connessioni con il mondo della criminalità organizzata e dalla situazione di debolezza psichica di chi si prostituisce.

Anche se la prostituzione non costituisce reato, il settore delle prestazioni sessuali deve, comunque, essere considerato un vero e proprio mercato illegale, caratterizzato da un sistema di reclutamento, trasporto e offerta diversificato secondo le zone di esercizio e le persone coinvolte. In questo mercato le organizzazioni criminali straniere occupano un ruolo assolutamente rilevante, tanto che oggi è possibile considerarlo un problema specifico.

Se diamo uno sguardo al numero di denunciati stranieri per le diverse ipotesi contemplate nella citata legge, nel periodo 1991-1997, è possibile notare un trend crescente (da 29 denunce a 562), che in valori percentuali significa il passaggio da un'incidenza dell'8,57% ad un peso del 46,21% sul totale delle denunce per le medesime fattispecie. Nello stesso periodo, la quota degli italiani denunciati per istigazione, favoreggiamento ed istigazione della prostituzione, dopo una costante crescita nei primi tre anni dell'ultimo decennio, si è mantenuta sostanzialmente stabile, ma con una progressiva riduzione della propria incidenza, decresciuta dal 91,42% al 53,79%.

Se consideriamo l'andamento del numero di denunciati disaggregato per etnia, riferito al periodo 1994-1997, è possibile stilare un elenco delle nazionalità maggiormente coinvolte in queste attività delittuose.

Su un numero complessivo di 1.846 denunce a carico degli stranieri, i maggiori contributi sono stati forniti dai soggetti provenienti da: Albania (794), ex Jugoslavia (422), Nigeria (98), Ghana (92), Tunisia (52), Brasile (37), Romania (34), ex URSS (28), Marocco (27), Colombia (19), Uruguay (17), ex Cecoslovacchia (14) e Polonia (10).

Figura 12
Distribuzione denunce per reati legati alla prostituzione secondo il Paese di provenienza. Periodo: 1994-1997
Figura 12

Elaborazioni su dati ISTAT

L'Albania e l'ex Jugoslavia da sole rappresentano il 65,87% del totale denunce a stranieri nel periodo considerato. Il grado di incidenza dei diversi Paesi, però, è mutato nel tempo.

Ragionando per macro-aree di provenienza, l'area africana ha registrato un trend evolutivo crescente nei valori assoluti (da 57 a 129 denunce) ma un andamento costante quanto ad incidenza, attestandosi intorno al 23% del totale. Al suo interno, la Nigeria ha registrato una rapida crescita, passando da appena 3 denunce nel 1991 a 28 nel 1997 ed un'incidenza costante del 5% circa sul totale. L'aumento del contributo dell'area africana è da imputarsi anche al Ghana, cresciuto di 58 unità e un'incidenza sul totale che passata dall'1,6% all'11,92%. Significativi anche i valori relativi alla Tunisia ed al Marocco.

Per l'America meridionale il numero delle denunce è pressoché costante: tra le nazionalità maggiormente coinvolte si evidenziano quelle provenienti dal Brasile, dalla Colombia e dal Perù.

Discorso diverso per l'area degli "altri Paesi europei" che registrano una notevole incidenza sul totale: passando da 154 a 389 denunce, il loro peso percentuale è cresciuto dal 59,68% al 68,14%. Al suo interno, l'Albania ha rappresentato il 68,66% delle denunce, mentre la ex Jugoslavia si è attestata su un valore percentuale di 26,54 punti. In evidenza anche la Romania e la Russia.

Per quanto riguarda il genere, è da dire che la nazionalità con un maggior numero di donne denunciate è la ghanese (53 su 67 denunce nel 1997), seguita dalla nigeriana (81) e dall'est-europea (60), in prevalenza albanesi ed ex jugoslave. Per l'America meridionale (11) le donne sono in prevalenza brasiliane (ma bisogna tener conto anche del numero di viados brasiliani).

Anche in questo caso, vi è una sostanziale conferma sul piano delle condanne.

La falsità

Un portato necessario della condizione di irregolarità o clandestinità, nella quale sono vissuti e vivono numerosi immigrati, sono i processi di falsificazione, documentale e personale. L'incidenza del reato di falsità sul totale dell'agire illegale dipende, in buona sostanza, dalla necessità di porre in essere tutte quelle attività strumentali all'ingresso ed alla permanenza illegale sul territorio.

Peraltro, la falsificazione costituisce non solo un indicatore della presenza di un certo tipo di immigrazione, ma anche un elemento di collegamento tra gli immigranti e le organizzazioni criminali, essendo essa uno dei servizi offerti da quest'ultime. Anche per i processi di falsificazione, infatti, può parlarsi di mercato illegale, caratterizzato, però, da una duplice valenza criminale: l'illiceità penale riguarda non solo la produzione di documenti falsi, ma anche la stessa fruizione del servizio da parte degli immigrati. È chiaro, poi, che a queste condotte vanno associate tutte quelle che si sostanziano nella sostituzione di persona e nelle false dichiarazioni sull'identità personale.

In connessione con l'intensificarsi dell'immigrazione clandestina, in questi ultimi anni si è registrato in Italia un incremento degli immigrati coinvolti nelle diverse attività di falsificazione. Nel periodo 1994-1997, le denunce a carico degli stranieri sono aumentate, passando da un valore assoluto di 2.736 denunciati ad un valore di 4.849 (per un totale di 15.061 denunciati). Nonostante l'incremento del 77,22%, in questo settore non sarebbe corretto parlare di sostituzione degli stranieri agli italiani. Anche per questi ultimi, infatti, il numero dei denunciati è cresciuto, passando da 15.023 a 24.777 unità, pari ad un incremento del 64,22%. Del resto anche l'incidenza di ciascuna delle due componenti è rimasta pressoché costante ad un valore percentuale medio del 16% per gli stranieri e dell'84% per gli italiani.

Sarebbe interessante verificare quale sia l'apporto degli uni e degli altri rispetto alle singole figure cui dà luogo la falsità. Me il dato statistico non lo consente. È possibile, però, dedurne in via di ipotesi l'incidenza degli stranieri confrontando il numero dei denunciati per ciascuna etnia e le etnie più interessate dai fenomeni migratori clandestini.

Per comprendere le evoluzioni che si sono avute in questa tipologia di reato, è necessario considerare preliminarmente che accanto alle nazionalità "tradizionalmente" presenti nelle statistiche giudiziarie, negli ultimi anni se ne sono aggiunte di nuove, segno di una preoccupante estensione del fenomeno.

Figura 13
Distribuzione denunce per i reati di falsità secondo il Paese di provenienza. Periodo: 1994-1997
Figura 13

Elaborazioni su dati ISTAT

L'area africana rappresenta la zona geografica di provenienza delle etnie che registrano un più alto numero di denunce per falsità, cresciute, nel periodo, da 1.520 a 2.255. Tuttavia, a causa del progressivo inserimento delle etnie provenienti dai Paesi est-europei, l'incidenza si è notevolmente ridotta, decrescendo dal 55,55% al 46,50%.

I contributi maggiori sono stati dati dal numero dei denunciati provenienti da: Marocco (2.983), Senegal (1.331), Tunisia (948), Nigeria (588), Algeria (587), Ghana (355), Somalia (206), Egitto (147) ed Etiopia (70). Tuttavia, mentre il Marocco, il Senegal, la Tunisia e la Somalia hanno registrato un contenuto incremento, la Nigeria, l'Algeria e il Ghana hanno raddoppiato se non triplicato il numero dei propri denunciati. In particolare, la Nigeria è passata da 85 a 234 denunce, l'Algeria da 82 a 200 ed il Ghana da 29 a 61 (con un picco di 224 denunce nel 1996).

L'area dei Paesi est-europei rappresenta la zona di provenienza dei soggetti che hanno registrato una notevole crescita nel periodo considerato: le denunce, passate da 851 a 1.902, hanno avuto un'incidenza sul totale stranieri cresciuta dal 31,10% al 39,22%.

All'interno si distinguono: ex Jugoslavia (2.503), Albania (2.407), Romania (302), Polonia (149), Bulgaria (65), ed ex URSS (51). Nonostante il forte incremento registrato dalle provenienze ex jugoslave, passate da 405 a 764 denunce, è stata la componente albanese a crescere più rapidamente in valori assoluti (da 345 a 858), fino a superare, già dal 1996, gli ex jugoslavi nell'area geografica di appartenenza. La stesso notevole incremento ha interessato anche la Romania (da 32 a 148 denunce) e in misura più ridotta la Polonia (da 22 a 66), la Bulgaria (da 9 a 30) e l'ex URSS (da 7 a 11, con un picco di 21 nel 1996).

Interessante è anche il contributo dell'area asiatica grazie soprattutto alla Cina con una presenza di denunciati di 292 unità, alle Filippine (135), all'India (50) e al Pakistan (45). Per l'area dell'America meridionale, il Perù (115) ed il Cile (55) hanno decuplicato la loro presenza (da 5 a 64 denunciati per il primo e da 2 a 20 per il secondo). Valori interessanti anche per la Colombia (57) e per il Brasile (50).

In definitiva, volendo riassumere nell'ordine le "provenienze a rischio" per la specifica attività delittuosa, dovranno indicarsi gli immigrati provenienti da: Marocco (2.983), ex Jugoslavia (2.503), Albania (2.407), Senegal (1.331), Tunisia (948), Nigeria (588), Algeria (587), Ghana (355). Questi Paesi, infatti, coprono l'83% delle denunce registrate nel periodo a carico degli stranieri. In particolare è da notare una certa concentrazione nei primi tre Paesi considerati che coprono la metà delle denunce (52,40%).

3.13. La criminalità minorile straniera

Il problema della criminalità dei minori stranieri, ad eccezione di quello dei piccoli nomadi, è iniziato nel nostro Paese poco più di un decennio fa. Tanto che, dalla metà degli anni '80, si è verificato un lento ma graduale aumento della presenza minorile negli istituti penitenziari demandati al loro accoglimento (157). Aumento che si è dimostrato sostanzialmente coerente con quello delle reali presenze di minori stranieri in Italia, l'85% circa dei quali, è risultato proveniente dai Paesi in via di sviluppo.

In Italia, il numero di denunce (158) a carico di minori stranieri è risultato in aumento (159), passando dalle 8.002 del 1992 alle 11.196 del 1997, con un incremento medio nel periodo pari al 7,59%. Tuttavia, non si è trattato di un incremento costante: negli ultimi due anni del periodo in considerazione, infatti, le denunce a carico dei minori stranieri hanno segnato un decremento rispetto all'anno precedente pari, rispettivamente al -9,81% e -2,25%.

Figura 14
Minorenni italiani e stranieri denunciati alle Procure per minorenni. Andamenti progressivi. Periodo: 1992-1997
Figura 14

Elaborazioni su dati: DIA - Osservatorio permanente sulla criminalità

Dal grafico risulta che, nell'arco del periodo preso in esame, il numero complessivo dei minori denunciati, italiani e stranieri, sia rimasto pressoché costante, ad eccezione di qualche anno in cui ha subito flessioni, dovute soprattutto ad un calo di denunce a carico di minori italiani. Inoltre, è evidente che la situazione complessiva sia stata determinata da andamenti di diverso segno dei fenomeni considerati. Infatti, il numero complessivo dei minorenni italiani e stranieri denunciati nel 1997 è risultato inferiore soltanto del 3,22% rispetto al numero degli stessi minorenni denunciati nel 1992. Questo decremento appena percepibile è stato determinato, però, dalla somma di due fattori di segno opposto: 1) i minori italiani denunciati sono diminuiti in ragione del -12,6%; 2) i minori stranieri denunciati sono aumentati del 39,91%.

Per cogliere indicazioni sulla tendenza a delinquere dei minori stranieri in determinati settori dell'illecito, è necessario dare uno sguardo ai dati relativi ai reati da essi più frequentemente consumati, nel periodo 1992-1997, raggruppati per principali classi di reato.

Figura 15
Minori stranieri denunciati per classi di reato. Periodo 1992-1997
Figura 15

Elaborazioni su dati: DIA - Osservatorio permanente sulla criminalità - ISTAT

Dal grafico si può desumere che il numero complessivo di denunce a minori stranieri riguardi in misura notevole i reati contro il patrimonio, seguiti da quelli contro l'economia e la fede pubblica (che contiene le fattispecie specifiche del reato di produzione e spaccio di stupefacenti e di falsità), contro la persona e quelli contro lo Stato e l'ordine pubblico.

Lo stato di detenzione

Significative indicazioni sulla consistenza e sull'evoluzione del fenomeno della criminalità minorile straniera in Italia sono ricavabili anche dalla comparazione dei dati relativi agli ingressi dei minori italiani e stranieri nei Centri di Prima Accoglienza (C.P.A.) e negli Istituti Penali Minorili (I.P.M.).

Figura 16
Ingressi nei C.P.A. di minori italiani e stranieri. Andamenti progressivi. Periodo: 1991-1998
Figura 16

Elaborazioni su dati: DIA - Osservatorio permanente sulla criminalità

Dal grafico risulta evidente che, dopo la diminuzione degli ingressi complessivi dal 1992 al 1993, la sostanziale stabilità del loro andamento negli anni seguenti (tranne che per il sensibile decremento nel 1996) sia stata, in effetti, determinata dalle diverse tendenze dei due fenomeni. I minori stranieri sono aumentati e quelli italiani sono diminuiti, tanto che dal 1995 (tranne che nel 1996) gli ingressi dei primi sono sempre maggiori rispetto a quelli dei secondi. Si noti, poi, che nel 1998, la percentuale dei minori stranieri entrati nei C.P.A. sul totale degli ingressi è aumentata fino al 54,6%. L'incremento della devianza minorile straniera e la contestuale diminuzione di quella italiana hanno confermato le loro relative tendenze. Questa diversificazione esiste e va sempre più accentuandosi. Tuttavia, una parte di essa può essere addebitabile al fatto che la Legge 272/89, istitutiva dei C.P.A., lasciando alla facoltà del Pubblico Ministero di collocare il minorenne arrestato sia in tali strutture che presso la propria abitazione familiare, consente, in pratica, a buona parte dei minori italiani di evitare l'ingresso nei C.P.A. Per contro, ciò non è possibile per i minori stranieri, specie se clandestini, di fatto privi di una dimora familiare.

Figura 17
Ingressi negli I.P.M. di minori italiani e stranieri. Andamenti progressivi. Periodo: 1991-1998
Figura 17

Elaborazioni su dati: DIA - Osservatorio permanente sulla criminalità

Il grafico descrive l'andamento degli ingressi negli I.P.M. dei minori, stranieri ed italiani, nel periodo 1991-1998. Da esso si desume che nell'arco temporale in esame è stato registrato un aumento significativo degli ingressi dei minori stranieri; anche se non rilevante in termini assoluti, è certamente notevole per la controtendenza dimostrata rispetto allo stesso fenomeno riguardante i minori italiani, i cui ingressi sono in sensibile diminuzione dal 1992 (tranne che per 1996). Il dato, specificato secondo la posizione giuridica, dimostra che gli ingressi per esecuzione di pena sono di gran lunga inferiori rispetto agli ingressi per custodia cautelare. Nel 1998, ad esempio, su 1.004 ingressi, solo 128 minori stranieri sono entrati per eseguire la pena, contro gli 876 oggetto di misura cautelare. Di contro, il numero dei minorenni stranieri entrati perché colpiti da provvedimenti di custodia in carcere, oltre che nei valori percentuali, è significativamente alto anche nei valori assoluti, considerato che si tratta di provvedimenti emessi in via eccezionale, tanto più perché relativi a minori

Figura 18
Ingressi negli I.P.M. di minori italiani e stranieri per custodia cautelare. Andamenti progressivi. Periodo 1991-1998
Figura 18

Elaborazioni su dati: Ministero della Giustizia

Figura 19
Ingressi negli I.P.M. di minori italiani e stranieri per esecuzione di pena. Andamenti progressivi. Periodo 1991-1998
Figura 19

Elaborazioni su dati: Ministero della Giustizia

Le costanti etniche nelle singole tipologie di reato

Quale fattore predisponente, l'età (160) costituisce un amplificatore delle motivazioni sociali, psicologiche, individuali della devianza. Così che, la tensione psichica provocata dalla mancata soddisfazione di determinati bisogni, il complesso di inferiorità, la squalificazione sociale, trovano nella giovane età un più agevole canale di sbocco in comportamenti variamente devianti.

Tanto più per i giovani immigrati, che vivono spesso situazioni di marginalità, di precarietà e di frustrazione dovute ad una reciproca tensione tra la propria cultura e quella del Paese di accoglienza.

Nell'attuale situazione storica, al di là delle varie motivazioni socio-psicologiche di determinazione al crimine, il progressivo inserimento dei minori immigrati nell'area della devianza criminale è da rapportare anche ad un'evidente strumentalizzazione degli stessi da parte degli adulti, in considerazione della loro ridotta o carente imputabilità. Questo spiega perché, accanto alle condotte criminali di tipo appropriativo, si registrano sempre più frequentemente coinvolgimenti di minori in taluni reati di particolare gravità.

Tuttavia, la distribuzione del tipo di reato varia a seconda della nazionalità di appartenenza (161). Per verificare il grado di partecipazione delle diverse etnie maggiormente coinvolte in situazioni di reità, faremo riferimento ai dati ISTAT relativi ai minori stranieri denunciati nel biennio 1996-1997.

In generale, in prima approssimazione si può dire che, a parte il delitto di falsità, tra i reati strumentali commessi dai minori stranieri spiccano soprattutto il furto, la rapina ed i reati di droga.

Il furto rappresenta il reato per il quale è stato registrato un più alto numero di denunce a carico dei minori immigrati: nell'arco del periodo di riferimento, sul totale dei minori denunciati per tutti i reati (22.650) ben 16.497, ossia il 82,24%, hanno riguardato il solo furto.

Figura 20
Minori stranieri denunciati per furto secondo l'etnia. Periodo 1996-1997
Figura 20

Elaborazione su dati ISTAT

Il grafico mostra una forte concentrazione di denunce per furto a carico di minori ex jugoslavi per ciascun anno di riferimento. Questo Paese registra, sul totale complessivo di denunciati nel periodo 1996-1997 (16.497), ben 13.557 unità, ossia l'82,17% (162). A notevole distanza, vi sono i minori albanesi, con il 6% di incidenza ed un valore assoluto di 967 denunciati complessivi. Seguono i 700 denunciati marocchini ed i 455 minori rumeni.

Se generalmente il furto è un reato che difficilmente può essere inquadrato nell'area della criminalità organizzata, la misura del coinvolgimento dei minori ex jugoslavi e il peso assunto in genere da questa etnia nei reati contro il patrimonio lascia pensare ad una attività sistematica e sufficientemente organizzata, quanto meno sotto il profilo della gestione dei minori. È difficile pensare che i genitori non sappiano e, soprattutto, non sfruttino i proventi di questi delitti. La vicende giudiziarie legate al traffico dei bambini "argati" hanno dimostrato, infatti, che vi è una vera e propria "educazione criminale" dei minori al compimento delle varie forme di furto. La presenza dei minori stranieri si ritrova anche per il più preoccupante reato di rapina. Si può immaginare che il progressivo inserimento dei minori in questa attività delittuosa sia da imputare anche al fatto che spesso è lo stesso furto che sfocia in rapina, a causa dell'uso della violenza o della minaccia per assicurarsi il provento illecito o l'impunità stessa.

Figura 21
Minori stranieri denunciati per rapina secondo l'etnia. Periodo 1996-1997
Figura 21

Elaborazione su dati ISTAT

Anche per questo reato si assiste ad una forte concentrazione delle denunce a carico dei minori ex jugoslavi che, nel periodo, hanno registrato un valore complessivo pari a 369 unità, coprendo ben il 63,18% del totale. Ancora una volta la presenza femminile è prevalente, con 234 denunce.

Il secondo Paese da cui provengono i minori maggiormente denunciati per il reato in esame è il Marocco che, con 100 denunce complessive, copre il 17% del totale; seguono, in misura inferiore, l'Albania (47) e la Romania (17).

La predominanza della componente ex jugoslava riscontrata per i delitti contro il patrimonio scompare, invece, per la produzione e lo spaccio di stupefacenti. Da un punto di vista quantitativo, i reati di droga si pongono tra gli illeciti penali più frequentemente commessi dai delinquenti minori stranieri, registrando un numero complessivo di denunciati pari a 926 unità.

Figura 22
Minori stranieri denunciati per produzione e spaccio di stupefacenti secondo l'etnia. Periodo 1996-1997
Figura 22

Elaborazione su dati ISTAT

Lo spaccio di sostanze stupefacenti ad opera di minori, in Italia è appannaggio dei marocchini, come testimoniato dalle 605 denunce e da un'incidenza sul totale stranieri del 65,33%. Si attestano al secondo posto gli albanesi, con 80 denunce ed un peso percentuale dell'8,63%; seguono gli ex jugoslavi, che toccano il 5,07% con 47 denunciati; gli algerini con 37 denunce e i tunisini con 24.

Un ruolo di tutto rilievo i minori lo rivestono anche nei reati di falsificazione. Anzi, in quest'attività essi si attestano al secondo posto quanto a numero di denunciati, con un valore complessivo di 968 unità.

Figura 23
Minori stranieri denunciati per falsità secondo l'etnia. Periodo 1996-1997
Figura 23

Elaborazione su dati ISTAT

Le nazionalità maggiormente rappresentative sono, nell'ordine: ex Jugoslavia, con 360 denunciati; Marocco, con 226; Albania, con 217, Algeria, con 27; Cina, con 22, Romania, con 21. I Primi tre Paesi coprono ben l'82,85% delle denunce a minori stranieri.

Maggiore concentrazione si ha nei reati di violenza, resistenza ed oltraggio dove su 310 denunce riportate dai minori stranieri il Marocco (158) copre da solo la metà (50,96%). Per trovare la seconda nazionalità occorre scendere al 14% degli ex jugoslavi con 44 minori denunciati e, di seguito, gli albanesi con 41.

Figura 24
Minori stranieri denunciati per violenza, resistenza ed oltraggio secondo l'etnia. Periodo 1996-1997
Figura 24

Elaborazione su dati ISTAT

Per il reato di associazione a delinquere (163), il numero di stranieri minori denunciati è esiguo (8 denunce complessive) e si riduce prevalentemente all'area europea con ex Jugoslavia (3), Albania (2) e Romania (2). Esigua è anche la presenza dei minori nei reati espressivi quali lesioni personali, omicidio e violenza sessuale (con un totale denunce rispettivamente di 253; 29; 43). Analoghe le costanti etniche.

Note

1. Nata come scienza autonoma a metà del XIX secolo, la criminologia si propone lo studio della criminalità attraverso un metodo naturalistico-sociologico, servendosi, cioè, dei metodi delle scienze naturali e sociali: indagini individuali, inchieste su gruppi-campione, statistiche di massa, pur con tutti i limiti che derivano dalla "cifra oscura della criminalità". Per una più approfondita disamina delle teorie criminologiche qui citate, si veda: F. Mantovani, Diritto Penale, Cedam, Padova, 1992; H. Mannheim, Comparative Criminology, Routledge and Kegan Paul, London, 1965; trad. it. Trattato di criminologia comparata, vol. II, Einaudi, Torino, 1975; F. Ferracuti (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, Milano, 1987; T. Bandini, U. Gatti, M. Marugo, A. Verde, Criminologia, Giuffrè, Milano, 1991; G. Kaiser, Criminologie. Eine Einführung in die Grundlagen, Heidelberg, 1979; trad. it. Criminologia, Giuffrè, Milano, 1985.

2. Tra le teorie fisico-biologiche, si possono ricordare: la teoria del delinquente nato ed incorreggibile (Lombroso, 1876); la teoria del tipo costituzionale d'autore (Sheldon, 1950); la teoria del perverso costituzionale (Dupré, 1912; Michaux, 1953); la teoria della costituzione delinquenziale (Di Tullio, 1929); la teoria delle anomalie cromosomiche. Tra le teorie psicologiche, ricordiamo le teorie psichiatriche, che individuavano le cause della criminalità nei disturbi mentali, fino a pervenire alle soluzioni estreme di una pratica corrispondenza tra criminalità e anormalità psichica; le teorie psicoanalitiche (Freud; Jung), che individuavano nei disturbi della personalità nei primi anni di vita, nelle situazioni conflittuali, nelle anomalie dei rapporti parentali, le cause determinati dell'agire criminoso. Da queste ultime, poi, sono derivate le teorie psicosociali (Adler), secondo le quali l'individuo è mosso principalmente da istanze sociali e, solo secondariamente, da istanze individuali. Si ascrivono a questo indirizzo le teorie dell'identità negativa (Erikson), la teoria della frustrazione-aggressione (Dollard); il behaviorismo o psicologia comportamentale (Watson); la teoria della personalità criminale (Pinatel).

3. L'indirizzo sociologico è andato sviluppandosi in sociologia fenomenologica e sociologia causale. Nella prima rientrano i diversi studi sui rapporti tra criminalità e sesso, genere, cultura, condizioni economiche, sistemi politici, controllo sociale (Quetelet, Guerry, Taft, Bonger, Sellin). Nella seconda si possono ricordare le teorie classiste (marxiste e non marxiste), tra cui la dottrina inglese della devianza (Taylor, Walton, Young, 1973), che rappresenta un'estremizzazione del labelling approach (Becker, 1963; Erikson, 1966; Lemert, 1962; Schur, 1971) e la teoria della sottocultura delinquenziale (Cohen, 1955; Cloward-Ohlin, 1960); e le teorie culturalistiche del conflitto culturale (Sellin, 1938); dell'anomia (Durkheim, 1897; Merton, 1938); della disorganizzazione sociale (Sutheterland, 1947); delle aree criminali (Shaw-McKay, 1932-42); delle associazioni differenziali (Sutherland, 1947); dell'identificazione differenziale (Glaser, 1956).

4. Il primo verso gli Stati Uniti; il secondo tra gli Stati europei.

5. F. Ferracuti, L'emigrazione europea e la criminalità, "Rassegna di Studi Penitenziari", 1970.

6. In cui i flussi migratori erano caratterizzati da un forte liberismo migratorio e gli stessi Paesi di destinazione incoraggiavano l'immigrazione per far fronte alla forte carenza di manodopera locale.

7. Lo stesso autore, tuttavia, non mancava di riconoscere la necessità di approfondire le conoscenze acquisite, in quanto basate su statistiche di dubbia attendibilità e difficilmente comparabili tra i vari Stati europei.

8. Cioè la perdita di valore delle norme quale conseguenza della frustrazione che esse generano nel proporre valori e mezzi inadeguati per perseguirli, per cui i gruppi "frustrati" potrebbero rifiutare i mezzi legittimi per ricercare il successo con altri mezzi.

9. G. Marbach, Le statistiche relative alla criminalità tra i lavoratori migranti: una proposta di armonizzazione, in Genus, vol. XXXVI, nr. 3-4, 1970.

10. T. Sellin, Culture Conflict and Crime, Social Science Research Council, New York, 1938.

11. Scriveva T. Sellin, op. cit., p. 68: "Qualche anno fa, nel New Jersey, un padre siciliano uccise un seduttore sedicenne di sua figlia. Ma fu molto sorpreso di essere arrestato, perché aveva difeso l'onore della famiglia, secondo il modo tradizionale".

12. G. Liben, Un reflet de la criminalité italienne dans la région de Liège, "Revue de Droit Pénale et de Criminologie", 1963, pp. 212-213.

13. E. D. Baynon, Crime and Custom of Hungarians of Detroit, "Journal of Criminal Law and Criminology", maggio-giugno 1934, pp. 755-774.

14. In un bando del fattore di una di queste tenute, nel 1925, si poteva leggere: "rubare nel bosco la legna da ardere è consentito solo al sabato", Ivi, p. 763.

15. J. Dick Zatta, L. Piasere, Stealing from the Gago. Some Notes on Roma Ideology, in P. H. Stahl (a cura di), Recuel V, Paris, 1990, pp. 163-172; L. Piasere, L'organizzazione produttiva di un gruppo di Xoraxané Roma, in Comunità girovaghe, comunità zingare, Liguori, Napoli, 1995, pp. 345-346; G. Sanga, "Currendi libido". Il viaggio nella cultura dei marginali, in Comunità girovaghe, comunità zingare, cit., pp. 367-385.

16. Cioè ai non zingari.

17. Così, quasi letteralmente, F. Remotti, La struttura sociale, in E. Marcolungo. M. Karpati (a cura di), Chi sono gli zingari?, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1985, pp. 39-53.

18. Le citazioni sono tratte da J. Dick Zatta, L. Piasere, op. cit., pp. 166-168.

19. Per una disamina delle critiche alla teoria dei conflitti culturali, si veda in particolare: M. Killias, Précis de criminologie, Editions Staempli, Berna, 1991; G. Kaiser, Kriminologie:ein Lehrbuch, Heidelberg, 1996; H. J. Albrecht, Ethnic Minorities, Crime and Criminal Justice in Germany, in M. Tonry, Ethnicity, Crime and Immigration. Comparative and Cross-national Perspectives, University of Chicago Press, Chicago, 1997.

20. W. Reckless, The crime problem, Appleton-Century-Crofts, New York, 1940.

21. I. Batta, Crime, social problems and Asian Immigration, "International Journal of Contemporary Sociology", 1978, pp. 135-168; R. Mawby, Crime among Asian juveniles in Bradford, "International Journal of Sociology of Law", 1979, pp. 297-306; G. Liben, op. cit., 1963, pp. 205-246.

22. P. Pradervand, L. Cardia, Quelques aspects de la délinquance italienne à Genève, "Revue Internationale de Criminologie et de Police Technique", 1966, pp. 43-58.

23. Ibidem.

24. I. T. Thomas, F. Znaniecki, The Polish Peasant in Europe and America, Chicago, 1918-1920; trad. it. Il contadino polacco in Europa e in America, Comunità, Milano, 1968.

25. F. Thrasher, The Gang, The University of Chicago Press, Chicago, 1927.

26. Ivi, p. 489.

27. P. L. Martens, Immigrants, Crime, and the Criminal Justice in Sweden, in M. Tonry, op. cit., pp. 183-256.

28. W. A. Bonger, Criminality and economic conditions, Little Brown, Boston; trad. it. Criminalità e condizioni economiche, Unicopoli, Milano, 1916.

29. H. Parker, R. Newcombe, Heroin Use and Acquisitive Crime in an English Crime, "British Journal of Sociology", XXXVIII, 1987, pp. 331-350.

30. G. Mottura, E. Pugliese, L'immigrazione nelle diverse Italie, in G. Mottura (a cura di), L'arcipelago immigrazione, Ediesse, Roma, 1992.

31. Nel Mezzogiorno, infatti, il lavoro non regolato ha un peso maggiore; l'ambulantato è più diffuso; il lavoro nero in agricoltura è più esteso. I dati relativi all'attività ispettiva del Ministero del lavoro, riportati dal Dossier statistico della Caritas di Roma (1997), indicano, poi, che fra gli immigrati occupati, la quota di quelli senza permesso di soggiorno è più alta nel Mezzogiorno che nel Nord.

32. G. Chinnici, La criminalità tra migranti in Italia e immigrati stranieri, "Rassegna di Criminologia", 1983, pp. 277-285.

33. M. Tonry, op. cit., pp. 1-30.

34. M. I. Macioti, E. Pugliese, Gli immigrati in Italia, Laterza, Bari, 1991.

35. Scriveva nel 1988 Daniel Bell: "I figli degli immigrati, essendo esclusi dalla carriera politica e trovando poche strade di accesso alla ricchezza, si rivolsero a vie illecite", D. Bell, The end of ideology, Harvard University Press, 1988.

36. Si veda in proposito: S. Collinson, Europe and International Migration, Printer, London, 1993; trad. it. Le migrazioni internazionali e l'Europa, Il Mulino, Bologna, 1994.

37. E. Reyneri, Migrant insertion in the informal economy, deviant behaviour and the impact on receiving societes. Some hypotheses for a cross-national research, in S. Palidda (a cura di), Délit d'immigration, Communauté européenne, Bruxelles 1997, pp. 31-42.

38. P. M. Blau, J. R. Blau, The Cost of Inequality: Metropolitan Structure and Violent Crime, "American Sociological Rewiev" nr. 47, 1982, pp. 114-129; M. Farnworth, M. J. Leiber, Strain Theory Revised: Economic Goals, Educational Means and Delinquency, "American Journal of Sociology" nr. 54, 1989, pp. 27-63.

39. S. Palidda, Devianza e criminalità, Ismu, Primo rapporto sulle migrazioni 1995, Milano, 1995, pp. 250-290. In questa teoria, la criminalità viene intesa come la conseguenza della costruzione sociale da parte delle comunità locali, dei mass media e delle forze dell'ordine, che "etichettano" l'immigrato, a causa della sua diversità e della marginalità che assume nella gerarchia sociale, come potenziale delinquente.

40. Cfr. ISTAT, La criminalità attraverso le statistiche, 1994, p. 14.

41. Cfr. ISTAT, La presenza straniera in Italia, 1998, p. 104.

42. Consistente nel prezzo da pagare per il servizio di traffico offerto.

43. Andando ad incidere su un livello di sicurezza vitale ma di non immediata percettibilità.

44. Secondo quanto emerge dall'ultimo Rapporto della Direzione Investigativa Antimafia (D.I.A.), che si riferisce al primo semestre del 1999, alcune organizzazioni criminali straniere sono presenti in forma stabile ed articolata sul territorio italiano. Le attività riguardano il commercio delle armi, il riciclaggio del denaro di illecita provenienza, la gestione dei canali per l'immigrazione clandestina, lo sfruttamento della prostituzione ed il traffico di stupefacenti.

45. Gennadij Fedorovic Cebotarëv, La criminalità organizzata nei paesi dell'ex Unione Sovietica, Relazione del Primo Vice Capo della Direzione Centrale per la lotta alla criminalità organizzata, Ministero degli Interni della Federazione Russa, Mosca, tenuta presso la Scuola Allievi Agenti di Polizia di Roma il 13 aprile 1994.

46. Sotto questo profilo, è fortemente sentita in ambito comunitario la minaccia derivante dalla possibilità che le strategie aggressive della mafia russa e delle altre espressioni del crimine organizzato transnazionale trovino altri remunerativi spazi di inserimento nel mercato integrato di Maastricht.

47. Osservatorio permanente sulla criminalità, Rapporto annuale sul fenomeno della criminalità organizzata per il 1996, Ministero dell'Interno, 1996.

48. Informazioni tratte da un rapporto della D.I.A. sullo stato della criminalità albanese (1998).

49. Si vedano le relazioni annuali del Ministro dell'Interno al Parlamento relative all'ultimo quinquennio.

50. Presidenza del Consiglio dei Ministri, Relazione annuale sullo stato della criminalità organizzata in Italia, anni 1996-1997-1998.

51. Leon Pascal Seudie, Il Traffico di droga in Africa, Relazione del Segretario di Stato alla Sicurezza Interna, Commissario Divisionario della Delegazione per la Sicurezza Nazionale, Camerun, tenuta a Roma presso la Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia il 27 aprile 1994.

52. Osservatorio permanente sulla criminalità, op. cit.

53. Ivi, op. cit.

54. Si tratta di procedure che, in esecuzione di specifici accordi, obbligano gli Stati contraenti a riammetter, appunto, nel proprio territorio lo straniero respinto riconoscendolo quale proprio cittadino.

55. L'osservatorio permanente sulla criminalità ha rilevato un particolare "modus operandi" praticato dai clandestini provenienti dalla Repubblica Ceca che spesso viaggiano a bordo di autobus o di convogli ferroviari, facendo ricorso a passaporti falsi o contraffatti o, ancora, a titoli di viaggio rubati in bianco. Non è escluso, tuttavia, l'uso di passaporti autentici sui quali vengono apposti visti ottenuti fraudolentemente o falsificati.

56. Come ampiamente illustrato in un rapporto della D.I.A. sulla criminalità albanese, relativo al 1998.

57. La scelta, ai fini dell'analisi, delle consorterie albanesi si fonda su due ordini di ragioni: in primo luogo, perché maggiori sono i flussi multietnici che provengono da quest'area; in secondo luogo, perché disponiamo di informazioni dettagliate sul traffico di clandestini da parte della criminalità albanese, grazie ad un'accurata indagine info-statistica effettuata nel 1998 dalla Direzione Investigativa Antimafia per conto del Ministero dell'Interno (vd. nota precedente).

58. Emblematico il caso della Zeynep, presentatasi carica di profughi davanti a Marina di Novaglie, nei pressi del capo di Leuca, il 7 novembre 1998. Sulla nave erano presenti 160 curdi, imbarcati nel porto turco di Antalia, e giunti da Istanbul grazie ad una rete di emigrazione clandestina gestita dalla mafia turca. Ma a bordo erano presenti anche 50 africani trasbordati sulla nave nelle acque di Creta da una seconda imbarcazione che aveva raggiunto il Mediterraneo partendo dalla Sierra Leone dopo aver fatto tappa a Gibilterra ed in numerosi porti del Mediterraneo meridionale. È convinzione degli inquirenti che la nave si sia presentata davanti alle coste italiane solo a causa del mancato accordo tra i gruppi turchi e quelli albanesi; altrimenti avrebbe dovuto scaricare i suoi passeggeri nel porto albanese di Valona, dal quale curdi ed africani avrebbero proseguito il loro viaggio a bordo dei gommoni.

59. Se nel 1995 occorreva 1.000.000, oggi la tariffa si aggira tra 1.000.00 e 3.000.000 a persona. A chi non ha disponibilità economiche viene offerta una possibilità: il trasporto di considerevoli quantitativi di droga da consegnare allo sbarco.

60. Pagano meno gli albanesi e di più i cinesi, di meno le famiglie e di più i singoli.

61. Ad esempio garantiscono la ripetizione gratuita del viaggio una o due volte in caso di insuccesso al primo tentativo.

62. Ciò è attestato anche dall'elaborazione di tattiche sempre nuove per eludere la vigilanza che le forze di polizia esercitano sul Canale d'Otranto: variazione delle rotte, uso dei bambini come scudi, uso della pericolosità dei mezzi impiegati come deterrente dell'abbordaggio da parte delle unità italiane, cooperazione con osservatori in terra, segnalazione di incidenti in mare inesistenti come diversivo, etc.

63. Si vedano in proposito gli atti del processo nr. 1887/93 presso il tribunale di Lecce a carico di un sodalizio italo-albanese dedito all'introduzione di clandestini in Italia nel quale è stato individuato il coinvolgimento di tre cittadini cinesi appartenenti ad altra organizzazione criminale; l'arresto a Lecce di un esponente dell'organizzazione triadica "Dragone Verde" e l'individuazione di una struttura di coordinamento nell'aprile del 1995; la cattura a Lecce di un boss della mafia turca nell'aprile del 1995 (Ministero dell'Interno, Rapporto annuale sul fenomeno della criminalità organizzata per il 1995).

64. Nella zona di Valona e nella provincia di Lecce, le cui coste a sud del capoluogo venivano utilizzate per lo sbarco dei clandestini.

65. Procedimento penale nr. 1887/93 presso il Tribunale di Lecce; procedimento penale nr. 1942/94 presso il Tribunale di Bari; procedimenti penali nr. 10/96 e nr. 1668/96 presso il Tribunale di Lecce.

66. La falsificazione dei documenti da fornire ai clandestini è uno degli optional forniti a pagamento dalle organizzazioni. Sovente è capitato che già dall'altra sponda dell'Adriatico venissero forniti documenti falsificati grossolanamente, con ciò avvalorando le ipotesi di un tipo di organizzazione transfrontaliera sempre più articolata.

67. In alcuni casi i titolari di tali aziende hanno instaurato con l'organizzazione rapporti così frequenti e sistematici da diventarne parte integrante.

68. Talvolta i tassisti non sono al corrente delle date e delle ore precise degli sbarchi ma, data l'entità del fenomeno e conoscendo per esperienza i luoghi ed i tempi più propizi, si limitano a battere le coste salentine in attesa dell'arrivo dei "passeggeri". Sovente, invece, accade che essi siano così ben collegati con le organizzazioni criminali da apparire quali compartecipi (Rapporto D.I.A., op. cit.).

69. Si pensi alla pratica invalsa negli ultimi tempi di gettare in mare i clandestini per far scattare l'obbligo di soccorso da parte dello Stato.

70. Cosa Nostra, pur controllando una parte rilevante del traffico di droga su scala mondiale, anche tramite accordi con gli altri gruppi criminali interni ('ndrangheta) ed internazionali (cartelli colombiani, mafia turca), sembra aver perso il tradizionale controllo monopolistico sul traffico di cocaina ed eroina. In quest'ultimo settore una posizione di supremazia è stata assunta dalla 'ndrangheta, come dimostrano le risultanze investigative che da tempo segnalano forti collegamenti delle 'ndrine con Canada, Australia, Argentina, Spagna e Francia. Dal canto loro i clan camorristici, che dispongono nelle rispettive aree di influenza di un vasto serbatoio umano da utilizzare per l'attività di spaccio, hanno cercato propri canali di approvvigionamento e contatti diretti con i trafficanti sudamericani. La criminalità pugliese ha gestito il traffico di droghe con la criminalità albanese, il cui Paese costituisce un "ponte di transito" verso l'Italia. Un ruolo importante nel traffico internazionale di stupefacenti assumono anche i gruppi malavitosi nigeriani, che usano reclutare gli europei dell'Est (rumeni, ungheresi, e slovacchi) allo scopo di superare i controlli doganali, e da quelli albanesi che utilizzano spesso loro connazionali per il trasporto di stupefacenti in cambio dell'espatrio.

71. In particolare, quelli di Germania e Svizzera, largamente controllati da gruppi criminali kosovari ed albanesi. Tuttavia, dall'analisi delle operazioni di polizia contenuta nel citato rapporto D.I.A., si rilevano numerosi contatti tra gruppi criminali albanesi operanti in Italia non solo con la Germania e la Svizzera, ma anche con l'Inghilterra e la Spagna, ove sono residenti altri connazionali. Invero, alcune recenti indagini hanno rilevato che i loro tentacoli arrivano fino alla costa orientale degli USA.

72. L'utilizzo di navi mercantili, o comunque di trasporto di passeggeri, riscontrato in diverse operazioni di polizia, fanno inferire che la criminalità albanese possa controllare direttamente, oppure disporre a suo piacimento, di un certo numero di società mercantili.

73. Tale caratteristica peculiare ha comportato una conseguente frammentazione del mercato degli stupefacenti.

74. Questo è indice del fatto che, attraverso la Grecia e la Macedonia, l'Albania rappresenti il ponte più diretto tra la Turchia ed il nostro Paese.

75. Ci sono conferme della presenza in Albania di alcune raffinerie di questo stupefacente proveniente dal Sud America (D.I.A.).

76. Proveniente dalla Turchia transita attraverso la Bulgaria, la Repubblica Slovacca, la Germania, per poi diramarsi verso il Belgio, l'Olanda, la Svizzera, l'Austria.

77. Così si esprime la D.I.A. nel suo rapporto sulla criminalità albanese.

78. Cfr. Ministero dell'Interno - Dipartimento della Pubblica Sicurezza - Direzione Centrale per i Servizi Antidroga, Il traffico internazionale di stupefacenti ad opera di gruppi albanesi presenti in Italia, Roma, 9 aprile 1999.

79. Osservatorio permanente sulla criminalità, op. cit.

80. Un nuovo traffico che si associa a quello tradizionale originato dal collasso dell'ex superpotenza sovietica e alle classiche partite di armi spesso associate ai traffici di droga provenienti dal Sud America.

81. D.I.A., op. cit.

82. International Organization for Migration (IOM), End Child in Asian Tourism (ECPAT), United Nations' Children Fund (UNICEF), etc.

83. IOM, Migration Information Programme, 1994-1995-1996-1997.

84. Fatta eccezione per alcuni casi in cui le controversie vengono risolte in modo cruento, come avviene tra i gruppi nigeriani ed albanesi.

85. Anche quando svolta in aree ad alta concentrazione di prostitute e che, peraltro, risultano spesso contigue, quando non coincidenti per "gruppi" diversi.

86. Osservatorio permanente sulla criminalità, op. cit., 1996.

87. C. De Stoop, Elles sont si gentilles, Monsieur, La longue vie, Paris, 1993.

88. In evidenza quella italiana di Lagos (osservatorio permanente sulla criminalità, op. cit.). La conferma del traffico di visti a Lagos è recentissima (28 giugno 1999) ed arriva dopo un processo di oltre quattro anni presso il Tribunale di Torino a carico dell'ambasciatore italiano (situazione per ora stralciata, ma tuttora indagato) e di due "contrattiste" alle quali è stato riconosciuto il reato di concussione.

89. Criminalità e polizia in primo luogo (D.I.A., op. cit.).

90. In questa fase, all'interno delle nazionalità citate, si riscontra anche un cambiamento della provenienza delle ragazze; sembrano, infatti, provenire non più dai grandi centri urbani (come nelle ondate precedenti) ma dai piccoli villaggi rurali dell'interno. Fatto che fa pensare ad un riadeguamento delle strategie di reclutamento da parte dei trafficanti, in quanto nelle città probabilmente il gioco comincia a essere scoperto e pertanto può diventare troppo rischioso.

91. Stima relativa al 1998 dell'associazione Parsec, che così ha aggiornato le stime precedenti relative al 1996 (18.800/25.100 unità).

92. Stime PARSEC 1998.

93. PARSEC - Università di Firenze, Il traffico delle donne immigrate per sfruttamento sessuale: aspetti e problemi. Ricerca ed analisi della situazione italiana, aprile 1996, studio realizzato per la Conferenza internazionale di Vienna sul tema "La tratta degli esseri umani", Vienna, 10-11 giugno 1996.

94. Tuttavia, da quanto emerge dalle ricerche, per le donne straniere la differenza di condizione rispetto alla scelta di esercitare in strada o in locali chiusi è ben poca. Talvolta, la violenza più coperta ed elegante nasconde condizioni di vita durissime e meno controllate. C. De Stoop, op. cit.; Aspe, Agenzia gruppo Abele, "Prostituzione", 1983-1994.

95. I protettori rappresentano spesso segmenti o gruppi che per legami diretti o indiretti sono rapportabili alle diverse forme di criminalità organizzata su basi territoriali.

96. Dipendente da diverse variabili, tra le quali la personalità criminale degli sfruttatori, l'originarietà del debito contratto con gli stessi, il primario utilizzo della violenza, l'età del soggetto passivo e la sua redditività, etc.

97. ASPE, Agenzia gruppo Abele, op. cit.

98. Come dimostrato da alcune operazioni di polizia, nel corso delle quali si è giunti alla liberazione di alcune giovani sequestrate all'interno di campi nomadi, stanziati sul territorio italiano, e costrette a prostituirsi.

99. E. Moroli, R. Sibona, Schiave d'occidente, Mursia, Milano, 1999.

100. Osservatorio permanente sulla criminalità, op. cit.

101. PARSEC - Università di Firenze, op. cit.

102. Osservatorio permanente sulla criminalità, op. cit.

103. Gennadij Fedorovic Cebotarëv, op. cit.

104. Secondo quanto riportato dall'Osservatorio permanente sulla criminalità in un rapporto sullo sfruttamento sessuale redatto per conto del Ministero dell'Interno (1996), valutazioni espresse dagli organi di polizia russi segnalavano, sin dal 1994, l'esistenza e l'intensa attività di oltre 145 sodalizi criminali dediti, in via principale, allo sfruttamento della prostituzione ed al trasferimento clandestino delle meretrici all'estero, dove sono attese da altre organizzazioni criminali che provvederanno all'acquisto ed al successivo sfruttamento.

105. I conti si fanno in fretta: una ragazza slava vale un milione a sera alla borsa valori del marciapiede; le altre, settecentomila. Complessivamente, considerato il numero elevato di schiave del sesso, un fiume di denaro da reinvestire. E al di là dell'Adriatico c'è il retrobottega dei gruppi malavitosi: i parenti, i compari che procurano la "merce", i documenti falsi, le protezioni politiche locali. (D.I.A., op. cit.).

106. Mezzi di trasporto su strada fino ai luoghi dell'imbarco (su territorio albanese), battello/peschereccio fino al limite delle acque territoriali e canotti/piccoli scafi per sbarcare sulle coste italiane. In misura minore - anche perché più complessa dati i frequenti conflitti - viene utilizzata la rotta costiera sull'Adriatico orientale, in direzione Nord, con ingresso irregolare dalla frontiera triestina o - spingendosi ancora più a Nord - da quella bolzanina. Il prezzo dell'intera operazione si aggira intorno ad una cifra compresa fra i tre e i cinque milioni di lire a seconda della rotta prescelta e delle difficoltà previste.

107. PARSEC - Università di Firenze, op. cit.; O. Fredo, Un mondo che attraversa il mondo. La tratta delle donne immigrate in Italia, rapporto per la Conferenza di Vienna, giugno 1996; Atti del Convegno "La tratta degli esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale", Roma, 6-7 dicembre 1996.

108. D.I.A., op. cit.

109. Osservatorio permanente sulla criminalità, op. cit.

110. Si vedano gli atti del procedimento penale nr. 993/93, in particolare il provvedimento del G.I.P. (17/93) presso il Tribunale di Ascoli Piceno.

111. Nel procedimento penale 3091/96 presso la Procura di quel Tribunale, ad esempio, venne riscontrata l'esistenza di una banda di albanesi, attiva negli anni 1995-1996 ed operante tra Milano, Roma e Pescara, dedita allo sfruttamento di giovani connazionali. Tale organizzazione, di tipo familiare, era provvista di basi operative (appartamenti) in ognuna delle tre suindicate città dove sistemava le ragazze da avviare alla prostituzione.

112. Soprattutto negli ultimi mesi, quando era in discussione la Legge Martelli.

113. Osservatorio permanente sulla criminalità, op. cit.

114. PARSEC - Università di Firenze, op. cit.

115. A volte prima giungono in Olanda, in Germania o in Francia (ciò dimostra fra l'altro l'esistenza di un'organizzazione con punti d'appoggio in diverse parti d'Europa).

116. Il passaporto viene ottenuto direttamente dalla polizia locale che lo prepara e lo vende. Sono passaporti "regolari", acquisiti attraverso l'organizzazione criminale che poi mette o sostituisce la fotografia. Altre volte, invece, si tratta di passaporti precedentemente utilizzati per altre ragazze e di cui è stata sostituita la fotografia; sono passaporti il cui costo può arrivare a quattro milioni di lire l'uno e che vengono acquistati dagli sponsor non solo in Italia ma anche all'estero, soprattutto a Londra.

117. Si parla in totale di una cifra variabile tra i venti e i cinquanta milioni, ma più di recente è stato accertato che l'importo da restituire può aggirarsi intorno ai 100 o 200 milioni (C. De Stoop, op. cit.).

118. In Arezzo, Cervia, San Benedetto del Tronto, Ascoli Piceno, Modena, Bologna, Faenza, Ferrara, Pesaro.

119. Vengono segnalate ragazze con un carattere difficile, che per questo devono essere esaminate prima della vendita poiché la madame non vuole rimetterci la reputazione con le sue colleghe.

120. Si tratta di una serie di antiche pratiche magiche riconducibili ai riti Woo-Doo, di forte presa sulla comunità nigeriana. PARSEC - Università di Firenze, op. cit.

121. Atti del Convegno "La tratta delle donne ci interroga", Bologna, aprile-maggio 1998.

122. ASPE speciale schiavi o bambini, Prostituzione infantile e turismo sessuale, n. 21/95.

123. Secondo la Presidenza del Consiglio dei Ministri, i minori stranieri che commettono reati o comportamenti devianti sono coinvolti in violazioni delle legislazioni sul lavoro minorile, vendite ambulanti abusive, accattonaggio, furti, spaccio di droghe ed, in alcuni casi, prostituzione. Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento Affari Sociali - Centro Nazionale di Documentazione sui Minori, Rapporto sulla condizione dei minori in Italia, Roma, giugno 1996.

124. Le informazioni sullo sfruttamento minorile nell'accattonaggio sono state tratte dal rapporto della D.I.A. relativo allo studio della criminalità albanese (op. cit.). L'Osservatorio permanente sulla criminalità ha confermato le pratiche di sfruttamento con riferimento ai minori dell'ex Jugoslavia (op. cit.)

125. Ad esempio, nel caso di allontanamento più o meno forzato di uno sfruttatore, i "suoi" minori vengono gestiti dagli altri fino al suo ritorno.

126. Si veda in proposito la Legge 3 agosto 1998, nr. 269, "Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù", che, in adesione alla Convenzione sui diritti del fanciullo ratificata con la Legge 176/1991, ha introdotto nel codice penale, dopo l'art. 600, gli articoli dal 600bis al 600septies. Va, inoltre, ricordato che il T.U. 286/98 all'art. 12/3 ha previsto delle misure specifiche per chi favorisca l'ingresso clandestino nel Paese di minori da sfruttare.

127. Nel novero dei divieti di espulsione contemplati dall'art. 19 T.U. 286/98 è previsto il divieto di espellere, sempre che non si tratti di provvedimento assunto dal Ministro dell'Interno per motivi di ordine e sicurezza pubblica, gli stranieri minori degli anni diciotto, salvo il diritto a seguire il genitore o l'affidatario espulsi. A norma dell'art. 31/4º, così come prima della modifica avvenuta con D. Leg.vo nr. 133/99, qualora ai sensi del T.U. doveva essere disposta l'espulsione del minore straniero, il provvedimento era adottato, su richiesta del questore, dal Tribunale per i minorenni. Su questo tipo di intervento della giustizia minorile era sorto qualche problema interpretativo volto a definire a quale tipo di espulsione ci si riferisse. In realtà, pareva che ci si trovasse di fronte ad un'intrinseca contraddizione della disciplina che, da una parte rendeva possibile l'espulsione del minore nel solo caso di pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblica, dall'altra rendeva possibile l'espulsione su proposta del questore da parte del Tribunale dei minori. Si deve ritenere che la contraddizione nascesse da un difetto di adattamento del testo della norma licenziato dal Parlamento rispetto a quello del disegno di legge: mentre quest'ultimo limitava l'inespellibilità all'età di sedici anni, la disposizione in questione estendeva la garanzia fino ai diciotto. L'intervento del Tribunale, infatti, era stato pensato appunto nella fascia di età compresa tra i sedici e i diciotto anni, in luogo della potestà prefettizia in materia. Con la citata modifica sono stati ampliati i poteri del Comitato per i minori, da istituire a norma dell'art. 33 T.U., prevedendo la possibilità di adottare nei confronti dei minori il cosiddetto "rimpatrio assistito", in luogo dell'espulsione da parte del Tribunale minorile. Ma di tale Comitato si sa ben poco.

128. O. Grady Ron, Schiavi o bambini? Storie di prostituzione infantile e turismo sessuale in Asia, Ega, Torino 1996; J. O'Connel Davidson, The Sex Exploiter; M. Staebler, Tourism and Children in Prostitution, relazioni del World Congress against Commercial Sexual Exploitation of Children, Stoccolma, 27-31 agosto 1996.

129. "Programma d'azione sulla vendita di bambini, sulla prostituzione, sulla pornografia infantile".

130. Ambrosiani-Zandrini (a cura di), La tratta infame, Ed. Oltre, Milano, 1996.

131. Si veda in proposito, I. Pomodoro; S. Stefanizzi (a cura di), Traffico degli esseri umani: donne e minori. Un'analisi esplorativa, relazione presentata al convegno su "Le nuove schiavitù: il traffico di donne e minori", Milano, 19 ottobre 1995.

132. Atteso che le statistiche dimostrano che la delinquenza sia imputabile per oltre l'80% alla componente irregolare.

133. Con riguardo alla criminalità ad opera di ignoti, si potrebbe ovviare supponendo che al suo interno siano operanti le stesse percentuali di partecipazione valide rispettivamente per gli italiani e per gli stranieri nella criminalità nota. Ma, come si vede, anche in questo caso si tratta di mere supposizioni.

134. Per il reato di associazione a delinquere si dovrà vedere di volta in volta la finalità del consorzio criminoso.

135. Vedi supra, Cap. II, § 2.3.

136. Passando dal 12,26% del 1994 al 18,12% del 1997.

137. Per interessanti spunti sugli stranieri denunciati per furti d'auto, si veda S. Palidda, La devianza e la criminalità, Primo rapporto sulle migrazioni 1995, Angeli, Milano, 1995, pp. 250-290.

138. Sul piano dell'incidenza, infatti, dal 1994 al 1997, gli stranieri sono passati da un valore del 14,34% ad un valore del 19,48%.

139. L'osservazione è confermata dal fatto che gli italiani, rispetto al totale denunce per rapina, sono passati da un'incidenza dell'85,65% del 1994 ad un'incidenza dell'80,51% del 1997.

140. Passando da un valore assoluto di denunciati da 5.326 a 4.379 ed un'incidenza da 95,6% a 91,97%.

141. Vi sono illazioni non dimostrate sulla possibilità che la criminalità dell'Est sia "gestita" ad esempio dagli albanesi; che quella dell'area africana sia appannaggio dei nigeriani, e così via.

142. Per ragioni di completezza, bisogna precisare che gli incrementi riportati riguardano la variazione 1994/1997. Altro è dire della variazione media calcolata per ogni biennio, dove è possibile registrare anche lievi decrementi.

143. Tali delitti costituiscono la terza e residuale categoria dei delitti di criminalità organizzata.

144. Cass. 91/191122.

145. Introdotta dall'ordinamento con la Legge 646/82.

146. Vd. D.P.R. 5/6/1993, nr. 171.

147. Che prevede le attività di chi "coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, offre o mette in vendita, cede o riceve a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene (...) sostanze stupefacenti o psicotrope.

148. Si veda, però, in proposito Cass. 6 aprile 1990, in Cass. Pen., 1992, 1615, 899, dove testualmente si legge: "l'associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti (...) riveste aspetti meno articolati e complessi rispetto all'associazione per delinquere prevista dall'art. 416 c.p., bastando a configurarla quel minimo di organizzazione che consente di rendere più efficiente la rete del mercato e più estesa la diffusione della droga".

149. V. Ruggiero, Economie sporche, Bollati Boringhieri, Torino, 1996, p. 170.

150. A. Roversi, A. Di Lazzaro, Un profilo statistico dei reati. La delittuosità a Modena, "Lo stato della sicurezza a Modena. Secondo rapporto cittadino", Comune di Modena, Modena, 1997, p. 43.

151. P.A. Adler, Whealing and Dealing, Columbia University Press, New York, 1985; P. Arlacchi, R. Lewis, Imprenditorialità illecita e droga, Il Mulino, Bologna, 1990.

152. I dati sono stati tratti da M. Barbagli, op. cit., p. 68-69.

153. G. Napolitano, Relazione sull'attività delle forze di polizia e sullo stato dell'ordine e della sicurezza pubblica nel territorio nazionale (1996), Senato della Repubblica, XIII Legislatura, doc. XXXVIII bis, nr. 2, Roma, 1997.

154. Il numero di coloro che trattano marijuana, che nel 1991 era insignificante, ha superato nettamente quello degli spacciatori e dei trafficanti di cocaina e si avvicina a quello di chi tratta hashish ed eroina. Così, M. Barbagli, op. cit., p. 70.

155. Articoli collocati fra le norme sui delitti contro la moralità pubblica ed l buon costume che recano offesa al pudore ed all'onore sessuale.

156. In particolare, il favoreggiamento è una qualsiasi attività di fiancheggiamento che agevoli, favorisca o renda più semplice, comodo o lucroso l'esercizio della prostituzione maschile o femminile. Lo sfruttamento, invece, consiste nella speculazione per fini di lucro della prostituzione altrui attraverso l'utilizzo dei guadagni acquisiti con l'esercizio di questa attività.

157. Così si è espresso l'Osservatorio Permanente sulla Criminalità nel suo Rapporto annuale sul fenomeno della criminalità organizzata per il 1996, che ha elaborato i dati forniti dalla D.I.A. relativi al periodo 1992-1995.

158. Le denunce a minori stranieri prese in esame non sono comparabili con i dati relativi alle denunce a minori stranieri per le quali è iniziata l'azione penale, che verranno analizzati più avanti in riferimento ai singoli reati.

159. Sul forte aumento della criminalità dei minori stranieri si veda F. Occhiogrosso, Minorenni e criminalità in Italia oggi, "Minori giustizia", 1994.

160. Secondo le più importanti acquisizioni della sociologia fenomenologica, la tendenza alla criminalità, che raggiungerebbe il suo culmine fra i 20-25 anni, per poi decrescere fino a cessare con la vecchiaia, aumenterebbe significativamente proprio nell'età puberale: le cause della più larga partecipazione dei giovani alla criminalità sarebbero, dunque, da ravvisare nell'incompleta maturazione della personalità e l'inesperienza di vita.

161. Dall'analisi dei dati relativi ai minori stranieri per i quali è iniziata l'azione penale (periodo 1994-1997) è risultato che i Paesi da cui provengono i minori maggiormente coinvolti in attività delittuose sono quelli dell'area africana e dell'area est-europea. Il numero dei minori africani denunciati sono aumentati da 876 del 1994 a 1.209 del 1997, per un valore complessivo di 4388 unità ed un'incidenza rispetto al totale stranieri cresciuta dal 19,70% al 22,77%. Rispetto al numero globale di denunce (a minori) l'incidenza è stata, invece, di 3,4 punti percentuali nel 1994 e del 5,27% nel 1997. Il maggior contributo è stato fornito dai minori provenienti da: Marocco (3.491), Algeria (588), Tunisia (131), Egitto (30), Etiopia (25), Nigeria e Somalia (24). Per quanto riguarda l'Est-europeo, è da dire che esso si presenta come l'area geografica dalla quale provengono i minori maggiormente responsabili del forte incremento delle denunce a loro carico. Esse, infatti, sono passate da 3.308 a 3.779, benché abbiano registrato un decremento della propria incidenza (dal 74,31% ad un peso del 71%) rispetto al totale stranieri. Il rapporto con il numero globale di denunce è variato dal 12,80% al 16,43%. Ex Jugoslavia (12.209), Albania (2.034), Romania (413), Polonia (75) si confermano come i Paesi da cui provengono i minori maggiormente denunciati. Al di fuori di queste aree bisogna menzionare, per presenza ed andamento il Perù (86 denunce complessive, passando da 13 a 40 unità), la Cina (con 64 denunce, crescendo da 15 a 40 unità). In definitiva, sulla base del numero delle denunce complessive registrate nel periodo considerato (20.059) si distinguono in valore assoluto, per la rilevante concentrazione (88,40% sul totale) soprattutto l'ex Jugoslavia, il Marocco e l'Albania. Tralasciando la prima, per la quale il problema è specifico, coprendo essa da sola il 60,86% delle denunce a minori stranieri, il contributo più notevole è stato fornito dagli altri due. Non bisogna, però, dimenticare la Romania per il notevole incremento registrato.

162. Il fenomeno è singolare: si pensi che tra i denunciati minori di questo Paese (13.557) ben 8.367 sono di sesso femminile ossia il 61,71%.

163. M. Bouchard, Minori stranieri e criminalità organizzata, in M. Cavallo (a cura di), Le nuove criminalità, Franco Angeli, Milano, 1995.