ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo II
I regolamenti penitenziari dell'Italia unita

Laura Casciato, 2000

Sezione prima: i regolamenti penitenziari dell'Italia monarchica

2.1.1 Il primo regolamento penitenziario del Regno d'Italia

Il primo regolamento, dopo l'unificazione del Paese, fu approvato dal re Vittorio Emanuele II il 13 gennaio 1862 ed entrò in vigore su tutto il territorio nazionale, ad eccezione delle province toscane dove si continuò ad applicare la normativa vigente.

Esso introdusse negli stabilimenti penali il sistema auburniano, cioè la separazione notturna ed il lavoro diurno in comune e in silenzio; inoltre mutuò dalla disciplina penale toscana il sopra descritto sistema misto consistente nell'ammettere il detenuto al lavoro solo dopo che avesse trascorso un periodo in segregazione.

La normativa del 1862 sancì l'obbligatorietà del lavoro (art. 4) ed attribuì al direttore dell'istituto il compito di destinare i detenuti alle varie attività praticate negli stabilimenti carcerari, rispettando preferibilmente le attitudini degli internati, salvo ragioni economiche o esigenze di sicurezza (art. 261).

Gli inabili al lavoro a causa dell'età, di imperfezioni fisiche o di altre affezioni croniche venivano trasferiti in appositi stabilimenti penali (art. 265).

I soggetti non recidivi, che si distinguevano per una condotta esemplare, potevano essere destinati dal direttore a servizi interni agli istituti, indipendentemente dalle lavorazioni attivate nello stabilimento (art. 269), beneficiando così di un trattamento di favore.

Il prodotto del lavoro carcerario apparteneva allo Stato, tranne eventuali ricompense erogate al detenuto per il raggiungimento di predeterminati livelli di lavoro giornaliero. Esse erano previste per coloro che si distinguevano per buona condotta e per un lavoro attivo e produttivo, e comprendevano le gratificazioni, il godimento del vitto di lavorante e di ricompensa, la facoltà di ricevere ulteriori visite, l'utilizzo di parte del retratto del lavoro per l'acquisto di abiti invernali, fino alla possibile riduzione della pena o addirittura la grazia sovrana (art. 368).

Le gratificazioni erano erogate per la costituzione di un fondo, al fine di far fronte alle esigenze del soggetto al momento della liberazione ed erano costituite da una quota calcolata in decimi sul prodotto del lavoro svolto dal singolo in carcere. La mano d'opera dei detenuti era valutata col salario praticato dalla libera industria diminuito di un quinto. Le frazioni di decimi si differenziavano in relazione al sesso dei lavoranti ed al tipo di condanna inflitta.

2.1.2 Il regolamento del 1891

Il regolamento penitenziario del 1891 ribadì l'obbligo di lavoro per i condannati (art. 276), principio già sancito dal codice penale vigente dal 1889, dal quale si poteva evincere come per il ministro Zanardelli il lavoro fosse un necessario completamento della pena (1).

Per gli imputati era prevista la facoltà del direttore di imporre l'obbligo del lavoro, ove tali individui non si mantenessero con le proprie risorse.

La concezione del lavoro come parte integrante della pena emergeva dai principi sottesi a tutto il regolamento.

In primo luogo si stabiliva che le commissioni di lavoro non potessero essere rivolte direttamente ai detenuti (art. 278), ma dovevano essere indirizzate alla direzione in modo che essa potesse esercitare una funzione di controllo preventivo ai fini della graduazione della pesantezza del lavoro in base alla condanna inflitta. La proporzionalità tra la pena da scontare e la pesantezza del lavoro si realizzava, però, anche automaticamente (art. 279) sulla base della disposizione che precludeva l'accesso ai servizi domestici - naturalmente meno faticosi - per coloro che si erano macchiati di particolari reati (furto, rapina, delitti contro il buon costume, recidiva), oppure dovevano scontare un certo tipo di pena (ad esempio gli ergastolani vi erano ammessi solo dopo aver scontato venti anni di reclusione).

In secondo luogo si manteneva il meccanismo delle gratificazioni: quelle ordinarie calcolate sul prezzo della mano d'opera e quelle straordinarie erogate eccezionalmente per operosità e diligenza. Esse andavano a formare il fondo di lavoro, che era l'unica riserva da cui si poteva attingere per l'acquisto del sopravvitto, rendendo così indispensabile il lavoro per il miglioramento delle condizioni di vita interne all'istituzione carceraria.

Da tutto ciò si può constatare come nella normativa del 1891 il lavoro carcerario manteneva ancora una marcata connotazione di afflittività, in quanto parte integrante della pena. Nonostante ciò, vi erano voci singole che negavano la natura di pena del lavoro, ma poi si contraddicevano, ammettendo che i condannati a pene più lievi fossero assegnati a lavori meno faticosi, mentre i condannati a lunghe pene sarebbero stati sottoposti a lavori più pesanti, facendo comunque rientrare il lavoro in una funzione di graduazione della pena (2).

2.1.3 La disciplina del lavoro nel regolamento del 1931

a. Considerazioni generali

Il regolamento penitenziario del 1931 sanciva, ancora una volta, all'art. 1, l'obbligo di lavoro per coloro che dovevano scontare una pena detentiva e per gli imputati in custodia preventiva che non fossero in grado di mantenersi con mezzi propri.

Quest'ultima disposizione fu giustificata dal ministro Rocco con motivazioni sociali (evitare la perdita dell'attitudine al lavoro) e giuridiche (l'obbligo statuito dall'allora vigente codice di procedura penale di pagare le spese in caso di successiva sentenza di condanna) (3), ma in realtà denotò un rafforzamento del carattere afflittivo dell'istituto in esame, il quale si tradusse in un vero e proprio dovere giuridico, sanzionato da disposizioni disciplinari (4) e sacrificò la presunzione di non colpevolezza a favore dell'obbligo di indennizzare lo Stato delle spese sostenute per il mantenimento in carcere (5).

Nonostante le dichiarazioni di intento espresse dal guardasigilli Rocco nella relazione introduttiva al regolamento, la finalità rieducativa del lavoro carcerario emergeva solo nel trattamento dei minori degli anni diciotto detenuti nelle sezioni speciali. Solo per questi ultimi era infatti rinvenibile una previsione specifica (art. 219) (6), assumendo tale carattere una connotazione eccezionale rispetto alla disciplina generale, in quanto l'unica altra disposizione che contemplava la problematica della rieducazione ineriva solo all'organizzazione del lavoro negli stabilimenti per misure di sicurezza (arr.271) (7).

b. Organizzazione del lavoro penitenziario

Per quanto concerne l'organizzazione del lavoro, la nuova disciplina degli anni '30 introdusse in modo più fondato la distinzione tra lavoro all'interno e lavoro all'esterno (8).

Nel regolamento del 1931 per lavoro all'interno si intendeva quello che si svolgeva entro la cinta muraria dell'istituto carcerario, mentre lavoro all'aperto era quello effettuato fuori dalle mura dello stabilimento (art. 115).

Il lavoro all'interno era strutturato in modo tale da consentire di lavorare anche a coloro che erano sottoposti ad isolamento diurno (art. 116) (9).

Il lavoro all'aperto, organizzato in case di lavoro o colonie mobili, poteva comportare che i detenuti trascorressero la notte fuori dall'istituto, purché fossero garantite le condizioni di sicurezza e la disciplina (art. 117). I reclusi potevano essere impiegati nel compimento di opere di bonifica e di dissodamento dei terreni, al fine di attuarne la progressiva cessione ai lavoratori liberi (art. 118); in tale modo i detenuti venivano sfruttati per il compimento di opere di regime (10).

L'assegnazione dei detenuti al lavoro all'interno era disposta dal direttore, considerando la specie e la durata della pena inflitta e riservando i servizi domestici ai soggetti che avevano tenuto una condotta esemplare (art. 119); per ciò che attiene al lavoro all'aperto l'assegnazione spettava, invece, al giudice di sorveglianza (art. 120).

Ai fini della durata del lavoro, il regolamento prevedeva il riposo festivo e l'orario giornaliero di otto ore, ma concedeva all'autorità carceraria la possibilità discrezionale di sacrificare entrambi questi elementi, con il solo obbligo di informarne il ministero (art. 123).

La normativa penitenziaria del 1931 introdusse i nuovi concetti di mercede e remunerazione, abbandonando la gratificazione fino ad allora prevista.

Per mercede si intendeva la somma stabilita dal ministero in relazione alle diverse categorie di lavoratori, alla capacità ed al rendimento del detenuto. La mercede veniva poi divisa in decimi e la remunerazione consisteva nella quota di decimi spettante agli internati ed ai detenuti in relazione al tipo di condanna inflitta ex art. 149 c.p., mentre la parte restante della mercede veniva devoluta allo Stato (art. 125).

La somma finale che spettava al detenuto risultava quindi essere una cifra irrisoria, se consideriamo che ancora su di essa venivano prelevate quote a titolo di risarcimento del danno, spese di mantenimento e spese processuali (11); l'emolumento rimanente non poteva essere definito un vero e proprio salario in quanto non era un esatto compenso per il lavoro prestato (12).

Inoltre, prima di essere ammesso al lavoro retribuito, il detenuto doveva svolgere un tirocinio gratuito, la cui durata era determinata discrezionalmente dal direttore dell'istituto (art. 124).

Il complesso della normativa risultante dalla nuova regolamentazione del 1931, nonostante le incoraggianti dichiarazioni del guardasigilli Rocco sul ruolo centrale e rieducativo del lavoro nell'istituzione penitenziaria, appariva inserirsi pienamente nella logica dell'istituzione totalitaria; esso infatti era concesso sulla base di valutazioni largamente discrezionali, gestito con tecniche obsolete, malpagato perché improduttivo e soprattutto afflittivo in quanto necessario completamento della pena (13).

Sezione seconda: dalla Costituzione al progetto Gonnella

2.2.1 La Costituzione repubblicana e le posizioni della dottrina e della giurisprudenza

a. I principi costituzionali

Il regolamento penitenziario del 1931, come già illustrato, manteneva il lavoro carcerario in una logica afflittiva, ben lontana dalla finalità rieducativa, considerandolo parte integrante della pena (14), concepita ancora in funzione retributiva (15).

La logica ispiratrice del sopra citato regolamento risultò in netto contrasto con quanto enunciato in materia di esecuzione della pena dalla Costituzione repubblicana. La Carta costituzionale infatti, sancendo all'art. 27 comma 3 che "le pene [...] devono tendere alla rieducazione del condannato", ha posto la rieducazione come obiettivo primario di tutto il trattamento penitenziario e quindi anche del lavoro carcerario. Fino agli anni '70 la giurisprudenza tentò di interpretare tale norma in senso non esclusivo, relegando la rieducazione al ruolo di una delle tante finalità della pena, in una sua logica polifunzionale (dissuasione, prevenzione, difesa sociale, ecc.) (16).

b. La dottrina tradizionale

Nonostante il dettato costituzionale, la normativa del 1931 sopravvisse per molto tempo e solo negli anni '60 si avanzarono istanze di riforma. Infatti la dottrina tradizionale riteneva il regolamento vigente conforme ai principi della rieducazione e della legislazione sociale, assumendolo come caratterizzato da "un altissimo grado di evoluzione" (17) e in ciò non contraddetta dalla giurisprudenza costituzionale, inerte di fronte alla natura regolamentare della disciplina del 1931.

In questa logica ergoterapica, il lavoro era uno "strumento di primo ordine per la redenzione e per il riadattamento di delinquenti alla vita sociale" (18), configurandosi come elemento positivo di per sé, indipendentemente dalle modalità con cui si svolgeva, dai risultati e prospettive che offriva, se non altro perché antidoto all'ozio.

Per tutti questi anni dominò la convinzione dell'assenza di un diritto del detenuto al lavoro; si ritenne il lavoro solo un suo dovere, di cui lo Stato poteva fare a meno di esigere l'adempimento; a maggior ragione si sosteneva l'assenza di un diritto di scelta del lavoro come regola generale (19).

Il rapporto di lavoro scaturente dalla normativa penitenziaria era "dogmaticamente ricostruito in termini di prestazione di diritto pubblico, non riconducibile allo schema del normale rapporto di lavoro subordinato, in quanto nascente da un obbligo di natura legale e dunque non soggetto all disciplina tipica del lavoro libero" (20); non esisteva quindi la relazione sinallagmatica, tipica del rapporto contrattuale privato, costituendo il lavoro solo una modalità di esecuzione della pena (21); ciò giustificava un trattamento diverso e peggiorativo del detenuto lavoratore.

In seguito a tutto ciò l'organizzazione del lavoro risultava a sé stante, staccata dal mercato del lavoro e dalle norme giuridiche che lo governavano (22).

c. Le nuove posizioni della dottrina

A partire dai primi anni '70 si fecero strada nuove istanze che si distaccavano dalla tradizionale posizione della dottrina in tema di lavoro carcerario. In questa direzione si mossero primi fra tutti due giuslavoristi, Umberto Romagnoli e Giuseppe Pera. Il primo denunciò la persistenza, nella normativa penitenziaria vigente, di tracce di rapporti giuridici appartenenti al passato - come la locatio hominis dell'età precapitalista (il corpo del lavoratore era considerato oggetto del rapporto di lavoro) o i rapporti nell'ambito familiare caratterizzati da un vincolo personale di assoggettamento - ed evidenziò il persistente assoggettamento del detenuto lavoratore verso lo Stato, austero pater familias. Romagnoli rilevò anche la sostanziale uguaglianza fra la remunerazione ex reg. del 1931 e la gratificazione della precedente normativa, in quanto il compenso spettante al detenuto non aveva natura di corrispettivo, né si sostanziava in un diritto del detenuto (23). L'illustre autore non si spinse però, come in seguito fu criticamente osservato (24), fino al punto di sposare in pieno l'uguaglianza tra lavoro "libero" e lavoro "forzato", mantenendo un certo scetticismo nei confronti di queste affermazioni, scetticismo che contribuì a conservare la diversità dal regime del lavoro comune.

Più avanti giunse invece il giuslavorista Pera, contestando (25) la tesi fino ad allora dominante, che qualificava il rapporto di lavoro in carcere come prestazione di diritto pubblico in quanto nascente da un obbligo legale imposto, e non da un libero contratto. Egli sostenne infatti che si trattava pur sempre di un rapporto di lavoro, eventualmente atipico nella sua genesi, ma sempre riconducibile allo schema giuridico ed alla disciplina del lavoro libero. Era infatti ormai convinzione comune che il lavoro non necessariamente derivasse da un contratto, ma potesse nascere anche da un atto amministrativo o dalla legge, come nel caso dell'istituto qui in esame. Inoltre, la stessa Costituzione, all'art. 35, sancisce la tutela del "lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni", e quindi viene a rendersi estensibile la legislazione protettiva del lavoro libero anche al lavoro carcerario, in quanto imposto al fine del recupero sociale del detenuto, in una logica rieducativa della pena ex art. 27, comma 3 Cost.

Quindi, anche quello penitenziario poteva essere qualificato come rapporto di lavoro subordinato, ricorrendone gli elementi tipici di cui all'art. 2094 c.c.: la faciendi necessitas (obbligo di una prestazione di fare), la subordinazione (esecuzione della prestazione alle dipendenze e sotto la direzione di una controparte datrice di lavoro), la collaborazione (obbligo giuridico di eseguire la prestazione lavorativa in obbedienza e diligenza, rispetto alla controparte imprenditrice e ai fini della attuazione degli scopi e degli interessi di impresa), e l'onerosità (remunerazione espressamente prevista) (26).

d. La giurisprudenza costituzionale

Concluso l'esame delle tappe fondamentali che la dottrina ha percorso nella materia che ci occupa, non possiamo non rivolgere uno sguardo alle posizioni della giurisprudenza costituzionale, che, come sopra detto, rimase pressoché inerte nei confronti della normativa del 1931, barricandosi dietro la giustificazione - non da tutti condivisa, per la verità (27) - della natura regolamentare della disciplina, che ne avrebbe impedito l'assoggettamento al giudizio di costituzionalità.

Nonostante le voci di critica già illustrate e quelle denunzianti la illegittimità, ex art. 3 Cost., della distinzione fra "detenuto lavoratore" e "lavoratore non detenuto" per quanto concerne i diritti fondamentali a tutela del lavoro (28), le pronunce della Corte Costituzionale (29), prima della riforma, riguardavano solo marginalmente l'istituto qui in esame. Ad esse era sottesa una ideologia medicale-rieducativa del lavoro, fondata su un ragionamento già utilizzato dal legislatore del '30: se le pene detentive, per previsione di legge, si scontano con il lavoro, e, per volontà costituzionale, devono tendere alla rieducazione del condannato, per forza sillogistica si deduce che il lavoro è in sé rieducativo (30).

2.2.2 La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali

La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali è stata adottata a Roma il 4 novembre 1950, resa esecutiva con la l. 4 agosto 1955, n.848, ed è entrata in vigore in Italia il 26 ottobre 1955.

Il tema del lavoro carcerario è preso in esame anche dalla presente Convenzione, in relazione al divieto di lavoro forzato. Tale divieto è sancito dall'art. 4, il quale stabilisce al par.2 che "nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato o obbligatorio". La norma prosegue al par.3, lettera a), affermando che "non è considerato lavoro forzato o obbligatorio ogni lavoro normalmente richiesto ad una persona detenuta alle condizioni previste dall'art. 5 della presente Convenzione o nel periodo di libertà condizionata".

Il lavoro imposto al detenuto non rientra quindi nella fattispecie di lavoro forzato o obbligatorio, a condizione che esso sia richiesto ad un soggetto che sia detenuto nelle ipotesi indicate dall'art. 5; quest'ultima norma autorizza, oltre alle detenzioni giudiziarie, altre tipologie di detenzioni, in particolare quelle amministrative (detenzioni di minori, di malati di mente, di tossicodipendenti, di alcolisti).

La legalità del lavoro richiesto ad una persona detenuta dipende quindi dalla conformità della detenzione all'art. 5 della Convenzione. In proposito si è discusso se la detenzione debba essere conforme all'art. 5 nel suo insieme o solo al 2º paragrafo. Su diverse posizioni si sono schierate la Commissione da un lato e la Corte di Giustizia dall'altro. La prima ha ritenuto necessaria la conformità all'art. 5 nel suo insieme, mentre la seconda ha ritenuto sufficiente la conformità al 1º paragrafo. In realtà la giurisprudenza della Corte è criticabile, in quanto l'art. 4, par.3, lett. a), fa riferimento all'art. 5 nel suo insieme; è quindi sufficiente che manchi una delle condizioni per una regolare detenzione previste dalla norma in esame perché si determini una ipotesi di lavoro vietato dalla Convenzione (31).

Analizzando con maggior attenzione le caratteristiche del lavoro ex art. 4, par.3, lett. a), emerge chiaramente come si debba trattare di un lavoro normalmente richiesto ad un detenuto e non quindi di un lavoro particolare, imposto solo a taluni soggetti, il quale esulerebbe dalla previsione in esame. Inoltre tale lavoro dovrà contribuire al reinserimento dei detenuti e dovrà fornire loro opportunità di guadagno in vista del ritorno in libertà. (32)

La Convenzione tace però sul problema della remunerazione da versare ai detenuti lavoratori, evidenziando in tal modo come in realtà poco importi che il loro lavoro sia adeguatamente retribuito e coperto dalla sicurezza sociale.

Un ultimo aspetto che merita di essere affrontato riguarda la possibilità che il lavoro sia imposto ai detenuti sulla base di ordini provenienti da imprese private e trasmessi poi all'amministrazione penitenziaria. In tal caso spetterebbe ai detenuti lavoratori solo una piccola parte del prezzo versato dalle imprese esterne all'amministrazione.

Si è discusso sulla conformità di questa ipotesi all'art. 4, par.3, lett. a); in proposito la Commissione ha ritenuto che le richieste di lavoro provenienti da imprese private non siano contrarie alla previsione di un lavoro normalmente richiesto a un detenuto, in quanto essa ha solo la finalità di tutelare il soggetto in esame da decisioni arbitrarie delle autorità penitenziarie. Non si può che concordare con le posizioni della Commissione, poiché non si è in grado di evincere dalla Convenzione un divieto di lavoro per conto di imprese private. Tale conclusione è confermata anche dalla diffusione di questa pratica negli Stati membri del Consiglio d'Europa al momento della firma della Convenzione stessa (33).

2.2.3 La gestazione della riforma dell'ordinamento penitenziario. Il progetto Gonnella

L'iter della riforma dell'ordinamento penitenziario, conclusosi con la legge 26 luglio 1975 n.354, fu piuttosto tortuoso.

Il percorso parlamentare iniziò nel 1968 con il progetto Gonnella, già ricalcante iniziative risalenti al 1960. Il disegno di legge presentato dall'allora guardasigilli Gonnella si caratterizzava per una sostanziale continuità con l'impalcatura e la logica del regolamento del 1931 (34), riproponendo una ideologia punitiva che concepiva il lavoro carcerario solo come modalità di esecuzione della pena (35) ed escludendo la natura sinallagmatica della remunerazione (36).

Il testo presentato al Senato decadde a causa dell'anticipata fine della legislatura; fu ripresentato nell'ottobre del 1972 come nuovo disegno di legge con rilevanti novità: si affermò infatti che il lavoro carcerario non doveva avere carattere afflittivo, doveva essere assicurato, e doveva far acquisire attitudine al lavoro e preparazione professionale per agevolare il reinserimento dell'ex detenuto nella società. Per quanto riguarda la retribuzione fu determinata in una misura non inferiore ai due terzi delle tariffe sindacali.

Nel corso della discussione al Senato furono introdotte ulteriori, rilevanti, novità, come la partecipazione delle organizzazioni sindacali alla determinazione delle mercedi, la previsione che il lavoro carcerario dovesse essere produttivo e riflettere l'organizzazione del lavoro della società libera.

Alla Camera dei Deputati il testo trasmesso non subì ulteriori innovazioni e confluì infine nella legge 26 luglio 1975 n.354.

Note

1. TRANCHINA, Vecchio e nuovo a proposito di lavoro penitenziario, in AA.VV., Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, a cura di GREVI, Bologna, 1981, p. 144.

2. TRANCHINA, op. cit., p. 146.

3. ROCCO, Relazione a S. M. il Re del ministro guardasigilli, in Rass. st. penit., 1931, pp. 581 ss.

4. TRANCHINA, op. cit., pp. 146-147.

5. FASSONE, Sfondi ideologici e scelte normative nella disciplina del lavoro penitenziario, in AA.VV., Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, cit., p. 158.

6. L'art. 219 stabiliva che per i minori il lavoro dovesse avere soprattutto come scopo l'avviamento ad un mestiere, attivandone l'insegnamento nell'istituto con officine-scuola.

7. L'art. 271 sanciva che «all'organizzazione del lavoro negli stabilimenti per misure di sicurezza è essenziale la scopo di riadattamento degli internati alla vita sociale».

8. In questo modo fu superata una contraddizione insita nella precedente normativa, che pareva consentire il lavoro all'aperto ai condannati alla reclusione ma non ai condannati alla detenzione (art. 14-15 c.p. Zanardelli).

9. Da tale disposizione si poteva desumere «quale tasso di tecnologia e di capacità formativa potessero incorporare simili lavorazioni», così affermato da FASSONE, op. cit., p. 159.

10. FASSONE, op. cit., p. 159.

11. FASSONE, op. cit., p. 159.

12. ERRA, Lavoro penitenziario, in E. D., Milano, 1984, XII, p. 572.

13. FASSONE, op. cit., p. 160.

14. BETTINI, Lavoro carcerario, in E. G., Roma, 1988, vol. XIII, p. 1.

15. VIDIRI, Il lavoro carcerario: problemi e prospettive, in Lavoro 80, 1986, p. 48.

16. PAVARINI, La Corte Costituzionale di fronte al problema penitenziario: un primo approccio in tema di lavoro carcerario, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1976, p.262, in commento alla sentenza n.264 del 22 novembre 1974 della Corte Costituzionale.

17. DE LITALA, Sicurezza sociale e sistema penitenziario in Italia con particolare riferimento al lavoro dei detenuti, in Lav. e sic. soc., 1962, p. 15 ss.

18. ERRA, Lavoro penitenziario, cit., XII, p. 565.

19. DE LITALA, op. cit., p. 15 ss.; ERRA, op. cit., p. 565 ss.

20. BARBERA, Lavoro carcerario, in Dig. Priv., sez. comm., Torino, 1992, VIII, p. 213.

21. DE LITALA, op. cit., pp. 20-21.

22. PATRONO, Carcere e lavoro: il reinserimento dei detenuti e degli ex detenuti, in Documenti Giustizia, 1994, p. 1168.

23. ROMAGNOLI, Il lavoro nella riforma carceraria, in CAPPELLETTO-LOMBROSO, op. cit., pp. 92-93-94-95.

24. PAVARINI, La nuova disciplina del lavoro carcerario nella logica dell'ordinamento penitenziario, in BRICOLA, Il carcere riformato, Bologna, 1997, p. 117.

25. PERA, Aspetti giuridici del lavoro carcerario, in Foro it., V, 1971, pp.59-60.

26. MARGERA, Il lavoro del detenuto, in Quale Giustizia, 1971, p.332.

27. AMATO, Regolamenti anteriori con forza di legge, in Dem. e Dir., 1968, p. 581.

28. CONVERSO, Il lavoro del detenuto, in Quale Giustizia, 1971, p. 638.

29. Cfr.: C. cost., 22/11/1974, n.264 (in Giur. Cost., 1974, III, p. 2897) sull'infondata questione di costituzionalità dell'art. 22 c.p. (che prevede la pena dell'ergastolo) in riferimento all'art. 27, comma 3, Cost.; nonché C. cost., 22/12/1964 n. 115 (in Giur. Cost., 1964, p. 1179) in cui si rilevava l'attenuazione dell'afflittività dell'isolamento diurno del condannato all'ergastolo, per effetto della partecipazione alla attività lavorativa.

30. PAVARINI, La Corte, cit., pp. 269-270.

31. DECAUX-IMBERT, La Convention Européenne des droits de l'homme - Commentaire article par article, Parigi, 1995, pp. 184-185-186.

32. DECAUX-IMBERT, op. cit., p. 185.

33. DECAUX-IMBERT, op. cit., p. 186.

34. NEPPI MODONA, Vecchio e nuovo nella riforma dell'ordinamento penitenziario, in Politica del Diritto, 1974, pp. 183 ss.

35. PAVARINI, La nuova disciplina, cit., in BRICOLA, op. cit., p.124.

36. NEPPI MODONA, I rischi di una riforma settoriale, in Quale Giustizia, 1971, p. 471.