ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Capitolo1
Considerazioni generali sul suicidio carcerario

Silvia Ubaldi, 1997

1. La storia degli studi sul suicidio carcerario

Prima di procedere ad un vero e proprio lavoro di rassegna, dobbiamo chiederci quando, nel corso della storia, si comincia ad avvertire l'esigenza di indagare sulle morti nelle carceri.

In base alle ricerche esaminate sembra che il tema delle morti nell'ambiente carcerario abbia destato interesse per la prima volta intorno alla metà del 19º secolo. Anderson (1) afferma che il problema dei suicidi in prigione, nelle workhouses (case di lavoro) e negli altri istituti di custodia è stato spesso occasione di accese controversie tra coroners (giudici), tra i quali compare il nome di Thomas Wakley, ufficiale e ricercatore del Lancet.

Dalle ricerche di Forbes (2) emerge che prima del 19º secolo i rapporti ufficiali sugli episodi di morte in carcere avessero un rilievo assai limitato e che i fatti venissero trattati in maniera sbrigativa e di sicuro senza una visione critica e problematica. Risulta che nel 17º secolo i coroners, tenuti a registrare e a commentare l'evento del suicidio, assumessero come standard di definizione l'espressione "morte per castigo divino". Già all'inizio di questo secolo, comunque, compaiono, anche se eccezionalmente, casi in cui i coroners nei loro rapporti cominciano a stabilire delle correlazioni tra l'episodio della morte in carcere e alcuni specifici aspetti del regime detentivo.

Va ricordato che in Inghilterra non soltanto la morte in carcere, ma la morte in generale assume nel periodo vittoriano un significato politico. Per statistici come William Farr, le statistiche sulla mortalità (che egli compilava per conto del cancelliere generale) costituivano un indice tanto della salute fisica, quanto della salute morale della nazione (3).

Come osserva Lindsay Prior "Ci sono buone ragioni per credere che la morte nel 19º secolo fosse percepita come un disagio sociale piuttosto che come un evento psicologico isolato". Inoltre, secondo questo autore "la medicina vittoriana ha tentato di sviluppare un'economia politica della morte; piuttosto che un'anatomia del disagio." (4)

Prior sostiene anche che le dissertazioni mediche e legali circa l'andamento dei tassi di mortalità erano caratterizzate "da una concentrazione sull'aspetto patologico, che trascurava l'influenza dei condizionamenti ambientali e dunque degli aspetti sociali in relazione al suicidio. Grazie a questa visione unilaterale del problema si poteva evitare di affrontare questioni di responsabilità (5). Così la maggior parte dei lavori sul suicidio in carcere sono stati condotti secondo una prospettiva medica o "medicalizzata" (6) e sono stati sostenuti proprio da medici penitenziari o da equipes di ricerca medica.

L'unica eccezione a questo approccio è la letteratura sociologica, che si basa quasi esclusivamente su ricerche empiriche. Secondo Hacking (7) lo studio sul suicidio in carcere sotto il profilo sociologico trae le sue origini nelle statistiche "morali" e tuttora rimane prevalentemente un esame dei "tassi di suicidio".

Ancora oggi la letteratura sul suicidio in carcere segue grosso modo due tendenze principali: quella di indirizzo medico-psicologico e quella di indirizzo sociologico. Si potrebbe dire che nei paesi di common law sono stati condotti prevalentemente studi di tipo epidemiologico, caratterizzati da un taglio prettamente statistico nella raccolta e registrazione dei dati. Nei paesi di civil law in particolare in Francia e in Italia la letteratura specifica sul suicidio in carcere è da considerare frutto del lavoro dei medici penitenziari.

2. La definizione di suicidio

La formulazione più semplice per definire il suicidio, è la seguente: "il suicidio è la morte di un soggetto conseguita ad una sua azione od omissione indirizzata a questo specifico fine. Il tentato suicidio si ha quando indipendentemente dalla volontà dell'autore, la morte non viene conseguita".

Non si discosta molto da questa la definizione data da Emile Durkheim (8) in quello che può essere considerato il primo studio sociologico del suicidio. Il sociologo francese definisce "suicidio" ogni caso di morte che risulti direttamente o indirettamente da un atto positivo o negativo, compiuto dalla vittima stessa consapevole di produrre questo risultato.

Numerose sono state le critiche mosse a Durkheim: Baechler (9) per esempio osserva che non sempre si può pretendere che la lucidità mentale sia un elemento costitutivo del suicidio. Sotto questo profilo l'autore propone una concettualizzazione più precisa, definendo il suicidio come ogni comportamento di un soggetto che cerca e trova soluzione ad un problema nella sua stessa morte.

Anche Farmer (10) e Ringel (11) criticano Durkheim per il fatto di qualificare il suicidio a partire dall'evento esterno della morte, in modo tale che suicidio e tentato suicidio differirebbero solo da un punto di vista quantitativo e non qualitativo.

Sulla stessa linea si pongono Beck e Kovaks (12) secondo i quali il tentato suicidio non è diverso dal suicidio solo perché non è fatale. Per questi autori, oltre che per Wally Festini (13) e Luca Cipollone, è valida la terminologia (introdotta dall'International Association for Suicide Prevention) che descrive in maniera specifica la condotta suicidaria mettendo in correlazione due variabili: il "suicidal intent" e la "medical letality" (14). La prima variabile riguarda la motivazione, cioè l'intenzione più o meno seria di autosoppressione; la seconda riguarda 1'effetto dell'atto, cioè la probabilità che una determinata condotta provochi la morte.

Beck e Kovaks esaminando 227 pazienti all'ospedale di Filadelfia, hanno imparato a riconoscere la serietà dell'ideazione suicidaria osservando 1a meticolosità con cui viene predisposto l'intento suicidario.

Secondo il grado di suicidal intent e di medical lethality si possono classificare tre condotte suicidarie: il suicidio completo, il suicidio tentato, e il parasuicidio (detto anche suicidio preterintenzionale) che consiste in una specie di suicidio simulato. Dalla combinazione delle due variabili "suicidial intent" e "medical lethality" si può dedurre una vera e propria scala di comportamenti. Quando la proporzionalità tra le due variabili è massima si ha il suicidio completo; oppure il "suicidio mancato". Questa figura è utilizzata da Pazzagli e Ballerini (15) per indicare quella condotta suicidaria in cui è molto elevato il grado di suicidial intent, ma la morte non e avvenuta.

Nel tentato suicidio la correlazione fra le due variabili è media. Ci si pone, infatti, di fronte all'idea della morte con lo stato d'animo di "chi è indifferente sul fatto di essere vivo o morto" (16). In tal senso Stengel (17) osserva che la maggior parte degli autori di suicidio tentato non vuole né morire né vivere, ma vuole le due cose nello stesso tempo.

Nel parasuicidio la proporzionalità fra suicidal intent e medical lethality è minima, perché la condotta suicidaria è solo strumentale, spesso deve servire ad attirare l'attenzione come ritiene Kreitman (18). Secondo questo autore il concetto di parasuicidio equivale a quello di suicidio simulato (o di suicidio manipolativo come viene definito secondo il linguaggio burocratico usato dall'amministrazione penitenziaria). Oppure, come sostiene Feurlein (19), è un modo come un altro per "spegnere 1'interruttore". Si tratterebbe, spiega l'autore, di "un tentativo finalizzato ad un'evasione solo temporanea da una realtà considerata intollerabile, ma senza considerare la precisa conseguenza della morte". In questo caso il senso del parasuicidio si avvicina molto a quello del tentativo di suicidio, così come è descritto da Stengel.

Anche Diekstra e Jansen (20) considerano il suicidio un fenomeno complesso e multidimensionale, per cui sarebbe riduttivo concentrarsi unicamente sull'evento della morte. Infatti 1'autore sostiene che la morte non è mai un fine, ma è un mezzo che porta all'allontanamento da una realtà disturbante attraverso una trasformazione di se stessi.

A partire da questa affermazione Diekstra sviluppa un'analisi del comportamento suicidario distinguendone tre elementi: l'esito, la deliberatezza (che riguarda le ragioni e 1'intento suicidario) e infine i motivi, che attengono allo stimolo e all'impulso finale del comportamento. Kreitman (21) invece ritiene addirittura impossibile una definizione del fenomeno, perché mancherebbe una teoria sulle motivazioni.

Proprio per la multidimensionalità del fenomeno suicidario, come ha sottolineato Diektstra, si può concludere che più che difficile, è quasi impossibile dare una definizione esaustiva del suicidio. Si tratta, infatti, di mettere in correlazione due elementi: l'evento, che consiste nella morte e il comportamento. Di questi due elementi solo il primo è certo e esternamente osservabile, il secondo comporta, invece, tutte le difficoltà che riguardano in generale lo studio di qualunque comportamento umano nel quale interagiscono diversi fattori: fattori esogeni, fattori endogeni e l'interazione fra di essi; infatti ha una sua rilevanza autonoma sul comportamento anche il particolare modo in cui il soggetto percepisce e "metabolizza" l'ambiente esterno in cui si trova.

Lo studio della particolare condotta suicidaria comporta anche l'ovvia aggravante di non permettere di intervistare il soggetto data l'estremità del suo gesto, a meno che non si estenda la ricerca anche ai casi di tentato suicidio e di suicidio mancato.

3. Il "suicida deviante" nel diritto

Oggi in Italia il suicidio non costituisce reato. Due motivazioni sono state alla base della non incriminabilità del suicidio a giudicare dalla relazione ministeriale sul progetto del codice penale vigente. Il primo motivo è dato dal fatto che: mors omnia solvit; il secondo motivo sta nel fatto che la decisione sulla propria morte appartiene alla sfera intima dell'individuo.

Per quanto concerne il primo dei due motivi di non incriminabilità del gesto suicidario si ritiene contraddittorio in dottrina il fatto che non venga incriminato neppure il tentato suicidio. In tal caso, infatti, non esistono problemi relativi alla pratica impossibilità di una efficace repressione, dato che l'autore del "fatto" rimane in vita.

Una parte della dottrina per esempio Manzini trova incoerente che il tentato suicidio non costituisca reato, soprattutto se si pensa che ai sensi dell'art. 5 del codice civile risultano vietati perfino gli atti di disposizione del proprio corpo. L'art. 5 testualmente dice: "Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati, quando cagionino una diminuzione permanente dell'integrità fisica o quando siano altrimenti contrari alla legge, ordine pubblico, o buon costume". Questa disposizione deve essere letta nel quadro del riconoscimento del diritto alla integrità fisica. Secondo parte della dottrina (Perlugieri), si ritiene che l'art. 5 sia coerente rispetto al diritto sull'integrità psico-fisica e si afferma altresì (De Cupis) che questo principio è in accordo con il diritto alla salute se non addirittura con il diritto della personalità.

Da questa ricostruzione è possibile cogliere la ratio dell'art. 5 solo se lo si pone in correlazione con l'art. 27, c.3 e l'art. 32, c.1.della Costituzione. La Costituzione in questi due punti tutela il diritto alla salute e in senso lato anche il diritto alla vita. Si potrebbe obbiettare che in ognuno di queste due disposizioni normative, si parla sempre di diritto e non di obbligo alla salute o alla vita. Tuttavia non si può negare che dal combinato di tali norme derivi una prova indiretta del concetto di devianza che il suicidio assume, in quanto comportamento che di sicuro contravviene ai suddetti principi costituzionali.

Anche se non esiste una norma che punisca direttamente il suicidio o il tentativo di suicidio, tuttavia dalla combinazione di queste norme si indovina il riflesso di una tendenza punitiva verso il comportamento suicidario (se non del diritto penale, almeno sotto il profilo del diritto civile e costituzionale). L'ordinamento non punisce il suicidio dei "liberi", ma dal suo complesso si evince che il suicidio è un atto deviante o meglio un comportamento tacitamente stigmatizzato nell'etichetta della devianza.

Il processo di stigmatizzazione del suicidio come atto deviante si accentua quando il comportamento suicidario si verifica in carcere, ove è già in corso un'altra forma di etichettamento nei confronti della "società dei reclusi". Si verrebbe a creare allora una sovrapposizione di etichette di deviante: una conseguente allo stato di reclusione, l'altra derivante dalla violazione della disciplina comportamentale che in carcere è di sicuro più severa e più inflessibile che fuori, dal momento che si tratta di un ambiente sottoposto a rigida sorveglianza. In questo contesto il suicidio, oltre che a violare il comandamento non scritto che prescrive il dovere oltre che il diritto alla vita, infrange una precisa disciplina di comportamento "scritta", alla quale i detenuti si devono adeguare.

Il suicidio del detenuto in carcere può essere ritenuto un "reato omissivo improprio". Questa ipotesi di reato è propria di colui che si sottrae all'obbligo giuridico di astenersi dal togliersi la vita.

L'obbligo giuridico in realtà è destinato non tanto al detenuto, ma alla guardia carceraria che deve intervenire per provvedere al salvataggio dell'aspirante suicida. La guardia carceraria ha il preciso dovere giuridico di salvare il detenuto anche a costo di usare la forza. L'eventuale uso di violenza sarebbe scriminato dall'art. 51 del codice penale in quanto esercizio di un diritto o adempimento di un dovere.

Anche questa ricostruzione dell'obbligo alla vita in carcere è comunque riconducibile alla precedente combinazione normativa che si fonda in ultima analisi sulla tutela costituzionale del diritto alla salute e infine alla vita. Questa è, infatti, la ratio ispiratrice anche della disciplina prevista dall'ordinamento penitenziario: si vedano le norme che costituiscono una specifica responsabilità delle guardie carcerarie per l'incolumità dei detenuti. Una ulteriore conferma si ricava anche dalla norma di cui all'art. 11 comma 5 ord. penit., secondo il quale: "L'assistenza sanitaria è prestata, nel corso della permanenza nell'istituto, con periodici e frequenti riscontri, indipendentemente dalle richieste degli interessati."

La visita del medico specialista, disposta per tutelare la salute psico-fisica del soggetto, si armonizza con il diritto alla salute protetto dalla Costituzione. Nella disposizione del diritto penitenziario emerge con maggiore chiarezza il fatto che la salute e dunque anche la vita individuale diventi un bene costituzionalmente protetto in quanto diritto, ma anche in quanto dovere. Le cure sanitarie diventano pertanto obbligatorie (poiché vengono adottate, indipendentemente dalle richieste degli interessati come recita l'art. 11ord. penit.). Il tentativo di suicidio evidentemente è considerato sintomo di malattia psichica (lesivo della salute psicologica del detenuto), dal momento che tutte le volte che si verifica, viene disposta la visita psichiatrica urgente; questo lo si deduce anche dal comma 7 dell'art. 11 ord. penit., il quale prevede che: "Nel caso di sospetto di malattia psichica sono adottati senza indugio i provvedimenti del caso col rispetto delle norme concernenti l'assistenza psichiatrica e la sanità mentale". Tale previsione deve essere interpretata come forma di un trattamento di rieducazione personalizzato "rispetto ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto", come dispone l'art. 13 sulle modalità del trattamento, inoltre la norma in esame al secondo comma sembra confermare la tesi sopra esposta, quando dispone: "Nei confronti dei condannati e degli internati è predisposta l'osservazione scientifica della personalità per rilevare le carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale. L'osservazione è compiuta all'inizio dell'esecuzione e proseguita nel corso di essa ..." In questo senso deve essere interpretato il Trattamento rieducativo del soggetto detenuto, al quale si ispira l'art. 1 dell'ordinamento penitenziario, che assurge a valore costituzionale in virtù dell'art. 27, c.3 della Costituzione.

La disposizione che affronta direttamente il suicidio in carcere e le altre forme di autolesionismo non si trova, tuttavia, nell'ordinamento penitenziario, ma nella così detta "circolare Amato", in cui, lo stesso ex-ministro specifica, in una premessa, che l'occasione per la redazione del presente testo è dato: "dall'improvviso aumento di tentati suicidi e di suicidi in carcere avvenuto alla fine degli anni '80 "come quelli accaduti nella Casa Circondariale di Milano e di cui si è temuta la ripetizione nella Casa Circondariale di Trani, (che hanno destato) particolare preoccupazione e allarme, anche per le suggestioni negative che possono derivarne. Ciò soprattutto in coincidenza della stagione estiva che, come è noto, aumenta le tensioni frequenti negli istituti di pena (...)".

A differenza delle altre disposizioni normative precedentemente esaminate questa circolare affronta direttamente il problema degli atti così detti "anticonservativi":

"Purtroppo si devono talvolta lamentare, all'interno degli istituti di pena da parte dei detenuti, atti di immotivata ed ingiustificata aggressività o di autolesionismo che giungono fino al suicidio. Inoltre, sono presenti persone detenute, come i tossicodipendenti, i malati di mente, i giovanissimi, e gli anziani, le persone più deboli o più fragili, quelle che fanno per la prima volta ingresso in un istituto di pena, tutte quelle, in genere, la cui salute fisica o psichica è esposta a particolare rischio o per le quali alla privazione della libertà sono inevitabilmente connesse conseguenze di maggiore sofferenza o particolarmente traumatiche o che sono più esposte ad eventuali intimidazioni, ricatti, prevaricazioni da parte di altri detenuti."

Dopo questa prima introduzione che circoscrive l'argomento di interesse, relativamente all'osservazione degli atti autoaggressivi, la "circolare Amato" (circolare n. 3182/5632 del prot. n. 80828/5.3) risalente al 21 dell'86, richiama l'attenzione sull'art. 11, 4º e 5º comma della legge n. 354 del 1975, il quale stabilisce, fra l'altro: "All'atto dell'ingresso nell'istituto i soggetti sono sottoposti a visita medica generale allo scopo di accertare eventuali malattie fisiche o psichiche. L'assistenza sanitaria è prestata, nel corso della permanenza nell'istituto, con periodici e frequenti riscontri, indipendentemente dalle richieste degli interessati. Il sanitario deve visitare ogni giorno gli ammalati e coloro che ne facciano richiesta..." e, si può aggiungere all'articolo (afferma Amato): "coloro che, pur non facendone richiesta, ne abbiano bisogno."

Mi sembra evidente che anche in questo caso, lo spunto per la prevenzione e quindi per una certa regolamentazione di tali atti sia offerto precisamente dal combinato di norme che riguardano la tutela alla salute, e alla vita. Diritti questi ultimi che trovano il loro fondamento principalmente nell'art. 32 della Costituzione, che viene specificato a proposito della salute nell'ordinamento penitenziario nell'Art. 11.

Questa linea di tendenza appare ancora più chiara in un altro punto della circolare in cui si afferma: "Dovendosi sempre ricordare che la vita, la salute, il benessere possibile di ogni uomo sono beni preziosi e la cui tutela merita tanta più attenzione ed impegno quando si tratta, come nel caso dei detenuti, di persone affidate alla sorveglianza ed alla cura di altri. Con più particolare riferimento alla assistenza sanitaria, ricordo che la vigente normativa offre tre diverse soluzioni. In via principale e normale la persona detenuta dovrebbe essere assistita e curata dai servizi sanitari intramurari. In ogni caso di bisogno questi servizi devono impegnarsi ad offrire la migliore assistenza possibile, anche per evitare non necessari ricoveri esterni. Ove peraltro, come statuisce l'art. 11 della legge, - siano necessari, cure o accertamenti diagnostici che non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti - i detenuti sono trasferiti, con provvedimento del magistrato competente, in ospedali civili o altri luoghi esterni di cura".

Competenti a valutare la necessità di un ricovero esterno è il magistrato al quale la direzione dell'Istituto si rivolge con tutta la documentazione medica. "A proposito delle sopraindicate certificazioni sanitarie che danno o possono dar luogo a ricoveri esterni, lo scrupolo sanitario deve conciliarsi con la serietà degli accertamenti, cioè la attenta cura dell'interesse alla salute deve comporsi con la necessità di evitare rigorosamente eventuali strumentalizzazioni e abusi, per i quali, in realtà, le ragioni sanitarie siano nulla più che un pretesto".

È chiaro da questa precisazione che c'è la coscienza e la preoccupazione che rendendo la normativa più "elastica" e "sensibile" alle istanze psichiche dei detenuti, si corra anche il rischio di favorire simulazioni o atti volti più che altro a ottenere trasferimenti, trattamenti differenziati o altri vantaggi.

La circolare si conclude con una esortazione collettiva di tutto il personale, che si potrebbe rivelare particolarmente competente: medici infermieri, psichiatri e esperti, nonché volontari a sensibilizzarsi e a prendere responsabilità al problema.

Nella circolare viene trattato un tema molto delicato perché si tenta di conciliare l'esigenza di mantenere l'ordine interno all'istituto con quella di tutelare l'incolumità dei detenuti. Per quanto la circolare nasca dalla necessità di contenere il fenomeno del suicidio e dell'autolesionismo nelle carceri, tuttavia sembra poi che prevalga l'interesse teso a mantenere l'ordine interno. L'equivoco nasce anche dal fatto che spesso il procedimento applicato e i rimedi adottati a tutela dell'incolumità sono gli stessi che, secondo l'articolo 14 bis dell'ordinamento penitenziario, vengono "irrogati" come sanzioni (es. isolamento...) quando il detenuto assume un comportamento eteroaggressivo compromettendo il "buon ordine" dell'istituto. Infatti quando nell'ambiente penitenziario si verifica un episodio di tentato suicidio di solito il personale addetto alla sorveglianza si preoccupa di fare rapporto immediato alle autorità. In questi casi si dispone come misura di sicurezza il regime di sorveglianza particolare, non è chiaro se questa misura sia rivolta a preservare l'incolumità dell'individuo, oppure il buon ordine dell'andamento del penitenziario. _ la stessa normativa dell'articolo 14 bis che fa sorgere quest'ambiguità: l'art. 14 bis disciplina il regime di sorveglianza particolare. Al primo comma dispone che: "Possono essere sottoposti a regime di sorveglianza particolare per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabile anche più volte in misura non superiore ogni volta a tre mesi, gli internati e gli imputati: che con i loro comportamenti compromettono la sicurezza ovvero turbano l'ordine negli istituti".

Questa disposizione è posta a tutela dell'ordine, quindi l'oggetto della tutela riguarda gli "altri" detenuti i quali verrebbero tutelati da colui che pone in essere un comportamento che compromette la sicurezza dell'ambiente (in questo caso il comportamento suicidario). Tuttavia occorre ricordare che quando si verifica un episodio di suicidio o tentato suicidio la tutela è rivolta verso l'incolumità di colui che tenta il suicidio. Applicare nel caso di tentato suicidio l'articolo 14 bis, vuol dire, da un lato tradire la ratio della norma, utilizzando disposizioni riguardanti l'ordine interno dell'istituto in difesa dell'autore del gesto. Dall'altro ha la conseguenza paradossale che misure, sulla carta punitive, vengano adoperate a scopo preventivo e terapeutico.

Quando, invece, il comportamento suicidario è un gesto puramente "strategico" la procedura dell'articolo 14 bis si mantiene fedele anche alla così detta ratio legis, rivolta alla tutela della disciplina interna, continuando a perseguire l'obiettivo di preservare il "buon ordine" dell'istituto. Infatti nel caso in cui si tratti di un gesto simulativo, "il tentato suicidio" viene in considerazione come fatto da reprimere in quanto generatore di disordine. Colui che ha tentato il suicidio diventa un deviante giudicato pericoloso. Certamente sono molto sfumati i sensi in cui possa essere intesa tale pericolosità. Al di là dell'attenzione verso l'incolumità del detenuto stesso; traspare una costante preoccupazione per il significato antisociale "eversivo" che viene associato al suicidio, soprattutto se è il risultato di una scelta fredda e razionale.

4. Il suicidio carcerario come devianza psichica

Il suicidio carcerario viene descritto come devianza che si manifesta non tanto attraverso la condotta "criminale"; quanto nella forma della condotta del "folle"; ossia del deviante delle "norme residuali".

I provvedimenti che vengono adottati in carcere nei confronti di colui che tenta il suicidio, infatti, sono gli stessi che verrebbero adottati nei confronti di un "malato di mente": nell'ordine si dispone la visita del medico penitenziario, poi quella dello psicologo e dell'educatore, che valgono come supporto psicologico; segue la visita psichiatrica, infine la misura che viene solitamente adottata è "l'isolamento", e la "grande sorveglianza", nei casi più gravi il soggetto viene "trasferito all'O.P.G". Il problema circa la salute e la "sanità mentale" del suicida è molto dibattuto. Procura un forte "disagio" morale e culturale riconoscere che il comportamento suicida possa essere "normale" piuttosto che patologico. L'uso della categoria di devianza patologica in merito al suicidio sembra, d'altra parte, avere un effetto maggiormente rassicurante relativamente ai valori psicologici della società; cosicché colui che lo metterà in atto, potrà essere rinchiuso e allontanato in quanto pericoloso. Il che non appare una forzatura, né una enfatizzazione della figura del suicida, dato che, perlomeno nel penitenziario, il soggetto viene, in concreto, allontanato ed emarginato, adottando la misura, che si chiama appunto di "isolamento" oppure disponendo, nei casi più gravi, il trasferimento all'ospedale psichiatrico giudiziario come si è visto sopra.

Anche in ottica preventiva il potenziale suicida viene identificato nel "malato di mente" o meglio nel detenuto che ha dei problemi psichici e che perciò ha bisogno delle cure tempestive di un esperto psicologo. Nella circolare Amato n.323/5683 dell'87 (che è intitolata espressamente Tutela della vita e della incolumità fisica e psichica dei detenuti e degli internati) ove si mira a prevenire il suicidio in carcere dei soggetti a rischio, si mantiene coerentemente la tendenza a considerare il suicida come persona quanto meno psichicamente fragile. La circolare esprime "vivissima preoccupazione" per i ricorrenti, gravissimi fenomeni in aumento degli atti di autolesionismo; in specie dei suicidi quando dice:

Per prevenire ed impedire gesti auto- o etero-aggressivi delle persone ristrette negli istituti di pena, tutelandone nel modo migliore e più ampio la vita e l'incolumità fisica e psichica ... l'attenzione e la cautela devono avere il loro momento più significativo all'atto di ingresso della persona in istituto, specie se avviene per la prima volta, e prima della sua assegnazione alla sezione a cui è destinata. L'esperienza insegna, infatti, che frequentemente provengono dalla libertà soggetti giovanissimi o anziani, tossicodipendenti, soggetti in condizioni fisiche o psichiche non buone o comunque di particolare fragilità, soggetti tutti ai quali la privazione della libertà, specie se sofferta per la prima volta, può arrecare sofferenze e traumi accentuati, tali da determinare in essi dinamiche autolesionistiche o suicide ... È, dunque, necessario intervenire tempestivamente, al momento dell'ingresso in istituto, allo scopo di accertare qualsiasi eventuale situazione personale di fragilità fisica o psichica e qualsiasi eventuale inclinazione, tendenza o sintomo suscettibili di tradursi in un atto autoaggressivo o di rendere il soggetto più vulnerabile alla altrui aggressività. Viene, pertanto, istituito in tutti gli istituti di pena un particolare Servizio per i detenuti e gli internati nuovi giunti dalla libertà, consistente in un presidio psicologico, che si affiancherà, pur senza sostituirli, alla prima visita medica generale (art. 11,3º comma Legge n. 353 del 1957) ed al colloquio di primo ingresso (art. 23, 4º comma D.P.R. n. 431 del 1976) ... Innanzitutto, esso sarà effettuato subito dopo la prima visita medica... Il presidio è affidato agli esperti ex art. 80 Legge n. 354 del 1975, specializzati in psicologia o criminologia clinica, e consiste preliminarmente in un colloquio con il nuovo giunto (nello stesso giorno dell'ingresso e prima dell'assegnazione) diretto ad accertare, sulla base di determinati parametri, il rischio che il soggetto possa compiere violenza su se stesso.

Tutte le misure adottate nella circolare sono ispirate ad una visione patologica del potenziale suicida e di conseguenza anche le precauzioni contro il rischio di suicidio sono di natura clinica. Sarà infatti l'esperto psicologo ad occuparsi del colloquio attraverso il quale si dovrebbe pervenire ad un esame della personalità. La diagnosi della predisposizione suicidaria del "nuovo giunto" dovrà essere descritta in una relazione, in tre copie, da allegare oltre che alla cartella personale del soggetto anche alla cartella sanitaria. Nella stessa circolare si precisa inoltre che "è necessario che il sanitario che ha effettuato la visita medica trasmetta all'esperto, competente a sostenere il colloquio, copia della cartella clinica compilata in seguito alla visita medica del nuovo giunto" Inoltre a dimostrare che non esiste alcuna soluzione di continuità tra il momento del colloquio presso il Servizio nuovi giunti e il momento della visita medica è importante riportare un passo della circolare dell'88 (volta a chiarire il senso della circolare istitutiva del presidio) ove si puntualizza: "Circa la successione degli interventi sul nuovo giunto, si chiarisce che la visita medica dovrà avvenire subito dopo la immatricolazione, e successivamente - senza soluzione di continuità - avrà luogo il colloquio di primo ingresso che avrà luogo contestualmente o al più presto entro le ventiquattro ore". Il giudizio dell'esperto comporterà sempre una valutazione di tipo medico del soggetto. Anche le misure previste nel caso in cui il detenuto sia definito come soggetto a rischio e cioè l'assegnazione del detenuto in ambienti sanitari (ad es. infermerie, centri clinici, infermerie sussidiarie ecc.) sono un'ulteriore conferma dell'ottica clinica che si mantiene nella discussione del problema.

Il contenuto della circolare rivela piuttosto chiaramente il punto di vista delle istituzioni: il potenziale suicida è considerato una persona soggetta ad un gesto autosoppressivo a causa di un "difetto proprio", a causa di una propria vulnerabilità individuale le cui radici sono da individuare nella psiche del soggetto. Secondo il progetto della circolare, attraverso il colloquio, l'esperto psicologo dovrebbe mettere a nudo la psiche del soggetto per rivelare la sua vulnerabilità e per capire se il "nuovo giunto" si può ritenere un potenziale suicida.

Un anno dopo viene emessa la circolare 324/5695 dell'88 allo scopo di apportare chiarimenti alla circolare istituiva del "Servizio nuovi giunti" di cui si è parlato sopra. Nella più recente circolare si precisa per esempio che:

il Servizio Nuovi Giunti deve essere considerato parte anticipata del più complessivo colloquio di primo ingresso, seppure nulla impedisca che esso sia svolto prima del colloquio. Se però è svolto prima del colloquio di primo ingresso, l'esperto va considerato delegato del Direttore. Si tratta, infatti, di una attività non propriamente configurabile come osservazione scientifica (di cui all'articolo 13) o come trattamento rieducativo, ma piuttosto rientrante in quel tipo di interventi di trattamento penitenziario in senso lato (v. per gli imputati l'art. 1 del regolamento di esecuzione) previsti dalla normativa per la generalità della popolazione detenuta ed internata.

È evidente che quello del "Servizio Nuovi Giunti" è un progetto fin troppo ambizioso. In questa seconda circolare sembra che da parte delle Istituzioni vi sia stata una presa di coscienza dei limiti del servizio nuovi giunti:

È chiara la consapevolezza, da parte dell'Amministrazione, della impossibilità, attraverso il colloquio con il nuovo giunto di ottenere un esame completo di personalità ed una diagnosi che portino a previsioni infallibili ed assolute sui rischi di atti autolesionistici da parte del soggetto o di atti autolesionistici da parte del soggetto o di atti di violenza su di lui. E, tuttavia, è comunque necessario realizzare, con ogni impegno, scrupolo ed attenzione, tutti gli interventi possibili, e innanzitutto l'indagine dettagliata indicata nella circolare 30 Dicembre 1987, evitando di livellare sistematicamente e senza motivazione verso l'alto l'indicazione del grado di rischio nella stesura della relazione, perché ciò invaliderebbe i risultati dell'impegno dell'Amministrazione.

Restano, naturalmente, ferme le ordinarie procedure, prassi e possibilità di intervento e di sostegno nel corso della detenzione, alle quali va indicata sempre grande attenzione e cura. Ma è evidente che tutta la procedura indicata nella presente e nella precedente circolare del 30 Dicembre 1987 rappresenta un primo intervento immediato e diretto ad eliminare o almeno a ridurre quanto più possibile i rischi connessi all'ingresso in istituto. Analoga procedura ed idonei interventi dovranno essere attivati anche in coincidenza con particolari avvenimenti che possano costituire causa di particolare trauma o turbamento per il detenuto. (condanne sopravvenute, disgrazie familiari ecc.), accrescendo dunque i rischi che egli commetta atti autolesionistici o subisca violenza.

Tutte le disposizioni normative in materia, presumono che il suicida sia sempre etichettato come malato di mente; in altre parole è il deviante residuale. Per completezza va aggiunto che si è aperta anche un'altra questione in dottrina circa la sussistenza della "capacità di intendere e di volere" in colui che tenta il suicidio. Il fatto di considerare aprioristicamente l'aspirante suicida "incapace di intendere e di volere" legittimerebbe ogni forma di prevenzione e repressione del comportamento suicidario. Data l'incapacità dell'aspirante suicida, l'Istituzione penitenziaria si farebbe tutrice del detenuto suicida, che ormai non sarebbe più in grado di autodeterminarsi liberamente. Secondo il più recente orientamento della Corte Costituzionale non si possono fare apriorismi, ma bisogna accertare caso per caso: si può essere anche lucidissimi nel momento in cui si prende una decisione sul gesto più estremo. Viene riportato l'esempio di colui che si toglie la vita perché sta compiendo una missione di guerra, oppure di colui che si toglie la vita per ragioni di interesse scientifico, oppure per salvare la vita altrui o per motivi di onore.

In un istituto, caratterizzato da un regime di sorveglianza costante come il carcere, possono accadere frequenti episodi di autolesionismo, tentato suicidio e suicidio. Il suicidio, come forma di devianza è quello che desta un allarme più forte e una maggiore preoccupazione, che non le altre forme di devianza: se può risultare abbastanza "agevole" far risaltare la "negatività" del delinquente o del ribelle, è molto meno facile esibire la "colpevolezza" del suicida, che nella società susciterà molto più probabilmente sentimenti di compassione e di compartecipazione mettendo in crisi un assetto di valori tradizionale in cui ci sono i "buoni" e i "cattivi".

Sotto questo profilo si tende a ricondurre ogni caso di suicidio alla categoria della devianza della mente: il suicida non è cattivo, è semplicemente "pazzo". Come nell'antichità ancora oggi il suicida è socialmente stigmatizzato (secondo il riflesso dell'opinione pubblica) come un pazzo e un indemoniato, pericoloso per sé e per gli altri.

Note

1. O. Anderson, Suicide in Victorian and Edwardian England, Oxford: Clarendon Press, 1987.

2. T.R. Forbes, "Crowner's quest", Transaction of the American Philosophical Society, 68,1977.
T.R. Forbes, "Coroners' inquisition on the deaths of prisoners in the hulks at Portsmouth", Journal of History of Medicine and Allied Sciences, 33, 1978.

3. M.J. Cullen, The Statistical Movement in Early Victorian England, Hassocks, Sussex: Harvester, 1975.

J.M. Eyler, Victorian Social Medicine: The Ideas and Methods of William Farr, Baltimore: John Hopkins University Press, 1979.

4. L. Prior, The Social Organization of Death, Macmillan, 1989.

5. L. Prior op. cit. 1989, così anche Scraton e Chadwick, op. cit. 1987.

6. J.L. McIntosh, Research on Suicide: A Bibliografy, Westport, (Conn): Greenwood Press, 1985.

7. I. Hacking, The Taming of Chance, Cambridge: Cambridge University Press, 1990.

8. E. Durkheim, Il suicidio, Utet, Torino, 1987.

9. J. Baechler, Suicides, Basil Blackwell, Oxford, 1980.

10. R.D.T. Farmer, "Assesing the Epidemiology of Suicide and Parasuicide", British Journal of Psychiatry, 153, pp.16-20, 1988.

11. S. Ringel, Psycological Assesment of Suicidal Risk, University Park Press, London, 1990.

12. A.T. Beck and R. Beck, and M. Kovacs, "Classification of Suicidal Behavior", American Journal of Psychiatry, 1985, (132).

13. W. Festini, e L. Cipollone, Suicidio e complessità, Giuffré, Milano, 1992.

14. Diversa è la posizione di Shneidman che con l'espressione medical lethality allude all'individuale intenzionalità di autosoppressione ricomprendendo, quindi, questa nozione nella categoria di suicidal intent.

15. A. Pazzagli e A. Ballerini, "Suicidio e organizzazione narcisistica", in Pavan L. D. De Leo (a cura di), Il suicidio nel mondo contemporaneo, Liviana, Padova, 1988.

16. R. F. W. Diekstra, M. A. Jansen, "Importanza degli interventi psicologici nell'assistenza primaria", in G. Tibaldi (a cura di), Intervento psicologico nella salute, Masson, Milano, 1989.

17. E. Stengel, Il suicidio e il tentato suicidio, Feltrinelli, Milano, 1977.

18. N. Kreitman, A.E. Philip, "Parasuicide", British Journal of Psychiatry, 153, p.843, 1969.

19. W. Feurlein, Selbstmordversuch oder Parasuizide Handlung? Tendenzen Suizidalen Verhaltens, Nervenarzt, 42, pp.127-130, (1971).

20. R. F. W. Diekstra, M. A. Jansen, "Importanza degli interventi psicologici nell'assistenza primaria", cit.

21. N. Kreitman, A.E. Philip, "Parasuicide", cit.