ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Introduzione

Sarah Musio, 1999

Il 19 febbraio 1936, alla Accademia dei Lincei, in occasione della commemorazione di Alfredo Rocco, il primo presidente della Cassazione unificata, Mariano D'Amelio, pronunciò le seguenti parole: "La grandezza di un uomo si può facilmente riconoscere quando narrando della sua vita si narra di un periodo di storia del suo paese".

Dovendo trattare de La vicenda del Codice Rocco nell'Italia repubblicana, ci è sembrato che queste parole, nella loro essenzialità, contenessero una indubbia verità costituendo, ai fini del nostro lavoro, una preziosa fonte di riflessioni.

Il nostro compito non è quello di misurare e quindi valutare la grandezza del guardasigilli dell'epoca fascista cui fa riferimento la citazione. Le pagine che seguono non hanno ad oggetto la figura di Alfredo Rocco ma, piuttosto, l'opera codicistica che più di ogni altra ha visto legata la sua esistenza al nome del giurista napoletano. Parafrasando le parole del giudice D'Amelio, potremmo dire che narrando la storia del Codice Rocco si narra un periodo di storia di questo paese.

Il senso del presente lavoro si può dire sia racchiuso in queste parole. Ripercorreremo la vicenda di un codice penale che ci accompagna da quasi settant'anni, anni durante i quali la società italiana ha conosciuto importanti cambiamenti non solo sociali e culturali, ma anche politici e istituzionali.

Guardando alla storia dei codici penali di altri paesi, settant'anni non possono dirsi un periodo di tempo molto lungo. La Germania, e ancor più la Francia, hanno convissuto per lungo tempo con codici penali che avevano superato il secolo, varando nuove codificazioni penali solo in anni recenti. Settant'anni costituiscono, però, un periodo considerevole se si guarda alle specificità del Codice Rocco e al contesto storico e sociale nel quale la sua vicenda è venuta sviluppandosi.

La storia del Codice Rocco non è semplicemente la storia di un codice penale e dei tentativi di riforma che lo hanno variamente interessato. È forse più che altro la storia di un cambiamento, della lenta ma progressiva affermazione di una diversa Weltanschauung penalistica che in modo sempre più netto è venuta via via affermandosi nel corso degli anni.

L'esigenza di modificare un codice penale si manifesta solitamente quando si ritiene che il codice vigente non sia rispondente ai valori e agli orientamenti culturali di una società. Il Codice Rocco, per il contesto storico e ideologico nel quale era venuto ad esistenza, aveva in sé tutti i presupposti perché, non appena si fosse presentata l'occasione, il legislatore intervenisse a sostituirlo con un codice penale di impianto democratico.

Così non è stato, non solo perché quel codice risultava dotato di una indubbia coerenza interna e di una raffinata elaborazione giuridica, mutuando dallo Stato liberale molti dei principi tipici dello Stato di diritto, ma anche perché in quel codice la società italiana ha per molto tempo continuato a riconoscersi. La concezione dell'uomo e della donna, della famiglia e della società che traspaiono dal Codice Rocco hanno trovato per molto tempo nella cultura italiana le loro matrici. La stessa idea di Stato etico sulla quale il Codice Rocco è basato, la c.d 'pubblicizzazione della tutela' che caratterizza molte delle fattispecie criminali, avrebbero trovato, come rilevato da Bettiol, una piena rispondenza "...in quell'atteggiamento tutto italiano che, dall'unità in poi, ha sempre teso a rimettere ogni cosa allo Stato, da lui tutto aspettandosi". (1)

Nel primo capitolo, dove si seguirà l'elaborazione del Codice Rocco e si esaminerà il codice nel suo impianto originario, si insisterà più volte sulla impossibilità di liquidare questo codice come sic et simpliciter 'fascista'. L'analisi dei suoi aspetti costitutivi non porta infatti a conclusioni univoche, perché, come si vedrà, in questo codice convivono istituti di matrice liberale con principi di ispirazione autoritaria, rendendone la valutazione complessiva piuttosto complessa ed articolata.

Al Codice Rocco si accompagnava un altro elemento che non può essere trascurato se si vuole comprendere la ragione della sua perdurante vigenza nell'ordinamento giuridico italiano. Esso fu frutto di un nuovo indirizzo penalistico che era andato affermandosi nei primi anni del secolo e che si era posto in posizione critica tanto nei confronti della Scuola positiva, quanto del socialismo giuridico. Una concezione del diritto, quella del tecnicismo giuridico, che allontanava le scienze sociali ma anche la filosofia del diritto e la politica da ogni analisi ed elaborazione giuridica.

L'indirizzo tecnico giuridico, che permeerà la cultura giuridica di molti studiosi, sarà tra i principali ostacoli incontrati dal processo di riforma del codice penale. Come si vedrà nel secondo capitolo, al mutamento politico-istituzionale inaugurato con la Costituzione del 1948 non seguì la riforma del Codice Rocco come si sarebbe potuto immaginare e sperare. Le istanze riformatrici successive alla caduta del fascismo si erano imbattute nell'atteggiamento di chiusura della dottrina penalistica dell'epoca. Quest'ultima riteneva che il Codice Rocco non fosse suscettibile di valutazioni politico-ideologiche, perché frutto delle impostazioni dogmatiche di una dottrina che aveva separato nettamente il diritto dalla scienza politica; a giudizio di quella dottrina, una volta espunti gli aspetti manifestamente più autoritari, il Codice Rocco avrebbe potuto continuare ad essere il codice penale dell'Italia repubblicana.

Nel terzo capitolo si esamineranno i progetti governativi di riforma del codice penale, i principali interventi del legislatore e le più importanti sentenze della Corte costituzionale. Si tratta del periodo che intercorre tra gli anni '50 e la fine degli anni '70. I progetti governativi di modifica di quegli anni non sembrano avere avuto un ampio respiro riformatore, incentrati come erano sulla sola parte generale. La parte speciale ha per lungo tempo stentato ad inserirsi nei progetti di riforma perché era difficilmente raggiungibile un consenso comune tra le forze politiche sulle scelte di fondo cui improntare l'impianto complessivo delle fattispecie criminose.

Come si vedrà, sono anni di importanti cambiamenti sociali, ma anche anni segnati da una crescente criminalità, in particolare politica. Rispetto a questi fenomeni il legislatore interverrà a colpi di decreti-legge realizzando politiche criminali per lo più incoerenti e disorganiche, che si prestavano ad essere strumentalizzate per guadagnare un maggiore consenso elettorale.

Nei primi anni settanta si registra, però, un importante mutamento nelle impostazioni dogmatiche della dottrina. Il tecnicismo giuridico sembra ormai appartenere al passato: i penalisti guardano al dettato costituzionale con occhi diversi e si aprono agli orientamenti del 'movimento internazionale di riforma", accogliendo l'idea di un diritto penale inteso come extrema ratio, ispirato al principio di frammentarietà. Quest'ultimo, individuando nella legge penale uno strumento di tutela rivolto soltanto a quelle aggressioni che appaiono meritevoli di repressione penale, costituisce l'essenziale premessa di ogni processo di depenalizzazione.

Tra gli anni '70 e gli anni '80 è un susseguirsi di convegni tra i penalisti, ma, come si rileva nel quarto capitolo, a questa vivacità dogmatica non si accompagna un proficuo dialogo con i soggetti istituzionali e con gli operatori del diritto.

Lo schema di legge-delega approntato dalla Commissione Pagliaro a cavallo tra gli anni '80 e '90 nasce in un clima di isolamento della dottrina penalistica. Quest'ultima non riesce a comunicare con un legislatore per lungo tempo interessato più al codice di rito che alla riforma del codice penale e la cui attività appare sempre più compromessa da una cronica instabilità politica.

Nel 1998, la Commissione bicamerale per le riforme istituzionali approva un progetto di riforma costituzionale che investe profili di diritto penale sostanziale di una certa rilevanza. Un progetto destinato a rimanere tale e che si aggiunge ai numerosi tentativi di riforma che fino ad oggi hanno cercato di dare al codice penale italiano un volto nuovo, ma la cui vicenda appare comunque emblematica di un paese che se non supera l'attuale empasse politico-istituzionale difficilmente potrà riuscire a riscrivere quelle norme da cui dipende in larga parte la possibilità di una civile convivenza.

Note

1. G. Bettiol, Il ruolo svolto dal codice Rocco nella società italiana, in Il codice Rocco cinquant'anni dopo, "La questione criminale", 1981, p. 27.