ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo I
Etnografia della tossicodipendenza

Vieri Lenzi, 1999

"Non" è l'antropologia a lasciare terreni esotici per rivolgersi ad orizzonti più famigliari col rischio di perdere la propria continuità. È il mondo contemporaneo stesso che, a causa delle sue trasformazioni accelerate, richiama lo sguardo antropologico, cioè una riflessione rinnovata e metodica sulla categoria dell'alterità (1).

1.1 L'indagine etnografica

La connessione classica tra viaggio e sapere antropologico non viene meno in questo lavoro.

Il viaggio può essere inteso come scoperta intellettuale e come tale non implica necessariamente uno spostamento in un luogo diverso da quello che "si abita". L'etnografia diviene come esprime efficacemente Matera, "pensiero in viaggio" (2). Lo spaesamento creato dallo spostamento in un luogo non consueto è sentito dall'antropologo nel momento in cui non riesce o non può più ritrovare luoghi e forme di pensiero consuete. Tali forme "insolite" si possono incontrare anche nella propria città, non lontano dalla propria abitazione. L'alterità, l'esotico che l'antropologia classica andava a cercare in passato, la si può ritrovare anche sotto casa, nelle strade della propria città. L'incontro con l'alterità, il viaggio intellettuale compiuto dall'antropologo, e lo spaesamento a esso conseguente costituisce le premesse per la scoperta di un nuovo ordine di pensiero.

L'etnografia è definita come attività di ricerca sul campo, condotta mediante prolungati periodi di permanenza a diretto contatto con l'oggetto di studio, seguita dalla restituzione testuale di tale esperienza (3). Tale termine quindi comprende sia la ricerca che la sua testualizzazione. L'esperienza etnografica nel momento della sua fondazione come scienza sociale appariva come una raccolta di dati il cui obbiettivo risultava quello di cogliere "l'autenticità" della cultura dei soggetti studiati. Il presupposto di oggettività delle informazioni raccolte viene a cadere con la critica epistemologica che ha interessato la disciplina e l'etnografia si è venuta a delineare come momento di confronto e dialogo tra le costruzioni interpretative dell'antropologo e delle persone che studia, dove compare la soggettività di chi indaga e di chi è indagato.

1.2 L'osservazione partecipante

Malinowski (4) è considerato l'artefice della "rivoluzione" avvenuta in etnografia. La tecnica di indagine antropologica da lui inaugurata si basa sulla ricerca sul campo ed in particolare sull'osservazione partecipante. Attraverso quest'ultima l'antropologo può riuscire a cogliere "il punto di vista del nativo".

Duranti ha definito l'espressione "osservazione partecipante" come un "paradosso" (5). Essa infatti compare come l'unione di due termini che si contrappongono nel significato, il primo che è generalmente associato al distacco e il secondo che invece richiama il coinvolgimento emotivo.

La soluzione a tale paradosso può essere rintracciata in una interpretazione che Clifford dà a questo modo di fare etnografia. L'antropologo definisce l'osservazione partecipante come "dialettica di esperienza e interpretazione" (6) in questo modo avviene un passaggio continuo tra "l'interno", cioè l'analisi dei fatti e comportamenti specifici, e "l'esterno" che si riferisce ad un ambiente e un contesto più ampio.

All'interno di un tale approccio l'esperienza etnografica risulta un momento di conoscenza che permette di creare una dimensione di condivisione di significati tra antropologo e le persone che vengono indagate.

L'interazione che caratterizza il campo di indagine permette l'edificazione di un "mondo significativo comune" (7). Ciò non significa il raggiungimento di quella condizione auspicata da Malinowski in cui l'antropologo si trasforma, come un camaleonte, per avvicinarsi al nativo, per diventare il nativo. Sul campo nel momento di partecipazione dell'antropologo si crea "un terzo mondo" (8) fatto di significati culturali condivisi, ma che nasce nel momento della negoziazione dei significati.

1.3 La negoziazione dei significati

La riflessione all'interno della studio dell'antropologia ha portato alla conclusione dell'impossibilità di una neutralità dell'osservazione e dell'interpretazione di una popolazione. Il presupposto di oggettività si è rilevato un mito, una finzione derivante dalla nostra tradizione di pensiero. Risulta impossibile all'etnografo trovare un punto di vista che gli permetta di liberare totalmente lo sguardo dai condizionamenti che la cultura di appartenenza gli impone.

Il problema della distanza ha da sempre sollevato una questione epistemologica all'interno dell'antropologia. "Lo sguardo da lontano" (9), la lontananza culturale dell'antropologo nei confronti dell'oggetto di studio, si presumeva garanzia di obbiettività.

All'interno del dibattito epistemologico sull'antropologia e specificatamente sulla attività di ricerca sul campo il modello monologico riferito al testo etnografico è stato sostituito da un modello dialogico.

Nel primo compariva solamente il punto di vista dell'antropologo visto come unico portavoce del nativo e unico soggetto a cui è affidata "l'autorità etnografica". La scientificità di tale modello si basava sulla presunta oggettività dell'etnografo, oggettività che sarebbe stata garantita dalla "presa di distanza" dalla cultura di appartenenza dello studioso e da quella dei soggetti studiati.

Il modello polifonico deriva dal dialogo tra etnografo e informatore dove il risultato dell'esperienza etnografica risulta da una negoziazione dei significati delle esperienze dei soggetti del campo. I risultati di un indagine sul campo non vengono mai assunti come definitivi né possono mai risultare sempre perfettamente coerenti ma sono continuamente soggetti ad una ridefinizione, una riasserzione. L'etnografia contemporanea lascia spazio alla soggettività dell'antropologo e l'utilizzo della prima persona nel testo etnografico o il non occultamento delle considerazioni autoriflessive ne è un chiaro esempio.

Fabietti definisce tale impostazione dell'antropologo sul campo un "punto di vista relativo" (10) che va inteso secondo l'autore come una "disposizione sociale". All'interno di tale prospettiva non è solo l'etnografo colui che risulta soggetto ad una riasserzione dei propri significati ma anche il nativo, il soggetto di studio, è coinvolto dall'esperienza. "Il presupposto dell'invisibilità" (11), così definisce Matera la credenza che la presenza sul campo dell'antropologo non alteri il manifestarsi degli eventi, risulta nella realtà una finzione. La presenza di una persona estranea alla propria cultura innesca sempre un processo di autoriflessione che sicuramente coinvolgerà l'universo di significati e dei valori propri del singolo e del suo gruppo di appartenenza.

Il lavoro sul campo dunque assume il significato di dialogo e il campo diviene un "ambiente comunicativo". La distanza tra antropologo e informatore tende a ridursi, i due protagonisti dell'esperienza etnografica sono entrambi coscienti della propria intenzione comunicativa. È necessario sottolineare come la riduzione della distanza non significhi una fusione tra l'antropologo e il nativo. Fabietti sottolinea efficacemente come l'obbiettivo di cogliere "il punto di vista del nativo" esplicitato da Malinowski nelle pagine del testo etnografico Argonauti del Pacifico Occidentale rimanga nella realtà una illusione. L'etnografo nel cercare di comprendere il soggetto della sua indagine non può porsi come obbiettivo quello di divenire un "camaleonte etnografico" ma cercare di condividere i propri significati con quelli del nativo facendo in modo che tra essi si instauri un dialogo.

In tale prospettiva il campo è il luogo dell'interazione tra significati. Il risultato della ricerca sul campo, il testo etnografico, conterrà dunque i diversi punti di vista dei diversi soggetti sul campo che si sono combinati.

L'antropologo negozia i significati nel corso del dialogo con i suoi interlocutori e così facendo riesce a cogliere quei processi di astrazione e di classificazione sottesi al mondo dell'esperienza del nativo.

È importante sottolinerare che il "dialogo sul campo", come ha testimoniato Fabietti (12), non cessa quando l'antropologo si allontana dal luogo della ricerca. L'interazione continua anche quando l'antropologo riguarda gli appunti del lavoro etnografico, quando cerca altri testi che trattano l'argomento della ricerca.

1.4 Uno studio etnografico sulla tossicodipendenza

Per tutti questi motivi l'etnografia mi sembra un metodo che possa aiutare a studiare il problema della tossicodipendenza da un'angolazione diversa rispetto a quella dei numerosi studi sociologici o psicologici sul problema.

Il metodo etnografico è risultato quello che meglio si adattava per riflettere sulla condizione della gruppo sociale che intendevo descrivere e comprenderne le dinamiche. Iniziare a prendere appunti sulla piazza e sulle persone che la frequentavano mi ha spinto a cercare un metodo di analisi e di successiva trascrizione il più possibile svincolato da un criterio analitico troppo rigido e strutturato. Attraverso la forma diaristica la mia esigenza è stata appagata.

L'atteggiamento di ricerca che ho assunto nel mio studio si può accostare alla attività dell'antropologo "nativo" proprio perché appartengo alla stessa cultura dei soggetti che ho osservato. Tale aspetto, tuttavia, è lontano dal rendermi un "nativista" nell'accezione accademica, poiché la mia osservazione è rimasta sostanzialmente esterna al gruppo di cui mi sono sopratutto interessato cioè i tossicomani storici (13) della piazza di Santissima Annunziata di Firenze.

1.5 La testualizzazione della ricerca sul campo

Il disagio che colpisce l'antropologo nel momento in cui deve trasferire le sue impressioni in un testo che deve essere letto da un pubblico più vasto (come nel caso di un testo elaborato e pubblicato per la comunità scientifica o semplicemente, come nel mio caso, per una tesi di laurea) ciò che ha osservato sul campo è una sensazione inevitabile dell'esperienza etnografica. Lo stesso Malinowski testimonia di avere avuta tale difficoltà nel momento in cui doveva colmare la "enorme distanza" tra la "materia bruta di informazioni" che risulta dalla trascrizione delle prime impressioni dell'etnografo, dalle sue interviste fatte agli informatori, alla "autorevole presentazione finale che l'autore fa dei risultati" (14).

Lo strumento della scrittura di cui è in possesso l'etnografo gli permette di tradurre l'orale, ciò che ha sentito sul campo, ciò che gli è stato riferito dai suoi informatori.

Trasportando in forma scritta, in un testo monografico le parole udite e le impressioni avute l'antropologo "trasforma l'alterità in differenza" (15). La testualizzazione permette di trasportare l'esperienza sul campo ad un livello di generalizzazione più alto.

Il presupposto già citato di "invisibilità dell'etnografo" (16) come garanzia di scientificità e oggettività della ricerca sul campo è stato per lungo tempo applicato anche al prodotto della ricerca, il testo della monografia redatto dall'etnografo. La non-comparsa, nel testo della soggettività di chi scrive sembra elevare il carattere di oggettività del lavoro scritto. La presenza nel testo etnografico del narratore in prima persona era spesso relegata in spazi marginali del testo (introduzioni o appendici).

Ora lo spazio per la soggettività dei protagonisti della ricerca non significa la caduta della scientificità del testo etnografico ma al contrario un modo in cui l'antropologia può fondare la sua autorità.

1.6 Perché un diario

Matera definisce in modo affascinante il risultato scritto del lavoro etnografico "il testo appuntato" (17). Il diario è una forma di testualizzazione caratterizzata da una struttura narrativa cronologica. Lo scopo dello scritto è quello evocativo, dalla narrazione di un evento ne deve scaturire un altro.

Un diario di osservazione etnografica mi è sembrato il più efficace metodo di analisi del problema della tossicodipendenza da eroina calata nella particolare dimensione che ho incontrato nella piazza in cui ho svolto l'osservazione. La trascrizione cerca di mettere in luce gli elementi fondamentali della forma che può assumere nelle diverse città e nei diversi gruppi. Le dinamiche e le relazioni del rapporto del tossicodipendente con il tempo e lo spazio, i riti collettivi, la coesione di gruppo.

L'intenzione iniziale alla base del presente lavoro era quella di riportare integralmente, nella loro consequenzialità temporale, tutti gli avvenimenti cui ho assistito dalla primavera del 1997 fino ad oggi. Per prima cosa ho voluto soffermarmi nell'illustrare la dimensione spaziale della ricerca, descrivendo l'ambiente fisico in cui si è svolta la ricerca e dove i soggetti studiati trascorrono gran parte della loro giornata.

La forma diaristica quotidiana si è rilevato il modo più spontaneo per descrivere le relazioni esistenti all'interno del gruppo dei tossicodipendenti da me indagato. Gli appunti segnati sul mio taccuino sono stati presi di getto e contenevano sia le informazioni acquisite sul campo che alcune mie impressioni personali.

L'aver adottato una forma più narrativa possibile unita alla circoscrizione del campo di indagine mi ha agevolato nella procedura di registrazione. La raccolta di dati, parole e avvenimenti registrati, più significativi, ha necessitato di un lungo periodo di tempo. Si è trattato di un vero e proprio "inserimento" nella vita vissuta di tutti i giorni di singole persone, aspettando che succedesse loro qualcosa e che qualcuno mi "facesse parte" di un qualche accadimento.

La testualizzazione di un lavoro etnografico da parte di un antropologo è difficile che contenga la descrizione esatta di tutto ciò che è avvenuto sul campo. La redazione di una monografia costringe a selezionare solo una minima parte dell'esperienza di ricerca. In questo senso non è possibile per l'etnografo "non fingere" (18). Il testo etnografico è il frutto di una scelta di una strategia narrativa che permetta di rendere a parole l'esperienza di cui l'etnografo è stato testimone (19). La capacità di astrazione dell'antropologo richiesta per l'elaborazione del testo richiede abilità "profetica".

La monografia etnografica può dunque essere definita "una finzione etnografica" (20).

Le considerazioni riguardanti il presupposto di "finzione" insito in ogni testo etnografico sono naturalmente riferibili anche al diario etnografico da me redatto. Gli appunti che ho raccolto sul campo contenuti in vari taccuini, che conservo gelosamente perché testimonianza di un periodo della mia vita, non sono stati riportati integralmente. A causa della vastità del materiale raccolto su registri diversi e spesso confusamente ho ritenuto necessario estrapolare gli appunti che ritenevo più "significativi ed espressivi".

La scelta narrativa del diario che ho voluto mantenere nella tesi mi ha permesso di dividere il materiale in giornate. All'interno di ognuna di esse ho estrapolato un argomento particolare da cui ho preso spunto per fare considerazioni ulteriori. La sistemazione cronologica originale nella sostanza è risultata abbastanza fedele a quella originale. L'azione del "fingere" interessa dunque anche la dimensione temporale. Il lavoro antropologico appartiene a una doppia temporalità che consiste nel "tempo del campo e il tempo del testo" (21).

La scelta del registro linguistico si è rilevata un atto spontaneo. La struttura narrativa è caratterizzata da una frammentazione degli stili adottati. La strutturazione dei dati raccolti in una forma ordinata, quale quella di un testo, non si è rivelata un operazione semplice. L'aver optato per una forma narrativa mi ha permesso di far emergere anche la dimensione emotiva della cultura del gruppo che ho indagato. Tale dimensione che è stata definita ethos (22) si è rilevata utile, ai fini di una comprensione il più profonda possibile dei soggetti che ho indagato, una parte costitutiva, fondamentale e non come si potrebbe pensare un elemento di decoro. Il registro narrativo che ho scelto mi ha dato la possibilità di trovare lo spazio per descrivere questa componente.

Ciò che è emerso nel mio testo etnografico è "un mondo ri-costruito" che è nato dalla relazione che si è instaurata con le persone che ho studiato. Il testo etnografico dunque è sino in fondo "prodotto di una ri-costruzione compartecipativa" (23).

L'utilizzazione di un modello di testo poco formale quale è la forma diaristica secondo Vincenzo Matera ha il vantaggio di attenuare il rischio insito in ogni operazione di osservazione e di costituire oggetti, di reificare tratti di una cultura come se avessero una realtà concreta e una autonomia ontologica, rischio presente in ogni tentativo di traduzione di significati. Molti studi sulla tossicodipendenza dimostrano come tale processo di oggettivazione e di steoreotipizzazione sia molto comune.

1.7 Il mondo della piazza

Ho circoscritto lo spazio della ricerca alla piazza di Santissima Annunziata e alla zona limitrofa che si spinge fino all'area dell'arco di San Pierino. Altre zone di Firenze potevano essere di interesse per la mia ricerca in quanto anch'esse sono caratterizzate dalla frequentazione di gruppi di tossicodipendenti, ma allargare il campo di rilevamento delle informazioni non mi avrebbe permesso di condurre una osservazione sufficientemente costante. Le persone che ho osservato tendevano ad essere molto sfuggenti ma per il bisogno di recuperare la dose giornaliera e... risultano legate ad un luogo circoscritto.

Esso può essere definito uno "spazio sociale" (24) in quanto configurazione spaziale fortemente legata alle relazioni sociali che in essa si svolgono e che la caratterizzano come "dimensione a sé stante". In questo senso lo spazio sociale si può pensare come "categoria culturale" (25). La piazza di Santissima Annunziata è il luogo delle relazioni sociali che interessano una categoria sociale particolare e l'organizzazione dello spazio diviene una delle caratteristiche di tale categoria.

Le caratteristiche del luogo in cui si è svolta la ricerca mi hanno portato alla scelta di circoscrivere il campo di indagine alla piazza, con una sola eccezione (26). La limitazione dello spazio mi ha portato a evitare di considerare, se non tramite intervista, la vita dei tossicomani all'esterno di tale spazio e le loro relazioni al di fuori del gruppo, poiché le vite "ingarbugliate" che si nascondono dietro una dipendenza meriterebbero ognuna uno studio specifico.

Nella mia ricerca etnografica mi sono concentrato su testimonianze raccolte nell'ambito "stretto" della piazza poiché è un ambito dove l'individuo non è costretto a fingere. I comportamenti dei tossicodipendenti esterni all'ambito della piazza appaiono fortemente condizionati dal pregiudizio della collettività. È necessario sottolineare come un tossicomane in qualunque altro contesto a contatto con la società "ordinaria" venga spesso inquadrato come un "deviante" e quindi spinto a perdere o a nascondere quelle caratteristiche comportamentali che la piazza, intesa come spazio sociale, e il gruppo degli altri tossicodipendenti gli riconoscono naturalmente.

La stigmatizzazione del singolo tossicodipendente e della categoria sociale in generale accresce notevolmente il loro senso di colpa e il disagio relegandoli in un universo "marginale" dove le motivazioni personali si confondono col pregiudizio collettivo.

Un diario di osservazione etnografica mi è sembrato un buon metodo di analisi del problema della tossicodipendenza da eroina calata nella particolare forma che può assumere nelle diverse città e nei diversi gruppi. Le dinamiche e le relazioni del rapporto del tossicodipendente con il tempo e lo spazio, i riti collettivi di rapporto e non-rapporto, la coesione del gruppo. La mitizzazione delle 'storie' che hanno condotto alla tossicodipendenza, sono materia che sta fra l'aspetto soggettivo del fenomeno che si mostra e si racconta, e l'oggettività di chi raccoglie, seleziona e dà senso ai dati; compito di una ricerca etnografica è quello di delineare i suoi stessi limiti, appunto tra soggettività che non si esprime e 'oggettività', che può scadere nel descrittivismo. È questo il compito che credo di avere affrontato con il presente lavoro.

Quando per un'inchiesta sulla famiglia siamo andati a chiedere ai giovani del Progetto Uomo cosa avrebbero voluto di più dai loro genitori, uno ha risposto: "Affetto. Avevo una fame insaziabile di affetto. Mi lasciavano libero al punto che mi sentivo inesistente".

Un altro: "Comprensione. Avrei voluto una famiglia che mi amasse, mi capisse. Invece mi accorgevo di stare in casa solo per mangiare e dormire".

Una ragazza: "Comunicazione. I miei non erano abituati neppure a parlare tra di loro". E poi: "Qualche schiaffo in più. Lì per lì mi sarei ribellato, ma almeno sarebbe stata una reazione". E ancora: "Libertà. L'apprensione di mia madre era altrettanto forte e opprimente quanto la continua assenza di mio padre". E poi: "Un rapporto alla pari, da persone vicine. Invece ricevevo regali, oggetti, materializzazioni dell'affetto che i miei erano incapaci di dare". (27)

L'utilizzo del lessico è impostato nel senso di tradurre gli accadimenti nel modo più verosimigliante possibile. Ciò perché è esso stesso parte del narrato, ed esprime la funzione di descrivere quegli spazi fisici nella loro essenza. Qui "la piazza" è teatro di una realtà umana, che si identifica in un determinato 'parlato': da qui in poi andrà intesa non in senso toponomastico (SS. Annunziata, S. Pierino etc.), ma come luogo reale-virtuale dei racconti e delle considerazioni.

1.8 La piazza

La piazza Santissima Annunziata dove ho svolto il mio lavoro etnografico (o, sarebbe meglio dire, stabilito il mio campo base) è circondata da loggiati tra cui quello dell'Ospedale degli Innocenti, questa piazza combina due realtà diametralmente opposte: dal passato, il suo spazio e i suoi monumenti sono allegorie di un'armonia che trovano una forma; nel presente gli ameni individui che la popolano la trasformano in un teatro di una commedia grottesca.

È forse uno dei monumenti in senso architettonico più importanti del mondo, dove prima il Brunelleschi poi il Sangallo diedero dimostrazione del loro genio. È forse lo spazio dove meglio si esprime la concezione dell'umanesimo fiorentino; misure perfette e sobrie decorazioni, dalle statue del Tacca alle formelle dei della Robbia, completano quello spazio in cui la cultura occidentale ha trovato le radici culturali della cosiddetta "misura d'uomo": ed è dal loggiato degli Innocenti, dove ogni arco ritaglia un quadrato perfetto di 6X6, misura derivata dal 'classico' rettangolo aureo, che si esprime come un codice segreto quell'alchimia che rende gli spazi fiorentini tali, regolari, a misura d'uomo. Risultato: che quest'alchimia crea quella sensazione quasi palpabile di mistica passionalità, che anima l'esistenza di quell'eterea consapevolezza parte di pensiero razionale, parte di fantasia. Un'armonia che lascia presagire qualche cosa di superiore, che in questo luogo prima ha albergato chiaramente nella mente dell'uomo.

Ecco che nel gioco delle sue proporzioni questa piazza ogni mattina si anima... centinaia di persone la attraversano frettolosamente: studenti, insegnanti, commercianti di ogni sorta che non si fermano mai e mai si guardano intorno, salvo i turisti attraverso la mediazione della telecamera o della macchina fotografica.

La piazza è priva di negozi e vi si affacciano pochissime abitazioni, tale particolarità la rende una delle piazze più ambigue della città. Una sola strada l'attraversa ed è costantemente percorsa da autobus e da macchine civili o di servizio che non possono fare a meno di transitarvi ma che non intaccano col loro passare il particolare senso di estraniazione che si prova nel momento in cui, magari per mangiare un panino, ci si sofferma su una delle larghe scalinate. In questa quiete si possono intravedere i veri abitanti della piazza: i tossicodipendenti i barboni e gli spacciatori, che normalmente passano inosservati, fra studenti frettolosi e turisti distratti. Gli spacciatori di eroina in questo ambiente sono come delle api, che si presentano in momenti prefissati, per impollinare e poi continuare i propri giri.

Note

1. Augé M. (1996), I non luoghi, introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, p. 27.

2. Matera V., (1996), Raccontare gli altri. Lo sguardo e la scrittura nei libri di viaggio e nella letteratura etnografica, Argo, Lecce, p. 13.

3. La definizione è tratta da Fabietti U., Remotti F. (1997), Dizionario di antropologia, Zanichelli, Bologna, voce etnografia, p. 274.

4. Malinowski ha svolto ricerca sul campo in Nuova Guinea tra il 1915 e il 1918 studiando la popolazione dei Trobiandesi [cfr. Malinowski B. (1922), Argonauts of the Western pacific, Routledge and Kegan Paul; trad. it. Argonauti del Pacifico occidentale (1973), Newton Compton, Roma].

5. Duranti A., (1992), Etnografia del parlare quotidiano, La Nuova Italia Scientifica, Roma, p. 20.

6. Clifford J., (1993), I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel XX secolo, Bollati Boringhieri, Torino, p. 50.

7. Ivi, p. 52.

8. Fabietti U., (1999), Antropologia culturale. L'esperienza e l'interpretazione, Laterza, Bari, p. 42.

9. Levi-Strauss C., (1983), Lo sguardo da lontano, Einaudi, To.

10. Fabietti U., (1999), op. cit., p. 25.

11. Matera V., (1996), op. cit., p. 40.

12. Fabietti U., Salzman P. C., (1996), Antropologia delle società pastorali, tribali e contadine. Dialettica della fusione e della frammentazione, Ibis, Pavia, 464.

13. Usando l'aggettivo storici si intende indicare la lunga durata della presenza di tali persone in uno spazio ben circoscritto della città che ha come epicentro la piazza. Il gruppo di tossicomani condivide rapporti di conoscenza e di solidarietà molto particolari ed è grazie a queste relazioni che essi possono perpetrare nel tempo l'utilizzo dell'eroina conducendo una vita al limite dell'immaginabile.

14. Malinowski B. (1992), op. cit., p. 4.

15. Fabietti U., Matera V. (1997), Etnografia. Scritture e rappresentazioni dell'antropologia, Carocci, Roma, p. 19.

16. Matera V. (1996), op. cit., p. 41.

17. Matera V. (1996), op. cit., p. 109.

18. Crapanzano V. (1995), Tuhami. Un uomo in Marocco, Meltemi Editore, Roma.

19. Nel tempo che sono riuscito a trascorrere in piazza, ho assistito a fenomeni che non sempre erano sufficienti a giustificare certe considerazioni riportate nel diario; mi sono avvalso per questo, delle interviste e di alcune testimonianze, per compensare tali lacune.

20. Fabietti U. (1999), op. cit., p. 130.

21. Kilani M. (1993), in Fabietti U. (1993), Il sapere dell'antropologia. Pensare, comprendere, descrivere l'Altro, Mursia, Milano, p. 30.

22. Gregory Bateson, (trad. it. 988), Naven, Einaudi, Torino.

23. Fabietti U., Salzman P. C. (1996), op. cit., p. 465.

24. Fabietti U., Remotti F. (1997), op. cit, voce spazio sociale, p. 703.

25. Ibidem.

26. È in questo senso che va interpretato il week-end al mare con Carmelo che ho raccontato nella sedicesima giornata.

27. Cfr. Olivieri D. (a cura di), (1996), I decessi per droga in Italia, Franco Angeli Editore, Milano.