ADIR - L'altro diritto

Fronti e frontiere
Note sulla militarizzazione della contiguità (*)

Alessandro Dal Lago, 2006

1. Alcune fotografie della seconda guerra mondiale mostrano le truppe tedesche di prima linea che si preparano a invadere la Polonia, nel settembre 1939. Gli attaccanti (reparti motorizzati e di motociclisti) sono ritratti mentre abbattono le sbarre dei posti di blocco doganali. In altre fotografie, questa volta del giugno 1941, la fanteria tedesca d'assalto attende il momento dell'attacco al riparo di una massicciata ferroviaria, in prossimità del confine tra la parte di Polonia annessa da Hitler e quella controllata dai russi. (1) In ogni caso, che la frontiera sia chiaramente determinata da una garitta e da una bandiera, o sia la linea astratta tracciata in una pianura come frutto di una spartizione politica, il valore simbolico di queste immagini è indubbio. Al di qua di una linea politica - che è al tempo stesso confine, frontiera e fronte militare - le forze attaccanti si sono ammassate per scatenare un'offensiva. Che la guerra sia stata dichiarata o no, il suo primo atto è la violazione di un confine politico. La frontiera è il primo fronte di una guerra totale.

Venticinque anni prima, nel 1914, le immagini delle truppe francesi e tedesche che si avviano al fronte ci consegnano un'idea non troppo diversa dell'attrazione per la frontiera degli eserciti contrapposti. Giovani liceali tedeschi in marcia verso il Reno, o anziani poilus salutati dalle famiglie alla stazione sono come magnetizzati, gli uni e gli altri, da quella zona virtuale di impatto che costituisce l'imminente linea di fuoco. E questa linea è inevitabilmente la frontiera. In un certo senso, in tutta la storia europea che va dalla Guerra dei Trent'anni al 1945, ogni frontiera contiene la possibilità di un fronte. Non c'è Stato, in quel grande Risiko che si gioca nel vecchio continente per secoli fino all'avvento della guerra fredda, che non progetti la propria politica estera in relazione alla situazione delle sue frontiere (con l'eccezione dell'Inghilterra, per motivi evidenti). La Russia e il suo tentativo sempre frustrato di spostare la frontiera sud verso il Mediterraneo. Il Reich, prima prussiano e poi tedesco, e l'eterno problema del doppio fronte. L'Austria e la frontiera mobile e turbolenta con l'impero ottomano. L'Italia e il suo dilemma strategico, dall'unità al maggio del 1915, se fortificare la frontiera di nord-ovest, in funzione anti-francese, o quella di nord-est, contro l'Austria. E così via. Le frontiere, frutto di guerre secolari, accidenti storici, alleanze, vittorie, sconfitte e rivoluzioni, costituiscono i perni delle strategie politiche e militari. Frontiere da rafforzare, modificare, estendere, integrare, correggere in un processo di crisi senza fine.

La guerra, facendo di ogni frontiera data il fronte iniziale, sconvolge gli assetti precedenti, come erano fissati dalle carte politiche, che dopo ogni conflitto verranno modificate. I confini arretrano in caso di sconfitta o vengono fissati in profondità nel territorio del nemico vinto. Ogni trattato di pace cerca di determinare un equilibrio, ma in realtà è la premessa di un attrito internazionale che sboccherà inevitabilmente in nuovo conflitto armato. Il confine politico tra gli stati viene sempre definito in nome di una frontiera potenziale, e questa costituisce il fronte iniziale di ogni conflitto futuro. La frontiera è cioè l'ambiente militare virtuale che gravita sul confine politico. In tempo di pace, mentre apparentemente le armi tacciono - e in realtà vincitori e vinti si riarmano per la guerra che inevitabilmente verrà -, è come se i confini politici fossero silenziosamente mobilitati verso una destinazione più opportuna. La vera frontiera - almeno da un punto di vista strategico - non è quella fissata da un confine politico dato, risultato dell'evoluzione storica, ma quella verso cui sono potenzialmente attratti due stati confinanti in virtù delle loro relazioni di forza.

Il caso della Russia nella seconda guerra mondiale è forse il più emblematico. La sua frontiera occidentale era solo nominalmente quella fissata dal patto Molotov-Ribbentrop, che le armate di Hitler travolsero nel giugno 1941. In realtà correva molto più a est, in prossimità dei centri politici dell'Unione Sovietica, degli agglomerati industriali come Stalingrado, delle fertili terre dell'Ucraina e dei pozzi petroliferi delle regioni caucasiche. È verso questa frontiera reale che le truppe corazzate di Hitler si precipitarono, in una corsa nello spazio e contro il tempo che, analogamente alle imprese di Carlo IX di Svezia e di Napoleone, doveva risultare vana. Se viste nel quadro di una potenza che si spingeva fino al Pacifico, i territori polacchi, galiziani e bielorussi, conquistati di slancio nell'autunno del 1941, non rappresentavano che una parte secondaria, se non trascurabile, dell'impero sovietico. Ignorando che la vera frontiera russa non era quella politica tracciata nelle pianure polacche, ma quella militare, sociale e industriale dello heartland sconfinato che si estendeva al di là degli Urali, Hitler era votato alla sconfitta fin dall'inizio. (2)

L'idea di confine ha senso dunque solo in relazione alla frontiera che vi gravita e questa trova il suo significato nell'essere un fronte potenziale. È il fronte che determina la frontiera, ed è questa che viene fissata nelle convenzioni politico-geografico-cartografiche di un confine tra gli stati. Ciò resta vero anche quando, nel corso del XIX secolo, è lo spazio marino, e non più - o esclusivamente - quello terrestre a definire il senso globale, politico e strategico dei confini. La piccola isola inglese, abitata da poche decine di milioni di abitanti e difesa da un esercito terrestre da sempre limitato e tradizionalista, (3) deve il suo straordinario potere imperiale al controllo dei punti chiave (stazioni e basi su stretti, isole, porti ecc.) che la sua politica marittima ha disseminato in tutto il mondo nel corso di un paio di secoli. (4) Certo, l'impero britannico, nel momento di massimo sviluppo, controlla direttamente territori sconfinati e ricchi. Ma se è riuscito a battere Napoleone, così come riuscirà a sconfiggere la Germania nel 1918 e a sopravvivere a Hitler è per il controllo dei mari e non quello diretto delle terre. La sua flotta blocca le potenze marinare dell'est e del sud nel Mediterraneo, così come la Germania nel Baltico. Controlla le rotte dell'Atlantico del sud dalle Falkland e quelle settentrionali dal Canada. La rete di basi che si stendono da Aden a Ceylon e da Singapore all'Australia permetterà all'Inghilterra di non avere rivali negli Oceani e di controllare in due conflitti totali, e nonostante le guerre sottomarine, il traffico marittimo mondiale e quindi l'approvvigionamento della madrepatria e dei suoi eserciti.

Si può notare come la geopolitica classica (si pensi a Ratzel, McKinder, Mahan ecc.) fiorisca al tramonto del fattore strettamente terrestre nella politica mondiale. In un certo senso, essa sancisce la fine o la decadenza dei poteri continentali, in quanto questi non hanno un vero accesso al mare aperto (Austria, Germania, la stessa Russia, per non parlare dei minori come l'Italia) o, pur avendo accesso al mare, come la Francia, sono limitati dalla potenza inglese. (5) È alla fine dell'Ottocento che il mare appare come l'elemento decisivo nel controllo del mondo. Un'opera come Terra e mare del giurista e politologo tedesco Carl Schmitt, con la sua protesta verso una politica internazionale che non è più gioco territoriale inter-statale, ma si svolge nell'infinità globale degli Oceani (a cui la Germania ha solo un accesso limitato), è in fondo rivolta all'indietro, alla nostalgia dell'Europa che fu, quando la guerra era il perenne tentativo, in un gioco comune a tutti gli stati europei, di fissare frontiere terrestri favorevoli dal punto di vista strategico, economico e commerciale. (6) Terra e mare, come il successivo Il nomos della terra, (7) analogamente alle opere dei maestri della geopolitica, celebra il fattore terrestre, nella fase in cui il controllo strategico del mondo si estende all'acqua e poi all'aria (le prime teorizzazioni dell'aviazione strategica sono immediatamente successive alla prima guerra mondiale). Dietro l'Inghilterra, che tra le due guerre comincia a conoscere il suo declino, appare l'ombra del grande cugino d'oltre Atlantico, il potere globale degli Usa.

2. Gli stati Uniti costituiscono, fino a oggi, il più rilevante esempio di stato-continente, isolato da due oceani e circondato da vicini deboli (il Messico) o tradizionalmente alleati (il Canada) o comunque poco rilevanti sul piano militare. Due guerre limitate, contro l'Inghilterra nel 1812 e contro il Messico nel 1846-1848, nonché il controllo di Panama, consentono agli Usa il controllo dell'intero continente nord-americano, oltre che dell'America centrale e meridionale e di una quota rilevante del traffico marittimo mondiale. In realtà, le vere frontiere degli Usa non sono mai state quelle settentrionali e meridionali, ma quella occidentale e soprattutto l'interna. (8) Per più di un secolo, dalla guerra d'indipendenza alla fine dei conflitti indiani, i confini occidentali erano indeterminati e la frontiera dell'Ovest, il più grande mito della storia americana, ha rappresentato una straordinario laboratorio di conquista e di sviluppo economico, il fronte mobile di una nazione che imparava a dominare il mondo conosciuto. Anche la guerra civile, combattuta in metà continente, a est del Mississippi, ha mobilitato numerosi fronti, terrestri e marittimi, ma si è svolta in uno spazio in cui non esistevano confini precisi. (9) La politica estera americana, con la sua scala inter-continentale, la sua indifferenza per frontiere e confini, lo spietato pragmatismo, il prevalere delle ragioni economiche e commerciali su qualsiasi altra, la capacità di proiettarsi all'esterno senza le pastoie del colonialismo tradizionale e la mitologia del "fardello dell'uomo bianco", anticipa l'intero processo di globalizzazione.

L'ascesa di un potere globale corrisponde a quell'illimitatezza del conflitto novecentesco che turbava e in fondo scandalizzava Schmitt. E in un mondo in cui il conflitto è potenzialmente senza limiti la tradizionale relazione tra confini, frontiere e fronti diviene sempre più complessa e inafferrabile. Certo, i confini politici esistono come prima e sono oggetto di innumerevoli contese. Ma si può dire in generale che lo spazio delle frontiere e quello dei fronti non coincide più con quello dei confini, se non nelle stanche convenzioni della diplomazia internazionale. I confini rappresentano solo l'apparenza, e nemmeno la più importante, che le relazioni tra stati assumono sulla scena globale, mentre frontiere e fronti costituiscono la realtà, attuale e virtuale, di un movimento complessivo di forze ben più strategiche. Le frontiere economiche, sociali e mediali contano oggi ben più delle linee tracciate, spesso arbitrariamente, sulle carte geo-politiche come risultato di conflitti del passato e di aggiustamenti da sempre forieri di nuovi conflitti. E i fronti, sia nel caso di conflitti aperti, sia e soprattutto nel caso di quelli nascosti e segreti, non conoscono frontiere e confini.

Gli spazi politici si ridefiniscono, al di là dei confini convenzionali, come ambiti che trascendono la contingenza geo-politica. (10) Gran parte dei processi che oggi mobilitano il mondo sono globali, nel senso che assumono il mondo come unico limite. Lo spazio dell'economia e dell'informazione, della moda e della pubblicità coinvolge potenzialmente ogni abitante del mondo in quanto tale, e non come cittadino di quel paese o dell'altro, e tanto meno come essere definito da un'appartenenza territoriale. Certo, si tratta di un'omogeneizzazione materiale e simbolica solo agli inizi, e sicuramente conflittuale. Chiunque sia rimasto indietro, in questa corsa a condividere gli stessi consumi e gli stessi simboli, avverte la straordinaria minaccia che ciò costituisce per la sua esistenza particolare. Il contadino del Messico meridionale, il coltivatore o il pastore degli altipiani dell'Asia centrale, gli abitanti degli slums globali di mezzo mondo non possono che rispondere con i loro strumenti locali, e con le giustificazioni della loro tradizione, reale o immaginaria, alla macina globale che ha i suoi propulsori nel mondo ricco e, fino a oggi, nella sua avanguardia statunitense. In fondo, l'obiettivo del famigerato libro di Huntington sullo scontro di civiltà era proprio questo: identificare le possibili forme locali e collettive di resistenza all'universalismo globale del capitalismo americano-occidentale. (11) Ma si trattava di una prospettiva ben preso superata dagli eventi. Huntington, all'inizio degli anni Novanta, pensava a una contrapposizione tra mondo ricco e bianco, da una parte, e nazionalismi crescenti (balcanico, islamico, russo, cinese, giapponese ecc.) dall'altro. Ma, in realtà, quello che non poteva prevedere era che lo heartland del capitalismo globale si stesse spostando dagli Usa e dall'America verso l'Asia. La globalizzazione sembra oggi essersi dislocata dagli Usa verso stati-continente altrettanto famelici ma infinitamente più provvisti di risorse demografiche, come la Cina e l'India. Le guerre aperte o nascoste che gli americani e i loro alleati combattono per il controllo del petrolio e l'egemonia geo-politica in America latina, Asia minore e Africa sembrano battaglie di retroguardia rispetto all'ascesa del capital-comunismo cinese, che si avvia a diventare il più grande produttore di beni, nonché il maggior consumatore di risorse energetiche e il mercato interno più dinamico al mondo.

In questo quadro, capace di modificasi a un ritmo che nessuna epoca storica aveva conosciuto, frontiere e confini politici contano sempre meno o, meglio, si subordinano alle esigenze egemonico-militari che disseminano di fronti tutto il mondo. Da un punto di vista militare, oggi apertamente connesso alla realtà economica globale, i fronti attraversano le frontiere e i confini politici. (12) Dopo l'11 settembre 2001 e l'11 marzo 2004, l'interno delle società ricche e occidentali è in una situazione di guerra virtuale, come il resto del mondo è in uno stato di guerra intermittente. Il quadro strategico non è più definito dalla terra e dal mare e, al limite dal cielo (il cui controllo, per il momento, è la condizione dell'egemonia militare americana), ma dall'info-sfera, cioè dal dominio delle comunicazioni. Con il concetto di infowar non si intende tanto (o soltanto) il controllo dell'informazione, ma il fatto che l'intera sfera dell'informazione (economica, mediale, militare ecc.) è passibile di intervento armato in nome della protezione degli interessi americani. Con l'idea di netwar non si intende tanto (o soltanto) la subordinazione della presunta libertà di informazione all'interesse nazionale americano o degli altri paesi occidentali, ma il fatto che ogni rete (sociale, informatica e informativa), solo per il fatto di essere tale, costituisce una possibile minaccia alla "sicurezza internazionale". (13) Ogni rete è potenzialmente globale e quindi un campo virtuale di intervento o contro-intervento armato. È per questo motivo che, accanto ai fronti militari tradizionali (che comunque continuano a proliferare là dove esistano poste del conflitto definite dalle condizioni geografiche o comunque territoriali, come l'esistenza di "stati canaglia", centrali terroristiche o semplicemente risorse naturali) si sviluppano fronti svincolati da frontiere e confini. Se i sevizi segreti Usa, in collaborazione con quelli europei, catturano presunti terroristi islamici in Svezia, Pakistan o in Italia, li smistano in Egitto per essere "interrogati" o a Guantanamo per essere "detenuti", ciò significa semplicemente che la guerra contro il terrorismo è diventa globale perché interessa tutto il globo, e cioè è già tra noi.

Se la guerra contemporanea non conosce più confini, anche il concetto di frontiera si svincola ormai dal suo tradizionale significato di limite politico inter-statale. (14) Nonostante il patetico ritorno dei nazionalismi infra-europei - espresso tradizionalmente da paesi come la Francia ed emerso nel risultato dei referendum sulla costituzione europea -, è del tutto evidente che i confini politici interni all'Europa sono solo una finzione o, comunque, un fattore più che altro idiosincratico, in quanto vengono fatti coincidere con una supposta identità nazionale. Sono semmai le frontiere meridionali e orientali (Africa e spazio politico orbitante intorno alla Russia) a delimitare lo spazio europeo. Ma si tratta di frontiere mobili, oggi apparentemente chiuse in nome di un'impossibile protezione del mercato del lavoro o della risibile difesa di identità culturali, ma che domani potrebbero aprirsi - come sta avvenendo di fatto - in nome dell'espansione economica, delle delocalizzazioni industriali o del realismo politico. In realtà le frontiere meridionali e orientali sono mobili in duplice senso. Tendono a spostarsi verso sud e verso est, in quanto inglobano nella sfera economica europea gran parte dell'Europa dell'est e dell'Asia minore (Turchia e Israele), nonché del Maghreb, anche se in modo conflittuale e con inevitabili resistenze. Ma, soprattutto, sono selettive. Aperte al flusso di merci e servizi, sembrano chiuse alla domanda di lavoro dai mondi poveri esterni. Ma anche qui, si tratta più di un'apparenza che di una realtà. La militarizzazione della rive sud ed est del Mediterraneo in funzione anti-migranti sembra più destinata alla subordinazione degli stranieri - al loro ingresso e alla loro permanenza come meteci o ospiti invisibili, sottopagati e privi di diritti - che non alla loro esclusione preventiva. È alla marginalizzazione interna, più che al rifiuto, che sembra orientata la militarizzazione delle frontiere meridionali del mondo ricco. (15)

3. Le frontiere non coincidono più con le vecchie rappresentazioni dei confini politici. Se oggi volessimo rappresentare su una carta sociale globale la frontiera per eccellenza, dovremmo tracciare una linea tra paesi ricchi, arroccati nella difesa della propria supremazia, e il mondo che l'Occidente considera esterno, volta per volta giacimento di risorse da saccheggiare, di umanità da mettere al lavoro, di pericoli reali e immaginari. Partendo da Tijuana, al confine tra Usa e Messico sul Pacifico, e dirigendoci a est, la linea divide il continente nord-americano; traversato l'Atlantico, coincide con la riva sud del Mediterraneo, si spinge nel cuore della fascia del petrolio e dell'Asia centrale e fin verso il continente-isola australiano. In fondo, la grande questione strategica contemporanea è sapere se l'Occidente sarà capace di includere Cina e India, Iran e Indonesia (in forma subordinata) in questa grande divisione del mondo, o se i nuovi paesi emergenti scompagineranno la continuità della grande frontiera. Nel frattempo, questa è la linea che attrae i conflitti più feroci e, al tempo stesso, la zona verso cui l'umanità più povera e attiva è attratta: i migranti in marcia verso il confine Messico-Usa, in navigazione verso le coste italiane o spagnole, i filippini che si trasferiscono nei paesi produttori di petrolio o in Giappone, le navi fantasma di derelitti che allertano la guardia costiera australiana. La frontiera rappresenta così, insieme, la grande faglia dell'umanità e la linea in cui avvengono gli scambi più fitti e ineguali.

Questo processo è visibile più che altrove nell'espansione europea. Mentre gli Stati Uniti possono tentare di soggiogare il mondo dal loro isolamento continentale, l'Europa è attratta fatalmente dall'Africa e dall'Asia. Non sono certamente (o soltanto) le enclave di Ceuta o Melilla a rappresentare l'implicazione dell'Europa in Africa. Sono invece le delocalizzazioni diffuse in tutto il Maghreb e in Egitto, nonché le piantagioni, le coltivazioni di soia e barbabietola, le miniere di materie prime e metalli preziosi, gli impianti petroliferi che l'Europa, insieme agli Usa e al resto del mondo ricco, gestisce direttamente o per procura in tutto il continente africano. Il processo di implicazione è ancora più visibile a est. Oggi, l'Europa confina già direttamente con l'Asia centrale e quindi potenzialmente, attraverso i suoi paesi tributari, con la Cina. Domani, con l'ingresso a qualsiasi titolo della Turchia nell'Unione europea, confinerà direttamente con l'Iraq e l'Iran. Una nuova frontiera - insieme a nuovi fronti, economici, politici e virtualmente militari - separa la penisola europea dai due continenti limitrofi. E questo si riflette nell'emergenza di una situazione sociale del tutto nuova.

Grazie a un paradosso solo apparente, nel mondo globalizzato la distanza abissale tra ricchi - siano americani o europei - e poveri non comporta la loro separazione, come all'epoca del colonialismo e dell'imperialismo, ma la loro contiguità. Per quanto i cittadini degli stati americani del sud-ovest costituiscano delle bande di vigilantes per dare la caccia ai migranti (qualcosa che nel resto del mondo è affidato alle guardie costiere e alle marine), nessuna mobilitazione sarà capace di presidiare davvero la frontiera, come mostra già la spettacolare trasformazione demografica della California del Sud. D'altra parte, sarebbe impensabile che un'umanità coinvolta come carne da lavoro nelle maquiladoras o negli sweatshop di mezzo mondo possa essere tenuta lontana a lungo dai templi dello sviluppo. È la stessa natura del capitalismo globale contemporaneo - un'idrovora che consuma a ritmo sempre più sostenuto le risorse naturali e umane di mezzo mondo - a rendere impossibile il contenimento dell'umanità esterna. Le mobilitazioni xenofobe che oggi hanno luogo in Usa e in Europa - così come il crescente sentimento anti-cinese - possono ben poco contro il processo di mescolamento dei mercati, e quindi inevitabilmente degli esseri umani, che coinvolge mondo ricco e gran parte di quello povero. Mentre gli attivisti della Lega e dei partiti xenofobi del resto d'Europa protestano contro il multiculturalismo, è il multi-capitalismo che si incarica di mutare aspetto al mondo intero e quindi alle nostre città. Esso ha fatto delle megalopoli indiane o cinesi dimensioni urbane impensabili fino a pochi anni fa, rispetto a cui si affievolisce la memoria delle città industriali inglesi dell'Ottocento o di quelle americane del Novecento. Al tempo stesso, ha inevitabilmente modificato il panorama sociale e culturale delle nostre piccole patrie occidentali.

Benché questi sviluppi sembrino in qualche misura obbligati, in essi non c'è nulla di rassicurante o pacifico. Gli occidentali, e in generale gli abitanti dei paesi ricchi e sviluppati, non vogliono vedere gli effetti sulle popolazioni esterne dei conflitti scatenati, direttamente o per procura, per mantenere inalterato il flusso di risorse e materie prime verso il primo mondo. Guardano con distacco, e spesso con fastidio (appena esaurita la prima emozione mediale), agli effetti della guerra sulle popolazioni balcaniche, irachene, afgane, cecene, sudamericane o africane. Tendono a considerare le "nuove guerre"come patologie locali, legate alla "natura" etnica o culturale dei paesi coinvolti. Adottano un abito cognitivo in base al quale solo la nostra razionalità, economica, politica, scientifica e mediale sarebbe in grado di portare pace e benessere alla terra - chiudendo gli occhi davanti ai mille fili che collegano i conflitti contemporanei proprio a quella supposta razionalità. Quando poi i contraccolpi di crisi e guerre esterne interferiscono con i loro orizzonti protetti, trasformano i molteplici conflitti in scontri di civiltà o di cultura, in mitologie che, a onta della loro apparente complessità, finiscono per riportare a galla, sotto mentite spoglie, la superiorità e il diritto sovrano dell'uomo bianco e/o ricco. E questo non si vede solo nel modo in cui in occidente si percepiscono le crisi dei mondi esterni. Si coglie soprattutto nel modo in cui nelle nostre società si costruisce e si sfrutta - da un punto di vista non solo economico, ma culturale e mediale - la presenza degli stranieri.

Dopo l'11 settembre 2001 a New York, l'11 marzo 2004 a Madrid, e il luglio 2005 a Londra, nessuno si illude che l'Occidente possa essere immune dai contraccolpi estremi dei conflitti della grande frontiera, comunque la si guardi o la si declini. Benché, sul piano strettamente quantitativo, nessuno di questi eventi regga il confronto con le tragedie che l'occidente infligge agli altri (per esempio in Iraq, e senza nessun rapporto tra cause invocate ed effetti procurati), o si è inflitto per secoli fino a pochi decenni fa, essi costituiscono indubbiamente un punto di svolta. Dopo New York, Madrid e Londra sembra venire a cadere qualsiasi pretesa di universalismo, laico o religioso, politico o giuridico. La categoria di straniero sospetto (dal caso estremo del "nemico combattente" fino a quello ambiguo e generico del "clandestino") si applica a chiunque non ricada nello status di cittadino legittimo dell'occidente. Tale categorizzazione, se da una parte conferisce agli apparati di sicurezza il diritto indiscusso di operare come ritiene più opportuno in favore della sicurezza verso l'esterno, dall'altra permette di ridefinire incessantemente i confini interni. Non c'è conflitto, apparente o reale, culturale o sociale, simbolico e immaginario che, in quanto coinvolga gli "stranieri", non sia declinabile in termine di emergenza interna. E ciò si traduce nella generalizzazione di misure arbitrarie che la mitologia dell'universalismo giuridico e dello stato di diritto trattava ormai come residui pre-moderni o legati alla cosiddetta accumulazione primitiva.

Se l'industrialismo moderno aveva disseminato di prigioni, caserme e workhouses le città europee, il nuovo sviluppo globale riempie i nuovi spazi urbani, così come la fascia della grande frontiera, di nuovi tipi di prigioni: centri di detenzione per migranti impiantati all'interno dell'Europa di Schengen o appaltati ai paesi esterni o prossimi come Ucraina o Libia, nuovi lager approntati dall'Australia in nuova Guinea o finanziati dagli Usa nell'America centrale. Se collochiamo queste nuove forme di controllo sociale sullo sfondo dei conflitti segreti e palesi che oggi sono combattuti nel mondo, non scopriamo certamente un nuovo panottismo, ma la fusione di controllo sociale interno ed esterno. (16) Poiché non c'è più soluzione di continuità tra politica interna ed estera, la rete degli internamenti e delle detenzioni, dei luoghi in cui si pratica la violazione dei diritti umani, si torturano i "nemici combattenti" o si interrogano i sospetti avvolge virtualmente tutta la terra - proprio come nessuno di noi, nell'epoca del web, è immune dal controllo di qualche polizia, agenzia segreta o sistema di sicurezza tradizionale o virtuale. Si tratta naturalmente di comprendere come nessun grande fratello, elettronico o poliziesco, presieda a questo tipo di controllo onnipresente e diffuso. Più che sottoporre le maggioranze a uno scrutinio centralizzato, che sarebbe inutile oltre che costoso, il controllo si dissemina nella forma di posti di blocco reali e virtuali, interni ed esterni, urbani e confinari. Il suo obiettivo è filtrare, definire, etichettare, dissuadere, e all'occorrenza spaventare, non fissare in un'impossibile trasparenza.

In ogni caso la sparizione delle frontiere tradizionali, l'obsolescenza dei confini e la disseminazione dei fronti non comportano alcuna vittoria dei diritti umani, né democratizzazione della società globale. Semmai, questa è l'epoca in cui, in nome della sicurezza (militare, sociale, culturale) e della legalità, gli stati violano apertamente i diritti delle persone. La libertà di cui sembriamo godere in occidente è illusoria, o almeno coincidente in tutto e per tutto con la nostra libertà di consumatori. Quando - come è avvenuto a Seattle o a Genova - è dal seno delle società ricche che sembra provenire la protesta contro la militarizzazione del mondo, gli stati occidentali non hanno alcuna difficoltà a far provare ai propri cittadini il manganello che impugnano contro poveri, migranti e lavoratori sotto-pagati nel resto del mondo. Non è un segreto per nessuno che la Cina può spaventare i protezionisti di casa nostra, ma attrae irresistibilmente i nostri capitalisti e affascina i dirigenti delle nostre polizie. Si tratta allora di stabilire se lo sviluppo che abbiamo di fronte - con la dissoluzione delle sue barriere tradizionali e la creazione di altre, fin qui impensabili - non consumerà fino in fondo l'illusione dell'occidente nell'economia di mercato come condizione per l'estensione dei diritti civili. Forse, è proprio oggi che la critica dell'ingiustizia sociale comincia a parlare lo stesso linguaggio della critica della violenza.

Note

*. In P. Cuttitta, F. Vassallo Paleologo (a cura di), Migrazioni, frontiere, diritti, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2006. Una prima versione di questo testo è apparsa in "Conflitti globali", 2, 2005.

1. Cfr., per le considerazioni che seguono e i riferimenti iconografici, J. Keegan, The Second World War, Hutchinson, London 1989 (trad. it. La seconda guerra mondiale, Rizzoli, Mlano 2000, seconda ed.) e Id., The First World War, Hutchinson, London 1998 (trad. it. La prima guerra mondiale. Una storia politico-militare, Carocci, Roma 2001, seconda ed.).

2. H.J. McKinder, The Round World and the Winning of the Peace (1943), in Democratic Ideals and Reality, a cura di A.J. Pearce, W.W. Norton, New York 1962. Questo articolo, scritto alla fine del 1942, identificava correttamente il centro di gravità dell'Unione Sovietica nella zona a est degli Urali e prevedeva la sconfitta nazista. Naturalmente, l'idea di heartland è stata ridimensionata dall'invenzione della bomba atomica e dall'evoluzione della guerra fredda.

3. L'esercito inglese di terra nel XIX secolo era poco più di una polizia destinata a controllare territori turbolenti come il nord-ovest dell'India o a reprimere insurrezioni locali, per esempio i Boeri in Sud Africa. Fu solo dopo la fallimentare guerra di Crimea che l'esercito inglese abolì l'anacronistica tradizione secondo cui i gradi elevati venivano comprati dai nobili. Good-bye to all That di Robert Graves (1926; trad. it. Addio a tutto questo, Piemme, Casale Monferrato 2005) resta un'impressionante testimonianza del conservatorismo e dello snobismo degli alti gradi inglesi nella prima guerra mondiale.

4. A.T. Mahan, The Influence of Sea Power upon History 1660-1783, Hill and Wang, New York 1963; P. Kennedy, The Rise and Fall of British Naval Mastery, Basingstoke, London 1983.

5. J.S. Corbett, Some Principles of Maritime Strategy (1911), a cura di E.J. Grove, Naval Institute Press, Annapolis 1988; trad. it. Alcuni principi di strategia marittima, Ufficio storico della Marina Militare, Roma 1995.

6. C. Schmitt, Land und Meer. Eine Weltgeschichtliche Betrachtung (1942), Hohenheim Verlag, Köln-Lövenich 1981; trad. it. Terra e mare, Giuffrè, Milano 1986.

7. C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Duncker & Humblot, Berlin 1974; trad. it. Il nomos della terra nel diritto internazionale dello Jus Publicum Europaeum, Aldelphi, Milano 2003, terza ed.

8. M. A. Jones, The Limits of Liberty. American History 1607-1992, Oxford and New York, Oxford University Press 1995; trad. it. Storia degli Stati Uniti d'America. Dalle prime colonie inglesi ai giorni nostri, Rizzoli, Milano 2005. Cfr. anche M. Davis, Il fronte interno, "Conflitti globali", 2, 2005.

9. La guerra di Secessione anticipa gran parte dei conflitti del Novecento nel suo essere al tempo stesso guerra civile e tra Stati (Unione del nord e Confederazione del sud), interna ed esterna, limitata e totale, convenzionale e irregolare ecc. La marcia di Sherman su Atlanta, che di fatto segnò la vittoria dell'Unione, aveva lo scopo di distruggere le infrastrutture civili dei Confederati e di terrorizzare la popolazione. Nel corso della guerra civile, intere città, come Atlanta, furono distrutte.

10. C. Galli, Spazi politici. L'età moderna e l'età globale, Il Mulino, Bologna 2001.

11. S. P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York 1996; trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2000. Per una critica del travestimento culturalista di una dottrina egemonica in Huntington, cfr. A. Dal Lago, Esistono davvero i conflitti tra culture? Una riflessione storico-metodologica, in C. Galli, a cura di, Le sfide del Multiculturalismo, Il Mulino, Bologna, 2006 (un'anticipazione di questo testo è stata pubblicata, con lo stesso titolo, in "Il Mulino", 5, 2005).

12. A. Dal Lago, Polizia globale. Guerre e conflitti dopo l'11 settembre, Ombre Corte, Verona 2003; Id., La guerra-mondo, "Conflitti globali", 1, 2005.

13. J. Arquilla e D. Ronfeldt, a cura di, Networks and Netwars. The Future of terror, Crime and Militancy, Rand, Santa Monica (Cal) 2001.

14. R. Cohen e P. Kennedy, Global Sociology, MacMillan, London 2000.

15. N. Papastergiadis, The Turbulence of Migrations, Polity Press, London 2000; S.Palidda, Devianza e vittimizzazione tra i migranti, Ismu/Angeli, Milano 2001; A. Dal Lago, Non-persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 2004, quarta ed.; Id., La sociologia di fronte alla globalizzazione, in P.P. Giglioli, a cura di, Invito allo studio della sociologia, Il Mulino, Bologna 2005.

16. È stato proprio Michel Foucault, in un'epoca in cui non si parlava ancora in modo diffuso di globalizzazione, ad avere intuito questi sviluppi, grazie al suo concetto di "governamentalità". Cfr. Michel Foucault, Sécurité, territoire, population. Cours au Collège de France 1977-1978, Gallimard-Seuil, Paris 2004.