ADIR - L'altro diritto

ISSN 1827-0565

Introduzione

Ilaria Masini, 1997

Non dobbiamo credere che a un detenuto interessi qualsiasi altra cosa che non sia la libertà. Non c'è giorno che passi, senza che un carcerato pensi ad uscire: come possibilità, come speranza, come sogno. Uscire, anche solo per un'ora, ma essere libero, libero di ordinare un bicchier d'acqua minerale, libero di fermarsi ad un semaforo, libero di dormire.

Due sono i tatuaggi più frequenti fra i detenuti: la farfalla che rappresenta la libertà e la nave con le vele al vento che è l'evasione. Libertà e sbarre: una tensione che tende ad esplodere, soprattutto se aggiungiamo le condizioni di vita nelle carceri. Sovraffollamento, violenza, malattie, vendette. Sono solo i problemi più immediati, individuati anche da chi il carcere non lo vive e di conseguenza non lo conosce.

Succedono più cose in un penitenziario in un giorno che in una città intera nel corso di una settimana. Gestire un carcere, sia da un punto di vista amministrativo che legislativo, crea problemi e questioni difficilmente risolvibili dal momento che in un carcere, in modo quasi automatico, la legge dell'ordinamento giuridico si scontra con la legge della violenza.

Una profonda riforma a livello legislativo si è avuta con la legge 354/75, poi sviluppata dalla popolare "Legge Gozzini". Il nuovo ordinamento penitenziario si basa sulla filosofia del 'recupero', mirando a far prevalere il criterio riabilitativo su quello meramente repressivo. Attraverso un trattamento rieducativo individualizzato, il detenuto può ricominciare a prendere contatti con la realtà esterna e tendere al reinserimento sociale. In primo luogo, il trattamento è svolto avvalendosi dell'istruzione, delle attività culturale e del lavoro all'interno delle carceri; poi, in un secondo momento, se il condannato ha tenuto un comportamento soddisfacente e ha compiuto progressi tali da far pensare a un suo graduale reinserimento nella società, potrà essere ammesso alle misure alternative, sempre che sussistano gli altri presupposti relativi alla durata della pena e agli anni di reclusione già scontati.

La riforma ha diviso studiosi, teorici e operatori. Chi sostiene la bontà della legge condivide il principio stesso della rieducazione e afferma per di più che il nuovo ordinamento ha contribuito a diminuire il tasso di violenza all'interno delle carceri, puntando innanzitutto sulla buona condotta del detenuto come presupposto delle misure alternative.

Al contrario c'è chi sostiene che la riforma ha portato nelle carceri nient'altro che ipocrisia, dal momento che coloro che riescono ad ottenere i benefici previsti dalla "Legge Gozzini" sono di solito i più furbi o i più ricchi, e così alla fine escono proprio quelli che non lo meritano, ma che trovano uno stratagemma per ottenere un'attività lavorativa. In particolare viene messo in discussione l'art. 58 ter, norma aggiunta nel 1991, riguardante i collaboratori di giustizia. Tale articolo è accusato di aver dato vita a un vero e proprio mercato della pena. La strada giusta, anche se estremamente difficile da seguire, potrebbe essere quella di sensibilizzare la popolazione detenuta e convincerla ad essere leale e non servirsi malamente dell'ordinamento. Del resto, quando la legge era appena entrata in vigore, lo scopo era proprio quello di sensibilizzare i detenuti.

Un altro problema fondamentale è quello di stabilire chi deve decidere della sorte del detenuto e del suo iter penitenziario: la Magistratura di sorveglianza o un'équipe interna? Il sistema penitenziario italiano prevede la presenza di due componenti distinte e parallele: l'organo giurisdizionale (Tribunale di sorveglianza) e l'organo amministrativo. Entrambi sono chiamati a gestire l'esecuzione della pena. Tuttavia, mentre prima della introduzione della "Legge Gozzini" la Magistratura di sorveglianza aveva valenza di 'ispezione e controllo', dopo il 1986 ha assunto in maniera sempre più diretta la funzione pedagogica e decisionale riguardo al percorso trattamentale del detenuto (l'art. 30 ter può essere un esempio). Gli operatori penitenziari lamentano così lo svilimento della propria professionalità e il disagio in cui vengono a trovarsi visto il progressivo impoverimento delle loro funzioni nonostante che siano proprio il direttore, gli assistenti sociali e gli educatori a conoscere meglio il carcerato, dal momento che sono in contatto con lui ventiquattro ore su ventiquattro.

Tuttavia, l'équipe composta da persone che lavorano all'interno del penitenziario non è un organo libero e indipendente dall'amministrazione, e quindi sarebbe ingiusto oltre che rischioso affidare le decisioni riguardanti il detenuto a soggetti che potrebbero essere influenzati o condizionati dall'amministrazione stessa.

Inoltre gli operatori penitenziari sono fin troppo vicini ai detenuti e, dopo aver creato un rapporto molto stretto con loro, potrebbero essere portati a divenire più cedibili nei confronti dei carcerati stessi. Invece il magistrato, essendo indipendente e non coinvolto emotivamente, può decidere circa l'iter penitenziario del recluso senza nessun condizionamento e in assoluta libertà.

E in mezzo a tanti problemi teorici, il detenuto sopravvive e spera. Del resto, attualmente, anche un ergastolano che si comporti in modo disciplinato vede la possibilità di realizzare il suo sogno di libertà.

Certo questo non significa che la riforma abbia risolto i problemi del carcere e che tutti i detenuti siano diventati degli scolaretti obbedienti pronti ad abbandonare rancori e violenze. Sarebbe pura utopia, perché è evidente che non basta una riforma a cambiare le leggi del carcere e la sua logica. Il carcere vive di proprie regole, di una propria violenza e di proprie ribellioni. E anche se la condizione e l'ideologia in generale possono aver subito un cambiamento in seguito alle leggi di riforma, è sempre pronta dietro l'angolo una eventualità che fa crollare il sogno.

Un caso di questo tipo è stato Porto Azzurro, l'anno è il 1987.

La Casa di Reclusione elbana stava vivendo un periodo molto tranquillo e probabilmente era l'Istituto che in Italia applicava nel modo migliore la "Legge Gozzini". Una gestione aperta grazie alle idee e alle iniziative del direttore Cosimo Giordano in un carcere all'avanguardia, più volte definito carcere modello. Eppure, quella mattina del 25 agosto tutto venne messo in discussione, tutto quanto sotto accusa, dal direttore alla riforma (anche se paradossalmente sarà proprio la riforma ad essere utilizzata per risolvere la vicenda).

La 'rivolta' di Porto Azzurro è stata una passerella esemplare di azioni ribelli e di pensieri contorti. La fenomenologia del carcere speso sfugge a qualsiasi regola e anche per questo è incontrollabile e imprevedibile.

Porto Azzurro ha rappresentato in modo esemplare la casualità degli eventi e l'impossibilità assoluta di evitare determinate situazioni, viste come assolutamente incredibili e inattuabili. Porto Azzurro, l'isola felice, cadde in trappola, senza nessun motivo, ma per un sovrapporsi di sventurate circostanze e di errori trascurati.

Il mio tentativo, in questo lavoro di tesi, è stato di ricostruire la vicenda attraverso le testimonianze e le dichiarazioni di coloro che l'hanno vissuta in prima persona, oltre che attraverso gli scritti e le documentazioni più o meno ufficiali.

Si è trattato di un episodio che, sebbene senza vittime materiali, ha coinvolto (e travolto) un alto numero di persone, le quali, a dieci anni di distanza, da me sollecitati, hanno rivissuto la storia come se i fatti fossero ancora presenti e vivi.

La mia ricerca inizia attraverso le cronache del tempo: una valanga di notizie sui quotidiani, una girandola di ipotesi, ricostruzioni e congetture. In mezzo a molte verità ci sono fatti poi smentiti o addirittura mai avvenuti. Per restare a livello di pura cronaca, basti pensare ad esempio che per tutta la durata della 'rivolta' e per diversi giorni successivi nessuno poteva riferire con certezza le reali intenzioni dei sei ribelli: soltanto durante l'interrogatorio di Mario Tuti si saprà infatti che l'idea iniziale dei rivoltosi era semplicemente la fuga. Insomma, un tentativo di evasione sfociato in un sequestro di persona a scopo di estorsione. Tutt'altro che una rivolta!

Poi, dall'archivio del Tribunale di Livorno, sbucano i sette enormi fascicoli relativi al processo per direttissima: in particolare le registrazioni telefoniche delle conversazioni dei ribelli e degli ostaggi con magistrati, avvocati, familiari e uomini dello Stato. Probabilmente la rivolta è tutta lì, in quelle voci tese e in quelle parole sofferte, di cose dette e non dette.

Salta fuori anche il quaderno personale di Tuti con i suoi appunti e le sue richieste. Lucide, precise, chiare. Sette paginette di quaderno che contengono i fondamenti della "Legge Gozzini" e le garanzie pretese dai sei detenuti ribelli.

La terza parte della mia ricerca è interamente dedicata alle interviste: dal direttore Cosimo Giordano al sindaco Maurizio Papi, dall'indagato (poi assolto) Cesare Pellino al dottor Sergio Carlotti, dalla Magistratura di sorveglianza agli ostaggi, compresa Rossella Giazzi, l'unica donna nelle mani dei sequestratori.

Da Portici a Portoferraio in cerca di opinioni e valutazioni. Ognuno racconta la sua verità: le giustificazione e i rimpianti del direttore, l'incredulità di Pellino, l'agitazione di Papi e le diverse reazioni degli ostaggi.

E infine sono entrata in quel carcere per cercare di capire se e in che senso la situazione sia cambiata a Porto Azzurro, e che rapporti ci siano fra l'istituto e il paese che gli fa da contesto.

La disponibilità del nuovo direttore, Domenico Nucci, mi ha reso possibile ampliare l'indagine ed estendere lo studio anche ai problemi generali del carcere e alle molte disfunzioni degli istituti penitenziari. Gli interventi e le risposte di Alessandro Margara, Presidente della Magistratura di sorveglianza della Toscana, completano il quadro, fornendo spunti interessanti per analizzare una materia difficile e scomoda come quella delle carceri.