ADIR - L'altro diritto

Le rotte che cambiano i confini (*)

Paolo Cuttitta, 2007

Sempre più preoccupati di difendere i propri confini marittimi dai migranti in arrivo dall'Africa, l'Unione europea e gli stati membri sembrano aver smarrito la bussola del diritto e del buon senso, senza trovare la via per una cooperazione più equa e lungimirante con il continente nero. In preda alla sindrome di un'invasione che non c'è, i governi europei privilegiano l'azione repressiva e di controllo, militarizzando i mari e delegando i compiti ai paesi africani. Ciò serve solo a rendere le rotte dei migranti più lunghe, tormentate e rischiose. E ad arricchire i trafficanti.

Flotte di pescatori di frodo battono da anni le acque dell'Africa nord-occidentale. Spesso sono pescherecci europei - bene attrezzati e di grandi dimensioni - che fanno base alle Canarie, le isole spagnole adagiate nell'oceano a poche decine di miglia dal continente africano. Altri pescherecci europei, invece, sono autorizzati alla pesca da specifici accordi con i paesi costieri, ma i limiti che tali accordi impongono (in relazione alle modalità di pesca e alla quantità di pesce pescato) vengono spesso ignorati. A pagare sono i pescatori della regione e, più in generale, l'economia degli stati rivieraschi. (1)

Se le locali piroghe artigianali non reggono la concorrenza delle flotte straniere - che peraltro, proprio attraverso il saccheggio incontrollato dei mari, stanno ormai causando un'allarmante riduzione della fauna ittica - non c'è da meravigliarsi del fatto che i pescatori mauritani o senegalesi, ridotti in miseria, cambiano sempre più spesso la destinazione d'uso delle proprie imbarcazioni, trasformandole in mezzi di trasporto collettivo verso quelle stesse isole Canarie dalle quali salpano i pescherecci europei.

Ma coprire centinaia di miglia marine (oltre mille, quando si salpa dal Gambia o dalla Guinea) richiede parecchi giorni di viaggio, e il rischio di essere fermati e costretti a tornare indietro è elevato. Le acque al largo della Mauritania e del Senegal, infatti, sono sorvegliate da oltre un anno da pattuglie aeree e navali che operano sotto l'egida di Frontex, l'agenzia che coordina le attività dei corpi di polizia degli stati membri per il controllo dei confini esterni dell'Unione europea. A disposizione di Frontex vi sono già decine di aerei da ricognizione ed elicotteri, più di cento motovedette e centinaia di apparecchiature tecniche (dai radar ai monitor satellitari). Anche nel Mediterraneo - e nel Canale di Sicilia in particolare - operano pattuglie miste europee: le prime furono sperimentate nell'autunno del 2003. A partire dall'estate 2007 è previsto inoltre il ricorso a speciali squadre di intervento rapido alle frontiere, attivabili su richiesta di uno stato membro in situazioni di emergenza. E in un prossimo futuro dovrebbero prendere forma altri dispositivi comunitari di sorveglianza, sempre sotto il coordinamento di Frontex: un sistema integrato di controllo dei confini marittimi tramite radar e satelliti e una rete di pattugliamento costiero con punti di comando regionali nei paesi rivieraschi.

Relazioni euro-africane

L'esempio della pesca nei mari dell'Africa nord-occidentale mostra quali siano le dinamiche di conservazione delle disuguaglianze e degli squilibri tra Europa e Africa, a dispetto degli impegni presi sin dal 1995 in ambito euro-mediterraneo (nel contesto del cosiddetto "processo di Barcellona") e ribaditi, al più ampio livello euro-africano, dalle conferenze su migrazioni e sviluppo svoltesi a Rabat e a Tripoli nel 2006.

Mentre l'Europa continua a sovvenzionare la propria agricoltura e a imporre dazi ai prodotti agricoli africani, la quota del prodotto interno lordo dei paesi europei destinata agli aiuti allo sviluppo resta ampiamente al di sotto di quanto previsto dalle dichiarazioni d'intenti. Inoltre, una parte consistente degli aiuti effettivamente erogati continua a essere destinata all'acquisto di beni prodotti dai paesi erogatori (il cosiddetto tied aid: nel periodo 2002-2004, per esempio, il 45% degli aiuti italiani alla Tunisia fu destinato proprio all'acquisto di prodotti italiani), mentre il resto continua troppo spesso a essere drenato dalle oligarchie corrotte dei paesi beneficiari.

Tra gli obiettivi dichiarati dalle varie conferenze euro-africane, accanto a quello di combattere le migrazioni illegali, vi è anche quello di promuovere il rispetto dei diritti umani. Ma alla solerzia mostrata dai partner europei nel dispiegare uomini e mezzi contro i migranti in arrivo via mare non corrisponde la necessaria attenzione verso i diritti degli stessi. Le pattuglie europee non solo operano nelle acque nazionali dei paesi africani effettuando respingimenti di cittadini di altri paesi (una prassi che appare in contrasto con la convenzione europea sui diritti umani) ma incrociano ormai da anni in acque internazionali senza che sia mai stata fatta chiarezza sulle procedure da seguire per rispettare gli obblighi di protezione nei confronti dei potenziali richiedenti asilo.

Invasione?

La priorità accordata alle misure repressive viene spesso giustificata agitando lo spauracchio dell'invasione. Tuttavia i dati ministeriali dicono che tra gli stranieri soggiornanti senza permesso in territorio italiano la percentuale di persone giunte irregolarmente via mare era del 10% nel 2003, del 4% nel 2004, del 14% nel 2005, del 13% nel 2006. L'incidenza degli arrivi via mare sulle presenze irregolari, insomma, è minimo. Sono di più le persone che arrivano irregolarmente via terra (tra il 15 e il 29%); ancora di più (tra il 60 e il 75%) sono quelle che arrivano regolarmente e si trattengono irregolarmente oltre la scadenza del visto. Anche i numeri assoluti sono irrisori: il record di arrivi irregolari dalle coste nordafricane (risalente al 2005) è di 22.832 persone. Obiettivamente poche - rispetto ai tre milioni di stranieri che vivono regolarmente in Italia, rispetto al milione e mezzo di posizioni irregolari regolarizzate con i vari provvedimenti di sanatoria adottati negli ultimi cinque lustri, rispetto alle centinaia di migliaia di lavoratori (720.000 nel solo 2006!) per i quali annualmente viene previsto l'ingresso legale per motivi di lavoro nell'ambito dei decreti flussi. Se poi si considera che - sempre secondo fonti governative - il 70-75% degli stranieri che arrivano in Italia irregolarmente sono diretti in altri paesi europei, si ha la conferma del fatto che l'immigrazione irregolare via mare dall'Africa è un fenomeno marginale, sia per l'Italia che per l'Europa. Anche sommando agli stranieri che sbarcano in Italia quelli che approdano sulle coste spagnole, greche o - in misura assai inferiore - maltesi e cipriote, non ci si avvicina nemmeno alle centomila unità, di fronte a una popolazione dell'Unione europea di quasi 500 milioni di abitanti.

Ma le cifre si disperdono nel frastuono politico-mediatico, e gli slogan più vacui, abbinati alle immagini forti di cadaveri sulle nostre spiagge o di gusci di noce stipati all'inverosimile, hanno gioco facile nell'instillare insicurezza nell'opinione pubblica - per rassicurare la quale, poi, si ricorre a immagini altrettanto forti: quelle degli aerei da caccia e delle navi da guerra. L'effetto principale, però, è rendere le rotte dei migranti più lunghe, tormentate e rischiose, e allungare la lista dei morti.

A cambiare sono solo le rotte

Chi vuole partire continua a farlo, in un modo o nell'altro. E infatti, mentre i pirati europei della pesca continuano ad agire indisturbati, le piroghe africane si allontanano dai percorsi sottocosta - più brevi e meno esposti a rischi di naufragio, ma anche più controllati - e si avventurano in mare aperto. Secondo fonti amministrative spagnole, seimila potrebbero essere state, nel solo 2006, le persone morte nell'Atlantico tentando di raggiungere le Canarie.

Le stesse Canarie sono diventate solo di recente una porta d'ingresso per l'Europa: da quando la Spagna ha reso più efficaci i controlli sullo Stretto di Gibilterra e ai confini di Ceuta e Melilla. In seguito anche i paesi di imbarco sono stati coinvolti nelle attività di controllo: dapprima il Marocco e poi, man mano che i punti di partenza si spostavano verso sud, anche Mauritania, Senegal, Gambia e Guinea. È così che le traversate per le Canarie si sono allungate ulteriormente.

Molti marocchini, invece, preferiscono ormai prendere l'aereo per Tripoli e tentare la via dell'Italia. Anche i tunisini, da quando nel loro paese sono stati inaspriti controlli e pene, partono per lo più dalla Libia, anziché seguire il percorso marittimo più breve dalle loro coste. Gli algerini, poi, che ancora pochi anni fa andavano in Tunisia per salpare da lì verso la Sicilia, affrontano ora una traversata ben più lunga e pericolosa, dalle coste algerine verso la Sardegna.

Gli asiatici, infine, hanno dovuto affrontare, in questi anni, i più grandi cambiamenti di rotta sulla strada dell'Europa, abbandonando il percorso prevalentemente terrestre attraverso la Turchia e quello interamente marittimo che dall'Oceano Indiano li portava (attraverso il Mar Rosso e il Canale di Suez, a bordo di navi relativamente grandi e sicure) fin sulle spiagge calabresi o siciliane. Dal 2003 la polizia italiana, in cooperazione con quella egiziana, sorveglia infatti il Canale di Suez e rimpatria gli stranieri fermati. Ormai chi parte dal sub-continente indiano deve raggiungere l'Africa sub-sahariana, quindi dirigersi in Africa nord-occidentale o in Libia, e infine salpare alla volta delle Canarie (nel primo caso) o della Sicilia (nel secondo caso): per potere rischiare la propria vita in mare, insomma, deve prima riuscire a sopravvivere al deserto.

Trafficanti e forze dell'ordine nei paesi africani

Il risultato è che insieme alle spese affrontate dall'Unione europea e dai singoli stati membri di primo sbarco (Italia, Spagna, Grecia, Malta e Cipro) crescono anche i profitti delle organizzazioni che gestiscono i movimenti migratori illegali - quelle stesse organizzazioni che pure i decisori europei dichiarano di volere contrastare. "Vediamo se riusciamo a scardinare una buona volta le organizzazioni criminali che mettono quotidianamente a repentaglio tante vite", esclamò Giuliano Amato nell'agosto del 2006. Il ministro dell'interno varò quindi un decreto che aumentava le pene contro gli scafisti, pur sapendo che da anni, ormai, i trafficanti restano a terra, e affidano il timone ai passeggeri più esperti di mare - o semplicemente più al verde degli altri - in cambio di uno sconto sulla tariffa. Sono questi, semmai, a finire in manette, dopo avere bruciato tutti i loro risparmi.

I trafficanti derubano i migranti, li riducono in schiavitù, li lasciano morire nel deserto se non hanno più soldi per continuare il viaggio, li costringono a salpare su barchette malferme contro la loro stessa volontà. Ma finché esisterà una domanda, e in assenza di vie d'ingresso legali ed effettivamente praticabili anche per i richiedenti asilo, questo tipo di offerta non cesserà: potranno solo continuare a lievitare i prezzi. Nei paesi di transito, poi, i migranti rischiano di dovere subire anche le violenze e i soprusi di agenti di polizia sanguinari e corrotti. Tuttavia l'Italia continua a sostenere non solo la polizia libica (responsabile, tra l'altro, di detenzioni illegittime, furti, estorsioni, maltrattamenti, omicidi e deportazioni collettive a danno di stranieri, compresi quelli in fuga da persecuzioni - nelle carceri libiche si trovano attualmente circa settecento profughi eritrei - e gli stessi rifugiati già riconosciuti come tali dall'Onu) ma anche quella egiziana (responsabile, in un'occasione, della morte di ventisette richiedenti asilo), così come la Spagna non esita a finanziare non solo le forze dell'ordine del Marocco (che regolarmente derubano, picchiano, violentano e abbandonano nel deserto gli stranieri, compresi i rifugiati, e in altri casi li uccidono) ma anche quelle del Gambia (che una volta, per bloccare un gruppo di ghanesi e senegalesi in transito, li fecero a pezzi a colpi di machete). (2)

Nel segno della continuità

Un anno dopo il cambio di governo - mentre sul fronte interno delle misure relative al soggiorno e all'integrazione si registrano alcuni cambiamenti anche significativi - la politica estera italiana in materia di controllo dei movimenti migratori appare sostanzialmente immutata: come il governo Zapatero in Spagna, anche il centro-sinistra italiano ha confermato l'indirizzo dell'amministrazione uscente. Una sola novità era stata annunciata: la fine delle deportazioni di stranieri verso la Libia. Ma in realtà già il governo di centro-destra le aveva sospese (per ragioni di opportunità politica) a pochi mesi dalle elezioni, dato il clamore che esse avevano suscitato anche a livello internazionale. Per il resto, la cooperazione di polizia con l'ex colonia è stata intensificata. Ma essere fermati prima dell'imbarco, per i migranti che desiderano arrivare in Italia, non è molto meglio che essere respinti dopo lo sbarco; in entrambi i casi, se sopravvivranno alla polizia libica e non saranno respinti dalle stesse autorità libiche nel paese dal quale sono fuggiti, ritenteranno comunque l'avventura.

Quando al governo c'era Berlusconi l'opposizione chiese chiarezza - senza peraltro ottenerla - su un accordo per la cooperazione tra le polizie italiana e libica, firmato nel luglio del 2003, il cui testo era tenuto segreto. Il testo rimase segreto e continua a esserlo ancora oggi. Ma oggi più nessuno, dai banchi del parlamento, chiede che ne vengano resi noti i contenuti e le effettive modalità di applicazione; nessuno chiede che l'Italia interrompa il finanziamento (il precedente governo stanziò 12 milioni di Euro) per la costruzione di centri di detenzione in Libia nei quali gli stranieri restano detenuti a tempo indeterminato, senza subire un processo, e da dove spesso escono solo per essere abbandonati alla propria sorte nel deserto; nessuno, a proposito dei vari accordi che l'Italia ha concluso (e continua ancora a concludere) con paesi di emigrazione e di transito, chiede che venga rispettato l'articolo 80 della costituzione, il quale prevede l'autorizzazione del parlamento per gli accordi di natura politica o che comportino oneri alle finanze.

Trasparenza e rispetto delle regole dovrebbero essere i presupposti dell'azione di ogni governo democratico, soprattutto in una materia dai risvolti così delicati sul piano umanitario. Ciò vale per l'Italia come per gli altri stati membri e per la stessa Unione europea, le cui pattuglie marittime continuano a operare nel mar Mediterraneo e nell'oceano Atlantico secondo regole incerte, lontano dai riflettori e da ogni controllo.

Ma l'Italia e l'Europa non cambiano rotta: almeno per il momento lasciano che a farlo siano i migranti.

Note

*. Pubblicato su Segno, 289, settembre-ottobre 2007.

1. Al danno direttamente cagionato dalla concorrenza si aggiunge il fatto che i compensi corrisposti ai paesi africani per le concessioni di pesca si fermano nelle tasche delle élite politiche locali, anziché venire impiegati a beneficio delle rispettive collettività.

2. Un ottimo approfondimento giornalistico sulla situazione in questi paesi è offerto da Gabriele Del Grande nel suo recentissimo libro Mamadou va a morire (edizioni Infinito, Due Santi di Marino 2007), nel quale l'autore riporta le testimonianze di sofferenza e crudeltà, di sfruttamento e violenza, di tenacia e speranza raccolte da un anno a questa parte tra il Mali e la Grecia, passando per Senegal, Mauritania, Marocco e Tunisia. Tra i rapporti dettagliati curati da organizzazioni internazionali su singoli paesi si veda in particolare, sulla Libia: Human Rights Watch, Stemming the Flow. Abuses against Migrants, Asylum Seekers and Refugees; sul Marocco: Amnesty International, Spain and Morocco. Failure to protect the rights of migrants - Ceuta and Melilla one year on. Per quanto riguarda, infine, la notizia da me riportata in questo articolo in relazione al Gambia, la fonte è il quotidiano tedesco "die Tageszeitung" del 22 settembre 2006.