ADIR - L'altro diritto

Refoulement verso il Nord-Africa e diritti dei migranti (*)

Francesco Messineo (**), 2006

1. La storia di Masfin Aman Adem, le deportazioni dall'Italia e i rimpatri dalla Libia nel contesto comunitario

Piena estate del 2002. Dopo essere fuggito dall'Eritrea per scampare alla coscrizione militare, Masfin Aman Adem cercava di attraversare il Mediterraneo, partendo dalla Libia, destinazione la Sicilia. Insieme a lui, altri sei cittadini eritrei, tutti fra i venti e i trent'anni. L'11 agosto, poco prima di imbarcarsi, sono stati tutti arrestati dalle autorità libiche. Una volta processati e condannati a tre mesi di reclusione per 'clandestinità', allo scadere dei tre mesi non sono stati rilasciati, ma sono rimasti in detenzione arbitraria per oltre 18 mesi. I sette temevano di essere rimpatriati in Eritrea, dove avrebbero verosimilmente subito gravi violazioni dei diritti umani (1). Le stesse violazioni (detenzione arbitraria, maltrattamenti) cui sono andati incontro proprio in quel paese, la Libia, che avrebbe potuto e dovuto proteggerli, e dove, fra le altre denunce, hanno riferito di essere stati colpiti, anche alla testa, con mazze di legno, e di essere stati torturati con il filo spinato (2).

La storia di Masfin e dei suoi sei compagni di sventura non è certamente isolata. La detenzione illegale dei migranti, in Libia, è purtroppo cosa normale, quando essi non vengono rimpatriati verso il loro paese d'origine, in piena violazione del principio di non respingimento.

Infatti, nonostante sia uno Stato parte della Convenzione dell'Organizzazione dell'Unità Africana sui rifugiati (3) e, pertanto, sia obbligata a non rimpatriare alcuna persona verso un paese dove vi siano rischi per la sua incolumità fisica o psichica, la Libia ha violato tali disposizioni in diverse occasioni nel 2004, ad esempio quando a luglio ha espulso verso il loro paese di origine centinaia di eritrei, molti dei quali si ritiene si trovino ora in isolamento in una prigione segreta, sottoposti a un trattamento durissimo (4).

Alla fine di dicembre 2004, Amnesty International ha ricevuto notizie secondo cui la Libia era in procinto di rimpatriare decine di rifugiati riconosciuti come tali dall'Alto Commissariato delle Nazione Unite per i Rifugiati (Unhcr). Il timore era che questi rifugiati - tra cui cittadini etiopi, eritrei, somali e liberiani - potessero essere espulsi con la forza verso i propri paesi di origine nel giro di pochi giorni. Il gruppo comprendeva anche ragazzi e bambini, era trattenuto nel centro per le espulsioni del dipartimento per l'immigrazione di Tripoli (5).

Tutto ciò sarebbe avvenuto subito dopo la deportazione di centinaia di cittadini stranieri da Crotone, in Italia, proprio verso la Libia, il 20 dicembre (6). E' facile immaginare che si tratti proprio delle stesse persone.

D'altronde, è una pratica, questa, alla quale il nostro governo sembra sempre più affezionarsi. Dopo la "sottoscrizione di intese verbali" (7) con la Libia, lo scorso ottobre l'Italia ha cominciato a deportare da Lampedusa alla Libia centinaia di cittadini africani e medio-orientali, senza avere loro garantito né un'adeguata identificazione, né l'accesso alla procedura di asilo, e neppure consentito l'ingresso nel centro di Lampedusa ai rappresentanti dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (8).

Queste espulsioni sommarie si pongono in netto contrasto con l'intero sistema di protezione internazionale dei richiedenti asilo e rifugiati, e segnatamente con il divieto di espulsioni collettive di stranieri (9), con il principio di non-refoulement (10) e con il divieto di discriminazione dei rifugiati in base alla provenienza (11). Pare, infatti, che le espulsioni siano state condotte dopo un'identificazione sommaria basata sulla presunta nazionalità dei potenziali richiedenti asilo, restringendo così l'accesso alla procedura solo a coloro che, in base ad una valutazione presuntiva, avrebbero avuto "titolo" a chiedere asilo in Italia.

Il fatto che l'asilo sia un diritto soggettivo e che lo status di rifugiato debba essere riconosciuto dopo un'approfondita analisi della storia individuale di persecuzione (e quindi non certo in base alla nazionalità), sono nozioni che il governo italiano ricorda solo quando si tratta di negare lo status di rifugiato a chi sia miracolosamente riuscito a farne richiesta, adducendo come motivazione la mancanza di "motivi di persecuzione riferibili in via diretta e personale [al richiedente], secondo la nozione contenuta nell'art. 1 della Convenzione di Ginevra" (12).

Per queste e altre ragioni, il ponte aereo che dall'Italia va verso la Libia e dalla Libia verso i paesi di origine preoccupa molto Amnesty International (13). Fonti giornalistiche riportano che almeno una persona sarebbe stata torturata a morte una volta deportata dall'Italia alla Libia e poi dalla Libia all'Egitto (14).

Tutto ciò si inscrive nel quadro dell'indecorosa politica italiana sul diritto d'asilo, che emerge non solo dall'imbarazzante assenza di una legge organica in materia (che dia attuazione all'art. 10 della nostra Costituzione), ma soprattutto dalla prassi, e cioè dallo spregio sistematico delle norme di diritto internazionale, come ci ha insegnato il recente caso della nave Cap Anamur (15).

E' bene ricordare che tutto ciò avviene nel più ampio contesto europeo: non solo perché un'espulsione arbitraria da Lampedusa è un'espulsione da tutto il territorio dell'Unione Europea, ma soprattutto perché la tentazione di delegare la difficile gestione dell'immigrazione e dell'asilo a paesi terzi - specie nel bacino del Mediterraneo - è un vizio antico, che è riemerso di recente con le proposte del governo del Regno Unito del febbraio 2003. L'idea che sta alla base, (momentaneamente?) accantonata, è quella di creare dei veri e propri centri di gestione delle richieste di asilo, direttamente nei paesi di transito o addirittura di origine, e quindi al di fuori del territorio dell'Unione. Dimenticando che negare l'accesso dei richiedenti asilo al territorio dell'Ue metterebbe a rischio la tenuta dell'intero sistema di protezione internazionale: infatti, se tutti i paesi del mondo seguissero questo criterio non vi sarebbe più alcun luogo in cui chiedere asilo. Amnesty International ha duramente condannato questa proposta (e il successivo tentativo dell'Unhcr di ammorbidirne gli aspetti peggiori) definendola "illegale e irrealizzabile" (16).

A questo quadro dobbiamo sommare il fallimentare esito della prima fase di armonizzazione della normativa dei paesi dell'Ue in tema di asilo: pur partendo dalle ottime premesse del Consiglio Europeo di Tampere del 1999, la politica europea sul tema è andata sempre peggiorando: inabissandosi definitivamente con il raggiungimento di un accordo politico sull'ultima direttiva, in tema di procedure minime comuni per il riconoscimento dello status di rifugiato. Essa è un vero e proprio catalogo delle peggiori pratiche degli Stati membri in tema di asilo, in aperta violazione del diritto internazionale (17).

2. Diritti umani nella costa africana del Mediterraneo

Cercheremo, quindi, di delineare molto brevemente la situazione dei diritti umani nei paesi della costa africana del Mediterraneo, come contributo alla riflessione sulle implicazioni della politica europea di 'esternalizzazione' della gestione del fenomeno migratorio. Nei discorsi e nelle pratiche dei governi europei in tema di immigrazione, infatti, l'attenzione è sempre sbilanciata sull'aspetto del controllo e della sicurezza: mai su quello del rispetto dei diritti di chi decide di lasciare il proprio paese o vi è costretto.

2.1 Marocco

Gli attentati dinamitardi del 16 maggio 2004 a cinque differenti obiettivi civili a Casablanca, in Marocco, hanno ucciso 45 persone, compresi i 12 attentatori. Re Mohamed VI ha annunciato la "fine dell'era dell'indulgenza", riaffermando l'impegno del Marocco verso la democrazia, lo sviluppo e i propri obblighi internazionali.

In tema di 'anti-terrorismo', nell'equazione fra libertà e sicurezza il primo termine è sempre meno di moda. Dopo questo attentato, infatti, le autorità hanno intensificato il giro di vite, iniziato nel 2002, nei confronti di presunti attivisti islamisti, approvando il 28 maggio 2003 una nuova legge 'anti-terrorismo'. In base a questa, la detenzione cautelare, senza alcuna decisione giudiziale, è stata estesa a dodici giorni. Più di 1.500 persone sospettate di essere coinvolte negli attentati o in altre attività 'terroristiche' sono state sottoposte a procedimenti giudiziari. Almeno sedici sono state condannate a morte e centinaia a pene detentive. Decine delle persone processate hanno affermato di essere state torturate o maltrattate, in alcuni casi detenute segretamente: ma senza che generalmente queste denunce siano state indagate. Attivisti saharawi per i diritti umani sono stati tra coloro che hanno subito le maggiori restrizioni alle libertà di associazione e di espressione, con quelli che sono stati percepiti mettere in discussione l'autorità della monarchia (18).

Un caso particolarmente dimostrativo è quello di Abdelhak Bentassir, che è stato arrestato nel maggio del 2003 con l'accusa di essere il coordinatore degli attentati di Casablanca. Le autorità hanno dichiarato che era stato arrestato il 26 maggio ed era deceduto a causa di preesistenti problemi cardiaci ed epatici dopo essere stato ricoverato in ospedale il 28 maggio, prima della conclusione del suo interrogatorio. Le autorità hanno dichiarato che secondo l'esame autoptico sarebbe deceduto per cause naturali. A detta dei familiari Abdelhak Bentassir non aveva mai avuto problemi di salute prima. Hanno aggiunto che egli era in carcere già dal 21 maggio, cinque giorni prima della data ufficiale dell'arresto. La famiglia non sarebbe stata avvertita per tempo dell'autopsia, non potendosi così avvalere della presenza di un medico di fiducia (19).

A giugno del 2004 Amnesty International ha pubblicato un rapporto (20) sul centro di detenzione di Tèmara (15 km a sud di Rabat): si tratta di un luogo di tortura, gestito dalla DST, Direction de la Surveillance du Territoire. Il personale della DST non è composto né da agenti, né da ufficiali della polizia giudiziaria, e in base alla legge marocchina non è autorizzato né ad interrogare i sospetti, né ad arrestarli, né tantomeno a mantenerli in detenzione. Malgrado ciò, molte persone sono state imprigionate nel centro, segretamente, talvolta per mesi, senza alcun accesso alle loro famiglie o al mondo esterno. I detenuti sono stati bendati e ammanettati durante gli interrogatori; alcuni di loro sono stati appesi al soffitto in posizioni contorte; molti hanno denunciato di essere stati bastonati o minacciati dell'arresto e dello stupro della loro moglie o di loro parenti di sesso femminile. I detenuti sono stati costretti a firmare o a convalidare con le proprie impronte digitali alcune dichiarazioni che sono state usate contro di loro in tribunale (21).

Nonostante tutte le denunce di maltrattamenti e torture, nessun magistrato ha ordinato che fossero condotte delle indagini o degli accertamenti medici in proposito. Ai detenuti è stato sistematicamente negato il diritto all'assistenza legale sin dall'inizio del processo. Alcuni sono stati condannati a morte dopo processi vistosamente iniqui (22).

In questa brevissima panoramica sul Regno del Marocco non si può dimenticare la sistematica limitazione della libertà di associazione e di espressione degli attivisti sarahawi. La monarchia e lo status del Sahara Occidentale, infatti, sono rimasti argomenti proibiti nelle discussioni pubbliche e per la stampa. Svariate persone, fra cui giornalisti ed attivisti politici, sono state incarcerate dopo che avevano espresso in modo pacifico la loro opinione su tali argomenti (23).

Ad esempio, il prigioniero di coscienza Ali Lmrabet, direttore di due giornali indipendenti, "Demain Magazine" e "Domane", è stato condannato a giugno a tre anni di carcere e a un'ammenda di 20.000 dirham (circa 2.000 dollari americani) nonché alla messa al bando dei suoi giornali. Era accusato di 'oltraggio al sovrano', 'compromissione della monarchia' e 'minacce all'integrità territoriale [del Marocco]'. Le accuse si basavano su vari articoli, vignette e un fotomontaggio apparsi sui suoi giornali (24).

Decine di attivisti, in particolare quanti erano ritenuti impegnati a favore dell'indipendenza del Sahara Occidentale, hanno subito di recente vessazioni ed intimidazioni da parte delle autorità. Alcuni sono stati arrestati, rinviati a giudizio e processati per reati di natura politica. Ad altri è stato confiscato il passaporto per impedire loro di lasciare il paese e rendere nota la situazione all'estero. Alcuni erano membri della sede del Sahara Occidentale dell'organizzazione per i diritti umani Forum per la verità e la giustizia. La sede è stata chiusa dalle autorità marocchine nel giugno 2003 con la motivazione che l'organizzazione aveva intrapreso attività illecite che avrebbero potuto disturbare l'ordine pubblico e minacciare l'integrità territoriale del Marocco. Le attività ritenute illegali consistevano nel diritto dei membri dell'organizzazione di esprimere pacificamente la loro opinione sull'autodeterminazione del popolo saharawi e di diffondere il loro punto di vista su questioni riguardanti i diritti umani (25).

Per quanto attiene, invece, specificamente ai diritti degli stranieri, sappiamo che centinaia di migranti, molti dei quali provenienti dall'Africa subsahariana, sono stati arrestati e rimpatriati nel corso del 2004. Diversi di loro hanno riferito che il personale di sicurezza era ricorso a un uso eccessivo della forza durante l'arresto o a tortura e maltrattamenti durante la custodia. Secondo quanto riferito ad AI, nel mese di aprile due cittadini nigeriani sono morti dopo essere stati colpiti con armi da fuoco dalle forze di sicurezza presso il confine con l'enclave spagnola di Melilla. Le autorità hanno avviato un'inchiesta sull'episodio (26).

Inoltre, la Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani dei migranti ha pubblicato a gennaio 2004 un rapporto a seguito di una visita condotta in Marocco nell'ottobre 2003. La Relatrice ha espresso gravi preoccupazioni per la situazione dei migranti subsahariani che spesso "vivono in condizioni davvero spaventose" e ha rilevato che "molti di loro, in fuga dai conflitti interni che affliggono i loro Paesi di origine, non hanno alcuna certezza di veder riconosciuto lo status di rifugiato o di vedersi presa in considerazione la domanda di asilo prima di essere riaccompagnati alla frontiera" per essere espulsi. La Relatrice speciale ha sottolineato come "né le autorità responsabili dell'ordine pubblico del controllo degli spazi aerei, marittimi e terrestri, né le autorità giudiziarie sono in possesso di informazioni chiare sullo status dei rifugiati". La Relatrice, tra l'altro, ha raccomandato "l'adozione di un piano di azione per la protezione dei diritti dei migranti attraverso la formazione delle autorità giudiziarie, l'accesso alle procedure di appello nonché campagne di sensibilizzazione e d'informazione" (27).

Per comprendere meglio la situazione complessiva dei diritti umani in Marocco, può essere utile considerare che nel mese di giugno 2004 gli Stati Uniti hanno concesso al Marocco lo status di "maggiore alleato esterno alla NATO", apparentemente come riconoscimento di quello che un alto esponente dell'amministrazione ha definito come: "sostegno stabile e costante del Marocco nella guerra globale al terrorismo". Questo nuovo status ha revocato le restrizioni sulla vendita di armi. Gli Stati Uniti hanno anche firmato un accordo di libero scambio con il Marocco (28).

James Baker, inviato speciale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per il Sahara Occidentale, ha rassegnato le dimissioni a giugno 2004, dopo sette anni di tentativi falliti per risolvere la disputa sullo status del territorio. I tentativi del Marocco di convincere la comunità internazionale circa la sua sovranità e i suoi diritti sul Sahara Occidentale hanno subito un colpo inaspettato a settembre, quando il Sudafrica ha formalmente stabilito contatti diplomatici con il Fronte Polisario. Questo rivendica uno Stato indipendente nel Sahara Occidentale e opera attraverso un autoproclamato governo in esilio nel campo rifugiati vicino Tindouf, nell'Algeria sud-occidentale. Ciò ha determinato come conseguenza una nuova 'guerra verbale' tra il Marocco e la vicina Algeria (29).

2.2 Algeria

Manifestazioni, scioperi e proteste sono all'ordine del giorno in Algeria. I cittadini protestano per una serie di problemi sociali, economici e politici: tra di essi la fornitura di acqua, la scarsità di lavoro e di alloggi, il malfunzionamento dell'amministrazione pubblica, la corruzione. Secondo quanto riferito, l'acqua raggiunge le abitazioni della capitale, Algeri, solo un giorno su tre. Secondo le statistiche ufficiali un terzo della popolazione adulta è disoccupata. Ma il problema principale dell'Algeria resta la guerra civile, che infiamma il Paese dal 1992. Malgrado l'allentarsi della tensione, nel corso del 2004 sono state uccise almeno 500 persone, fra cui decine di civili, sulla morte dei quali non vi sono state inchieste imparziali e indipendenti. Inoltre, persone sospettate di appartenere a gruppi armati sarebbero state uccise durante operazioni condotte dalle forze di sicurezza. Si teme che in alcuni casi si sia trattato di esecuzioni extragiudiziali (30).

Nessuna inchiesta esaustiva, imparziale e indipendente è stata avviata per indagare sulle violazioni di massa dei diritti umani compiute sin dal 1992. Tra esse si annoverano migliaia di casi di uccisioni di civili, sia in attacchi mirati, sia indiscriminati, esecuzioni extragiudiziali, torture, maltrattamenti e 'sparizioni'. Secondo quanto riferito ad AI, i membri di gruppi armati costituitisi all'autorità giudiziaria hanno continuato a beneficiare della clemenza e sono stati esentati da procedimenti giudiziari. Le autorità hanno continuato a negare che agenti statali si siano resi responsabili di sistematiche e diffuse violazioni dei diritti umani. Nella maggior parte dei casi, non sono stati identificati i resti delle vittime di uccisioni rinvenuti in fosse comuni, e le prove non sono state usate per stabilire la responsabilità degli omicidi (31). Nessun passo concreto è stato intrapreso nemmeno per stabilire la sorte di migliaia di persone 'scomparse' tra il 1992 e il 2003, al fine di alleviare le sofferenze delle loro famiglie, che spesso versano in precarie condizioni economiche. Le denunce presentate presso i tribunali algerini per casi di rapimento e detenzione illegale, infatti, non sono state seguite da alcuna inchiesta. Le autorità hanno continuato a negare che agenti statali siano stati responsabili delle 'sparizioni' (32).

A giugno 2004, i fratelli Toufik e Smail Touati sono stati arrestati ad Algeri a tre giorni di distanza l'uno dall'altro da agenti della Sicurezza militare e poi trattenuti in detenzione segreta rispettivamente per 13 e 10 giorni. Essi hanno dichiarato di essere stati torturati durante gli interrogatori. I due sono stati accusati di appartenere a un'organizzazione 'terroristica'. Alle denunce di tortura non ha fatto seguito alcuna inchiesta (33).

Quello dei fratelli Touati è solo un esempio. Le detenzioni segrete in violazione del diritto interno e internazionale sono continuate e hanno favorito la tortura: in particolare relativamente a casi descritti dal governo come attività 'terroristiche'. Malgrado alcune modifiche al codice penale abbiano introdotto il reato specifico di tortura (34), prevedendo pene severe, in genere le denunce di tortura non sono state indagate dalle autorità. Il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura ha comunicato che le autorità algerine avevano respinto, senza condurre alcuna inchiesta, tutte le accuse di tortura che avevano ricevuto. Al Relatore speciale è stato impossibile recarsi in Algeria, nonostante ripetute richieste presentate alle autorità, reiterate nel 2003 (35).

Nel 2004 i difensori dei diritti umani, i giornalisti ed in genere coloro che hanno criticato rappresentanti dello Stato hanno corso il rischio di essere arrestati e incarcerati. Vi è stato un forte aumento del numero di casi giudiziari a carico di giornalisti e direttori di quotidiani: ciò è apparso come un tentativo del governo di scoraggiare la pubblicazione da parte della stampa privata di articoli sfavorevoli allo stesso. Sono state promosse molte cause per diffamazione contro singoli giornalisti che avevano dato notizia di episodi di corruzione o che avevano criticato pubblicamente rappresentanti dello Stato e delle forze di sicurezza. Alcuni di loro sono stati arrestati, altri hanno ricevuto sentenze con sospensione della pena; oppure sono stati condannati in primo grado, rimanendo in libertà in attesa del risultato dell'appello. Diversi quotidiani sono stati sospesi a tempo indefinito: ufficialmente per i debiti contratti con le tipografie a controllo statale. A giugno 2004 le autorità hanno sospeso a tempo indeterminato le attività dell'ufficio di Algeri dell'emittente televisiva araba Al-Jazeera: apparentemente a causa di alcuni servizi giornalistici critici. A fine anno, né Al-Jazeera, né i quotidiani avevano ripreso la loro attività (36).

Le proteste antigovernative sono state numerose: in particolare, nella regione della Kabylia a predominanza barbera (amazigh). Alcune hanno portato a violenti scontri tra le forze di sicurezza e dimostranti che manifestavano la loro rabbia contro l'amministrazione pubblica, l'aumento dei prezzi, la mancanza di alloggi e di accesso ai servizi di base. Due manifestazioni organizzate da famiglie di persone "scomparse" a Constantine e ad Algeri sono state impedite con l'uso della forza dagli agenti di sicurezza. Ad Algeri dal 2001 vige il divieto di manifestare (37).

Decine di persone sono state arrestate per aver organizzato incontri antigovernativi e attività di protesta. Il dissenso politico è stato particolarmente represso nelle province meridionali di Djelfa, Laghouat e Ouargla, dove decine di persone sono state condannate a pene detentive fino a otto mesi con l'accusa di appartenere a organizzazioni non autorizzate. Il Relatore speciale delle Nazioni Unite sui difensori dei diritti umani ha ribadito la propria preoccupazione per le restrizioni alla libertà di riunione imposte ai difensori dei diritti umani (38).

Un esempio della condotta del governo è il caso di Hafnaoui Ghoul, attivista dei diritti umani, giornalista e portavoce di un gruppo politico non ufficiale, il Movimento dei Cittadini del Sud, che è stato arrestato a maggio 2004 nella provincia di Djelfa. Egli è stato successivamente condannato a un totale di otto mesi di carcere in seguito a una serie di procedimenti giudiziari. La maggior parte di essi riguardavano cause per diffamazione da parte di funzionari locali dopo che egli li aveva accusati di tortura, malversazione pubblica e corruzione. A ottobre è stato assolto dall'accusa di appartenere a una organizzazione non autorizzata, ma altri nove imputati nello stesso processo sono stati condannati da 6 a 8 mesi di carcere. È stato rilasciato a novembre dopo una campagna nazionale e internazionale in suo favore (39).

Le donne, in Algeria, continuano a essere oggetto di discriminazioni sia per legge sia nella pratica. Venti anni dopo l'introduzione del discriminatorio codice di famiglia, le organizzazioni per i diritti delle donne hanno dato nuova vita alle loro attività per la parità legale. Una commissione non governativa ha proposto emendamenti al codice di famiglia, ma a fine anno questi non erano stati ancora adottati. Alcuni dei cambiamenti proposti comprendono l'abolizione di determinate disposizioni - quale quella che richiede un "tutore coniugale" (un parente maschio) per poter concludere il contratto di matrimonio per procura - ma non sono in grado di assicurare l'uguaglianza delle donne di fronte alla legge. I cambiamenti proposti non toccano le leggi discriminatorie sul divorzio. Le autorità non hanno agito con la diligenza dovuta per prevenire, punire e risarcire atti di violenza sessuale nei confronti delle donne o la violenza contro di esse all'interno della famiglia. Un emendamento al codice penale ha reso le molestie sessuali da parte di persone in posizione di autorità un reato punibile fino a un anno di carcere (o a due anni in caso di recidiva) (40).

2.3 Tunisia

Habib Raddadi è deceduto il 22 marzo 2003 nel carcere di al-Haouareb, in Tunisia, dove era rinchiuso da 17 anni per appartenenza al movimento islamista non autorizzato al-Nahda (Rinascimento). Probabilmente non ha ricevuto l'assistenza medica e la dieta necessaria all'ipertensione di cui soffriva. L'11 marzo era stato colpito da emorragia cerebrale e ricoverato in ospedale, prima a Kairouan e in seguito a Sousse. Secondo la sua famiglia le guardie incaricate della sua sorveglianza in ospedale avrebbero impedito il suo trasferimento a Tunisi, come raccomandato dai medici. Quando la sua famiglia l'ha visto l'ultima volta il 21 marzo, un braccio ed entrambe le gambe erano ancora incatenate al letto. È deceduto il giorno seguente (41).

Il 10 dicembre del 2003, giornata mondiale per i diritti umani, il presidente Ben 'Ali ha promulgato una legge sulla lotta al 'terrorismo', definito in maniera così vasta che AI teme possa lasciare spazio ad interpretazioni ampie, che potrebbero indebolire ulteriormente i diritti umani. Ad es. l'esercizio del diritto di libertà di espressione potrebbe essere considerato un atto di 'terrorismo' e che condurre a lunghe pene detentive al termine di processi iniqui condotti davanti a tribunali militari. La legge, inoltre, permette l'estensione a tempo indefinito della detenzione cautelare e non offre tutela a coloro che rischiano l'estradizione verso paesi in cui potrebbero subire gravi violazioni dei diritti umani, in contrasto con il principio di non-refoulement (42).

In particolare, il caso di Adil Rahali dovrebbe fare riflettere sulle politiche europee in tema di immigrazione e asilo. Adil, 27 anni, è stato deportato dall'Irlanda nell'aprile 2004, dopo che la sua richiesta di asilo era stata rifiutata. L'uomo al suo arrivo in Tunisia è stato arrestato e portato al Dipartimento di sicurezza di Stato del ministero degli Interni, dove è stato tenuto in detenzione segreta per diversi giorni e ripetutamente torturato. Adil Rahali, che aveva lavorato in Europa per più di un decennio, è stato accusato ai sensi della citata legge 'anti-terrorismo', per appartenenza a un'organizzazione 'terroristica' operante all'estero. L'organizzazione non è stata identificata e non è stato fornito alcun dettaglio sull'esatta natura delle sue attività. L'avvocato dell'uomo ha sporto denuncia per tortura, ma a fine anno non risultava alcuna indagine. Il processo di Adil Rahali è stato fissato per febbraio 2005 (43).

Ma il caso di Adil non è isolato. Sono decine le persone condannate a lunghi periodi di reclusione, in seguito a processi iniqui per accuse relative al 'terrorismo'. E le segnalazioni di episodi di tortura, anche negli edifici del Ministero degli Interni, sono continue. Centinaia di prigionieri politici, compresi prigionieri di coscienza, rimangono tuttora in carcere. Per alcuni la detenzione si protrae da oltre un decennio. I prigionieri politici rilasciati continuano a subire controlli amministrativi ed altre misure arbitrarie, che ne limitano la libertà di movimento e il diritto al lavoro. Nonostante il governo abbia raccomandato che le condizioni carcerarie e nei centri di detenzione migliorino, continuano le segnalazioni di casi di isolamento e di cure mediche negate (44).

A gennaio 2004 sono state approvate nuove leggi che stabiliscono controlli più rigidi sui migranti. Sono stati introdotti maggiori controlli sulle acque territoriali tunisine e sulle navi che potrebbero essere utilizzate per trasportare migranti in Europa illegalmente. Sono stati inseriti anche cambiamenti relativi ai documenti di viaggio, e misure per la lotta a reti criminali sospettate di coinvolgimento nella tratta di esseri umani. Con le nuove norme, centinaia di persone sono state arrestate per il solo fatto di aver tentato di attraversare il Mediterraneo, cioè per l'essere migranti: in questo strano sistema, ad essere considerati criminali e come tali ad essere trattati sono le vittime della tratta di esseri umani (45).

2.4 Libia

Da quando, alla fine del 2003, la Libia ha annunciato la volontà di smantellare il proprio programma di armi di distruzioni di massa, l'Unione Europea e gli Stati Uniti hanno ristabilito relazioni diplomatiche con la Gran Giamahiria. La normalizzazione delle relazioni è stata favorita anche dalla conclusione dei negoziati con la Germania e la Francia riguardanti due attentati dinamitardi del 1986 e del 1989. Nel mese di aprile 2004, durante il primo viaggio ufficiale in Europa dopo 15 anni, il colonnello Mu'ammar al-Gheddafi ha visitato la Commissione Europea in Belgio.

Proprio quel giorno Amnesty International pubblicava il proprio rapporto "Libia: è tempo di rendere i diritti umani una realtà", frutto della prima missione sul campo consentita dal governo libico dal 1989 a oggi ad una organizzazione non governativa per i diritti umani che è stata (46).

Nel mese di febbraio 2004, infatti, la delegazione di AI si è recata in Libia per condurre ricerche e discutere della situazione dei diritti umani nel Paese. L'organizzazione ha avuto per la prima volta accesso a prigionieri di coscienza e a prigionieri politici. I delegati hanno avuto lunghi incontri con il colonnello Mu'ammar al-Gheddafi, con alti funzionari libici, esponenti della magistratura e avvocati. A tutti i livelli, i funzionari libici hanno dimostrato disponibilità a discutere le questioni poste dall'organizzazione.

Le conclusioni della missione di Amnesty International hanno posto in luce, fra le altre cose, l'esistenza di:

  • Leggi che criminalizzano il pacifico esercizio della libertà di espressione e di associazione e che, conseguentemente, causano arresti di prigionieri di coscienza;
  • Detenzioni prolungate, senza accesso al mondo esterno, che favoriscono la tortura;
  • Processi iniqui, soprattutto quelli di natura politica celebrati dal Tribunale popolare (finalmente abolito all'inizio del 2005 (47)).
  • Tortura e maltrattamenti, che continuano a essere un fenomeno diffuso, con la prevalente finalità di estorcere confessioni.
  • Pena di morte, rimasta in vigore per un vasto numero di reati, compreso lo svolgimento pacifico di attività politiche.
  • Forme di "punizione collettiva", come le demolizioni delle case (48).

Il rapporto ha anche sottolineato come alcuni episodi specifici del passato, concernenti gravi violazioni dei diritti umani, continuino a gettare un'ombra sulla situazione attuale. Fra essi, la politica di 'liquidazione fisica' di oppositori politici negli anni '80, la 'sparizione', specialmente dal 1996, di prigionieri politici, di cittadini libici all'estero e di stranieri in visita in Libia (49).

Ad agosto 2004 le autorità hanno fornito una risposta dettagliata al rapporto di AI. Essa dimostrava la volontà da parte delle autorità di impegnarsi nelle questioni poste da AI. Le positive indicazioni in essa contenute riguardano progetti di riforme legali e istituzionali, molti dei quali erano già stati anticipati nel mese di aprile dal colonnello Mu'ammar al-Gheddafi. Tra questi l'abolizione del Tribunale del popolo (un tribunale speciale noto per trattare casi politici) e il trasferimento della sua giurisdizione a tribunali penali ordinari; una più rigorosa applicazione della legge libica e un restringimento dell'ambito di applicazione della pena di morte ai soli crimini più gravi (50).

Detto questo, sarebbe un grave errore ritenere che la Libia sia improvvisamente diventata un paese rispettoso dei diritti umani, o tantomeno un 'paese terzo sicuro' ai sensi delle disposizioni del diritto internazionale sui rifugiati (51). La scelta di aprire questo intervento con la storia di Masfin, infatti, non è casuale. La contro-partita del riavvicinarsi della Libia all'Unione Europea sembra essere il dirompente abbandono del pan-africanismo, con conseguenze molto gravi sui diritti umani degli stranieri residenti in Libia (52). D'altronde, il fatto che nel mese di ottobre 2004 l'Unione Europea abbia annunciato la revoca dell'embargo sulla vendita di armi alla Libia è contestuale al 'miglioramento' della cooperazione nella lotta all'immigrazione 'illegale'.

A questo proposito, sono stati segnalati con frequenza arresti di massa di persone provenienti dall'Africa sub-sahariana, compresi possibili richiedenti asilo, detenuti per il solo fatto di essere stranieri. Alcuni hanno rischiato di essere rimpatriati nei loro Paesi di origine dove sarebbero stati a rischio di gravi violazioni dei diritti umani. Sono stati segnalati molti casi di maltrattamenti a danno di questi detenuti, come abbiamo detto all'inizio.

Malgrado la Libia abbia ratificato a giugno 2004 la Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e i loro familiari, ancora manca la ratifica della fondamentale Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati del 1951 (con il relativo Protocollo del 1967), e non sono ancora state stabilite procedure nazionali in materia di asilo. In assenza di un quadro legislativo di protezione e senza il riconoscimento dell'ufficio locale dell'Unhcr da parte del governo libico l'effettiva garanzia dei diritti dei rifugiati risulta compromessa.

Come ricordavamo all'inizio, nel mese di luglio 2004 le autorità hanno rimpatriato forzatamente verso l'Eritrea, dove erano a rischio di tortura, 110 persone detenute in Libia (53). Al loro arrivo in Eritrea, queste sono state arrestate e trattenute in incommunicado in una prigione segreta. Nel mese di agosto, invece, quando le autorità hanno tentato di rimpatriare forzatamente in Eritrea 76 cittadini eritrei, tra cui sei bambini, alcuni hanno dirottato l'aereo che li stava trasportando e lo hanno costretto ad atterrare nella capitale sudanese, Khartoum, dove hanno presentato richiesta di asilo. Molti di essi hanno dichiarato di essere stati maltrattati e di non aver avuto accesso alle cure mediche durante il periodo di custodia in Libia (54).

Pur essendo migliorata, la situazione complessiva dei diritti umani non è per nulla rosea neanche per i cittadini libici.

La legislazione, ad esempio, continua a proibire la formazione di associazioni e partiti politici al di fuori dell'esistente sistema politico, ad eccezione della Società per i diritti umani della Fondazione internazionale Gheddafi per le associazioni di beneficenza, presieduta da Saif al-Islam al-Gheddafi, figlio del colonnello Mu'ammar al-Gheddafi. Alle altre organizzazioni per i diritti umani continua a essere impedito di operare liberamente (55).

Nonostante le autorità libiche continuino a negare categoricamente e ripetutamente l'esistenza di prigionieri di coscienza, decine di questi hanno continuato a essere detenuti per le loro opinioni o attività politiche non violente.

A dicembre 2004 il Tribunale d'Appello del popolo ha confermato le sentenze di condanna a morte nei confronti di Abdullah Ahmed 'Izzedin e Salem Abu Hanak, così come le condanne alla carcerazione di altre 83 persone a pene da 10 anni fino all'ergastolo, che erano state originariamente comminate nel 2002. AI li considera tutti e 85 prigionieri di coscienza, in quanto accusati per aver espresso liberamente le proprie idee senza aver usato o propugnato la violenza. Secondo la legge libica, le due condanne a morte saranno prese in considerazione dalla Corte Suprema e, se confermate, inviate al Consiglio Supremo degli organi giudiziari, il massimo organo giudiziario libico, per la conferma definitiva. Secondo quanto riferito, le sentenze sono state pronunciate in contumacia dopo che gli accusati si sarebbero rifiutati di comparire in aula in segno di protesta. Ciò ha fatto seguito alle loro precedenti proteste effettuate sotto forma di sciopero della fame nei mesi di aprile e ottobre 2004 per ottenere, tra le altre cose, la fine della loro continua detenzione. Le persone sotto processo erano professionisti e studenti arrestati durante e dopo il giugno 1998 in quanto sospettati di sostenere o simpatizzare per il Gruppo islamico libico conosciuto anche come Fratelli Musulmani (al-Jama'a al-Islamiya al-Libiya) e messo al bando. Essi erano stati accusati ai sensi della legge 71 del 1972 che proibisce i partiti politici ed erano stati condannati unicamente per aver tentato di esprimere pacificamente le loro idee e per essersi riuniti segretamente con altri per discutere delle loro opinioni al termine di un processo che non ha rispettato gli standard internazionali di equità processuale (56).

Sono pervenute, infine, continue segnalazioni di persone trattenute in incommunicado dall'Agenzia per la sicurezza interna. Torture e maltrattamenti, apparentemente con la funzione primaria di estorcere confessioni, vengono ampiamente riferiti come accaduti durante la detenzione in incommunicado (57).

2.5 Egitto

Nel dicembre 2001, alcune persone, fra cui Muhammad Muhammad Suleiman Ibrahim El-Zari sono state deportate dalla Svezia in Egitto, con la complicità del governo statunitense, sulla base di rassicurazioni diplomatiche. Accusate di essere terroriste, sono stati detenute in incommunicado e potrebbero aver subito torture e maltrattamenti (58). In particolare, Ahmed Hussein Agiza, che era insieme a Muhammad, è stato condannato ad aprile 2004 a 25 anni di carcere al termine di un processo iniquo innanzi al Supremo tribunale militare. Trattenuto in incommunicado per oltre un mese, è stato torturato, nonostante le autorità egiziane avessero fornito 'rassicurazioni diplomatiche' al governo svedese sul fatto che non sarebbe stato maltrattato. A giugno 2004 il presidente Mubarak ha ridotto la sua condanna a 15 anni. A dicembre 2004 il governo svedese ha ammesso di aver ricevuto informazioni secondo cui Ahmed Hussein Agiza era stato torturato in Egitto. Egli era stato inizialmente condannato in contumacia nel 1999 per il suo presunto collegamento con un gruppo islamista armato; il suo secondo processo nel corso dell'anno era un nuovo processo per lo stesso reato (59).

La situazione dei diritti umani in Egitto non è per nulla rosea come ci si potrebbe attendere pensando alla ratifica, nel 2003, dell'Accordo euro-mediterraneo di associazione con l'Unione Europea (UE), che contiene, all'art. 2, una clausola legalmente vincolante che obbliga le parti contraenti a promuovere e proteggere i diritti umani.

A febbraio 2003, infatti, lo stato di emergenza proclamato in Egitto è stato prolungato per altri tre anni, nonostante una campagna condotta da organizzazioni per i diritti umani, partiti politici e attivisti della società civile per chiederne la fine (60).

Il 7 luglio 2003, le autorità uruguayane hanno rimpatriato forzatamente in Egitto Al-Sayid Hassan Mukhlis dopo che le autorità egiziane ne avevano chiesto l'estradizione. Secondo quanto riferito, egli è stato detenuto in incommunicado presso il quartier generale del Dipartimento investigativo per la sicurezza di Stato del Cairo, un luogo dove la tortura è stata segnalata con frequenza. L'estradizione di Al-Sayid Hassan Mukhlis era stata richiesta per il suo presunto coinvolgimento negli abusi dei diritti umani commessi da al-Gama'a al-Islamiya (61).

Ma Hassan Mukhlis non è l'unico. Nella prima metà del 2003, centinaia di persone, tra cui avvocati, giornalisti, membri del parlamento, accademici e studenti, associati al movimento di protesta contro la guerra in Iraq, sono stati arrestati: la maggior parte per aver partecipato a manifestazioni non autorizzate. Le stesse manifestazioni per la pace che hanno visto quasi tre milioni di persone a Roma - fra cui sicuramente alcuni di coloro che sono qui presenti oggi - hanno portato in Egitto alla detenzione amministrativa per diverse settimane di alcune persone in base alla legge di emergenza. Molte hanno dichiarato di essere state torturate o maltrattate durante la detenzione (62).

A gennaio 2004 il Consiglio della Shura, la Camera Superiore egiziana, ha annunciato la creazione del Consiglio nazionale per i diritti umani (NCHR), guidato dall'ex Segretario Generale delle Nazioni Unite, Boutros Boutros-Ghali. L'organismo ha avuto il mandato di ricevere le denunce, dare indicazioni al governo e pubblicare rapporti annuali sulla situazione dei diritti umani in Egitto. Esso è stato accolto con scetticismo da alcune associazioni nazionali per i diritti umani. Il NCHR ha comunicato al governo il numero di denunce ricevute e ha programmato di pubblicare il primo rapporto annuale contenente, fra le altre cose, raccomandazioni sulla legislazione di emergenza ed emendamenti alla legislazione sulla detenzione preventiva, all'inizio del 2005 (63).

Ma anche in Egitto si è ripetuto il copione che partendo dal terrorismo porta al giro di vite sui diritti umani. Gli attentati dinamitardi all'Hotel Hilton a Taba e a due campeggi a Ras Shitani nella regione del Sinai il 7 ottobre 2004 hanno ucciso almeno 34 persone e ne hanno ferito più di cento. Dopo gli attentati, un gran numero di persone sono state arrestate nel Sinai del Nord nella seconda metà di ottobre. Le stime del numero di persone arrestate in relazione agli attentati variano molto; mentre i rapporti ufficiali hanno limitato il numero a 800, alcune ONG nazionali hanno parlato di 3.000 arresti. Molti di coloro che sono stati rilasciati a novembre hanno affermato di essere stati torturati. Le denunce di tortura includono percosse, sospensione per i polsi o per le caviglie e scosse elettriche. Secondo quanto riferito, la grande maggioranza di coloro che erano ancora in custodia alla fine dell'anno è stata trattenuta in incommunicado nei centri del Dipartimento per le indagini per la Sicurezza di Stato (SSI). Tra questi ricordiamo il quartier generale del SSI a Lazoghly Square, al Cairo, dove sono stati riferiti frequenti casi di tortura. Decine di ricorsi contro gli ordini di arresto sono stati esaminati dal procuratore generale; per 15 persone è stato disposto il rilascio a dicembre 2004, ma soltanto sei di loro risultavano essere stati rilasciati alla fine dell'anno (64).

Oltre a questa reazione da 'guerra al terrorismo' che è presente anche in altri paesi del Nord Africa, in Egitto sono continuate anche le più 'classiche' violazioni dei diritti umani, gli arresti e le condanne dei prigionieri di coscienza.

Ad esempio, a marzo 2004 il Tribunale Supremo (d'Emergenza) per la Sicurezza di Stato del Cairo ha emesso una sentenza contro 26 prigionieri di coscienza, inclusi tre cittadini britannici, con pene da uno a cinque anni di carcere. Essi erano accusati di essere affiliati al Partito Islamico di Liberazione (Hizb al-Tahrir al-Islami), che non è registrato. Dopo il loro arresto nell'aprile e nel maggio 2002, molti di essi sono stati trattenuti in incommunicado per settimane, e hanno affermato di essere stati torturati. Il Tribunale Supremo (d'Emergenza) per la Sicurezza di Stato è un tribunale eccezionale, che viola gli standard internazionali sui processi equi e nega agli imputati il diritto d'appello (65).

Inoltre, come già detto, la tortura continua a essere usata sistematicamente nei centri di detenzione in tutto il Paese. Diverse persone sono decedute in custodia in circostanze che indicano che la tortura o i maltrattamenti potrebbero aver causato o favorito il decesso.

Secondo quanto riferito, diversi membri dell'organizzazione, messa al bando, dei Fratelli Musulmani, sono stati torturati per giorni dopo essere stati prelevati dalla prigione di Mazra'at Tora, dove erano tenuti in detenzione preventiva e portati nella sede del SSI di Madinat Nasr, Il Cairo. È stato riferito che essi sono stati ripetutamente percossi, sospesi tramite i polsi o le caviglie e che sono stati sottoposti a scosse elettriche; alcuni di loro hanno riportato come conseguenza la frattura di ossa e costole. Gli uomini facevano parte di un gruppo di 60 membri dell'organizzazione che erano stati arrestati prima delle elezioni per il Consiglio della Shura del maggio 2004. Erano accusati, tra l'altro, di affiliazione a un'organizzazione non autorizzata, di possesso di volantini antigovernativi e di lavorare per rovesciare con la forza il governo. A molti altri sarebbero state negate le cure mediche in carcere; secondo quanto riferito, ciò ha portato al decesso di un prigioniero (66).

Nella grande maggioranza dei casi di presunta tortura, nessuno è stato consegnato alla giustizia, poiché le autorità sono state incapaci di condurre indagini immediate, imparziali e complete. Tuttavia si sono svolti alcuni processi nei confronti di presunti torturatori, ma solo per i casi relativi a prigionieri comuni, non per quelli relativi ai prigionieri politici. In alcuni casi di tortura è stato fornito un risarcimento alle vittime (67).

Diverse organizzazioni, tra cui l'Organizzazione egiziana contro la tortura e l'Iniziativa egiziana per i diritti personali, hanno continuato la propria battaglia legale contro la decisione del ministero degli Affari Sociali di negare loro la registrazione come ONG. In base alla legge del 2002 che regola le attività delle ONG, queste sono tenute a presentare domanda al ministero degli Affari Sociali per registrarsi ufficialmente. Le associazioni le cui domande sono state respinte e che continuano a operare sono perseguibili (68).

In particolare, il Centro Nadim per il trattamento psicologico e la riabilitazione delle vittime di violenza, situato al Cairo, è stato preso di mira dalle autorità per il suo lavoro per i diritti umani. Il Centro è stato visitato da due commissioni di ispezione del ministero della Salute a luglio ed agosto e accusato di molte infrazioni, tra cui la conduzione di attività mediche non autorizzate. In base alla legge sulle istituzioni mediche, il Centro ha 30 giorni per rettificare queste infrazioni, pena la chiusura. Tuttavia, le autorità non hanno intrapreso alcuna azione dopo la visita della seconda commissione ad agosto e alla fine dello scorso anno il centro continuava a essere operativo, nell'incertezza per il proprio futuro (69).

In sostanza, chi vive in Egitto rischia di veder violate le libertà di religione e di espressione. A giugno 2004 il Consiglio per la ricerca islamica di al-Azhar, la principale autorità religiosa del Paese, ha ottenuto ampi poteri per bandire e confiscare i materiali che esso considera violare i principi religiosi, sollevando timori circa ulteriori restrizioni alla libertà di espressione. Nonostante l'introduzione a febbraio 2004 da parte del presidente Mubarak di un decreto che abolisce la condanna al carcere per la pubblicazione di notizie offensive, i giornalisti hanno continuato a essere imprigionati, minacciati e percossi (70).

Inoltre, in Egitto vige la pena di morte e le condanne a morte continuano a essere emesse ed eseguite. Molte persone sono in attesa di esecuzione. La comunità delle ONG locali ha avviato un dibattito sul futuro della pena di morte nel Paese. Secondo quanto riferito, sei membri di una famiglia nota come 'Abd al-Halim sono stati impiccati nella Prigione di Qina, Alto Egitto, a settembre 2004. Essi erano stati condannati a morte per l'omicidio di 22 persone di un clan rivale a Sohag, Alto Egitto, nell'agosto 2002 (71).

Per quanto attiene più specificamente la situazione dei rifugiati in Egitto, occorre ricordare che con il deterioramento degli eventi nel Darfur, nel Sudan occidentale, e le trattative di pace in corso relative al Sudan meridionale, l'Unhcr del Cairo ha deciso di congelare per sei mesi a partire dal 1º giugno 2004 la determinazione dello status individuale per i richiedenti asilo sudanesi, in attesa di sviluppi in Sudan. È stato riferito che ad agosto 23 rifugiati sudanesi sono stati arrestati dopo una manifestazione di protesta contro questa decisione. Gli arrestati sono stati accusati di rivolta e danni alla proprietà pubblica; sono stati tutti rilasciati a settembre. L'Unhcr del Cairo ha continuato a garantire protezione contro i rimpatri forzati e a fornire a tutti i richiedenti asilo sudanesi carte di protezione temporanee. A maggio del 2004 delegati di AI hanno incontrato famiglie di rifugiati e richiedenti asilo, rappresentanti dell'Unhcr e di organizzazioni che lavorano a favore di rifugiati e richiedenti asilo. La visita è stata incentrata sull'accesso all'istruzione primaria per i bambini rifugiati e richiedenti asilo (72).

3. L'Italia è un Paese sicuro per i richiedenti asilo?

A fronte di questa pur breve panoramica sulla situazione dei diritti umani nell'Africa del Mediterraneo, ciò che risulta evidente è che malgrado le buone notizie e i miglioramenti degli ultimi anni, malgrado gli accordi euro-mediterranei di cooperazione, malgrado le belle parole e le buone promesse del colonnello Gheddafi, tutti i paesi che abbiamo analizzato non sono paesi sicuri per migranti e richiedenti asilo, per la semplice ragione che non sono paesi sicuri per gli stessi cittadini che vi abitano.

La lotta al 'terrorismo' con mezzi impropri è un tratto comune di questi paesi; la tortura è praticata ovunque, così come la repressione della libertà di esprimere idee diverse da quelle del governo.

Pertanto, in presenza di un fondato timore per la loro integrità psico-fisica, sia il rimpatrio di cittadini, sia la deportazione di stranieri verso uno di questi paesi costituisce un esempio tipico del refoulement vietato dal diritto internazionale (73).

In questo contesto, peraltro, non può essere dimenticato che la deportazione di stranieri spesso determina una forma di refoulement a catena: dall'Europa al Nord Africa e dal Nord Africa al proprio paese di origine.

Su questo, la posizione di Amnesty International non potrebbe essere più netta.

D'altronde, l'ipocrisia e la retorica alla base della c.d. lotta all'immigrazione 'illegale' fanno sì che facilmente si dimentichi di avere a che fare con esseri umani, che hanno dei diritti ben precisi, qualunque sia la ragione per la quale hanno deciso di lasciare il proprio paese. I mezzi di comunicazione di massa, infatti, alimentano quotidianamente una psicosi collettiva in base alla quale lo straniero è considerato un 'clandestino', un 'invasore', quasi un pirata pronto a 'sbarcare' sul nostro territorio. Psicosi che è favorita da alcune irresponsabili dichiarazioni di governi, come il nostro, che non esita a parlare di 'assalto' alle coste (74) o della presenza in Libia di due milioni di stranieri pronti a salpare per l'Italia (75).

Inoltre, questa paura instillata nei cittadini è strettamente connessa alla c.d. 'guerra al terrorismo', sotto la cui bandiera anche i governi al di qua del Mediterraneo e al di là dell'Atlantico si comportano come se sicurezza e diritti umani fossero valori antitetici. A farne le spese, nelle nostre società, sono spesso gli stranieri, specie se di religione mussulmana: nei loro confronti è come se alcune regole smettessero di applicarsi. Tre mesi dopo l'11 settembre 2001, la loro estradizione verso paesi in cui vige la pena di morte, come l'Egitto, non stupì nessuno, nemmeno se a effettuarla fu un paese come la Svezia.

Amnesty International, invece, continuerà a stupirsi, a indignarsi, e a scrivere.

Note

*. In P. Cuttitta, F. Vassallo Paleologo (a cura di), Migrazioni, frontiere, diritti, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2006.

**. Responsabile Coordinamento Rifugiati e Migranti, Amnesty International Italia

1. Malgrado l'Eritrea non faccia parte dei Paesi oggetto della presente relazione, è utile segnalare la portata delle violazioni dei diritti umani in questo Paese nel quadro che ci accingiamo a descrivere. In proposito si veda il seguente rapporto di Amnesty International, dal quale si evince anche il fatto che in Eritrea i metodi di tortura praticati dalle forze dell'ordine hanno talvolta nomi italiani ("Ferro", "Otto"; e bisognerebbe interrogarsi sul perché di questa singolare eredità linguistica): Amnesty International, rapporto "Eritrea: 'You have no right to ask' - Government resists scrutiny on human rights", AI Index: AFR 64/003/2004 (*), 19 maggio 2004. - (*) Tutti i documenti di Amnesty International sono citati mediante l'uso dell'AI-Index, sistema di indicizzazione proprio dell'associazione, che consente di recuperare immediatamente tutti i documenti attraverso uno dei seguenti siti Internet: in inglese o in spagnolo o in francese o in arabo).

2. Amnesty International, rapporto "Libya: Time to make human rights a reality", AI Index: MDE 19/002/2004, 27 aprile 2004.

3. "Convenzione dell'Organizzazione dell'Unità Africana su specifici aspetti concernenti i problemi dei rifugiati in Africa", adottata ad Addis Abeba dalla VI sessione dell'Assemblea dei Capi di Stato e di Governo dell'OUA, il 10 settembre 1969, ed entrata in vigore il 20 giugno 1974.

4. Amnesty International, Urgent Action / Azione Urgente 232/04, MDE 19/012/2004, del 28 Luglio 2004; ad agosto vi fu un seguente tentativo di rimpatrio, che ebbe un certo risalto mediatico in quanto non compiutamente riuscito (i cittadini eritrei dirottarono l'aereo verso il Sudan): vedi Amnesty International, Urgent Action / Azione Urgente 232/04, AI Index: MDE 19/014/2004 del 6 settembre 2004. Al momento in cui si è svolta questa relazione ancora non era di dominio pubblico l'inquietante rapporto 7753/05 della Missione Tecnica dell'Unione Europea in Libia sul tema dell'immigrazione illegale, disponibile a partire dall'11 maggio 2005 sul sito Melting Pot. Da tale rapporto si evince che uno dei voli con cui sono stati rimpatriati cittadini eritrei dalla Libia, il 21 luglio 2004, è stato finanziato dal governo italiano nell'ambito di non meglio specificati accordi bilaterali con la Libia (il cui testo è sinora sconosciuto al Parlamento italiano; tali accordi sarebbero risalenti, secondo una relazione della Corte dei Conti, all'anno 2000). Su questo e altri aggiornamenti successivi alla relazione si veda infra, nota 13. Sulla cooperazione dell'Unione Europea con la Libia in tema di controllo dell'immigrazione 'illegale' si veda anche: Associazione Unione Europea di Amnesty International, Immigration cooperation with Libya: the human rights perspective - briefing ahead of the Justice and Home Affairs Council, 14 April 2005, nonché il Comunicato Stampa 49/2005 della Sezione Italiana.

5. Amnesty International, Comunicato stampa / News Service 329/2004, "Libya: Refugees face imminent expulsion" AI Index: MDE 19/022/2004, del 23 dicembre 2004 (disponibile anche in italiano).

6. Ibid.; vedi anche: Amnesty International Sezione Italiana, ICS - Consorzio Italiano di Solidarietà, Medici Senza Frontiere, comunicato stampa congiunto "Nota di Amnesty International, ICS e Medici Senza Frontiere sui respingimenti in corso verso la Libia" del 20 dicembre 2004.

7. Questa, secondo una dichiarazione ufficiale del governo, è la singolare qualifica giuridica da attribuire agli accordi bilaterali con il governo di Tripoli, di cui alla nota 4 (Comunicato stampa del Ministero degli Interni del 6 febbraio 2005: "il Ministro Pisanu ed il Ministro Mabruk hanno sottoscritto un'intesa verbale con la quale, dopo aver presto atto dei risultati fino ad oggi conseguiti, si ribadisce la comune volontà di cooperazione"); ma questi accordi bilaterali hanno ricevuto nel tempo dalle autorità italiane le qualificazioni più disparate: le dizioni "accordo operativo" del 2002 e "collegamento permanente" del 2003 si trovano a pag. 59 del rapporto della missione tecnica Ue di cui sopra (nota 4), e la dizione "accordo di cooperazione tra Ministeri dell'Interno e Polizie", stipulato nell'anno 2000, si trova a pag. 32 della relazione della Corte dei Conti "Programma controllo 2004 - Gestione delle risorse previste in connessione con il fenomeno dell'immigrazione". A quanto pare, la Repubblica Italiana sta perfezionando nel tempo modi sempre più creativi per violare da ogni punto di vista il principio di non-refoulement (e tramite esso l'art. 10, commi 1, 2 e 3 della Costituzione); la violazione è infatti duplice: da un lato le deportazioni verso la Libia, e dall'altro il finanziamento dei voli di rimpatrio dalla Libia ai paesi di origine, unito ad un generale supporto 'operativo' e finanziario al sistema di violazione dei diritti umani dei richiedenti asilo in Libia.

8. Amnesty International Sezione Italiana, ICS - Consorzio Italiano di Solidarietà, Medici Senza Frontiere, comunicato stampa congiunto "Dura condanna di Amnesty International, ICS e Medici Senza Frontiere per i trasferimenti forzati dei cittadini stranieri arrivati a Lampedusa" del 3 ottobre 2004; Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, comunicato stampa "UNHCR deeply concerned over returns from Italy" del 4 ottobre 2004; Amnesty International, comunicato stampa "Italy: Government must ensure access to asylum for those in need of protection", AI Index: EUR 30/001/2004, del 6 ottobre 2004 (trad. it.: comunicato 136/2004 della Sezione Italiana, "Italia: Amnesty International chiede al governo di assicurare l'accesso alle procedure di asilo a coloro che necessitano di protezione"); Amnesty International Sezione Italiana, ARCI, Associazione Studi Giuridici sull'Immigrazione, Comunità di Sant'Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, ICS - Consorzio italiano di solidarietà, Medici Senza Frontiere e Save the Children Italia, comunicato stampa congiunto "Diritto d'asilo / Lampedusa: 8 associazioni scrivono al presidente Berlusconi e al ministro Pisanu" del 21 ottobre 2004.

9. Sancito dall'art. 4 del Protocollo n. 4 della Convenzione Europea sui Diritti Umani e le Libertà Fondamentali (stipulata dagli Stati membri del Consiglio d'Europa a Roma il 4 Novembre 1950; il protocollo è stato invece firmato a Strasburgo il 16 Settembre 1963; entrambi sono ratificati dalla Repubblica Italiana, rispettivamente con legge 4 agosto 1955 n. 848 e con D.P.R. 14 aprile 1982 n. 217) e dall'art. 19, primo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (dichiarazione solenne del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione dell'Unione Europea, firmata a Nizza il 7 dicembre 2000).

10. Il principio di non-respingimento dello straniero verso un Paese in cui sia a rischio la sua integrità psico-fisica (o da cui possa essere a propria volta respinto) è una norma fondamentale del diritto internazionale consuetudinario; inoltre, esso è sancito, fra gli altri, dall'art. 33 della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati (Adottata a Ginevra il 28 luglio 1951, entrata in vigore il 21 aprile 1954, e ratificata dalla Repubblica Italiana con legge 24 Luglio 1954, n. 722), dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti (firmata a New York il 10 dicembre 1984, ratificata dalla Repubblica Italiana con legge 3 Novembre 1988, n. 498), dalla Convenzione Europea sui Diritti Umani e le Libertà Fondamentali (Roma, 1950, cit., in base alla costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che ha esteso la portata del divieto di tortura), dall'art. 19, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (Nizza, 2000, cit.). Il principio di non respingimento è anche recepito, con una formulazione ampia e generale a tutela dalle 'persecuzioni', dall'art. 19 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (testo unico in materia di immigrazione; l'articolo non è stato modificato dai successivi interventi).

11. Art. 3 della Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati (Ginevra, 1951, cit.); artt. 43 e 44 del testo unico in materia di immigrazione, cit.

12. Dalla motivazione di una decisione di non riconoscimento dello status di rifugiato emessa nei confronti di un cittadino turco di etnia curda nel 2002 dalla Commissione Centrale per il Riconoscimento dello Status di Rifugiato: "Considerato che lamenta le difficili condizioni di vita in cui versano le popolazioni della sua etnia in conseguenza dell'atteggiamento che definisce oppressivo e discriminatorio delle autorità governative; considerato che tale condizione oggettiva, a carattere generalizzato, non rileva, ai sensi della Convenzione di Ginevra del 28/7/1951, ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, non potendosi individuare motivi di persecuzione riferibili in via diretta e personale secondo la nozione contenuta nell'art. 1 della predetta Convenzione [...] decide di non riconoscere lo status di rifugiato"; questa e altre motivazioni della Commissione Centrale, tra le quali alcune giuridicamente abnormi, sono citati in Giusy D'Alconzo et al., Ricerca giuridica sugli orientamenti giurisprudenziali in materia di asilo, Quaderni n. 4, Associazione Centro Astalli per l'Assistenza agli Immigrati, Jesuit Refugee Service Italia e Casa dei Diritti Sociali Focus, Roma, Settembre 2003, pagg. 156 e ss.

13. I rimpatri da Lampedusa alla Libia sono diventati una vera e propria prassi amministrativa contra legem: a Marzo 2005, pochi giorni dopo questa relazione, le deportazioni sono riprese in termini ancora più gravi, addirittura dopo aver consentito a funzionari libici di svolgere investigazioni nel centro di Lampedusa dove si trovavano i migranti; vedi Amnesty International Sezione Italiana, Comunicato Stampa 35/2005 del 17 marzo 2005; Amnesty International, Azione Urgente / Urgent Action "Italy: Forcible return/fear for safety/fear of torture", AI Index EUR 30/002/2005, del 18 marzo 2005; Amnesty International, "Amnesty International calls on the European Commission to take action against Italy", AI-Index IOR 61/007/2005, del 21 marzo 2005; Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Comunicato Stampa "Unhcr deeply concerned over Lampedusa deportations", del 18 marzo 2005. Il 14 aprile 2005 il Parlamento Europeo ha approvato una mozione di censura delle espulsioni collettive di stranieri, con specifico riferimento ai fatti di Lampedusa (è consultabile sul sito del Parlamento Europeo). Malgrado questo pronunciamento e malgrado una ordinanza della Corte Europea dei Diritti Umani relativa alla posizione di undici migranti a rischio di deportazione, pare che il governo italiano abbia ripreso le deportazioni da Lampedusa anche a maggio e giugno 2005.

14. Gabriele Romagnoli, "Biglietto senza ritorno", la Repubblica delle Donne, 16 ottobre 2004.

15. Amnesty International, Sezione Italiana, comunicato stampa sul caso della nave Cap Anamur, 8 luglio 2004, e successive dichiarazioni alla stampa del 24 luglio 2004 (riportate fra gli altri da La Repubblica del 25 luglio 2004, pag. 23).

16. Per un'analisi della proposta del Regno Unito e del successivo tentativo dell'Unhcr di arginarne la portata, e per le critiche di Amnesty International ad entrambi, si veda il rapporto dell'Associazione Unione Europea di Amnesty International, "UK/EU/UNHCR - Unlawful and Unworkable - extra-territorial processing of asylum claims", AI Index: IOR 61/004/2003, del 18 giugno 2003.

17. In questo caso, Amnesty International, insieme con molte altre ONG, ha chiesto alla Commissione Europea di ritirare la propria proposta di direttiva, sospendendo così il procedimento legislativo (cfr. European Council On Refugees And Exiles, Amnesty International, Human Rights Watch, Press Release "Refugee and human rights organisations across Europe express their deep concern at the expected agreement on asylum measures in breach of international law", AI Index: IOR 61/010/2004, del 28 aprile 2004); per una valutazione complessiva delle direttive in tema di asilo approvate nel quinquennio 1999-2004, si veda anche: Associazione Unione Europea di Amnesty International, "Threatening refugee protection - Amnesty International's Overall Assessment of the Tampere Asylum Agenda, June 1999 - May 2004", Luglio 2004.

18. Amnesty International, Rapporto annuale 2004 (*) sul Marocco - (*) Ogni rapporto annuale di Amnesty International copre gli avvenimenti dell'anno immediatamente precedente, in questo caso il 2003.

19. Ibid.

20. Amnesty International, rapporto "Morocco/Western Sahara - Torture in the 'anti-terrorism' campaign - the case of Témara detention centre", AI Index: MDE 29/004/2004, del 24 Giugno 2004.

21. Ibid.

22. Ibid.

23. Amnesty International, Rapporto annuale 2004 sul Marocco, cit.

24. Ibid.

25. Ibid.

26. Amnesty International, Rapporto annuale 2005 sul Marocco.

27. Ibid.

28. Ibid.

29. Ibid.

30. Amnesty International, rapporto annuale 2005 sull'Algeria.

31. A gennaio 2004, alcuni resti umani sono stati esumati da una fossa comune nella provincia occidentale di Relizane apparentemente per tentare di nascondere o distruggere le prove delle violazioni dei diritti umani. Tra il 1993 e il 1998 oltre 200 civili "scomparvero" nella regione per mano delle milizie armate dallo Stato. Il sito fu scoperto nel novembre 2003 da un attivista dei diritti umani locale che ha anche raccolto le prove che la fossa comune conteneva i resti di alcuni degli "scomparsi". Le autorità non sono riuscite a impedire la possibile distruzione delle prove e a fine anno nessuna inchiesta sull'episodio risultava aperta. Durante l'anno sono state scoperte altre fosse comuni. Cfr. Amnesty International, comunicato stampa / News Service No: 192, "Algeria: Newly discovered mass grave must be fully investigated", AI Index: MDE 28/010/2004 del 30 luglio 2004.

32. Amnesty International, dichiarazione pubblica "Algeria: 'Disappearances' must be on presidential election agenda", AI Index: MDE 28/004/2004, 11 Marzo 2004.

33. Amnesty International, rapporto annuale 2005 sull'Algeria.

34. Vale la pena notare che la configurazione della tortura come reato è un elemento di civiltà giuridica del tutto assente in Italia.

35. Ibid.

36. Ibid.

37. Ibid.

38. Ibid.

39. Ibid.

40. Ibid.; vedi anche Amnesty International, "Algeria - briefing to the Committee on the Elimination of Discrimination Against Women", Index: MDE 28/011/2004, Dicembre 2004; Amnesty International, comunicato stampa "Algeria: Women left unprotected from violence and discrimination", AI Index: MDE 28/001/2005, del 10 gennaio 2005.

41. Amnesty International, rapporto annuale 2004 sulla Tunisia.

42. Ibid.

43. Amnesty International, rapporto annuale 2005 sulla Tunisia.

44. Amnesty International, rapporto annuale 2004 sulla Tunisia, cit.

45. Amnesty International, rapporto annuale 2005 sulla Tunisia, cit.

46. Amnesty International, rapporto "Libya: time to make human rights a reality", cit.

47. Amnesty International, comunicato stampa, "Libya: Abolition of People's Court is an important step", AI Index: MDE 19/001/2005, Gennaio 2005.

48. Amnesty International, rapporto "Libya: time to make human rights a reality", cit.

49. Ibid.

50. Amnesty International, rapporto annuale 2005 sulla Libia.

51. Vale la pena di ricordare che Amnesty International è fortemente preoccupata per l'uso dei concetti di "paese terzo sicuro" e di "paese di origine sicuro" nelle direttive europee in tema di armonizzazione delle procedure sul riconoscimento dello status di rifugiato, perché teme che l'obiettivo sia sempre più quello di non consentire ai richiedenti asilo l'ingresso nel territorio dell'Unione, o di respingerli arbitrariamente dopo aver negato l'accesso alla procedura di asilo sulla base di mere presunzioni. Vd. sopra, nota 17.

52. Amnesty International, ovviamente, non prende alcuna posizione sul c.d. "pan-africanismo": si segnala qui soltanto il repentino cambiamento di politica da parte del governo libico, con il conseguente peggioramento della situazione dei diritti umani degli stranieri in Libia.

53. Vedi sopra, nota 4, con i riferimenti bibliografici e con l'accenno al finanziamento di questo rimpatrio da parte del governo italiano.

54. Amnesty International, rapporto annuale 2005 sulla Libia, cit.; vd. anche sopra, nota 4.

55. Amnesty International, rapporto annuale 2005 sulla Libia, cit.

56. Ibid.

57. Ibid.

58. Amnesty International, azione urgente 324/2001 "Sweden/Egypt: Forcible Return/ Risk of Torture, Muhammad Muhammad Suleiman Ibrahim El-Zari, Ahmed Hussein Mustafa Kamil Agiza", AI Index: MDE 12/035/2001, del 19 dicembre 2001, e successivi sviluppi (azioni urgenti del 10/01/2002, 22/01/2002, 01/02/2002, 18/12/2003, 18/06/2004).

59. In violazione del c.d. principio internazionale di equità processuale di ne bis in idem. Amnesty International, rapporto annuale 2005 sull'Egitto.

60. Ibid.

61. Ibid.

62. Ibid.

63. Amnesty International, rapporto annuale 2005 sull'Egitto, cit.

64. Ibid.

65. Ibid.

66. Ibid.

67. Ibid.

68. Ibid.

69. Ibid.

70. Ibid.

71. Ibid.

72. Ibid.

73. Vd. sopra, nota 10.

74. Comunicato stampa del Ministro degli Interni, 3 ottobre 2004, nel primo giorno delle deportazioni da Lampedusa in Libia: "L'assalto alle coste italiane è organizzato da gruppi criminali che sfruttano spietatamente il traffico dei clandestini. Non possiamo assecondare in alcun modo il loro gioco e i loro turpi affari". Nel comunicato si legge anche che "andremo avanti su questa linea. I disperati che pensano ancora di potersi imbarcare illegalmente per l'Italia devono sapere che saranno rimandati ai luoghi di partenza subito dopo aver ricevuto i soccorsi umanitari", cioè, per stessa ammissione del Ministro, prima di essere correttamente identificati e di avere avuto accesso alla procedura di asilo se bisognosi di protezione internazionale. Il comunicato sembra essere una risposta a quello dello stesso giorno di Amnesty, ICS e Medici Senza Frontiere, vd. nota 8.

75. Faccio qui riferimento all'intervento di Olivier Pliez.