ADIR - L'altro diritto

Diritti fondamentali degli stranieri

Paolo Bonetti (*), 2011

Sommario - I. I diritti fondamentali degli stranieri di fronte al principio personalista, al principio di eguaglianza e alla discrezionalità del legislatore nella disciplina della condizione giuridica dello straniero. II. I diritti fondamentali dello straniero tra norme costituzionali e norme internazionali. III. Le categorie di stranieri che hanno un diritto soggettivo all'ingresso e al soggiorno nel territorio dello Stato e i diritti progressivamente crescenti connessi alla regolarità del soggiorno e ai diversi titoli di soggiorno: 1. Per i cittadini dell'Unione; 2. Per l'ingresso e il soggiorno dei cittadini extracomunitari: a. Le condizioni generali per gli ingressi e i soggiorni; b. Il sistema dei requisiti specifici e dei progressivi controlli sui singoli ingressi e soggiorni; c. l'ingresso e soggiorno irregolari dello straniero extracomunitario. IV. L'accesso al lavoro e i diritti dei lavoratori stranieri. V. I diritti sociali degli stranieri: salute, istruzione, assistenza. V. 1 Aspetti generali. I diritti sociali degli stranieri e la legislazione regionale - V.2. L'accesso degli stranieri al diritto alla salute - V.3. L'accesso all'assistenza sociale. V.4. L'accesso all'abitazione. - VI. Il diritto d'asilo - VI.1. Oggetto e natura giuridica del diritto d'asilo - VI.2. I presupposti oggettivi del diritto d'asilo: l'impedimento all'effettivo esercizio delle libertà democratiche - VI.3. Le "condizioni" del diritto d'asilo stabilite dalla legge - VI.4. Asilo provvisorio e asilo definitivo. - VI.5. Il contenuto necessario del diritto d'asilo e le diverse "condizioni" stabilite dalla legge che disciplina il diritto d'asilo, anche in riferimento ai diversi tipi di impedimenti.- V.6. Le tre forme di asilo: status di rifugiato, status di protezione sussidiaria, permesso di soggiorno per motivi umanitari. L'eventuale ed eccezionale protezione temporanea. VI. I diritti politici degli stranieri.

I - I diritti fondamentali degli stranieri di fronte al principio personalista, al principio di eguaglianza e alla discrezionalità del legislatore nella disciplina della condizione giuridica dello straniero

I diritti fondamentali dello straniero attengono all'essenza di qualsiasi Stato e al suo ruolo nella tutela della persona.

Infatti ogni Stato ha tra i suoi elementi costitutivi il popolo, formato dalle persone che hanno la cittadinanza di quello Stato (la quale delinea sia un legame di appartenenza allo Stato stesso, sia uno status, cioè un insieme di diritti e di doveri che caratterizza i cittadini rispetto ai non cittadini), e disciplina l'ammissione dei non cittadini al proprio territorio e il loro trattamento. Tuttavia ogni ordinamento giuridico informato ai principi della forma di Stato democratico-sociale fondata sul principio personalista, che finalizza tutti i pubblici poteri alla tutela e allo sviluppo della persona umana, tutela una serie di diritti inviolabili dello straniero in quanto persona umana al pari del cittadino.

Il principio personalista, con la sua intrinseca apertura universalistica, è scolpito nell'art. 2 della Costituzione italiana che prevede che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali dove si svolge la sua personalità e richiede l'adempimento degli inderogabili doveri di solidarietà economica, politica e sociale.

Peraltro l'art. 10, comma 2 della stessa Costituzione italiana prevede che la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.

In virtù di questa riserva rinforzata di legge lo straniero comunque presente nel territorio dello Stato è titolare di diritti fondamentali, cioè di quei diritti e libertà che riguardano la tutela delle esigenze essenziali della condizione umana, i quali hanno una dimensione universalistica che supera il limite della territorialità e che prescinde dal legame di cittadinanza con un determinato ordinamento.

Infatti la Corte costituzionale ha affermato che il principio di eguaglianza previsto dall'art. 3 Cost. non deve essere considerato in modo isolato, ma deve essere interpretato sia in connessione con l'art. 2 Cost., che prevedendo il riconoscimento e la tutela dei "diritti inviolabili dell'uomo" non distingue tra cittadini e stranieri, ma garantisce i diritti fondamentali anche riguardo allo straniero (così Corte cost. sent. 18 luglio 1986, n. 199), sia in connessione con l'art. 10, comma 2, Cost., che rinvia a consuetudini e ad atti internazionali nei quali la protezione dei diritti fondamentali dello straniero è ampiamente assicurata.

Pertanto la Corte conclude affermando che «se è vero che l'art. 3 si riferisce espressamente ai soli cittadini, è anche certo che il principio di eguaglianza vale pure per lo straniero quando trattasi di rispettare quei diritti fondamentali», cioè quei «diritti inviolabili dell'uomo, garantiti allo straniero anche in conformità dell'ordinamento internazionale» (così Corte cost. sent. 19-26 giugno 1969, n. 104). Peraltro la Corte afferma che non tutti i diritti fondamentali sono riconosciuti allo straniero, ma soltanto i "diritti inviolabili della personalità", garantiti dall'art. 2 Cost. e dalle consuetudini e dagli atti internazionali relativi ai diritti dell'uomo richiamati dai primi due commi dell'art. 10 Cost., i quali tuttavia «rappresentano un minus rispetto alla somma dei diritti di libertà riconosciuti al cittadino» (cfr. sentenze nn. 104/1969, 144/1970, 109/1974 e 244/1974).

Dunque il principio di eguaglianza si estende anche al rapporto tra stranieri e cittadini, ma soltanto nell'ambito della titolarità dei diritti inviolabili dell'uomo garantiti dall'art. 2 Cost. e dalle norme internazionali, a cui la legge sulla condizione giuridica dello straniero deve essere conforme. Lo straniero, qualunque sia la sua posizione ("regolare" o "clandestino") nei confronti degli obblighi impostigli dalle leggi ordinarie che ne regolano l'ammissione e l'allontanamento dal territorio dello Stato, è una persona umana che deve essere rispettata come tale, al pari di tutti i cittadini.

La Corte costituzionale (sent. 15-21 giugno 1979, n. 54) ha aggiunto che il principio di eguaglianza nell'ambito dei diritti inviolabili dell'uomo riguarda anche il rapporto tra stranieri: il trattamento giuridico dovrebbe essere uguale per tutti gli stranieri, salvo che una migliore posizione sia accordata ad alcuni stranieri da norme costituzionali (stranieri che godono del diritto d'asilo). Un migliore trattamento di taluni stranieri, purché non nell'ambito dei diritti inviolabili, è costituzionalmente legittimo soltanto quando sia necessario per dare esecuzione ad obblighi internazionali (come quelli derivanti dai trattati CEE). In ogni caso una disciplina differente del trattamento degli stranieri è legittima soltanto quando sia motivata da un rapporto di cittadinanza con Stati diversi e non già dall'appartenenza di una persona ad una determinata razza, lingua, religione, sesso, condizione personale o sociale (si violerebbe altrimenti il divieto di discriminazioni per tali motivi previsto dall'art. 3 Cost.).

La Corte ha però precisato nella citata sent. n. 104/1969 che «la riconosciuta eguaglianza di situazioni soggettive nel campo della titolarità dei diritti di libertà non esclude affatto che, nelle situazioni concrete, non possano presentarsi, fra soggetti uguali, differenze di fatto che il legislatore può apprezzare e regolare nella sua discrezionalità, la quale non trova altro limite se non nella razionalità del suo apprezzamento» (ed infatti la Corte ha più volte ribadito - si vedano le ordinanze nn. 23, 29, 73 del 1994 e sentenze nn. 62 e 283/1994 - che, in riferimento al godimento dei diritti inviolabili dell'uomo, il principio di eguaglianza, in generale, non trova discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero ed ha precisato che inerisce al controllo di costituzionalità sotto il profilo della disparità di trattamento considerare le posizioni messe a confronto, non già in astratto, bensì in relazione alla concreta fattispecie oggetto della disciplina normativa contestata). La Corte aggiunge che «non può escludersi che, tra cittadino e straniero, benché uguali nella titolarità di certi diritti di libertà, esistano differenze di fatto che possono giustificare un loro diverso trattamento nel godimento di quegli stessi diritti».

Infatti secondo la stessa sent. n. 105/1969 della Corte, in ogni ordinamento si possono rilevare tra cittadino e straniero differenze di situazioni di fatto e di connesse valutazioni giuridiche, tra le quali vi sono quelle secondo le quali «il cittadino ha nel territorio un suo domicilio stabile, noto e dichiarato, che lo straniero ordinariamente non ha; il cittadino ha diritto di risiedere ovunque nel territorio della Repubblica ed, ovviamente, senza limiti di tempo, mentre lo straniero può recarsi a vivere nel territorio del nostro, come di altri Stati, solo con determinate autorizzazioni e per un periodo di tempo che è in genere limitato, salvo che egli non ottenga il cosiddetto diritto di stabilimento o di incolato che gli assicuri un soggiorno di durata prolungata o indeterminata; infine il cittadino non può essere allontanato per nessun motivo dal territorio dello Stato, mentre lo straniero ne può essere espulso, ove si renda indesiderabile, specie per commessi reati». Tutte queste differenze sarebbero fondate, secondo la Corte, «sulla basilare differenza esistente tra il cittadino e lo straniero consistente nella circostanza che, mentre il primo ha con lo Stato un rapporto di solito originario e comunque permanente, il secondo ne ha uno acquisito e generalmente temporaneo» e su questo presupposto ha ritenuto ragionevoli e giustificabili trattamenti differenziati nel godimento dei diritti fondamentali.

Dunque, al di fuori dell'area dei diritti fondamentali dall'art. 10, comma 2 Cost. si deve desumere, secondo la Corte costituzionale (sent. n. 148/2008), «da un lato, che, per quanto concerne l'ingresso e la circolazione nel territorio nazionale (art. 16 Cost.), la situazione dello straniero non è uguale a quella dei cittadini; dall'altro, che il legislatore, nelle sue scelte, incontra anzitutto i limiti derivanti dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute ed eventualmente dei trattati internazionali applicabili ai singoli casi». E «ciò comporta il rispetto, da parte del legislatore, del canone della ragionevolezza, espressione del principio di eguaglianza, che, in linea generale, informa il godimento di tutte le posizioni soggettive». Infatti la Corte costituzionale ha più volte affermato che «la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale è collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l'ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione e tale ponderazione spetta in via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede in materia un'ampia discrezionalità, limitata, sotto il profilo della conformità a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli» (sent. n. 206/2006 e ord. n. 361/2007).

Un simile orientamento comporta notevoli conseguenze pratiche sulle possibili politiche migratorie.

Infatti il legislatore non potrebbe mai riservare allo straniero un trattamento giuridico diverso dal cittadino sulla base di una discriminazione fondata su fattori diversi dalla cittadinanza, come la razza, la lingua e la religione, che, salvo eccezioni costituzionalmente previste, in base al principio di eguaglianza previsto dall'art. 3 Cost. non possono assurgere a criteri discriminatori.

D'altra parte, sarebbe illegittima anche un'eventuale politica di immigrazione a quote di ingressi annuali programmati mediante il ricorso a preferenze di questa o di quella nazionalità di stranieri, se fosse predisposta sulla base di elementi che di per sé dovrebbero restare indifferenti, cioè sulla base della loro razza, della loro lingua, della loro religione, ma anche sulla base delle loro opinioni politiche, condizioni personali ecc. Il "razzismo istituzionale" nei confronti degli stranieri appare perciò del tutto inammissibile.

Peraltro la Corte costituzionale riconosce che allo straniero deve applicarsi il principio di eguaglianza, ma soltanto nell'ambito dei diritti inviolabili dell'uomo garantitigli anche in conformità dell'ordinamento internazionale, anche se essa afferma come «ovvio che, per quanto attiene ai diritti inviolabili della personalità», essi «rappresentano un minus rispetto alla somma dei diritti di libertà riconosciuti al cittadino» (così dichiara Corte cost. sent. 15-21 giugno 1979, n. 54) e ciò consente al legislatore di introdurre una serie di limitazioni nei confronti dello straniero.

In ogni caso il principio di ragionevolezza si configura quale canone di valutazione delle disparità di trattamento introdotte dal legislatore, anche in presenza di differenziazioni fondate sulla cittadinanza, e anche a prescindere dalla natura delle situazioni soggettive coinvolte. Così p. es. la Corte nella sent. n. 432/2005 ha dichiarato incostituzionale una legge regionale lombarda che prevedeva una disparità di trattamento fondata sulla sola cittadinanza italiana nell'accesso ai benefici connessi alla libera circolazione degli invalidi civili sui mezzi di trasporto pubblico, pur in presenza di una norma statale (l'art. 41 d. lgs. n. 286/1998) che equipara cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nell'accesso alle prestazioni assistenziali in favore degli invalidi civili.

Viceversa la sent. n. 148/2008 ha ritenuto non manifestamente irragionevole condizionare l'ingresso e la permanenza dello straniero nel territorio nazionale alla circostanza della mancata commissione di reati di non scarso rilievo e perciò ha ritenuto legittime le norme statali che prevedono la condanna per determinati reati medio-gravi quale condizione ostativa all'ingresso e al soggiorno dei cittadini extracomunitari sul territorio dello Stato, pur ricordando che anche una condanna per tali reati deve però essere bilanciata in concreto con ragioni umanitarie e solidaristiche derivanti dal diritto al mantenimento o al riacquisto dell'unità familiare con un familiare residente in Italia e dall'eventuale regolare soggiorno di lungo periodo, così come prevedono le norme adottate in attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo e della direttiva 2003/86/CE relativa al ricongiungimento familiare.

II - I diritti fondamentali dello straniero tra norme costituzionali e norme internazionali

Non tutti i diritti fondamentali previsti nella Costituzione sono attribuibili anche agli stranieri, ma anche per la Corte costituzionale il tenore delle disposizioni costituzionali non pare sufficiente per stabilire se un diritto sia estensibile anche allo straniero. Peraltro nulla impedisce che dei diritti soggettivi attribuiti dalla Costituzione al cittadino siano riconosciuti anche allo straniero mediante una legge ordinaria, anche se in tal caso tali diritti non saranno riconosciuti come fondamentali (e dunque ritenuti, secondo parte della dottrina, inviolabili ed immodificabili) e non godranno della posizione goduta nel sistema delle fonti del diritto dalle disposizioni di rango costituzionale.

La Corte costituzionale in generale si è limitata ad affermare esplicitamente soltanto che gli stranieri non godono di tutti quei diritti che sono intimamente connessi allo "status activae civitatis" (sentt. n. 11/1968 e n. 104/1969).

I privati e i pubblici poteri devono perciò riconoscere ad ogni straniero che si trova in Italia un complesso di diritti sostanziali e processuali inerenti alla dignità della persona. Si tratta di alcuni diritti che di per sé sono già tutelati nella Costituzione - anche se è discusso se tale garanzia sia riservata ai soli cittadini o sia applicabile anche agli stranieri - e che sono anche meglio definiti da molte norme internazionali in vigore per l'Italia e perciò costituzionalmente vincolanti.

Si tratta di quei diritti che sembrano consolidati nelle norme consuetudinarie internazionali, ma soprattutto si tratta di quei diritti e libertà fondamentali definiti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (di seguito "CEDU") firmata a Roma il 4 novembre 1950 (ratificata e resa esecutiva con l. 4 agosto 1955, n. 848), nel cui art. 1 gli Stati firmatari dichiarano che tali diritti si «riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione», e nei successivi Protocolli addizionali, nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (ratificato con l. 25 ottobre 1977, n. 881) ed in altri convenzioni e trattati internazionali. È da ricordare inoltre che l'art. 14 CEDU precisa che il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla Convenzione stessa deve essere garantito, senza alcuna distinzione, fondata soprattutto sul sesso, sulla razza, sul colore, sulla lingua, sulla religione, sulle opinioni politiche o su altre opinioni, sull'origine nazionale o sociale, sull'appartenenza ad una minoranza nazionale, sui beni di fortuna, nascita od ogni altra condizione: tutti sono uguali davanti alla legge ed hanno diritto senza discriminazione ad un'eguale protezione della legge (art. 26 Patto internaz.).

La titolarità di questi diritti fondamentali anche da parte degli stranieri è confermata dalle norme legislative in vigore in Italia: per i cittadini dei Paesi membri dell'Unione europea soggiornanti in Italia e per i loro familiari extracomunitari con loro conviventi è prevista la quasi totale parità di trattamento con i cittadini italiani (art. 19 D. Lgs. 6 febbraio 2007, n. 30, in attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri), mentre per gli stranieri cittadini di Paesi extracomunitari si prevede che allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti (art. 2, comma 1 del D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di seguito denominato "T.U.").

Si può dunque ricostruire il quadro dei diritti fondamentali dello straniero comunque presente in Italia, alla luce della seguente costruzione "multilivello" dei diritti:

1) il diritto alla vita (art. 1 CEDU), compreso il divieto di essere condannato a morte (artt. 1 e 2 Protocollo n. 6, ratificato e reso esecutivo con l. 2 gennaio 1989, n. 8; art. 27 u.c. Cost. e art. 6 Patto internazionale); in proposito la Corte costituzionale ha espressamente riconosciuto che il diritto alla vita è diritto inviolabile dello straniero (sent. 15-21 giugno 1979, n. 54) e il divieto della pena di morte previsto dall'art. 27 Cost. è assoluto ed inderogabile e comporta che non può comunque essere estradato chiunque per un reato che la legge straniera consente di punire anche con la pena di morte (sent. n. 223/1996); in tal senso è rilevante anche lo status della protezione internazionale istituito dalle norme comunitarie che è riconosciuto a chiunque possa subire in un altro Paese un danno grave derivante, tra l'altro, dalla condanna a morte o dall'esecuzione della pena di morte (direttiva 2004/83/CE, attuata in Italia dal d.lgs. 251/2007) e il rifiuto di consegna anche in esecuzione di un mandato di cattura europeo qualora vi sia un serio pericolo che la persona ricercata venga sottoposto alla pena di morte (art. 18, comma 1, lett. h) legge n. 69/2005);

2) il diritto alla libertà ed alla sicurezza personale, salvo che in caso di arresto o di detenzione legittimi (art. 5 CEDU, art. 9 Patto internazionale), con le garanzie e i limiti simili a quelli previsti dall'art. 13 Cost., compreso il divieto di essere privato della libertà per il solo motivo di non essere in grado di mantenere un impegno contrattuale (art. 11 Patto internazionale, art. 2 c. 1 Protocollo n. 4, ratif. e reso esecutivo con d.P.R. 14 aprile 1982, n. 217). La libertà personale come valore fondamentale è riconosciuta anche allo straniero (sent. 1-18 luglio 1983, n. 215), ma occorre ricordare una specificità che riguarda soltanto gli stranieri: tra i provvedimenti limitativi della libertà personale che la legge può prevedere nei confronti dello straniero con le garanzie previste dall'art. 13 Cost. (riserva di legge e riserva di giurisdizione) si devono ricordare anche quelli a cui allude l'art. 5, par. 1, lett. f) CEDU, il quale consente anche «l'arresto e la detenzione legali di una persona per impedirle di penetrare illegalmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento d'espulsione o d'estradizione». Peraltro le garanzie della riserva assoluta di legge e la riserva di giurisdizione devono essere assicurate anche nell'ambito dei provvedimenti restrittivi della libertà personale necessari a dare attuazione ai provvedimenti di allontanamento, come i provvedimenti del questore che dispongono il trattenimento temporaneo in appositi centri dello straniero che deve essere espulso, respinto o allontanato e i provvedimenti di accompagnamento alla frontiera mediante le forze di polizia in esecuzione di provvedimenti di espulsione o di respingimento dei cittadini extracomunitari (cfr. artt. 13 e 14 T.U.) o di provvedimenti di allontanamento per motivi di ordine pubblico o sicurezza disposti nei confronti di un cittadino dell'Unione europea residente in Italia o del familiare extracomunitario conviventi in Italia con costui (cfr. artt. 20 D. Lgs. n. 30/2007, come modificato dal D. Lgs. n. 32/2008); perciò il giudice chiamato a convalidare quei provvedimenti disposti dall'autorità di pubblica sicurezza deve comunque svolgere un controllo approfondito in concreto circa la sussistenza dei presupposti di fatto e di diritto (così ribadisce la Corte costituzionale nelle sent. nn. 105/2001 e 222/2004). Inoltre la finalità rieducativa della pena, essendo l'unica finalità della pena costituzionalmente obbligatoria e dovendo perciò prevalere su quella repressiva, riguarda anche le pene inflitte a stranieri e perciò la Corte costituzionale ha affermato costituzionalmente illegittima ogni interpretazione della legge sull'ordinamento penitenziario che precluda in ogni caso anche a stranieri irregolarmente soggiornanti in Italia di accedere alle misure alternative alla detenzione previste per tutti i detenuti (sent. n. 78/2007): la Corte ha riconosciuto che «il legislatore ben può - tenuto conto della particolare situazione del detenuto cittadino extracomunitario che sia entrato illegalmente in Italia o sia privo di permesso di soggiorno - diversificare, in rapporto ad essa, le condizioni di accesso, le modalità esecutive e le categorie di istituti trattamentali fruibili dal condannato o, addirittura, crearne di specifici, senza però potersi spingere fino al punto di sancire un divieto assoluto e generalizzato di accesso alle misure alternative» alla detenzione, poiché ciò contrasterebbe con i principî ispiratori dell'ordinamento penitenziario che «non opera alcuna discriminazione in merito al trattamento sulla base della liceità della presenza del soggetto nel territorio nazionale» e ha ribadito che il criterio di ammissione alle misure alternative alla detenzione deve essere conforme alla finalità rieducativa della pena e ad altre finalità non costituzionalmente rilevanti e non può prevedere l'assoluta preclusione all'accesso alle misure alternative alla detenzione che "prescinde, peraltro, dalla valutazione prognostica attinente alla rieducazione, al recupero e al reinserimento sociale del condannato e alla prevenzione del pericolo di reiterazione di reati, cosicché la finalità repressiva finisce per annullare quella rieducativa".

3) il diritto a non essere ridotto in schiavitù o ad essere obbligato a un lavoro forzato (art. 4 CEDU, art. 8 Patto internazionale);

4) il diritto a non essere sottoposto a pene, trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti (art. 3 CEDU, art. 7 Patto internazionale; cfr. artt. 13 c. 3 e 27 c. 3 Cost. e Convenzione di New York del 10 dicembre 1984 contro la tortura, ratificata con l. 3 novembre 1988, n. 498); la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (sent. 15 novembre 1996, Chahal v. the United Kingdom e Grand Chamber sent. 28 febbraio 2008 n. 37201/06, Saadi c. Italia) afferma che si tratta di un divieto inderogabile, anche nei casi di un pericolo pubblico che minaccia la vita della nazione, ed è del tutto indipendente dal tipo di comportamenti o dalla natura dell'infrazione imputati allo straniero (inclusi quelli di tipo terroristico), il che comporta anche il divieto per ogni Stato di estradare od espellere lo straniero verso un Paese in cui corra il rischio concreto di subire torture o pene o trattamenti inumani o degradanti o verso un Paese in cui non sia protetto dal rischio di essere inviato verso quel Paese in cui potrebbe subire torture, maltrattamenti o pene inumane o degradanti; il trattamento vietato è quello che ha un minimo di gravità, da valutarsi in base alla durata del trattamento e dei suoi effetti fisici o mentali, al sesso, all'età e allo stato di salute della vittima, e la tortura consiste in quei trattamenti inumani deliberati che provocano delle sofferenze molto gravi e cruente. In tal senso è rilevante sia l'art. 19 d. lgs. n. 286/1998 che prevede il divieto di espulsione e di respingimento dello straniero extracomunitario verso un Paese in cui possa essere oggetto di persecuzioni o non possa essere protetto da tale rischio, nonché le norme regolamentari che prevedono in tal caso il rilascio di un permesso di soggiorno, sia le norme che prevedono il rigetto della richiesta di estradizione o dell'esecuzione di un mandato di cattura europeo se vi è motivo di ritenere che la persona sarà sottoposta a pene o trattamenti inumani o degradanti (artt. 698 e 705 cod. proc. pen. e art. 18, comma 1, lett. h) legge n. 69/2005);

5) il diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza, senza alcuna interferenza che non sia prevista dalla legge (art. 8 CEDU, art. 17 Patto internazionale; cfr. artt. 14 e 15 Cost.), secondo modi e limiti previsti dalla legge che costituiscano una misura necessaria per la sicurezza nazionale, per la sicurezza pubblica, per il benessere economico del paese, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui. Con particolare riferimento ai diritti connessi all'unità familiare, radicati negli artt. 29, 30, 31, Cost., la giurisprudenza costituzionale (cfr. sentenze nn. 28/1995 e 203/1997) asserisce che l'esigenza della convivenza del nucleo familiare si radica nelle norme costituzionali che assicurano protezione alla famiglia e in particolare, nell'ambito di questa, ai figli minori e che il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare i figli (art. 30 Cost.) e perciò di tenerli con sé, e il diritto dei genitori e dei figli minori ad una vita comune nel segno dell'unità della famiglia sono valori fondamentali della persona, che perciò spettano in via di principio anche agli stranieri", con la conseguenza che la normativa relativa deve ispirarsi alla «necessità di realizzare un corretto bilanciamento con altri valori dotati di pari tutela costituzionale». Secondo la giurisprudenza costituzionale la convivenza familiare rappresenta un'istanza radicata sui principi costituzionali che riconoscono e proteggono l'istituto familiare e come tale rientrante nei diritti fondamentali della persona; come tale essa prescinde da ogni distinzione tra cittadini e stranieri; essa assume una valenza ancor più cogente allorché è funzionale all'esercizio dei diritti e dei doveri di genitori e figli minori; essa può essere assoggettata, nel caso degli stranieri, a limiti che possono però scaturire dal corretto bilanciamento con valori costituzionali di pari grado. Così nella sent. n. 376/2000 la Corte costituzionale ribadisce che «i principi di protezione dell'unità familiare, con specifico riguardo alla posizione assunta nel nucleo dai figli minori in relazione alla comune responsabilità educativa di entrambi i genitori, non trovano riconoscimento solo nella nostra Costituzione, ma sono affermati anche da alcune disposizioni di trattati internazionali ratificati dall'Italia». In particolare la sentenza richiama gli artt. 8-12 della CEDU, l'art. 10 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966, e infine gli artt. 9 e 10 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo. La sentenza prosegue affermando che «dal complesso di queste norme, pur nella varietà delle loro formulazioni, emerge un principio, pienamente rinvenibile negli art. 29 e 30 Cost., in base al quale alla famiglia deve essere riconosciuta la più ampia protezione ed assistenza, in particolare nel momento della sua formazione ed in vista della responsabilità che entrambi i genitori hanno per il mantenimento e l'educazione dei figli minori: tale assistenza e protezione non può non prescindere dalla condizione, di cittadini o di stranieri, dei genitori, trattandosi di diritti umani fondamentali, cui può derogarsi solo in presenza di specifiche e motivate esigenze volte alla tutela delle stesse regole della convivenza democratica». La giurisprudenza, dunque, non solo assegna una qualificazione particolarmente alta del diritto alla vita familiare ed alla convivenza di genitori e figli minori come diritto fondamentale di rango costituzionale, ma deduce da ciò che le possibili limitazioni siano da considerarsi ammissibili solo se giustificate dalla salvaguardia della convivenza civile "democratica", in ragione di esigenze mai generiche e sempre giustificabili. Ciò comporta che i limiti apposti dalla legge possono essere sindacati secondo un criterio più rigoroso della sola ragionevolezza, in quanto il sindacato si estende alla preliminare verifica della omogeneità tra i diritti ed i valori con cui il bilanciamento è stato effettuato. Infine la dottrina ritiene che la legge che disciplina il diritto alla convivenza familiare si configura come una disciplina costituzionalmente necessaria, in quanto attuativa di un diritto fondamentale della persona: essa può variamente stabilire limitazioni, ma non è invece abrogabile, almeno nel suo nucleo essenziale.

Oggi tale protezione dell'unità familiare è protetta anche dalle norme delle direttive comunitarie sul soggiorno dei comunitari e dei loro familiari (anche extracomunitari) e sul diritto al ricongiungimento familiare degli extracomunitari. In particolare il D. Lgs. n. 5/2007, in attuazione della direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al ricongiungimento familiare, ha introdotto nel d. lgs. n. 286/1998 disposizioni di favore: nel comma 5 dell'art. 5 si prevede che per il rifiuto del rilascio, ovvero per la revoca o il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, nel caso di straniero che abbia esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o di familiare ricongiunto, «si tiene conto anche della natura e dell'effettività dei vincoli familiari dell'interessato, dell'esistenza di legami familiari e sociali con il Paese di origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del soggiorno nel medesimo territorio nazionale» (e analoga modifica è stata apportata, per quel che riguarda il provvedimento amministrativo di espulsione, all'art. 13 dello stesso testo unico, con l'inserimento del comma 2-bis).

6) il diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero, compresa la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza interferenze, salvo i limiti posti dalla legge che costituiscano una misura necessaria per la sicurezza nazionale, per l'integrità territoriale, per la sicurezza pubblica, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale o per la protezione della reputazione o dei diritti di altri, per impedire la diffusione di informazioni riservate o per garantire l'autorità e l'imparzialità del potere giudiziario posti per la protezione della reputazione o dei diritti di altri e delle informazioni coperte da segreto (art. 10 CEDU, art. 19 Patto internazionale; art. 21 Cost.);

7) il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, compresa la libertà di cambiare religione o pensiero e la libertà di manifestare la propria religione o il proprio pensiero individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, per mezzo del culto, dell'insegnamento, di pratiche e compimento di riti (art. 9 CEDU, art. 18 Patto internazionale; art. 19 Cost., che non consente riti contrari al buon costume, e artt. 20 e 21 Cost.), salvi i limiti previsti dalla legge che costituiscano una misura necessaria per la sicurezza pubblica, per la difesa dell'ordine e per la protezione della salute o della morale o per la protezione dei diritti e delle libertà di altri. Nel sistema costituzionale italiano peraltro la libertà religiosa dell'individuo si congiunge con la libertà di organizzazione delle singole confessioni religiose e la loro uguaglianza di fronte alla legge, salvo che per la disciplina particolare dei loro rapporti con lo Stato assicurata dai Patti lateranensi (con la Chiesa cattolica) e dalle intese concluse dallo Stato con le rappresentanze di altre confessioni religiose ai sensi dell'art. 8 Cost. (finora concluse con valdesi, ebrei, ma non ancora con i musulmani tra i quali manca una rappresentanza unitaria capace di negoziare col Governo);

8) il diritto al riconoscimento della personalità o capacità giuridica (art. 16 Patto internazionale) o della cittadinanza, senza alcuna privazione per motivi politici (art. 22 Cost.);

9) il diritto al rispetto del principio di legalità in materia penale, cioè divieto di essere condannato per un'azione od omissione che, nel momento in cui fu commessa, non costituiva reato secondo la legge (art. 7 CEDU, art. 15 Patto internazionale, art. 25 Cost.);

10) il diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà di associazione, compreso il diritto di fondare con altri dei sindacati e di iscriversi a sindacati per la difesa dei propri interessi (artt. 17, 18, 39 Cost., art. 11 CEDU, artt. 8 e 21 Patto internazionale, Convenzione O.I.L. n. 87 del 9 luglio 1948 concernente la libertà sindacale e la protezione del diritto sindacale, ratificata e rese esecutiva con legge 23 marzo 1958, n. 367), secondo modi e limiti previsti dalla legge che costituiscano una misura necessaria per la sicurezza nazionale, per la sicurezza pubblica, per la difesa dell'ordine e per la prevenzione dei delitti, per la protezione della salute o della morale o per la protezione dei diritti e delle libertà di altri;

11) il diritto di sposarsi e di formare una famiglia, nella quale i coniugi devono godere di uguali diritti e responsabilità tra loro e verso i figli in tutte le fasi del rapporto matrimoniale (art. 29 Cost., art. 12 CEDU, art. 5 Protocollo n. 7, art. 23 Patto internazionale); l'art. 12 CEDU consente agli Stati di regolare il diritto di sposarsi e così l'art. 116 cod. civ. (modificato dalla legge n. 94/2009) esige che ai fini delle pubblicazioni matrimoniali allorché uno dei nubendi sia straniero occorre produrre all'ufficiale di stato civile non soltanto il nulla-osta consolare alla celebrazione matrimoniale (peraltro superabile con l'autorizzazione del tribunale ai sensi dell'art. 100 cod. civ. allorché la legge straniera sia contraria all'ordine pubblico perché impedisce determinati matrimoni per motivi politici o religiosi), ma anche la documentazione relativa alla regolarità del soggiorno sul territorio dello Stato (circostanza di dubbia legittimità costituzionale perché finisce con l'impedire anche ai cittadini italiani o comunitari il loro diritto di sposarsi con chiunque);

12) il diritto all'istruzione, compreso il diritto dei genitori di assicurare l'educazione e l'insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche (art. 2 Protocollo alla CEDU n. 1, art. 18 c. 4 Patto internazionale), con modi e limiti simili a quelli disposti dagli artt. 30 c. 1, 33 e 34 Cost.;

13) il diritto ad agire in giudizio per tutelare i propri diritti in materia civile, penale e amministrativa davanti ad un giudice indipendente e precostituito per legge, il quale deve esaminare la causa imparzialmente, pubblicamente ed in un tempo ragionevole, restando stabilita la presunzione di innocenza dell'imputato fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata con una sentenza definitiva (artt. 24 c. 1, 101 c. 2, 111 Cost. e art. 27 c. 2 Cost., artt. 6, c. 1 e 2, e 13 CEDU, art. 14 Patto internazionale sui diritti civili e politici);in proposito la Corte Costituzionale (sent. n. 276/2008) ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 13, comma 8, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 nella parte in cui non consente l'utilizzo del servizio postale per la proposizione diretta, da parte dello straniero, del ricorso avverso il decreto prefettizio di espulsione, quando sia stata accertata l'identità del ricorrente in applicazione della normativa vigente.

14) il diritto alla difesa, compreso il diritto a farsi assistere gratuitamente da un difensore, se non ha i mezzi per pagarne uno di sua fiducia, e da un interprete, nonché il diritto ad ottenere un indennizzo per una detenzione ingiustamente subita (artt. 24, commi 2, 3 e 4, e 111 Cost., art. 6 c. 3 e 5 CEDU, art. 3 Protocollo n. 7, art. 14 c. 3 Patto internazionale e), il diritto a far esaminare da un giudice superiore una sentenza di un giudice che abbia dichiarato la sua colpevolezza e dichiarato la sua condanna (art. 2 Protocollo n. 7, art. 14 c. 5 Patto internaz.) e il divieto di essere giudicato o condannato più volte per la medesima violazione (art. 4 Prot. n. 7, art. 14 c. 7 Patto internazionale). In proposito occorre ricordare che l'art. 2, comma 5 T.U. riconosce espressamente agli stranieri (e dunque anche agli stranieri non presenti regolarmente nel territorio italiano) parità di trattamento con il cittadino italiano per la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi; in proposito la Corte costituzionale ricorda che in base all'art. 24 Cost. il diritto alla difesa spetta anche agli stranieri (sent. nn. 120/1967, n. 109/1974) anche se si tratta di stranieri presenti irregolarmente sul territorio dello Stato, tanto che lo straniero espulso ha diritto di rientrare in Italia al solo fine e per il tempo necessario ad assistere al dibattimento (sent. n. 492/1991). In ogni caso l'accesso alla giustizia riguarda non soltanto lo straniero in quanto indagato o imputato in un procedimento penale, ma anche in quanto vittima di reato (con la connessa facoltà di costituirsi parte civile) o ricorrente nel processo del lavoro per difendere i suoi diritti di lavoratore o di attore o convenuto nei procedimenti civili concernenti i diritti della persona e della famiglia. Il diritto dello straniero a conoscere il contenuto dell'atto da impugnare e il diritto di disporre di un interprete di propria scelta e compensato dallo Stato allorché benefici del gratuito patrocinio sono stati più volti ribaditi e precisati dalla Corte costituzionale. Peraltro il diritto alla difesa degli stranieri è reso assai poco effettivo o talvolta è vanificato dalle diverse norme che configurano come esecutori i provvedimenti di espulsione, respingimento o allontanamento dello straniero dal territorio nazionale, da quelle che allocano presso giudici diversi, ordinari o amministrativi, o anche tra giudici ordinari di carriera e giudici onorari come il giudice di pace, i ricorsi giurisdizionali contro atti amministrativi collegati l'uno all'altro, dalle norme che riducono al minimo i termini entro i quali egli può impugnare quei provvedimenti e gli altri provvedimenti che incidono sui titoli di soggiorno. Inoltre occorre riconoscere che l'esercizio alla difesa è reso difficile da parte delle norme legislative in materia di accesso degli stranieri al patrocinio a spese dello Stato. In proposito l'illegittimità costituzionale delle norme sul patrocinio a spese dello Stato (art. 102 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115) nella parte in cui non prevedevano la possibilità di nomina di un proprio interprete da parte dello straniero che non conosce l'italiano è stata dichiarata dalla Corte costituzionale nella sent. n. 254/2007: «La partecipazione personale e consapevole dell'imputato al procedimento, mediante il riconoscimento del diritto in capo all'accusato straniero, che non conosce la lingua italiana, di nominare un proprio interprete, rientra nella garanzia costituzionale del diritto di difesa nonché nel diritto al giusto processo, in quanto l'imputato deve poter comprendere, nella lingua da lui conosciuta, il significato degli atti e delle attività processuali, ai fini di un concreto ed effettivo esercizio del proprio diritto alla difesa». La Corte richiama la propria precedente giurisprudenza sull'art. 143 cod. proc. pen., che, nella parte in cui prevede che l'imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente da un interprete al fine di poter comprendere l'accusa contro di lui formulata e di seguire gli atti cui partecipa, «configura il ricorso all'interprete non già come un mero strumento tecnico a disposizione del giudice per consentire o facilitare lo svolgimento del processo in presenza di persone che non parlino o non comprendano l'italiano, ma come oggetto di un diritto individuale dell'imputato, diretto a consentirgli quella partecipazione cosciente al procedimento che [...] è parte ineliminabile del diritto di difesa». Tale diritto non può «soffrire alcuna limitazione»: infatti, l'istituto del gratuito patrocinio, diretto ad assicurare anche ai non abbienti l'attuazione del precetto di cui al terzo comma dell'art. 24 Cost., prescrive che a questi siano assicurati i mezzi per agire e per difendersi, «e ciò in esecuzione del principio posto dal primo comma della stessa disposizione, secondo cui tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi».

Particolare tutela ricevono i diritti fondamentali del minore straniero. Infatti sulla base della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York dall'Assemblea generale dell'ONU il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con l. 27 maggio 1991, n. 176, lo Stato è impegnato a garantire una sempre più completa ed effettiva protezione del minore, prevedendo, tra l'altro, particolari forme di assistenza del bambino privo di una famiglia ed adottabile (art. 21) o del bambino rifugiato (art. 22), riconoscendo che il bambino non può essere separato dai genitori contro la sua volontà salvo che lo dispongano le autorità competenti nel suo interesse. La convenzione impegna ogni Stato a favorire il ricongiungimento familiare quando un membro della famiglia viva in uno Stato diverso da quello in cui vivono altri membri del nucleo familiare (art. 10), e a prendere tutte le appropriate misure nazionali, bilaterali e multilaterali per prevenire il rapimento, la vendita o il traffico di bambini con ogni fine e sotto ogni forma (art. 35) e per evitare ogni altra forma di sfruttamento del bambino sotto qualsiasi aspetto (art. 36). La stessa convenzione prevede senza alcuna discriminazione (dunque indipendentemente dalla nazionalità e dalla regolarità del soggiorno del genitore), il diritto di essere registrato immediatamente al momento della sua nascita, il diritto ad un nome, ad acquisire una cittadinanza e, nella misura del possibile, a conoscere i suoi genitori ed a essere allevato da essi, nonché il diritto a preservare la propria identità, ivi compresa la sua nazionalità, il suo nome e le sue relazioni familiari, mentre l'art. 24, comma 2 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, firmato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, prevede che ogni bambino deve essere registrato immediatamente dopo la nascita ed ha diritto ad avere un nome. In proposito si deve ricordare che la Costituzione prevede che la Repubblica ha il dovere di proteggere la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo (art. 31, comma 2 Cost.) e prevede il diritto-dovere costituzionale dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio (art. 30, comma 1 Cost.) e prevede il divieto di privare della capacità giuridica e del nome una persona per motivi politici (art. 22 Cost.). Perciò una interpretazione delle norme sugli stranieri favorevole al minore e alla famiglia si impone ed è espressamente prevista dallo stesso testo unico delle norme in materia di immigrazione: l'art. 28, comma 3 del d.lgs. n. 286/1998 prevede che in tutti i giurisdizionali e in tutti i procedimenti amministrativi finalizzati ad attuare il diritto all'unità familiare e riguardanti i minori deve essere preso in considerazione con carattere di priorità il superiore interesse del fanciullo, conformemente a quanto previsto dall'art. 3, comma 1, della medesima citata Convenzione sui diritti del fanciullo.

III - Le categorie di stranieri che hanno un diritto soggettivo all'ingresso e al soggiorno nel territorio dello Stato e i diritti progressivamente crescenti connessi alla regolarità del soggiorno e ai diversi titoli di soggiorno

L'effettivo esercizio dei diritti fondamentali spettanti ad ogni persona è però limitato dalle norme che ogni Stato prevede per disciplinare l'ammissione degli stranieri sul proprio territorio. Infatti proprio perché lo straniero non fa parte del popolo, elemento costitutivo di ogni Stato, lo Stato può controllare, limitare o impedire l'ingresso e il soggiorno di ogni straniero sul suo territorio e può disporne l'allontanamento anche con misure coercitive (anche se ogni tipo di provvedimento di allontanamento o di espulsione deve essere fondato sul comportamento individuale dello straniero in virtù del divieto di espulsioni collettive previsto dall'art. 4 del IV Prot. addizionale alla CEDU firmato a Strasburgo il 16 settembre 1963).

In tal senso la stessa dichiarazione universale dei diritti dell'uomo all'art. 13, comma 2 prevede che «ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese», ma non prevede alcun obbligo per gli Stati di ammettere sul proprio territorio se non i propri cittadini. La sola eccezione è quella degli stranieri che possono fruire del diritto d'asilo, tanto che l'art. 14 della stessa Dichiarazione prevede che ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni, salvo che sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.

Perciò si può affermare che, salvo che si tratti di casi per i quali valgono disposizioni più favorevoli previste da norme costituzionali, internazionali o comunitarie, ogni straniero ha soltanto un interesse legittimo all'ammissione sul territorio statale, poiché essa può sottostare ad altri interessi prevalenti e a limiti stabiliti dalla legge dello Stato, in conformità delle norme internazionali e delle norme comunitarie, come per es. quelle sull'attraversamento delle frontiere esterne.

Hanno invece un diritto soggettivo all'ingresso e al soggiorno sul territorio dello Stato alcune categorie di stranieri: a) i cittadini dell'Unione europea, in virtù della libertà di circolazione e soggiorno prevista dalle norme comunitarie e salvi i limiti consentite da quelle norme per ragioni di ordine pubblico, sicurezza o sanità, b) gli stranieri ai quali nel proprio Paese non è garantito l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana (art. 10, comma 3 Cost.), cioè oggi gli stranieri extracomunitari che presentino nel territorio della Repubblica domanda di asilo, i quali hanno almeno il diritto ad essere accolti in attesa dell'esito dell'esame della loro domanda da parte delle autorità previste dalla legge (in base ai d. lgs. n. 251/2007 e n. 25/2008 il diritto d'asilo è riconosciuto in una delle tre forme: status di rifugiato con diritto di soggiorno quinquennale rinnovabile in caso di fondato timore di persecuzioni per motivi etnici, politici, religiosi; status di protezione sussidiaria con diritto di soggiorno triennale in caso di pericoli di danni gravi derivanti dal rischio di subire la pena di morte o torture o pene o trattamenti inumani o degradanti o la violenza generalizzata in un conflitto interno o internazionale; permesso di soggiorno annuale per motivi umanitari negli altri casi); c) gli stranieri che sono familiari di un italiano o di uno straniero soggiornante in Italia, per i quali il diritto al mantenimento o al ristabilimento dell'unità familiare previsto dalle norme comunitarie prevale su altri interessi.

Negli altri casi l'ingresso e il soggiorno sul territorio dello Stato sono limitati da notevoli condizioni da parte della legge dello Stato, anche sulla base dei vincoli derivanti dalle norme internazionali e comunitarie. Dunque tali diritti di cui è titolare lo straniero in Italia sono configurati con un'ampiezza progressivamente crescente in rapporto con l'appartenenza dello straniero stesso ad una delle diverse categorie, per le quali le norme vigenti, nazionali e/o comunitarie, prevedono una posizione - progressivamente più rafforzata - di regolarità di soggiorno nel territorio dello Stato italiano.

In ogni caso ogni straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode di alcuni diritti fondamentali e garanzie previsti dalle norme internazionali:

1) il diritto di circolare liberamente, di scegliere liberamente la sua residenza e di lasciare il territorio dello Stato, fatte salve le restrizioni previste dalla legge e necessarie in una società democratica alla sicurezza nazionale, alla sicurezza pubblica o al mantenimento dell'ordine pubblico, alla prevenzione delle infrazioni penali, alla protezione della salute o della morale o alla protezione dei diritti e libertà altrui; tali diritti possono anche, in alcune zone determinate, essere oggetto di restrizioni previste dalla legge e giustificate dall'interesse pubblico in una società democratica (art. 12 Patto internaz. diritti civili e politici e art. 2 del IV Protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo);

2) garanzie procedurali in caso di espulsione: uno straniero regolarmente residente nel territorio di uno Stato non può essere espulso, se non in esecuzione di una decisione presa conformemente alla legge. Prima del momento dell'espulsione, salvo che essa sia necessaria nell'interesse dell'ordine pubblico o sia motivata da ragioni di sicurezza nazionale, deve poter far valere le ragioni che si oppongono alla sua espulsione, deve poter far esaminare il suo caso e deve poter farsi rappresentare a tali fini davanti all'autorità competente o ad una o più persone designate da tale autorità (art. 2 del VII Prot. addizionale alla CEDU fatto a Strasburgo il 22 novembre 1984);

3) divieto di discriminazioni nella garanzia dei diritti fondamentali della persona umana indipendentemente dall'appartenenza a determinate entità politiche. Più in generale infatti sul trattamento degli stranieri regolarmente soggiornanti incidono anche non soltanto le norme patrizie, ma anche del diritto internazionale generalmente riconosciute alle quali l'ordinamento giuridico italiano si deve adeguare in modo automatico ai sensi dell'art. 10, comma 1 Cost. In tal senso significativa è la sent. n. 306/2008 della Corte costituzionale che richiama i vincoli derivanti dall'art. 10, primo comma, Cost., poiché «tra le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute rientrano quelle che, nel garantire i diritti fondamentali della persona indipendentemente dall'appartenenza a determinate entità politiche, vietano discriminazioni nei confronti degli stranieri, legittimamente soggiornanti nel territorio dello Stato». Così, se è vero che il legislatore può dettare norme che regolino l'ingresso e la permanenza di extracomunitari in Italia e può subordinare l'erogazione di determinate prestazioni alla circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero al soggiorno nel territorio dello Stato ne dimostri il carattere non episodico e di non breve durata, peraltro, una volta «che il diritto a soggiornare [...] non sia in discussione, non si possono discriminare gli stranieri, stabilendo, nei loro confronti, particolari limitazioni per il godimento dei diritti fondamentali della persona, riconosciuti invece ai cittadini».

Per il resto invece occorre ricordare che nella sent. n. 148/2008 la Corte costituzionale osserva che dall'art. 10, comma secondo, Cost., che prevede che la condizione giuridica dello straniero regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali "si può desumere, da un lato, che, per quanto concerne l'ingresso e la circolazione nel territorio nazionale (art. 16 Cost.), la situazione dello straniero non è uguale a quella dei cittadini, dall'altro, che il legislatore, nelle sue scelte, incontra anzitutto i limiti derivanti dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute ed eventualmente dei trattati internazionali applicabili ai singoli casi".

Infatti fin dal 1968, in virtù della libertà di circolazione, soggiorno e stabilimento dei cittadini dell'Unione europea prevista dai trattati istitutivi delle Comunità europee e dell'Unione europea e dalle norme comunitarie vigenti, vi è una forte distinzione tra la condizione giuridica dei cittadini dei Paesi membri dell'Unione europea (denominati sinteticamente "comunitari") che si trovano sul territorio italiano e la condizione giuridica dei cittadini dei Paesi terzi (denominati sinteticamente "extracomunitari").

II.1. Per i cittadini dell'Unione europea soggiornanti in Italia e per i loro familiari extracomunitari conviventi - la direttiva comunitaria e il D. Lgs. n. 30/2007 che la attua prevedono in sostanza tre diversi periodi:

A) nei primi 3 mesi dall'ingresso si prevede la libertà di ingresso e di circolazione e soggiorno, sottoposta soltanto all'obbligo del possesso di un valido documento di identificazione (e al visto di ingresso per i familiari extracomunitari), con piena libertà anche di svolgere un'attività lavorativa e di iscriversi ai servizi per l'impiego, con accesso all'assistenza sanitaria erogata ai cittadini nello Stato anche sulla base della TEAM (tessera europea assistenza medica), ma senza accesso alle prestazioni di assistenza sociale erogate nello Stato;

B) per un periodo superiore ai tre mesi continuativi si prevede il diritto di soggiorno (che cessa in caso di provvedimento di allontanamento per motivi di sicurezza dello Stato o per motivi imperativi di pubblica sicurezza o per altri motivi di ordine pubblico o di scurezza pubblica ovvero di allontanamento per cessazione delle condizioni che determinano il diritto di soggiorno quando vengano meno le risorse economiche che gli impediscono di essere un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale, salvo che si tratti di lavoratori subordinati o autonomi o di disoccupati iscritti nelle liste di collocamento da meno di sei mesi, e che comporta la piena parità di trattamento con i cittadini italiani anche nell'acceso ai servizi socio-assistenziali, incluso l'accesso al pubblico impiego per le posizioni non dirigenziali e quelle che comportano l'esercizio di funzioni collegate alla sovranità dello Stato, come quelle in materia di giustizia, ordine pubblico, difesa ecc.), che deve essere certificato da un'apposita attestazione del diritto di soggiorno richiesta dal cittadino comunitario al Comune di residenza che gliela rilascia, previa iscrizione anagrafica (occorre dunque una dimora abituale) e previa verifica della sussistenza di uno dei motivi di soggiorno: a) regolare attività di lavoro subordinato e autonomo, b) pensionati o nullafacenti che dimostrano di disporre di un alloggio idoneo e di risorse derivanti da fonti lecite non inferiori all'importo annuo dell'assegno sociale per ogni persona per sé e per ogni familiare e di un'assicurazione sanitaria che copra tutti i rischi nel territorio nazionale, c) iscrizione ad un regolare corso di studi o di formazione professionale presso un ente pubblico o privato e disponibilità dei citati requisiti di alloggio, di reddito e di assicurazione sanitaria, d) legame familiare con un italiano o comunitario regolarmente residenti in Italia per uno dei predetti motivi e che, se si tratti di comunitari non lavoratori, assicuri ai familiari la disponibilità dei citati requisiti di alloggio, reddito e assicurazione sanitaria. Durante il medesimo periodo il familiare extracomunitario convivente col cittadino comunitario titolare del diritto di soggiorno può ottenere dalla Questura il rilascio di una Carta di soggiorno per familiare extracomunitario del comunitario della durata di 5 anni che gli conferisce il medesimo trattamento del comunitario;

C) dopo i 5 anni ininterrotti di soggiorno regolare (periodo che è interrotto soltanto in caso di provvedimento di allontanamento, ma che è abbreviato a 3 o 2 anni nei casi di pensionamento o di invalidità permanente da lavoro o di morte del coniuge lavoratore) si prevede il diritto di soggiorno permanente (che decade in caso di assenze dal territorio dello Stato superiori a due anni consecutivi e che comporta divieto di allontanamento dal territorio dello Stato se non in casi eccezionali per gravi motivi di ordine pubblico o di sicurezza pubblica o per motivi di sicurezza dello Stato disposti con provvedimento del Ministro dell'Interno), certificato da attestazione del Comune di residenza, rilasciata previa verifica della sussistenza dei citati requisiti, o, per i familiari extracomunitari, da apposita carta di soggiorno permanente per familiari extracomunitari rilasciata dalla questura.

III.2. Per l'ingresso e il soggiorno dei cittadini extracomunitari - le norme comunitarie e nazionali prevedono sia condizioni generali per ogni tipo di ingresso e di soggiorno, sia un sistema di progressivi controlli prima, durante e dopo l'ingresso nel territorio dello Stato, collegato anche ai requisiti specifici per il motivo di ingresso e di soggiorno desiderato.

a. Le condizioni generali per gli ingressi e i soggiorni - (esclusi quelli per asilo o per motivi umanitari o giudiziari) previste dal regolamento comunitario che prevede il "codice delle frontiere Schengen" (reg. (CE) 15 marzo 2006, n. 562/2006) e dagli artt. 4 e 5 T.U. sono: 1) il possesso di un valido passaporto o di altro valido documento di viaggio; 2) la giustificazione dello scopo e delle condizioni del viaggio e la disponibilità di mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno e, per i soggiorni inferiori a 90 giorni, per il ritorno verso il Paese di origine o di transito; 3) non essere segnalato nel SIS (Sistema informativo Schengen) ai fini della non ammissione in uno degli Stati membri; 4) non essere considerato una minaccia per l'ordine pubblico, la sicurezza interna, la salute pubblica o le relazioni internazionali di uno degli Stati membri dell'Unione europea ed in particolare non essere segnalato ai fini della non ammissione per tali motivi in una banca dati nazionale; 5) non risultare condannato in Italia per determinati delitti medio-gravi (la Corte costituzionale nella sent. n. 148/2008 ha ritenuto non manifestamente irragionevole «condizionare l'ingresso e la permanenza dello straniero nel territorio nazionale alla circostanza della mancata commissione di reati di non scarso rilievo», sia perché la condanna per un delitto punito con pena detentiva non può, di per sé, essere considerata circostanza ininfluente a tali fini, sia perché il rifiuto del rilascio o del rinnovo del permesso di soggiorno non costituisce una sanzione penale, sicché il legislatore può stabilirlo per fatti che, sotto il profilo penale, hanno una diversa gravità, «valutandolo misura idonea alla realizzazione dell'interesse pubblico alla sicurezza e tranquillità, anche se ai fini penali i fatti stessi hanno ricevuto una diversa valutazione» e ha ritenuto non priva di giustificazione la scelta legislativa di non dare rilievo alla sussistenza delle condizioni per la concessione del beneficio della sospensione della pena, a differenza di quanto avviene per l'espulsione a titolo di misura di sicurezza, data la non coincidenza delle valutazioni sottese rispettivamente alla non esecuzione della pena e al giudizio di indesiderabilità dello straniero nel territorio italiano; inoltre secondo la Corte «l'inclusione di condanne per qualsiasi reato inerente agli stupefacenti tra le cause ostative all'ingresso e alla permanenza dello straniero in Italia non appare manifestamente irragionevole qualora si consideri che si tratta di ipotesi delittuose spesso implicanti contatti con appartenenti ad organizzazioni criminali»; ed anche a proposito della mancata previsione nelle norme impugnate di uno specifico giudizio di pericolosità sociale dei singoli soggetti, la Corte ribadisce la sua giurisprudenza secondo cui il cosiddetto automatismo espulsivo «altro non è che un riflesso del principio di stretta legalità che permea l'intera disciplina dell'immigrazione e che costituisce, anche per gli stranieri, presidio ineliminabile dei loro diritti, consentendo di scongiurare possibili arbitri da parte dell'autorità amministrativa», poiché la condanna con pena detentiva per un delitto, la cui configurazione è diretta a tutelare beni giuridici di rilevante valore sociale, non può, di per sé, essere considerata circostanza ininfluente).

b. Il sistema dei requisiti specifici e dei progressivi controlli sui singoli ingressi e soggiorni- prevede diversi aspetti fondamentali: 1) diversi presupposti per ogni tipo di motivo di ingresso e di soggiorno; 2) obbligo di munirsi di uno specifico visto di ingresso (ogni tipo di visto è collegato ai requisiti specifici per ogni tipo di ingresso), da apporsi al passaporto o altro documento di viaggio, che deve essere rilasciato prima dell'ingresso nel territorio nazionale dal consolato all'estero sulla base di una documentata domanda e di severe verifiche svolte sulla sussistenza delle condizioni generali per l'ingresso e dei requisiti specifici per il tipo di visto richiesto, salvo che si tratti di cittadino di uno di quegli Stati inclusi nell'elenco previsto e aggiornato con apposito regolamento dell'Unione europea, dei Paesi i cui cittadini sono esentati dall'obbligo del visto di ingresso per gli ingressi inferiori a 90 giorni per turismo, affari, visita; 3) controlli ai valichi di frontiera sulla sussistenza delle condizioni generali e dei requisiti specifici per l'ingresso, eludendo o non superando i quali lo straniero è sottoposto a provvedimento di respingimento alla frontiera, da eseguirsi con accompagnamento immediato e rinvio al Paese di origine o di provenienza; 4) obbligo di ogni straniero di essere munito di appositi titoli di soggiorno disciplinati dalla legge:

a) per i soggiorni non superiori a 90 giorni per turismo, affari, visite, studio si prevede la dichiarazione di soggiorno (presentata alla polizia di frontiera al momento dell'attraversamento dei valichi di frontiera esterna o alla questura entro 8 giorni lavorativi dal regolare ingresso attraverso una frontiera "interna" allo Spazio Schengen), la quale consente il soggiorno per il tempo massimo indicato nel visto di ingresso o per un tempo comunque non superiore a 90 giorni e non consente alcun accesso al lavoro (legge n. 68/2007);

b) per i soggiorni per motivi diversi da quelli per turismo, affari, visite o studio e per i soggiorni per tali motivi di durata superiore a 90 giorni, si prevede un permesso di soggiorno per un determinato motivo di soggiorno (rilasciato e rinnovato dalla questura della provincia in cui lo straniero si trova, su documentata richiesta dell'interessato entro 8 giorni lavorativi dall'ingresso regolare o entro 60 giorni dalla scadenza, previa verifica delle condizioni generali e dei requisiti specifici per ogni tipo di soggiorno), avente una durata diversificata da tre mesi fino a 2 anni, a seconda del tipo di permesso di soggiorno, tipologia che varia in ragione del motivo del soggiorno indicato sul visto o di altro motivo consentito dalle norme nazionali, in collegamento col quale si delinea la condizione giuridica dell'interessato, perché ad alcuni soltanto è consentito l'accesso al lavoro (permessi per motivi familiari, asilo politico, protezione sussidiaria, motivi umanitari, lavoro autonomo, lavoro subordinato - previa stipula di un contratto di soggiorno -, ricerca scientifica, studio - ma per non più di 20 ore settimanali o 1040 ore annue -, richiesta di asilo - ma dopo che siano trascorsi 6 mesi dalla presentazione della domanda di asilo senza che sia stata data una risposta -), il diritto al mantenimento o al riacquisto dell'unità familiare con i propri familiari stranieri che si trovano all'estero o già in Italia (permessi per motivi familiari, lavoro subordinato, lavoro autonomo, studio, motivi religiosi, asilo, protezione sussidiaria), l'obbligo di iscrizione al servizio sanitario nazionale in condizione di parità con i cittadini, l'accesso alle prestazioni di assistenza sociale (ma se il permesso ha la durata di almeno un anno), l'accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica (ma solo se il permesso ha la durata di almeno due anni);

c) per i soggiorni regolari ed ininterrotti per almeno 5 anni si prevede un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo (riconosciuto valido in tutti i Paesi dell'Unione europea sulla base di una direttiva comunitaria e valido per il soggiorno anche negli altri Stati membri dell'Unione europea), rilasciato a tempo indeterminato dalla Questura, entro 90 giorni dalla richiesta, allo straniero titolare di un permesso di soggiorno (esclusi quelli di breve durata o per asilo o per protezione sussidiaria o per motivi umanitari o per richiesta di asilo), che dimostri di disporre di un reddito non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale e che non sia pericoloso per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o non sia stato condannato per un delitto medio-grave, nonché ai suoi familiari extracomunitari conviventi se dimostra di disporre di un alloggio idoneo e di un analogo reddito sufficiente per ciascuno di essi; con le modifiche introdotte dalla legge n. 94/2009 per il rilascio di tale permesso sarà anche richiesto il superamento di una prova di lingua e cultura italiane che devono essere precisate da successivo regolamento; questo speciale permesso consente di svolgere ogni tipo di attività lavorativa (escluso il pubblico impiego non infermieristico), mantenere o riacquistare l'unità familiare, di usufruire di tutte le prestazioni di assistenza sociale, sanitaria e alloggiativa, di tutti i corsi di istruzione scolastica ed universitaria e protegge dall'espulsione se non nei casi di revoca per acquisto fraudolento o per condanna penale per uno dei reati predetti o di espulsione per motivi di sicurezza dello Stato o di ordine pubblico;

d) per i titolari di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo rilasciato da altro Stato membro dell'UE, i quali chiedano di soggiornare in Italia per più di tre mesi per esercitare un'attività economica o lavorativa o per frequentare un corso di studi o per soggiornare per altro scopo lecito essendo in possesso di mezzi di sostentamento non occasionali di importo superiore al doppio dell'importo per l'esenzione per la partecipazione alla spesa sanitaria e di un'assicurazione sanitaria, si prevede il rilascio di un apposito permesso di soggiorno che consente di lavorare e studiare e di un permesso di soggiorno per motivi familiari ai loro familiari;

e) per i minori di età si prevede l'iscrizione fino al compimento dei 14 anni sul permesso di soggiorno del genitore o del legale tutore o affidatario, grazie alla quale il minore beneficia della condizione giuridica del titolare del permesso (ai 14 anni è rilasciato un autonomo permesso di soggiorno, valido fino al compimento della maggiore età, momento in cui è rilasciato un permesso di soggiorno di lungo soggiorno o altro tipo di permesso).

In generale infine si prevede che gli stranieri extracomunitari muniti di permesso di soggiorno rilasciato in base al T.U., nonché - nei limiti ed alle condizioni previsti da specifici accordi internazionali o delle norme comunitarie - gli stranieri che siano in possesso di permesso di soggiorno o titolo equipollente rilasciato dalla competente autorità di uno Stato appartenente all'Unione europea, possono soggiornare nel territorio dello Stato (art. 5, comma 1 T.U.), hanno il diritto di fare ingresso nel territorio della Repubblica italiana senza necessità di richiedere un visto di reingresso (cfr. artt. 4, comma 2, e 9, comma 4, lett. a) T.U.) e hanno il diritto di soggiornare in tutti i comuni della Repubblica, salvi gli eventuali divieti di soggiorno imposti loro dai prefetti in località che interessano la difesa nazionale (art. 6, comma 6 T.U.), e fermi restando gli specifici obblighi di segnalare all'autorità di pubblica sicurezza le eventuali variazioni del proprio domicilio abituale (art. 6, commi 7 e 8, T.U.) e di esibire i loro documenti di identificazione e di soggiorno ad ogni ufficiale o agente di pubblica sicurezza (art. 6, comma 3 T.U.).

Infine anche il diritto dello straniero extracomunitario di mantenere o riacquistare l'unità della propria famiglia è sottoposto alle notevoli limitazioni previste dagli artt. 29, 30, 31 T.U. in materia di ricongiungimento familiare (in particolare il ricongiungimento può disporsi soltanto nei confronti del coniuge e del figlio minore e soltanto in casi eccezionali nei confronti del genitore a carico e di altri figli maggiorenni e in generale il richiedente se non ha lo status di rifugiato deve preventivamente dimostrare di disporre di un reddito minimo annuo derivante da fonti lecite e di un alloggio idoneo commisurati al numero dei familiari). Peraltro in alcuni casi previsti dagli artt. 19 e 30 T.U. il diritto all'unità familiare è riconosciuto anche allo straniero che si trovi sul territorio dello Stato, sprovvisto di un valido titolo di soggiorno (figlio minore, familiare di rifugiato o convivente di cittadino italiano entro il II^ grado, coniuge di italiano, genitore anche naturale di minore italiano) o in possesso di un permesso di soggiorno ad altro titolo scaduto da meno di un anno.

Per il resto ogni straniero regolarmente soggiornante ha il diritto di iscriversi nelle liste anagrafiche della popolazione residente a parità di condizioni con il cittadino italiano (cfr. art. 6, comma 7 T.U.), di presentare, in qualità di datore di lavoro, domanda di nulla-osta in favore di altri lavoratori stranieri ancora residenti all'estero (art. 22 e 24 T.U.), di ottenere l'iscrizione agli ordini e collegi professionali se ha i requisiti previsti nell'art. 37 T.U., di accedere ai corsi di alfabetizzazione e di recupero della scuola dell'obbligo previsti in favore degli adulti (art. 38, comma 5 T.U.), di fruire delle misure di integrazione sociale previsti dall'art. 42, comma 1, lett. a) e c) T.U. ed è specificamente tutelato contro ogni atto illegittimo che comporti discriminazioni per motivi religiosi, etnici, nazionali o religiosi compiute in materia di accesso all'occupazione, all'alloggio, all'istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali e di esercizio di un'attività economica legittimamente intrapresa (cfr. art. 43, comma 2, lett. c) e d) T.U.).

L'effettivo esercizio di molti diritti fondamentali degli stranieri extracomunitari appare in concreto assai limitata, poiché nei confronti dello straniero comunque presente nel territorio dello Stato possono essere adottati provvedimenti di allontanamento dal territorio dello Stato (respingimento, espulsione amministrativa, espulsione a titolo di misura di sicurezza, espulsione a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione o quale misura alternativa alla detenzione) e speciali provvedimenti limitativi della sua libertà personale finalizzati e propedeutici all'effettiva esecuzione dei primi (trattenimento fino a 180 giorni in un centro di identificazione ed espulsione dello straniero espulso o respinto per il quale sia oggettivamente impossibile l'immediato accompagnamento alla frontiera). In tali casi lo straniero, anche quando è regolarmente soggiornante, non è affatto posto in grado di partecipare al procedimento amministrativo che conduce al suo allontanamento dal territorio dello Stato, sicché la parità di trattamento con i cittadini italiani nei rapporti con la pubblica amministrazione enunciata come principio generale dall'art. 2 T.U. è invece derogata proprio a proposito dei provvedimenti dotati della maggior capacità di incidere sulla condizione giuridica dello straniero.

Inoltre lo straniero extracomunitario in Italia è comunque tenuto al rispetto di obblighi mediante i quali egli è sottoposto ad un costante e penetrante controllo di polizia: è soggetto all'obbligo, penalmente sanzionato, di esibire agli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza e a tutte le pubbliche amministrazioni il proprio passaporto o altro documento di identificazione, ovvero il suo titolo di soggiorno (art. 6, comma 3 T.U.); può comunque essere sottoposto a rilievi segnaletici dall'autorità di pubblica sicurezza qualora vi sia motivo di dubitare della sua identità (art. 6, comma 4 T.U.). Inoltre in base all'art. 7 T.U. chiunque, a qualsiasi titolo, dà alloggio ovvero ospita uno straniero extracomunitario, anche se parente o affine, o cede a costui la proprietà o il godimento di beni immobili rustici o urbani posti nel territorio dello Stato è soggetto all'obbligo di denunciarne l'ospitalità all'autorità locale di pubblica sicurezza entro 48 ore.

c. l'ingresso e il soggiorno irregolari dello straniero extracomunitario sono oggi sanzionati sia con provvedimenti amministrativi, sia con uno specifico reato.

Da un lato lo straniero extracomunitario che sia entrato sottraendosi ai controlli di frontiera o il cui permesso di soggiorno sia stato annullato o revocato o che sia considerato appartenente ad una categoria di persone socialmente pericolose è punita con un provvedimento amministrativo di espulsione disposto dal Prefetto ed immediatamente eseguibile dal Questore con accompagnamento alla frontiera previa convalida giurisdizionale (art. 13 T.U.), nelle more delle quali nei confronti dello straniero espulso o respinto il Questore dispone il trattenimento in un centro di identificazione ed espulsione, provvedimento che deve essere convalidato dal giudice di pace entro 72 ore dall'adozione e che può durate per successivi periodi di 30, 30, 60 e 60 giorni, su decisione dello stesso giudice, per un periodo complessivo che può arrivare a 180 giorni (art. 14 T.U.). Lo straniero espulso ha altresì un divieto di reingresso da 5 a 10 anni, la cui trasgressione sanzionabile penalmente.

Dall'altro lato infatti dal 2008 l'ingresso e il soggiorno irregolari sono sanzionati penalmente a vario titolo: lo straniero irregolare può essere aiutato ed ospitato gratuitamente, ma l'art. 10 T.U., come modificato dal decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, prevede che il favoreggiamento dell'ingresso o del soggiorno irregolari sono previsti e puniti come grave reato e che anche qualsiasi tipo di cessione di alloggio a pagamento a stranieri in condizione irregolare è un reato punito con pena detentiva e col sequestro dell'immobile.

Inoltre costituiva una specifica circostanza aggravante la commissione di un reato in Italia da parte dello straniero extracomunitario quando si trovava in situazione irregolare: l'art. 61 del codice penale, come modificato dalla stessa legge n. 125/2008, rendeva punibile ogni reato commesso dallo straniero irregolare con una pena detentiva la cui entità poteva essere aumentata dal giudice fino ad un terzo oltre il limite massimo previsto.

Tuttavia sul punto la Corte costituzionale nella sent. n. 249/2010 ha ricordato che i diritti fondamentali spettano «ai singoli non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani» (sentenza n. 105 del 2001). La condizione giuridica dello straniero non deve essere pertanto considerata - per quanto riguarda la tutela di tali diritti - come causa ammissibile di trattamenti diversificati e peggiorativi, specie nell'ambito del diritto penale, che più direttamente è connesso alle libertà fondamentali della persona, salvaguardate dalla Costituzione con le garanzie contenute negli artt. 24 e seguenti, che regolano la posizione dei singoli nei confronti del potere punitivo dello Stato. Il rigoroso rispetto dei diritti inviolabili implica l'illegittimità di trattamenti penali più severi fondati su qualità personali dei soggetti che derivino dal precedente compimento di atti «del tutto estranei al fatto-reato», introducendo così una responsabilità penale d'autore «in aperta violazione del principio di offensività [...]» (sentenza n. 354 del 2002). D'altra parte «il principio costituzionale di eguaglianza in generale non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero» (sentenza n. 62 del 1994). Così la Corte osserva che la qualità di immigrato «irregolare» - che si acquista con l'ingresso illegale nel territorio italiano o con il trattenimento dopo la scadenza del titolo per il soggiorno, dovuta anche a colposa mancata rinnovazione dello stesso entro i termini stabiliti - diventa uno "stigma", che funge da premessa ad un trattamento penalistico differenziato del soggetto, i cui comportamenti appaiono, in generale e senza riserve o distinzioni, caratterizzati da un accentuato antagonismo verso la legalità. Le qualità della singola persona da giudicare rifluiscono nella qualità generale preventivamente stabilita dalla legge, in base ad una presunzione assoluta, che identifica un «tipo di autore» assoggettato, sempre e comunque, ad un più severo trattamento. Perciò la Corte dichiara costituzionalmente illegittima la circostanza aggravante per violazione degli artt. 3, primo comma, e 25, secondo comma, Cost. che pone il fatto alla base della responsabilità penale e prescrive pertanto, in modo rigoroso, che un soggetto debba essere sanzionato per le condotte tenute e non per le sue qualità personali. Un principio, quest'ultimo, che senz'altro è valevole anche in rapporto agli elementi accidentali del reato. La previsione considerata ferisce, in definitiva, il principio di offensività, giacché non vale a configurare la condotta illecita come più gravemente offensiva con specifico riferimento al bene protetto, ma serve a connotare una generale e presunta qualità negativa del suo autore. La Corte osserva che la qualità di immigrato in condizione irregolare deriva pur sempre da un originario comportamento trasgressivo, che però non è utile a legittimare una presunzione legislativa a carattere assoluto circa la dimensione soggettiva dell'illecito o la capacità a delinquere del reo, perché tale condotta - sanzionata dal legislatore prima soltanto sul piano amministrativo, oggi anche su quello penale - non può ripercuotersi su tutti i comportamenti successivi del soggetto, anche in assenza di ogni legame con la trasgressione originaria, differenziando in peius il trattamento del reo rispetto a quello previsto dalla legge per la generalità dei consociati.

Infine con le modifiche apportate dalla legge n. 94/2009 lo stesso ingresso e soggiorno al di fuori dei casi previsti dalla legge è ora previsto e punito come reato, seppur sotto la specie della contravvenzione punita con una ammenda da 5 mila a 10 mila euro lo straniero, escluso quello destinatario di un provvedimento di respingimento alla frontiera, che fa ingresso o che si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle norme vigenti; si prevede peraltro la sospensione del procedimento penale - che spetta al giudice di pace - in caso di presentazione della domanda di protezione internazionale e la successiva archiviazione in caso di riconoscimento della stessa; il procedimento penale sarebbe archiviato in caso di esecuzione del provvedimento di respingimento disposto dal questore o del provvedimento amministrativo di espulsione, mentre nei casi in cui non sussistano impedimenti che imporrebbero il trattenimento si disporrebbe l'espulsione quale sanzione sostitutiva della pena; per l'esecuzione del provvedimento amministrativo di espulsione nei confronti dello straniero indagato per il reato di ingresso o soggiorno illegale si esenta dalla richiesta del nulla osta dell'autorità giudiziaria procedente, il che crea per essa una corsia preferenziale. Il reato non comporta una pena detentiva, ma si assomma al respingimento disposto dal Questore o al provvedimento amministrativo di espulsione.

La norma appare oggettivamente inutile perché l'elemento oggettivo del nuovo reato coincide con il presupposto per l'adozione del provvedimento di respingimento del Questore o del provvedimento amministrativo di espulsione del Prefetto per ingresso o soggiorno irregolare, tanto che l'esecuzione dell'espulsione appare il vero obiettivo della nuova norma, come confermano l'esenzione dal nulla osta, la sentenza di non luogo a procedere e l'espulsione come sanzione sostitutiva della pena pecuniaria (non oblazionabile) comminata per il nuovo reato.

In realtà l'introduzione del reato di soggiorno illegale ha dichiaratamente l'intento di consentire all'ordinamento italiano di avvalersi dell'art. 2, comma 2 della Direttiva 2008/115/CE sui rimpatri, che dà agli Stati la facoltà di non applicare la Direttiva stessa agli stranieri per i quali il rimpatrio sia sanzione penale o conseguenza di una sanzione penale. Poiché introducendo nell'ordinamento italiano il reato di soggiorno illegale l'espulsione si fa conseguire alla condanna per tale reato (espulsione disposta dal giudice quale sanzione sostitutiva della pena prevista per il reato) si potrà prescindere, per ogni straniero espulso, dall'applicazione delle disposizioni della Direttiva che invece privilegiano, di norma, il rimpatrio volontario e non quello coattivo e prevedono che ogni forma di trattenimento sia soltanto un rimedio eccezionale e residuale.

In ogni caso attraverso tale nuova norma l'ordinamento italiano si mette in condizione di eludere quasi totalmente l'obbligo di attuare la direttiva sui rimpatri, il che è di dubbia costituzionalità ai sensi dell'art. 117, comma 1 Cost.; infatti nella nuova norma nazionale il rimpatrio non è - come invece esige la direttiva - sanzione del reato commesso, né conseguenza del reato commesso, ma è misura collegata alla sanzione penale in via del tutto residuale ed eventuale, cioè soltanto se e quando il giudice giunga al giudizio e se e quando egli disponga l'espulsione quale sanzione sostitutiva della pena, mentre ciò a cui si mira davvero è l'immediata esecuzione del respingimento del Questore o del provvedimento amministrativo di espulsione, tanto che l'avvenuta esecuzione comporta l'archiviazione del procedimento penale.

Ora la sentenza 28 aprile 2011 della Prima sezione della Corte di giustizia dell'UE nel procedimento C-61/11 PPU, nel procedimento penale a carico di Hassen El Dridi, alias Soufi Karim, dichiara che la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/CE, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, in particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa di uno Stato membro, come quella dell'art. 14, comma 5-ter del testo unico delle leggi sull'immigrazione, approvato con d. lgs. n. 286/1998, che preveda l'irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo.

La Corte afferma la diretta applicabilità delle disposizioni della direttiva nell'ordinamento italiano, non essendo essa stata recepita dall'Italia e riguardando i casi nei quali l'obbligo di rimpatrio dello straniero in condizione di soggiorno irregolare deriva non già dalla sentenza di un giudice per un reato commesso, bensì da un provvedimento amministrativo di espulsione disposto dal Prefetto. Perciò la Corte afferma che al giudice nazionale spetta disapplicare ogni disposizione del decreto legislativo n. 286/1998 contraria al risultato della direttiva 2008/115, segnatamente l'art. 14, comma 5-ter, di tale decreto legislativo e dovrà tenere debito conto del principio dell'applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.

Nella sentenza della Corte si afferma altresì che mentre la direttiva prescrive la concessione di un termine per la partenza volontaria, compreso tra i sette e i trenta giorni, il decreto legislativo n. 286/1998 non prevede una tale misura.

La sentenza ricorda che la successione delle fasi della procedura di rimpatrio stabilita dalla direttiva 2008/115 corrisponde ad una gradazione delle misure da prendere per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, gradazione che va dalla misura meno restrittiva per la libertà dell'interessato - la concessione di un termine per la sua partenza volontaria - alla misura che maggiormente limita la sua libertà - il trattenimento in un apposito centro -, fermo restando in tutte le fasi di detta procedura l'obbligo di osservare il principio di proporzionalità e che perfino il ricorso a quest'ultima misura, la più restrittiva della libertà che la direttiva consente nell'ambito di una procedura di allontanamento coattivo, appare strettamente regolamentato, in applicazione degli artt. 15 e 16 di detta direttiva, segnatamente allo scopo di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini interessati dei paesi terzi: il principio di proporzionalità esige che il trattenimento di una persona sottoposta a procedura di espulsione o di estradizione non si protragga oltre un termine ragionevole, vale a dire non superi il tempo necessario per raggiungere lo scopo perseguito. Secondo tale principio, il trattenimento ai fini dell'allontanamento deve essere quanto più breve possibile.

La Corte afferma che gli Stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all'insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all'allontanamento coattivo conformemente all'art. 8, n. 4, di detta direttiva, una pena detentiva, come quella prevista all'art. 14, comma 5-ter, del decreto legislativo n. 286/1998, solo perché un cittadino di un paese terzo, dopo che gli è stato notificato un ordine di lasciare il territorio di uno Stato membro e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare nel territorio nazionale.

Essi devono, invece, continuare ad adoperarsi per dare esecuzione alla decisione di rimpatrio, che continua a produrre i suoi effetti. Tale pena, infatti, segnatamente in ragione delle sue condizioni e modalità di applicazione, rischia di compromettere la realizzazione dell'obiettivo perseguito da detta direttiva, ossia l'instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare.

Peraltro la Corte ammette che ciò non esclude la facoltà per gli Stati membri di adottare, nel rispetto dei principi della direttiva 2008/115 e del suo obiettivo, disposizioni che disciplinino le situazioni in cui le misure coercitive non hanno consentito di realizzare l'allontanamento di un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sul loro territorio sia irregolare.

Pertanto le disposizioni sufficientemente dettagliate ed autoapplicative della direttiva sono oggi direttamente ed immediatamente applicabili e ciò comporta l'immediata disapplicazione delle molte norme italiane che le violano (che sono non soltanto le norme penali esaminate dalla sentenza, ma anche quasi tutte quelle che regolano i provvedimenti amministrativi di espulsione, i respingimenti e i trattenimenti). Il giudice italiano dovrà disapplicare anche ogni nuova norma legislativa che di nuovo voglia eludere o violare la direttiva.

IV - L'accesso al lavoro e i diritti dei lavoratori stranieri

L'accesso al lavoro da parte degli stranieri è oggetto di specifica regolamentazione tendenzialmente restrittiva, sia perché vi sono periodi o settori, qualifiche o mansioni per i quali il fabbisogno di manodopera sia esiguo, sicché la manodopera straniera potrebbe essere in concorrenza con la manodopera nazionale, sia perché il lavoratore straniero è utile al datore di lavoro, ma è una persona che al di fuori della sua prestazione lavorativa ha bisogni e diritti che possono essere soddisfatti con prestazioni pubbliche costose, sicché può diventare un concorrente con gli altri cittadini nell'accesso ai diritti sociali.

L'art. 4 Cost. prevede infatti un diritto al lavoro dei cittadini e il dovere dei pubblici poteri di svolgere una politica di piena occupazione, sicché sembrerebbe escludere gli stranieri e lo stesso art. 35 Cost. prevede la tutela del lavoro italiano anche all'estero.

In realtà la disciplina dell'accesso al lavoro è diversa a seconda che si tratti di stranieri comunitari o di stranieri extracomunitari.

I cittadini comunitari in virtù dei Trattati istitutivi dell'Unione europea e delle norme comunitarie godono della libertà di cercare e di svolgere in ogni Stato membro dell'Unione attività lavorativa subordinata o autonoma, a parità di trattamento col cittadino (art. 19 D. Lgs. n. 30/2007), salvo che per quelle funzioni pubbliche di rango dirigenziale o che comportano esercizio della sovranità statale. Infatti la parità di trattamento rispetto ai cittadini italiani si applica a tutte le condizioni di lavoro e di impiego (p. es. retribuzione, licenziamento, reintegrazione professionale o reimpiego in caso di disoccupazione, risposta alle domande di lavoro effettive) (art. 39 TCE), anche se la libertà di circolazione dei lavoratori all'interno dell'Unione non si applica agli impieghi nella pubblica amministrazione (art. 39, comma 4 TCE) e la libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro esclude le attività che seppure occasionalmente partecipino all'esercizio dei pubblici poteri (art. 45, comma 1 TCE).

Ai cittadini comunitari è perciò consentito l'accesso al pubblico impiego salvi quei casi menzionati in apposito atto previsto dal regolamento approvato con D.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174, consentito dall'art. 38 D. Lgs. n. 165/2001.

Anche gli stranieri extracomunitari titolari dello status di rifugiato accedono come i cittadini comunitari al pubblico impiego e a parità di condizioni con i cittadini italiani ad ogni altro tipo di lavoro nel settore privato e ad ogni tipo di formazione (art. 25 D. Lgs. n. 251/2007).

Sempre a parità di condizioni con i cittadini italiani accedono ad ogni tipo di formazione e di lavoro nel settore privato i cittadini extracomunitari titolari dello status di protezione temporanea (art. 25 D. lgs. n. 251/2007).

Per il resto invece gli altri cittadini extracomunitari hanno accesso al lavoro in modo assai restrittivo quando si trovano all'estero ed anche quando siano regolarmente soggiornanti in Italia.

I cittadini extracomunitari residenti all'estero accedono al lavoro soltanto dopo aver ottenuto specifici visti di ingresso per lavoro subordinato, lavoro stagionale o lavoro autonomo, i quali, salvo che per particolari mansioni dirigenziali o specializzate (art. 27 T.U.) o per lo svolgimento di ricerca scientifica (art. 27-bis T.U.), sono rilasciati nei limiti massimi, quantitativi e qualitativi, distinti anche per Stati di provenienza (alcuni dei quali sono favoriti in ragione di speciali accordi bilaterali), per regioni, settori, qualifiche e mansioni, delle quote che ogni anno il Governo può stabilire con uno o più decreti (peraltro in numero sempre piuttosto esiguo rispetto alle effettive esigenze e fissate secondo criteri di opportunità, tenendo conto anche del fabbisogno lavorativo, ma anche impedendo nuovi ingressi in caso di mancata adozione). Ogni ingresso per lavoro subordinato o stagionale è consentito dopo che sia stata verificata la preventiva chiamata numerica o nominativa di un datore di lavoro, che deve riuscire a provare la propria capacità economica, la disponibilità di un alloggio idoneo da mettere a disposizione del nuovo lavoratore e il pagamento delle eventuali spese per il rientro.

I cittadini extracomunitari soggiornanti in Italia possono svolgere attività di lavoro autonomo o subordinato soltanto se sono titolari di specifici titoli di soggiorno: permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, carta di soggiorno per familiari extracomunitari di cittadini comunitari residenti in Italia, permessi di soggiorno per motivi familiari, asilo politico, protezione sussidiaria, motivi umanitari, lavoro autonomo, richiesta di asilo (ma dopo che siano trascorsi 6 mesi dalla presentazione della domanda di asilo senza che sia stata data una risposta), studio (ma per non più di 20 ore settimanali o 1040 ore annue), nonché per lavoro subordinato, ma in quest'ultimo caso il rapporto di lavoro sorge soltanto con la stipula di un contratto di soggiorno che impone al datore di lavoro di assicurare un alloggio idoneo (il cui costo può essere addebitato fino ad un terzo della retribuzione del lavoratore) e le spese di un eventuale rientro in patria.

Peraltro in generale in Italia ai lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti e alle loro famiglie deve essere assicurata parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani, in attuazione della convenzione dell'O.I.L. n. 143 del 24 giugno 1975, ratificata e resa esecutiva con legge 10 aprile 1981, n. 158. Si tratta di un principio fondamentale che impedisce al datore di lavoro di sfruttare la dignità umana del lavoratore straniero retribuendolo in misura inferiore a quella prevista per il lavoratore italiano e di creare i presupposti di una concorrenza tra manodopera straniera e manodopera nazionale che potrebbe ingenerare tensioni e atteggiamenti di intolleranza e di esclusione tra i cittadini italiani.

Tale principio è richiamato nell'art. 2 T.U. per i lavoratori extracomunitari. Perciò nell'ambito del rapporto di lavoro e nella sua qualità di lavoratore lo straniero extracomunitario regolarmente soggiornante in possesso di un titolo di soggiorno che gli consente l'accesso al lavoro ha il diritto di ricevere un trattamento retributivo, previdenziale e assistenziale che deve essere di norma non inferiore a quello previsto per i lavoratori italiani: gode di condizioni (trattamento economico e normativo) che non possono essere inferiori a quelle stabilite dai contratti collettivi nazionali di lavoro applicabili (cfr. artt. 22, comma 3, e 24, comma 5 T.U.), può iscriversi nelle liste di collocamento (cfr. artt. 22, comma 9, 23, comma 1, 30, comma 2, 18, comma 5, T.U. e art. 14, comma 1 regolamento), può partecipare ai corsi di formazione e riqualificazione professionale (cfr. art. 22, comma 13 T.U.), in caso di rimpatrio conserva i diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati e può goderne indipendentemente dalla vigenza di un accordo di reciprocità (cfr. art. 22, comma 11 T.U.) e in quanto lavoratore è titolare dei diritti di associazione sindacale e del diritto di sciopero.

La Corte costituzionale ha significativamente ricordato che in presenza della garanzia legislativa di parità di trattamento e di piena uguaglianza di diritti per i lavoratori extracomunitari rispetto ai lavoratori italiani prevista dall'art. 2, comma 3 T.U. - garanzia ulteriormente ribadita e precisata dal più generale principio previsto dall'art. 2, comma 2 T.U. secondo cui lo straniero regolarmente soggiornante gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, salvo che le convenzioni internazionali o lo stesso testo unico dispongano diversamente - per giungere a negare al lavoratore extracomunitario un diritto previsto per i lavoratori italiani bisogna rinvenire una norma (di rango legislativo o di natura internazionale) che esplicitamente o implicitamente neghi tale diritto ai lavoratori extracomunitari, in deroga alla piena uguaglianza.

Tuttavia il principio di parità di trattamento tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri non è comunque reso del tutto effettivo dal legislatore per i lavoratori extracomunitari per molti motivi:

- in primo luogo la parità di trattamento è comunque collegata e condizionata alla regolarità del soggiorno del lavoratore straniero ed in particolare al possesso di un determinato titolo di soggiorno, condizione che il legislatore rende invece strutturalmente precaria sotto diversi aspetti, sicché il lavoratore può legalmente instaurare e proseguire un rapporto di lavoro subordinato e iscriversi nelle liste di collocamento soltanto se e fino a quando è titolare di un titolo di soggiorno che consente l'accesso al lavoro;

- in secondo luogo ai titolari di un permesso di soggiorno per lavoro stagionale (i quali possono entrare e soggiornare in Italia per un periodo massimo di 9 mesi al solo fine di ricoprire rapporti di lavoro subordinato di carattere stagionale, periodo al termine del quale hanno l'obbligo del rientro in patria) non spettano i contributi per l'assegno per il nucleo familiare e per l'assicurazione contro la disoccupazione involontaria, i quali sono però sostituiti da un contributo all'INPS di pari importo da parte del datore di lavoro e destinato ad interventi di carattere socio-assistenziale a favore dei lavoratori stranieri (cfr. art. 25, commi 1 e 2 T.U.); il sistema previdenziale e assistenziale italiano non si fa carico di tutelare con erogazioni dirette all'interessato la posizione familiare e lavorativa di un lavoratore che è comunque destinato ad un soggiorno breve e temporaneo in Italia ed in quanto tale deve considerarsi strutturalmente estraneo al mercato del lavoro italiano;

- in terzo luogo i lavoratori extracomunitari titolari di un permesso di soggiorno per lavoro subordinato possono ottenerne il rilascio e il rinnovo soltanto a condizione di aver stipulato presso l'ufficio territoriale del Governo con un datore di lavoro un apposito "contratto di soggiorno" con il quale il datore stesso, oltre ad offrire un trattamento retributivo e previdenziale identico a quello previsto per i lavoratori italiani, si impegna a pagare le spese di rientro in patria e mette a disposizione un alloggio. Il "contratto di soggiorno" introdotto nell'ordinamento italiano dalla legge n. 189/2002 appare di assai dubbia legittimità costituzionale, perché è previsto soltanto per i rapporti di lavoro stipulati da alcuni stranieri extracomunitari (soltanto quelli titolari di un permesso di soggiorno per lavoro subordinato) e prevede per il datore di lavoro oneri aggiuntivi maggiori rispetto a quelli previsti per i lavoratori nazionali; peraltro tali oneri sono fondati sull'ontologica differenza di condizione giuridica tra lavoratore italiano e lavoratore extracomunitario soltanto nelle ipotesi del primo ingresso in Italia del lavoratore, mentre nei restanti casi appaiono privi di fondamento giuridico e perciò violano la parità di trattamento prevista dalla citata conv. n. 143/1975 O.I.L.

- in quarto luogo la validità e l'efficacia degli atti giuridici può essere viziata dalla mancata o inesatta comprensione della dichiarazione di volontà a causa della lingua in cui essa è espressa. Ma la legge non cura l'effettiva conoscibilità da parte del lavoratore straniero delle condizioni di lavoro offerte e/o praticate dal datore di lavoro mediante la previsione di una qualche forma di obbligo (ancorché posto a carico di uffici pubblici) di traduzione nella madrelingua del lavoratore straniero del contratto individuale di lavoro e del contratto collettivo di lavoro del settore, nonché della dichiarazione di licenziamento e della quietanza a saldo al momento della cessazione del rapporto di lavoro.

V - I diritti sociali degli stranieri: salute, istruzione, assistenza

V.1 Aspetti generali. I diritti sociali degli stranieri e la legislazione regionale

Si deve ricordare che per i cittadini di altri Stati membri dell'Unione europea vige la parità di trattamento nell'accesso ai servizi sociali previsti per i cittadini italiani, anche se nei primi tre mesi dall'ingresso essi fruiscono dell'assistenza sanitaria soltanto per mezzo della TEAM rilasciata dal loro Paese di origine e non hanno accesso alle prestazioni di assistenza sociale, mentre durante il successivo periodo in cui hanno il diritto di soggiorno fruiscono dell'assistenza sanitaria anche mediante una copertura assicurativa o l'iscrizione volontaria al servizio sanitario nazionale.

Preliminarmente occorre però esaminare la giurisprudenza costituzionale che si è occupata del riparto delle competenze statali e regionali in materia di immigrazione per ciò che attiene alla disciplina dell'accesso dei diritti sociali.

L'art. 117, comma 1 lett. a) e b) Cost. attribuisce alla potestà legislativa esclusiva dello Stato le disciplina della condizione giuridica dello straniero, dell'immigrazione e del diritto d'asilo, ma lo stesso testo unico delle leggi sull'immigrazione emanato con d. lgs. n. 286/1998 attribuisce alle Regioni la disciplina di molti aspetti delle politiche sociali.

Perciò la giurisprudenza costituzionale riconosce la possibilità di interventi legislativi delle Regioni con riguardo al fenomeno dell'immigrazione degli stranieri extracomunitari, come previsto dall'art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 286/1998, fermo restando che «tale potestà legislativa non può riguardare aspetti che attengono alle politiche di programmazione dei flussi di ingresso e di soggiorno nel territorio nazionale, ma altri ambiti, come il diritto allo studio o all'assistenza sociale, attribuiti alla competenza concorrente e residuale delle Regioni» (sent. n. 134/2010). Secondo la Corte infatti l'intervento pubblico concernente gli stranieri non può limitarsi al controllo dell'ingresso e del soggiorno degli stessi sul territorio nazionale, ma deve necessariamente considerare altri ambiti - dall'assistenza sociale all'istruzione, dalla salute all'abitazione - che coinvolgono molteplici competenze normative, alcune attribuite allo Stato, altre alle Regioni (sent. nn. 156/2006 e 300/2005).

La legislazione regionale, così come ha fatto recentemente la regione Puglia, può anche prevedere politiche sociali in favore di detenuti extracomunitari, senza che ciò comporti lesioni delle competenze legislative statali in materia di ordinamento penale, perché, come ha osservato la Corte costituzionale (sent. n. 299/2010), una disposizione legislativa regionale che si riferisca a «politiche di inclusione sociale» in materia penitenziaria prevede - univocamente ed esclusivamente - che la Regione, nell'ambito dell'assistenza e dei servizi sociali, spettante alla competenza legislativa residuale della medesima (sent n. 10/2010), può approntare le misure assistenziali materiali, strumentali a garantire le condizioni necessarie (quali, p.es., la disponibilità di un alloggio), affinché gli immigrati possano accedere alle misure alternative alla detenzione che - a seguito della dichiarazione parziale di illegittimità costituzionale degli artt. 47, 48 e 50 della legge n. 354/1975 (sent. n. 78/2007) -, possono, eventualmente, essere concesse anche agli stranieri extracomunitari entrati illegalmente nel territorio dello Stato, ovvero privi del permesso di soggiorno. Le norme regionali sono dunque legittime se non intervengono in nessun punto e modo sulla disciplina e sui presupposti delle misure alternative alla detenzione e quando stabiliscono che la stessa programmazione degli interventi necessari per rimuovere le condizioni che potrebbero impedire l'accesso alle medesime deve essere effettuata d'intesa con il Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria e, quindi, dispongono che la Regione debba conformarsi alle esigenze di tale organo, senza neppure prevedere alcun onere di collaborazione a carico di quest'ultimo (sent. n. 299/2010).

Per i cittadini di altri Stati membri dell'Unione europea il d. lgs. n. 30/2007 prevede la parità di trattamento nell'accesso ai servizi sociali previsti per i cittadini italiani, anche se nei primi tre mesi dall'ingresso essi fruiscono dell'assistenza sanitaria soltanto per mezzo della TEAM rilasciata dal loro Paese di origine e non hanno accesso alle prestazioni di assistenza sociale - si evita così una concorrenza tra i diversi sistemi nazionali di Welfare che potrebbe minare l'essenza stessa dell'Unione europea, cioè potrebbe indurre a migrazioni interne al solo fine di fruire di benefici economici diversificati -, mentre durante il successivo periodo in cui hanno il diritto di soggiorno fruiscono dell'assistenza sanitaria anche mediante una copertura assicurativa o l'iscrizione volontaria al servizio sanitario nazionale.

In proposito la giurisprudenza costituzionale ha ricordato che il legislatore statale, con il d.lgs. n. 30/2007, ha dato attuazione alla direttiva comunitaria 29 aprile 2004, n. 2004/38/CE concernente il diritto di libera circolazione e di soggiorno dei cittadini dell'Unione europea e dei loro familiari, stabilendo i criteri relativi al diritto di soggiorno dei cittadini dell'Unione europea, relativi al riconoscimento in favore dei medesimi di una serie di prestazioni relative a diritti civili e sociali.

Tuttavia secondo la Corte costituzionale tali criteri devono essere armonizzati con le norme dell'ordinamento costituzionale italiano che garantiscono la tutela della salute, assicurano cure gratuite agli indigenti, l'esercizio del diritto all'istruzione, ed attengono a prestazioni concernenti la tutela di diritti fondamentali, spettanti ai cittadini neocomunitari in base all'art. 18 del TFUE (già art. 12 del Trattato CE), che impone sia garantita, ai cittadini comunitari che si trovino in una situazione disciplinata dal diritto dell'Unione europea, la parità di trattamento rispetto ai cittadini dello Stato membro. Alla luce di tale principio, la Corte, nello scrutinare le censure mosse a leggi regionali (della Toscana e della Puglia) ha escluso che esse violino la competenza legislativa statale in materia di rapporti con l'Unione europea (art. 117, comma 2, lett. a, Cost.), in quanto si limitano «ad assicurare anche ai cittadini neocomunitari quelle prestazioni ad essi dovute nell'osservanza di obblighi comunitari e riguardanti settori di propria competenza, concorrente o residuale, riconducibili al settore sanitario, dell'istruzione, dell'accesso al lavoro ed all'edilizia abitativa e della formazione professionale» (sent. n. 269/2010). Le norme regionali sono dunque legittime perché si inseriscono in un quadro normativo volto a favorire la piena integrazione anche dei cittadini neocomunitari, presupposto imprescindibile per l'attuazione delle disposizioni comunitarie in materia di cittadinanza europea (sent. n. 299/2010).

La sent. n. 229/2010 giudicava la legge della Regione Puglia n. 32/2009 che prevede che gli stranieri extracomunitari non iscritti al servizio sanitario nazionale, ma, che secondo le norme statali (art. 35 T.U.) sono assistiti e identificati con il codice STP, abbiano anche diritto alla scelta del medico di base (il che non è espressamente previsto dalle norme statali). La Corte dichiara legittima questa disposizione, poiché non altera le restrizioni sul tipo di cure cui lo straniero irregolarmente soggiornante ha diritto (cure urgenti o essenziali, anche a carattere continuativo).

La Legge regionale pugliese prevede anche che "ai cittadini comunitari presenti sul territorio regionale che non risultano assistiti dallo Stato di provenienza, privi dei requisiti per l'iscrizione al SSR e che versino in condizioni di indigenza, sono garantite le cure urgenti, essenziali e continuative attraverso l'attribuzione del codice ENI (europeo non in regola). Le modalità per l'attribuzione del codice ENI e per l'accesso alle prestazioni, sono le medesime innanzi individuate per gli STP". La Corte dichiara legittima anche questa disposizione, osservando come essa sia coerente con l'interpretazione delle disposizioni del D. Lgs. 30/2007 data dalla Circolare del Ministero della Salute del 19 febbraio 2008, che ricordava che il fondamento del rilascio del codice ENI è proprio il principio costituzionale della tutela del diritto alla salute (art. 32 Cost.). La Corte conferma dunque questa interpretazione costituzionalmente conforme.

Dunque allo straniero extracomunitario comunque presente, anche irregolarmente, nel territorio dello Stato spettano alcune prestazioni concernenti il diritto alla salute (che in base all'art 32 Cost. è diritto fondamentale della persona e interesse della collettività) e il diritto all'istruzione (anche perché l'art. 34 Cost. prevede che "la scuola è aperta a tutti").

In particolare occorre ricordare che con le sentenze nn. 252/2001, 509/2000, 309/1999 e 267/1998, la Corte Costituzionale si è pronunciata individuando l'esistenza, al di sopra di ogni altro interesse costituzionalmente protetto, di "un nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l'attuazione di quel diritto. Questo nucleo irriducibile di tutela della salute quale diritto fondamentale della persona deve perciò essere riconosciuto anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l'ingresso ed il soggiorno nello Stato". La Corte Costituzionale ha dunque riconosciuto il diritto per lo straniero che abbia necessità di ricevere una terapia essenziale per la sua salute, di usufruire di tutte le prestazioni sanitarie che risultino indifferibili ed ha inoltre ammesso che "qualora risultino fondate le ragioni addotte dal ricorrente in ordine alla tutela del suo diritto costituzionale alla salute, si dovrà provvedere di conseguenza, non potendosi eseguire l'espulsione nei confronti di un soggetto che potrebbe subire, per via dell'immediata esecuzione del provvedimento, un irreparabile pregiudizio di tale diritto".

Anche l'istruzione scolastica di base è obbligatoria non soltanto per i minori italiani, ma anche per tutti i minori stranieri, anche se in condizione di irregolarità rispetto al soggiorno, e ciò in conformità anche all'obbligo previsto dall'art. 28 della Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176.

L'accesso alle scuole di ogni ordine e grado (nelle quali si deve svolgere anche un'attività permanente di educazione interculturale) e ai corsi delle università per gli stranieri regolarmente soggiornanti avviene a parità di condizioni con i cittadini italiani soprattutto se hanno acquisito in Italia un titolo di studio. Infatti l'accesso degli studenti universitari extracomunitari dall'estero e di quelli non in possesso di titoli di studio italiani è sottoposto al preventivo superamento di un esame di lingua italiana e coloro che vengono dall'estero o non sono titolari di un permesso di soggiorno in Italia sono altresì sottoposti ad un limite massimo annuo stabilito da ogni Università per ogni corso.

Invece l'acceso alle prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale a parità col cittadino italiano è consentito soltanto allo straniero titolare di un permesso di soggiorno di lungo periodo o di un permesso di soggiorno della durata di almeno un anno (art. 41 T.U.) e agli stranieri a cui è riconosciuta una forma di protezione internazionale (status di rifugiato o status di protezione sussidiaria: art. 27 d. lgs. n. 251/2007).

Del resto il diritto all'assistenza e al mantenimento dei minorati e nei diritti previdenziali dei lavoratori in caso di invalidità (art. 38 Cost.) secondo la Corte costituzionale non può essere negata allo straniero regolarmente soggiornante, che abbia comunque un collegamento significativo e regolare con la comunità italiana, allorché si tratti di persona alla quale la legge consente l'accesso al mercato del lavoro, in tal caso anche con l'accesso al collocamento obbligatorio degli invalidi (sent n. 252/1998 [Bonetti 1998]), né può essere ristretta in parte ai soli italiani, il che introdurrebbe restrizioni del tutto estranee alla natura del beneficio per ragioni soprattutto economiche (anche se si tratti della tessera di libera circolazione sul territorio regionale da rilasciarsi agli invalidi civili: sent. n. 432/2006).

La parità di trattamento degli stranieri extracomunitari nell'accesso ai servizi sociali dal 2000 è stata limitata da norme legislative, che consentono di accedere agli alloggi di edilizia residenziale pubblica e ad alcune prestazioni di assistenza sociale soltanto agli stranieri extracomunitari titolari di permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a 2 anni.

Tuttavia la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali alcuni di tali limiti aggiuntivi, come sarà meglio illustrato in seguito.

V.2. L'accesso degli stranieri al diritto alla salute

La Corte costituzionale nella sent. n. 103/1977 ricorda che alla luce dell'art. 32 Cost. che prevede il diritto alla salute quale diritto fondamentale della persona e di interesse per la collettività corrisponde ad un diritto pieno e incondizionato della persona e perciò la cittadinanza non rileva ai fini della posizione di utente dei servizi sanitari. Pertanto in quanto diritto fondamentale della persona umana (garantito anche dall'art. 12 Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali) ai sensi dell'art. 2, comma 1 T.U., il diritto alla salute spetta ad ogni straniero comunque presente nel territorio dello Stato e presente alla frontiera e comporta un diritto alle prestazioni che è condizionato da un lato dall'esistenza di strutture sanitarie idonee a metterle a disposizione e dall'altro dalla limitatezza delle risorse finanziarie disponibili.

La giurisprudenza costituzionale ha costantemente affermato infatti che il diritto ai trattamenti sanitari necessari per la tutela della salute è condizionato da esigenze di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, salva comunque la garanzia di un nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la continuazione di situazioni prive di tutela che possano pregiudicare l'attuazione di quel diritto (sentenze nn. 267/1998, 309/1999, 509/2002). Pertanto la stessa giurisprudenza costituzionale afferma che questo "nucleo irriducibile" di tutela della salute quale diritto fondamentale della persona deve essere riconosciuto anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l'ingresso e il soggiorno nello Stato, anche se il legislatore può prevedere diverse modalità di esercizio di tale diritto (sent. n. 252/2001). Peraltro la Corte costituzionale afferma che in mancanza di una norma legislativa che preveda un divieto di espulsione dello straniero bisognoso di cure mediche spetta al giudice, chiamato a decidere sulla convalida del provvedimento di espulsione, valutare caso per caso le esigenze di salute dell'interessato tenendo conto dell'art. 35 del testo unico emanato con il d. lgs. n. 286/1998 che garantisce le cure urgenti ed essenziali allo straniero anche irregolarmente soggiornante, tanto che nell'art. 35, comma 5 del testo unico emanato con il d. lgs. n. 286/1998 che prevede che l'accesso alle strutture sanitarie ... non può comportare alcun tipo di segnalazione all'autorità, salvo i casi in cui sia obbligatorio il referto, a parità di condizioni con il cittadino italiano la sent. n. 225/2001 della Corte riconosce la funzione essenziale svolta dal divieto di segnalazione ai fini di garanzia dell'effettività del diritto alla salute "disposizione che conferma il favor per la salute della persona che connota tutta la disciplina in materia». Certo la dottrina ha facilmente criticato questa giurisprudenza costituzionale che affida alla sola volontà del giudice la tutela della salute di fronte ad un provvedimento amministrativo di espulsione senza ritenere che spetti al legislatore prevedere una tutela generale ed astratta finisce per affievolire l'effettività della tutela del diritto alla salute [Algostino 2002].

Peraltro in successive sentenze la Corte costituzionale ha confermato l'esigenza di una tutela ampia del diritto alla salute, che si estende molto oltre il nucleo essenziale e irriducibile e copre anche le "provvidenze" indirette, come la previsione di tariffe agevolate per gli invalidi (sent. 432/2005) o la indennità di accompagnamento (sent. 306/2008).

In particolare nella sent. n. 306/2008 - che sarà approfondita più oltre - è proprio l'irragionevolezza delle disposizioni impugnate a "incidere" sul "diritto alla salute, inteso anche come diritto ai rimedi possibili, e [...] parziali, alle menomazioni prodotte da patologie di non lieve importanza", sicché esse contrastano "non soltanto con l'art. 3, ma anche con gli artt. 32 e 38, nonché [...] con l'art. 2 della Costituzione".

V.3. L'accesso all'assistenza sociale

Assai importante nella direzione dell'estensione agli stranieri di parte delle misure socio-assistenziali previste dall'art. 38 Cost. è l'art. 41 T.U. in materia di assistenza sociale, il quale esplicitamente estende agli stranieri titolari di carta di soggiorno, agli stranieri regolarmente soggiornanti da almeno un anno e ai minori stranieri iscritti nelle relative carte e permessi di soggiorno la possibilità di fruire di tutte le provvidenze e prestazioni, anche economiche, socio-assistenziali già previste per i cittadini italiani dallo Stato, dalle Regioni, dagli enti locali, incluse quelle previste per coloro che sono affetti da morbo di Hansen (lebbra) o da tubercolosi, per i sordomuti, per i ciechi civili e per gli indigenti.

Il legislatore anche per motivi economici è in seguito intervenuto ulteriormente sulla materia con norme che comportano una notevole restrizione rispetto alla norma generale di parità di trattamento nell'accesso all'assistenza sociale prevista nell'art. 41 T.U. [Bonetti 2004, 1032 ss.].

Norma legislativa restrittiva cruciale è l'art. 80, comma 19, legge n. 388/2000 (legge finanziaria 2001) in base al quale l'equiparazione tra stranieri e cittadini italiani in materia di assistenza sociale prevista dall'art. 41 T.U. soltanto gli stranieri titolari di carta di soggiorno potevano ottenere a) l'assegno sociale, b) le provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali e cioè - in base agli artt. 2, comma 2, e 24 l. 8 novembre 2000, n. 328 - gli assegni e le indennità derivanti da invalidità civile, cecità e sordomutismo, c) l'assegno di maternità concesso alle donne che non beneficiano di alcuna tutela economica della maternità per ogni figlio nato dopo il 1 luglio 2000 o per ogni figlio minore adottato o in affidamento preadottivo dalla stessa data (cfr. art. 66 l. n. 448/1998 e art. 49, comma 12 l. n. 488/1999), d) l'assegno di maternità per lavori atipici e discontinui che è corrisposto, per ogni figlio nato, o per ogni minore in affidamento preadottivo o in adozione senza affidamento dal 2 luglio 2000 alle donne per le quali sono in atto o sono stati versati contributi per la tutela previdenziale obbligatoria della maternità (cfr. art. 75 d. lgs. 26 marzo 2001, n. 151). Per il resto in base all'art. 41 T.U. gli stranieri titolari di carta di soggiorno (oggi permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo) o di permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno hanno diritto di usufruire delle altre prestazioni e degli altri servizi del sistema integrato di interventi e servizi sociali e possono ottenere le altre prestazioni e gli altri servizi sociali nel rispetto degli accordi internazionali vigenti in materia e con le modalità e i limiti definiti dalle leggi regionali (cfr. art. 2, comma 1 l. n. 328/2000 e art. 80, comma 19, l. n. 388/2000), ma tra tali prestazioni devono comunque essere ricomprese quelle previste per gli affetti da morbo di Hansen (lebbrosi) e da tubercolosi e quelle previste per gli indigenti, a condizione che si tratti di prestazioni diverse da quelle espressamente riservate soltanto a italiani e/o stranieri titolari di carta di soggiorno.

In ogni caso in base all'art. 23 Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato, lo straniero che abbia lo status di rifugiato gode in materia di assistenza sociale del medesimo trattamento previsto per i cittadini italiani. Così oggi (anche in attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull'attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta) hanno parità di accesso all'assistenza sociale con i cittadini italiani gli stranieri titolari dello status di rifugiato o dello status di protezione sussidiaria (art. 27 d. lgs. n. 251/2007).

L'entrata in vigore delle restrizioni previste dalla legge n. 388/2000 poneva due questioni:

1) se la normativa prevista dalla legge n. 388/2000, introducendo una nuova disciplina legale riferita ai c.d. "rapporti di durata", dovesse essere applicata ai rapporti già formatisi e costituiti sulla base della precedente normativa o se, invece, in base al principio di irretroattività della norma, dovesse disciplinare soltanto i rapporti insorti dopo la sua entrata in vigore;

2) se la nuova disciplina, escludendo dal principio di parità di trattamento gli stranieri regolarmente soggiornanti, ma non titolari della carta di soggiorno (oggi permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti), si fosse posta in contrasto con i principi costituzionali.

La Corte costituzionale è stata più volte sollecitata ad esprimersi, e le sue conclusioni sono importanti, anche se non esaustive.

La prima delle due questioni citate, riferita all'eventualità della portata retroattiva della norma e la sua capacità di incidere sui diritti acquisiti, ha trovato una definitiva risposta in senso negativo con la sentenza della Corte Costituzionale n. 324/2006.

Infatti con l'entrata in vigore della normativa restrittiva dal 2001 l'INPS aveva interrotto l'erogazione delle prestazioni a chi aveva iniziato a fruirne in base all'art. 41 T.U. immigrazione, se non in grado di dimostrare il possesso della carta di soggiorno; in taluni casi aveva addirittura richiesto la restituzione delle somme fino a quel momento versate, intendendo che la nuova normativa potesse essere applicata retroattivamente in quanto interpretabile come norma di interpretazione autentica dell'art. 41 del T.U. piuttosto che come una nuova disciplina.

La sentenza della Corte Costituzionale n. 324/2006 e quella della Cassazione Civile, sez. lavoro, sent. 4 agosto 2005, n. 16415 (INPS c. CARBAJAL SEGURA MANUEL CESAR) dichiarano illegittimo l'operato dell'INPS.

Infatti la sent. n. 324/2006 esamina la questione concernente il riconoscimento della pensione di inabilità ai soli stranieri in possesso della carta di soggiorno (oggi permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo). La Corte dichiara inammissibile per omessa verifica di una interpretazione conforma a Costituzione, la questione di legittimità dell'art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, in combinazione con l'art. 9, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189, contestato perché subordina al possesso della carta di soggiorno il riconoscimento del diritto degli stranieri alla pensione di inabilità - per le considerazioni svolte in ordine ai rapporti di durata.

Dopo aver premesso che «il diritto alla pensione di inabilità, costituente prestazione assistenziale, è disciplinato direttamente dalla legge e dà luogo a un rapporto di durata, nell'ambito del quale sorgono i diritto alla riscossione dei ratei della prestazione, assoggettati, questi ultimi, appunto al regime delle prestazioni periodiche» e che «al legislatore è consentito modificare il regime di un rapporto di durata, quale quello in oggetto, con misure che incidano negativamente - sia riguardo all'an, sia riguardo al quantum - sulla posizione del destinatario delle prestazioni, purché esse non [...] ledano posizioni aventi fondamento costituzionale», la Corte ha evidenziato come ciò non implichi che, «ogniqualvolta sia introdotta una nuova disciplina legale di un rapporto di durata avente tali caratteristiche, essa necessariamente debba essere applicata ai rapporti già costituiti sulla base della previgente normativa», in quanto il criterio di irretroattività, sia pur costituzionalizzato solo con riferimento alle norme penali, costituisce, comunque, «un criterio generale cui uniformarsi in carenza di deroghe», nella specie neppure indicate dal rimettente.

Al contrario, la Corte suggerisce che, sulla base del principio generale di irretroattività delle norme previsto dall'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, l'applicazione di una nuova normativa ai rapporti di durata già venuti ad esistenza possa ritenersi legittima solo se questa possa qualificarsi come interpretativa di quella previgente o contenga un'espressa disposizione derogatoria al principio generale di non retroattività. La Corte costituzionale, dunque, senza citarla espressamente, si richiama alla giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione civile, sez. lavoro, 4 agosto 2005, n. 16415), che aveva definitivamente riconosciuto il diritto di un cittadino straniero in possesso del solo permesso di soggiorno e a cui era stato concesso l'assegno sociale in base all'art. 41 T.U. immigrazione, di continuare a beneficiare di tale provvidenza assistenziale anche dopo l'entrata in vigore dell'art. 80 c. 19 della legge n. 388/2000, trattandosi di un diritto oramai acquisito.

Nel respingere la pretesa dell'INPS di sospendere o revocare l'erogazione dell'assegno sociale dopo l'entrata in vigore della nuova normativa, la Corte di Cassazione aveva già rilevato che la nuova disciplina non aveva incluso alcuna previsione riguardo agli assegni già concessi sotto il vigore della normativa previdente, con ciò inducendo "a ritenere che il legislatore abbia voluto limitare l'efficacia della nuova norma solo alle nuove prestazioni assistenziali, senza incidere cioè su quelle riconosciute nella vigenza della precedente normativa ".

La seconda e più importante questione resta, invece, tuttora parzialmente irrisolta.

Con la sentenza n. 432/2005, la Corte Costituzionale sembrava essersi avviata verso l'affermazione di un diritto alla parità di trattamento tra cittadini comunitari e non comunitari quanto all'accesso alle prestazioni assistenziali, anche non attinenti ai diritti fondamentali, dichiarando l'illegittimità costituzionale della legge della Regione Lombardia sul trasporto pubblico regionale e locale perché, nello stabilire il diritto alla circolazione gratuita sui mezzi pubblici delle persone totalmente invalide per cause civili, riservava tale diritto ai cittadini italiani e comunitari residenti nella Regione.

La Corte in quella sentenza usa il principio di ragionevolezza per dichiarare che è illegittima l'introduzione nell'insieme degli invalidi civili residenti di elementi del tutto arbitrari di distinzione soggettiva tra gli invalidi civili residenti, non sussistendo alcun ragionevole collegamento tra lo status di cittadino italiano, quale condizione di ammissibilità al beneficio del trasporto gratuito stabilita dalla norma regionale, e le altre condizioni logicamente e ragionevolmente collegate alla sua fruizione (la totale invalidità e la residenza nella Regione lombarda): se appare ovvio che la condizione di grave invalidità, così come il requisito della residenza, è il logico presupposto per poter usufruire gratuitamente dei trasporti pubblici locali, così non è per il requisito della cittadinanza italiana, che con tale beneficio non ha alcuna correlazione.

Nella sentenza la Corte ritiene irrilevante che la Regione avesse introdotto un regime di favore eccedente i limiti dell'"essenziale", sia sul versante del diritto alla salute, sia su quello delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. L'individuazione delle categorie dei beneficiari del provvedimento - necessariamente da circoscrivere in ragione della limitatezza delle risorse finanziarie - doveva comunque essere operata, sempre e comunque, in ossequio al principio di ragionevolezza, nei termini sopra indicati.

Il principio di ragionevolezza garantisce un'ulteriore tutela contro le discriminazioni anche al di là di quel nucleo di diritti considerati inviolabili e fondamentali, divenendo ulteriore metro in base al quale misurare l'ammissibilità o meno di provvedimenti o iniziative pubbliche: anche gli stranieri non possono essere irragionevolmente discriminati dalle norme legislative statali o regionali che prevedano agevolazioni sociali anche se non essenziali e anche al di là dei diritti fondamentali [Gnes 2005, 4687ss.].

Con la sent. n. 432/2005 la Corte così dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 8, comma 2, della legge della Regione Lombardia 12 gennaio 2002, n. 1, come modificata dall'art. 5, comma 7, della legge regionale 9 dicembre 2003, n. 25, che non includeva gli stranieri regolarmente residenti nella Regione fra gli aventi il diritto alla circolazione gratuita sui servizi di trasporto pubblico di linea, diritto che la legislazione regionale riconosce alle persone totalmente invalide per cause civili.

La Corte ricorda che si tratta di una provvidenza ispirata da finalità di solidarietà collegate alle peculiari condizioni dei beneficiari e alla natura stessa del beneficio rispetto alle esigenze di vita e di relazione; incluse quelle connesse alla tutela del diritto alla salute, in presenza di una così grave menomazione. Tuttavia la legge regionale lombarda escludeva espressamente dall'applicazione di questo beneficio gli stranieri, il che - secondo il giudice a quo - comprometteva non soltanto «il generale canone di ragionevolezza [...] che può evocarsi come parametro di coerenza della norma legislativa regionale con i principî sanciti a tutela di situazioni riconducibili ad un'identica ratio interpretativa»; ma, anche la tutela della salute (art. 32 Cost.) e la tutela del lavoro (art. 35, primo comma, Cost.), oltre che la potestà legislativa esclusiva dello Stato circa la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (art. 117, secondo comma, lett. m, Cost.), e circa i principî fondamentali in tema di legislazione concorrente regionale sulla salute.

La Corte accoglie la questione sollevata dopo aver verificato che dalla norma impugnata non era enucleabile altra ratio che non fosse quella di introdurre una preclusione destinata a discriminare, dal novero dei fruitori della provvidenza sociale, gli stranieri in quanto tali.

Peraltro la Corte anzitutto aderisce alle argomentazioni svolte dalla Regione, secondo la quale la ratio del beneficio è ricondotta «alla scelta del legislatore regionale di agevolare - attraverso la fruizione gratuita del servizio - l'accesso al sistema dei trasporti pubblici locali in favore di un gruppo di persone accomunate dalla appartenenza alla più grave condizione di invalidità»; si tratta - secondo la Corte - di misura con finalità latamente «sociali» e ispirata al principio solidaristico, volta ad agevolare la vita di relazione, sia pure con inevitabili riflessi - indiretti - anche sulla salute psico-fisica del soggetto.

La Corte invece esclude che nella specie ci si trovi di fronte ad una misura volta a tutelare «diritti fondamentali» o «inviolabili».

In primo luogo la Corte richiama la propria giurisprudenza in materia di diritto alla salute, circa l'esistenza di un «nucleo irrinunciabile» di tale diritto, insuscettibile di subire compressioni per effetto del bilanciamento con altri valori costituzionali (nella specie, le esigenze di equilibrio finanziario) e tale da dover essere garantito in egual misura al cittadino ed allo straniero, indipendentemente addirittura dalla regolarità del suo soggiorno. Infatti la Corte ricorda di aver reiteratamente puntualizzato che «il diritto ai trattamenti sanitari necessari per la tutela della salute è "costituzionalmente condizionato" dalle esigenze di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, salva, comunque, la garanzia di "un nucleo irrinunciabile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l'attuazione di quel diritto"» e afferma che «questo "nucleo irriducibile" di tutela della salute quale diritto della persona deve perciò essere riconosciuto anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l'ingresso ed il soggiorno nello Stato, pur potendo il legislatore prevedere diverse modalità di esercizio dello stesso». Perciò la Corte ribadisce che «anche lo straniero presente irregolarmente nello Stato "ha diritto di fruire di tutte le prestazioni che risultino indifferibili ed urgenti, secondo i criteri indicati dall'art. 35, comma 3 (del d.lgs. n. 286 del 1998), trattandosi di un diritto fondamentale della persona che deve essere garantito, così come disposto, in linea generale, dall'art. 2 dello stesso decreto legislativo n. 286 del 1998" (v. sent. n. 252 del 2001)».

In secondo luogo però la Corte riconosce la fondatezza dei rilievi della Regione, secondo cui la scelta «di attribuire a determinate categorie di soggetti un diritto alla circolazione gratuita, ovvero un diritto a fruire di tariffe agevolate» non si configura in alcun modo come «una prestazione essenziale o minimale» o come «una scelta costituzionalmente obbligata».

Che la provvidenza attribuita dalla legislazione regionale non miri in modo univoco e immediato alla tutela del diritto alla salute sarebbe dimostrato, da un lato, dalla previsione che concede la stessa misura anche ad altre categorie di soggetti, a cui è attribuita in quanto «benemeriti» o «fruitori del servizio ratione officii»; dall'altro lato dal fatto che l'agevolazione concessa può corrispondere alle esigenze più diverse, non tutte e non sempre riconducibili alla sola tutela della salute. Appare quindi impossibile, secondo la Corte, «individuare nel trasporto regionale un servizio destinato ad integrare - sempre e comunque - quel «nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, di cui innanzi si è detto, posto che è la natura stessa del servizio ad evocare il soddisfacimento di una gamma indefinita (ed indefinibile) di esigenze di spostamento».

Pertanto la Corte afferma che la misura in questione non si collega in via immediata e diretta ad alcuno specifico diritto costituzionale «fondamentale» o «inviolabile», ma «rinviene la propria ragion d'essere in una logica di solidarietà sociale, nella ragionevole presupposizione delle condizioni di difficoltà in cui versano i residenti che, per essere totalmente invalidi, vedono grandemente compromessa, se non totalmente eliminata, la propria capacità di guadagno». Con queste osservazioni, dunque, la Corte rigetta le pretese violazioni dell'art. 32 e dell'art. 117 comma 2 Cost. La Corte inquadra dunque la ratio del beneficio previsto dalla norma regionale in una «logica di solidarietà sociale», «riconducibile alla scelta del legislatore regionale di agevolare - attraverso la fruizione gratuita del servizio - l'accesso al sistema dei trasporti pubblici locali in favore di un gruppo di persone accomunate dalla appartenenza alla più grave condizione di invalidità», e ha escluso che esso sia destinato a garantire quel «"nucleo irriducibile" di tutela della salute quale diritto della persona» che deve essere riconosciuto «anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l'ingresso ed il soggiorno nello Stato» (come prevede l'art. 2 del citato d.lgs. n. 286 del 1998).

L'affermazione della Corte circa la non essenzialità della misura prevista dal legislatore regionale non convince del tutto perché dimentica che il beneficio può configurarsi quale forma di assistenza nei confronti degli invalidi civili, soprattutto se totalmente invalidi e perciò impediti in un'autonoma deambulazione, misura che trova un fondamento costituzionale nel diritto all'assistenza e al mantenimento dei minorati e nei diritti previdenziali dei lavoratori in caso di invalidità (art. 38 Cost.) e che secondo la giurisprudenza costituzionale (si veda in proposito sent. n. 454/1998) non potrebbe essere negata allo straniero allorché si tratti di persona alla quale la legge consente l'accesso al mercato del lavoro.

La Corte però ribadisce la propria giurisprudenza sull'applicabilità agli stranieri del principio di eguaglianza, secondo il quale il principio «non tollera discriminazioni fra la posizione del cittadino e quella dello straniero solo quando venga riferito al godimento dei diritti inviolabili dell'uomo».

Secondo la Corte, il fatto che il regime di favore introdotto dalla Regione ecceda i limiti di ciò che deve ritenersi «essenziale», sia ai fini della tutela della salute sia per ciò che attiene alla tutela dei «diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», non esclude «che le scelte connesse alla individuazione delle categorie dei beneficiari - necessariamente da circoscrivere in ragione della limitatezza delle risorse finanziarie - debbano essere operate, sempre e comunque, in ossequio al principio di ragionevolezza». Perciò il legislatore statale o regionale può «introdurre regimi differenziati, circa il trattamento da riservare ai singoli consociati, soltanto in presenza di una "causa" normativa non palesemente irrazionale o, peggio, arbitraria».

La Corte dunque afferma che il principio di ragionevolezza si configura quale canone di valutazione delle disparità di trattamento introdotte dal legislatore, anche in presenza di differenziazioni fondate sulla cittadinanza, e anche a prescindere dalla natura delle situazioni soggettive coinvolte. Proprio perché la Corte, nell'accogliere la questione, ha attribuito rilievo soltanto alla violazione dell'art. 3 Cost., la pronuncia costituisce "un'interessante occasione per riflettere su alcuni problemi che riguardano l'applicazione agli stranieri del principio di eguaglianza e il ruolo che la cittadinanza può svolgere all'interno del giudizio di ragionevolezza delle discriminazioni operate in sede legislativa" [Cuniberti 2006, 512].

E' sotto questo profilo che, a giudizio della Corte, la disposizione censurata, il cui «scrutinio va circoscritto all'interno della specifica previsione, in virtù della quale la circolazione gratuita viene assicurata non a tutti gli invalidi residenti in Lombardia che abbiano un grado di invalidità pari al 100%, ma soltanto a quelli, fra essi, che godano della cittadinanza italiana», si pone in contrasto con l'art. 3 Cost. Il requisito della cittadinanza si atteggia infatti nella disposizione in esame «come uno specifico presupposto che condiziona l'ammissione al regime di favor, non diversamente dagli altri specifici requisiti che valgono ad identificare le singole categorie privilegiate», ma, ha affermato la Corte, distinguere, ai fini della applicabilità della misura in questione, cittadini italiani da cittadini di paesi stranieri - comunitari o extracomunitari - ovvero apolidi, finisce per «introdurre nel tessuto normativo elementi di distinzione del tutto arbitrari, non essendovi alcuna ragionevole correlabilità tra quella condizione positiva di ammissibilità al beneficio (la cittadinanza italiana, appunto) e gli altri peculiari requisiti (invalidità al 100% e residenza) che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio e la funzione».

La Corte ha, inoltre, ricordato che l'art. 41 del citato d.lgs. n. 286/1998 costituisce, a norma dell'art. 1, comma 4, del medesimo decreto legislativo, principio fondamentale dello Stato ai sensi dell'art. 117 della Costituzione, con la conseguenza che «qualsiasi scelta del legislatore regionale che introducesse rispetto ad esso regimi derogatori - come senz'altro è avvenuto nella disposizione oggetto di impugnativa - dovrebbe permettere di rinvenire nella stessa struttura normativa una specifica, trasparente e razionale "causa giustificatrice", idonea a "spiegare", sul piano costituzionale, le "ragioni" poste a base della deroga». Peraltro questo principio fondamentale dopo la riforma del titolo V della Costituzione si trasforma per la Corte in un "necessario paradigma sulla cui falsariga calibrare l'odierno scrutinio di ragionevolezza", sicché nel giudizio sulla ragionevolezza della legge la cittadinanza non può essere utilizzata per legittimare qualsiasi disparità di trattamento: il legislatore potrebbe prevedere disparità di trattamento tra cittadini e stranieri soltanto per alcuni aspetti specifici che attengono alla disciplina del fenomeno migratorio e all'esercizio delle libertà politiche, mentre un'eventuale disparità di trattamento nella disciplina dell'accesso a prestazioni sociali che si fondano su situazioni di bisogno e che si ispirano alla solidarietà la cittadinanza può operare in senso oggettivamente discriminatorio tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti [Cuniberti 2006, 523-524].

Dalla norma censurata, ha concluso la Corte, non è invece «enucleabile [...] altra ratio che non sia quella di introdurre una preclusione destinata a scriminare, dal novero dei fruitori della provvidenza sociale, gli stranieri in quanto tali».

La sentenza estende ai non cittadini l'accesso al beneficio previsto dalla legislazione regionale poiché la Corte aveva l'obbligo di non superare i limiti delle questioni sottopostele nell'ordinanza di rimessione, che riguardavano la costituzionalità dell'esclusione degli stranieri dal beneficio e non la concessione del beneficio in sé. Ciò comporta che la sentenza lascia al legislatore regionale la discrezionalità di individuare altri criteri diversi dalla cittadinanza per ricondurre la disciplina generale del beneficio entro i limiti delle compatibilità con la limitatezza delle risorse finanziarie disponibili (inclusa la possibilità della riduzione complessiva dei potenziali beneficiari italiani e stranieri).

Il percorso della giurisprudenza costituzionale verso una tendenziale equiparazione sembrò poi interrotto con l'ordinanza n. 32/2008 e la sentenza n. 306 del 30 luglio 2008.

L'ordinanza della Corte Costituzionale n. 32/2008 ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal TAR Lombardia con riferimento alla legge regionale della Lombardia che ha introdotto un requisito di residenza quinquennale nel territorio regionale ai fini dell'assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica (art. 3 comma 41 bis L.R. 5 gennaio 2000, n. 1). La Corte ha ritenuto non violato l'art. 3 Cost. (principio di eguaglianza rapportato al principio di ragionevolezza), poiché «il requisito della residenza continuativa, ai fini dell'assegnazione, risulta non irragionevole [...] quando si pone in coerenza con le finalità che il legislatore intende perseguire [...], specie là dove le stesse realizzino un equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco [...]».

L'ordinanza non è del tutto convincente e suscita diverse perplessità per il carattere eccessivamente sintetico e sbrigativo della motivazione, che non appare tenere in debita considerazione la portata potenzialmente discriminatoria, in senso indiretto e dissimulato, del criterio di anzianità di residenza, più facilmente soddisfabile dai cittadini autoctoni che da quelli di origine straniera, e la necessità che ogni eventuale discriminazione di tipo indiretto sia fondata su criteri obiettivi, che non facciano riferimento alla nazionalità dei beneficiari, in conformità con il divieto di discriminazioni indirette posto dal diritto e dalla giurisprudenza italiana ed europea.

Sebbene l'ordinanza della Corte non riguardi la materia delle prestazioni assistenziali, bensì l'accesso al diritto sociale all'abitazione, occorre qui menzionarla perché essa ha stabilito che un requisito di stabile residenza può essere ragionevolmente richiesto al cittadino straniero per godere dei diritti sociali, ma solo con la finalità di dimostrare l'esistenza di un collegamento significativo con la comunità nazionale, cioè essa ha per oggetto il requisito dell'anzianità di residenza; tuttavia tale limite appare tuttora controverso anche nella successiva giurisprudenza costituzionale che invece ha poi più volte dichiarato incostituzionale l'art. 80 comma 19 Legge n. 388/2000 per aver ristretto le prestazioni anche economiche di assistenza sociale nei confronti degli stranieri regolarmente soggiornanti limitandole ai titolari della carta di soggiorno (oggi permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo).

Occorre però ricordare che non si è trattato di sentenze di incostituzionalità secca, bensì di accoglimento parziale, prestazione per prestazione e che le sentenze a causa dei limiti della questione posta dai giudici a quo, non hanno potuto giudicare la legittimità dell'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale di soggiorno del cittadino straniero in Italia, anche se la Corte ha voluto precisare che il legislatore può "subordinare, non irragionevolmente, l'erogazione di determinate prestazioni - non inerenti a rimediare a gravi situazioni di urgenza - alla circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero al soggiorno dello Stato ne dimostri il carattere non episodico e di non breve durata", ma con l'importante precisazione che "una volta, però, che il diritto a soggiornare alle condizioni predette non sia in discussione, non si possono discriminare gli stranieri, stabilendo, nei loro confronti, particolari limitazioni per il godimento dei diritti fondamentali, riconosciuti invece ai cittadini".

Con tale argomentazione la Corte non ha voluto precisare quale sia tale titolo di legittimazione dello straniero che dimostri il carattere non episodico e di breve durata del suo soggiorno e se il collegamento significativo con la comunità nazionale richiesto ai fini dell'accesso dello straniero al godimento dei diritti sociali possa spingersi fino alla legittimazione di un'anzianità continuativa di residenza protratta per un certo numero di anni, anche con ciò determinando una condizione di difformità di trattamento dello straniero pur regolarmente soggiornante con il cittadino nazionale o comunitario. Peraltro l'orientamento della Corte Costituzionale ben potrebbe essere interpretato nella direzione che il requisito del legame stabile e significativo dello straniero con la comunità nazionale potrebbe già ritenersi soddisfatto dal possesso di uno dei titoli di soggiorno indicati nell'art. 41 T.U. immigrazione.

Si tratta dunque di pronunce quasi sempre additive indubbiamente significativa, ma i limiti derivanti dall'obbligo per le sentenze della Corte di mantenersi nell'ambito ella questione sollevata le hanno impedito una completa dichiarazione di incostituzionalità della norma e ciò comporta che la pronuncia additiva lascia incertezze applicative circa le conseguenze: la sentenza dichiara espressamente costituzionalmente illegittimo subordinare i vari benefici di volta in volta coinvolti nella sentenza all'esibizione di un titolo di soggiorno che comporta la disponibilità di un reddito minimo pari all'importo dell'assegno sociale, ma non chiarisce se si possano continuare ad esigere per l'accesso alla prestazione gli altri requisiti previsti per il rilascio del permesso di soggiorno di lungo periodo: il possesso di un determinato tipo di permesso di soggiorno, una durata di almeno 5 anni del soggiorno regolare ininterrotto, la mancanza di sentenze di condanna o di rinvii a giudizio e la disponibilità di un alloggio. Poiché peraltro la norma dichiarata parzialmente incostituzionale deroga all'art. 41 d. lgs. n. 286/1998 che consente l'accesso a tutte le prestazioni assistenziali, anche economiche per gli invalidi civili, agli stranieri titolari di un semplice permesso di soggiorno della durata di almeno un anno e poiché la Corte afferma che non esistono elementi per prevedere una differenziazione ragionevole dello straniero regolarmente soggiornante dal cittadino italiano deve ritenersi che si debba ora tornare ad applicare la norma generale prevista dall'art. 41 d. lgs. n. 286/1998.

Occorre però analizzare le singole pronunce:

1) Le sentenze 29-30 luglio 2008, n. 306 e 23 gennaio 2009, n. 11 della Corte Costituzionale hanno dichiarato incostituzionale per violazione del principio di uguaglianza la norma che prevedeva il requisito del possesso della carta di soggiorno (oggi permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo) ai fini dell'accesso dello straniero rispettivamente alle prestazioni sociali d'invalidità e d'inabilità (art. 80 comma 19 Legge n. 388/2000 con riferimento rispettivamente all'art. 1 della legge 11 febbraio 1989, n. 18 per l'indennità di accompagnamento e all'art. 12), affermando la palese irrazionalità della richiesta di un requisito, quella della carta di soggiorno (oggi permesso di soggiorno CE per lungo residenti), il cui rilascio è subordinato alla disponibilità di un reddito, che appare incompatibile con la finalità della tutela del diritto fondamentale alla salute perseguito dalla prestazione sociale d'invalidità e che è tanto più illogico e irrazionale rispetto all'accesso all'indennità di inabilità, che se fosse vincolato a sua volta da un limite reddituale, impedirebbe allo straniero regolarmente soggiornate di accedervi per il circolo vizioso che il requisito reddituale finisce a generare.

La piena equiparazione tra straniero regolarmente soggiornante (con le uniche eccezioni di quelli soltanto temporaneamente presenti) e cittadino è fondata sugli obblighi internazionali derivanti dall'adesione alle norme di diritto internazionale pattizio che prevedono in maniera "universalistica" il principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale, senza discriminazioni fondate tra l'altro sulla nazionalità o altri criteri quali l'anzianità di residenza (Convenzione OIL n. 143, art. 10; Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006, art. 5 art. 28 c. 2; Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989, art. 26).

La Corte Costituzionale nella sent. n. 306/2008 sembra avvalorare tale tesi, sottolineando che il principio dell'equiparazione tra straniero legittimamente soggiornante e cittadino deve trovare corrispondenza nel caso in cui le provvidenze assistenziali si riferiscano al soddisfacimento di diritti fondamentali, quale quello alla salute, inteso come diritto ai rimedi possibili e parziali, alle menomazioni prodotte da patologie di non lieve importanza, come nel caso delle indennità di accompagnamento previste dall'art. 1 della legge 2 febbraio 1980, n. 11. Per tale ragione, la Corte infatti conclude che la normativa censurata viola l'articolo 10, comma 1 Cost. "dal momento che tra le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute rientrano quelle che, nel garantire i diritti fondamentali della persona indipendentemente dall'appartenenza a determinate entità politiche, vietano discriminazioni nei confronti degli stranieri, legittimamente soggiornanti nel territorio dello Stato".

Il riferimento all'art. 10 comma 1 Cost. relativo alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute renderebbe il principio di non discriminazione su basi di nazionalità di immediata applicazione nell'ordinamento italiano, sicché la sola condizione necessaria al beneficio dell'indennità di accompagnamento da parte dello straniero extracomunitario sarebbe il possesso di un titolo di soggiorno, senza che possa essere previsto un ulteriore requisito di anzianità di residenza, che non è richiesto al cittadino.

Nella sent. n. 306/2008 la Corte premette un approfondimento della natura giuridica dell'indennità di accompagnamento, la quale spetta ai disabili non autonomamente deambulanti, o che non siano in grado di compiere da soli gli atti quotidiani della vita, per il solo fatto delle minorazioni e, quindi, indipendentemente da qualsiasi requisito reddituale; perciò secondo la Corte essa rientra nelle prestazioni assistenziali e, più in generale, anche nella terminologia adottata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, attiene alla "sicurezza o assistenza sociale". In tale ambito la Corte richiama la sua giurisprudenza secondo la quale «le scelte connesse alla individuazione delle categorie dei beneficiari - necessariamente da circoscrivere in ragione della limitatezza delle risorse finanziarie - debbono essere operate, sempre e comunque, in ossequio al principio di ragionevolezza», e al legislatore è consentito «introdurre regimi differenziati, circa il trattamento da riservare ai singoli consociati, soltanto in presenza di una "causa" normativa non palesemente irrazionale o, peggio, arbitraria» (sent. n. 432/2005).

Pertanto la Corte ritiene che sia manifestamente irragionevole subordinare l'attribuzione di una prestazione assistenziale quale l'indennità di accompagnamento - i cui presupposti sono la totale disabilità al lavoro, nonché l'incapacità alla deambulazione autonoma o al compimento da soli degli atti quotidiani della vita - al possesso di un titolo di legittimazione alla permanenza del soggiorno in Italia che richiede per il suo rilascio, tra l'altro, la titolarità di un reddito.

Tale irragionevolezza incide sul diritto alla salute «inteso anche come diritto ai rimedi possibili e, come nel caso, parziali, alle menomazioni prodotte da patologie di non lieve importanza»; ne consegue il contrasto con gli artt. 32 e 38 Cost., nonché, «tenuto conto che quello alla salute è diritto fondamentale della persona», con l'art. 2 Cost.

E' significativo rilevare che per la prima volta poi la Corte applica alla condizione giudica dello straniero le norme del diritto internazionale generale a cui l'ordinamento della Repubblica ha l'obbligo di adeguarsi automaticamente ai sensi dell'art. 10, comma 1 Cost. affermando che «tra le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute rientrano quelle che, nel garantire i diritti fondamentali della persona indipendentemente dall'appartenenza a determinate entità politiche, vietano discriminazioni nei confronti degli stranieri, legittimamente soggiornanti nel territorio dello Stato». Così legislatore può prevedere norme che regolino l'ingresso e la permanenza di extracomunitari in Italia e può subordinare l'erogazione di determinate prestazioni alla circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero al soggiorno nel territorio dello Stato ne dimostri il carattere non episodico e di non breve durata, peraltro, una volta «che il diritto a soggiornare [...] non sia in discussione, non si possono discriminare gli stranieri, stabilendo, nei loro confronti, particolari limitazioni per il godimento dei diritti fondamentali della persona, riconosciuti invece ai cittadini».

2) con la sent. n. 11/2009 la Corte dichiara costituzionalmente illegittimi l'art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 e l'art. 9, comma 1, del d. lgs. 25 luglio 1998, n. 286, come modificato dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 e poi sostituito dal d. lgs. 8 gennaio 2007, n. 3, nella parte in cui escludono che la pensione di inabilità prevista dalla legge 30 marzo 1971, n. 118 possa essere attribuita agli stranieri extracomunitari solo perché non risultano in possesso dei requisiti di reddito già stabiliti per la carta di soggiorno e ora previsti per il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo.

La Corte ribadisce quanto già affermato con riferimento alla indennità di accompagnamento per inabilità nella sentenza n. 306/2008, osservando l'intrinseca irragionevolezza del complesso normativo e la disparità di trattamento che esso determina tra cittadini e stranieri legalmente e non occasionalmente soggiornanti in Italia: tali rilievi valgono a maggior ragione per la pensione di inabilità perché, mentre l'indennità di accompagnamento è concessa per il solo fatto della minorazione, senza che le condizioni reddituali vengano in rilievo, la pensione è preclusa dalla titolarità di un reddito superiore ad una misura fissata dalla legge.

3) Era però prevedibile che nella prassi, anche per esigenze di contenimento della spesa pubblica, tali aspetti pratici importanti si sarebbero riproposti. Così con l'ord. n. 285/2009 la Corte restituisce gli atti al giudice a quo, al termine di un giudizio nel quale le interpretazioni discordi degli organi amministrativi circa la precedente giurisprudenza della Corte hanno avuto un notevole ruolo.

Il giudice a quo aveva sollevato, in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, nella parte in cui condiziona il diritto dello straniero legalmente soggiornante nel territorio nazionale alla fruizione dell'assegno sociale e delle altre provvidenze economiche che costituiscono diritti soggettivi in base alla legislazione vigente in materia di servizi sociali - nella specie, l'indennità di frequenza, prevista dalla legge n. 289/1990 e l'assegno di accompagnamento, previsto dall'art. 1 della legge n. 18/1980 - al requisito della titolarità della carta di soggiorno, e, quindi, alla legale presenza sul territorio dello Stato da almeno cinque anni.

La questione era stata sollevata prima della pronuncia della sentenza n. 306/2008 e giunge alla decisione dopo la pronuncia della sentenza n. 11/2009; la Corte lo ricorda, ma l'ordinanza consente indirettamente alla Corte precisare il contenuto di entrambe le pronunce e di precisarlo meglio e di fare ulteriori osservazioni, anche se alla fine restituisce gli atti al giudice a quo per un nuovo esame della rilevanza della questione di legittimità costituzionale.

In primo luogo la Corte prende atto che durante il giudizio di legittimità costituzionale, alla stregua di tali mutamenti subiti dal quadro normativo di riferimento a seguito delle pronunce della stessa Corte, l'INPS - resistente nel procedimento a quo - aveva sollecitato una declaratoria di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale relativa all'indennità di accompagnamento di cui all'art. 1 Legge n. 18/1980, proprio perché la stessa sarebbe stata già decisa dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 306/2008, sicché la Corte constata che l'INPS manifesta una posizione di sostanziale nolo contendere, circa il riconoscimento in favore dell'appellante dell'indennità di accompagnamento, il che assume uno specifico risalto agli effetti della rilevanza della questione di costituzionalità nel giudizio a quo, poiché la non contestazione del "nuovo" fondamento della domanda attrice, ineluttabilmente circoscrive l'area del devolutum al giudice del gravame.

In secondo luogo la Corte osserva che nell'ordinanza del giudice a quo i rilievi coinvolgono anche l'indennità di frequenza, perché secondo l'art. 3 della legge n. 289/1990 tale indennità «è incompatibile con qualsiasi forma di ricovero e non è concessa ai minori che hanno titolo o che già beneficiano dell'indennità di accompagnamento di cui [...] alla legge 11 febbraio 1980, n. 18», stabilendosi, altresì, che «resta salva la facoltà degli interessati di optare per il trattamento più favorevole».

In terzo luogo la Corte, nel restituire gli atti al giudice a quo per una nuova valutazione della rilevanza della questione, sembra suggerirgli una nuova interpretazione costituzionalmente conforme della disciplina concernente l'indennità di frequenza (in senso presumibilmente aperto all'accesso alla stessa degli stranieri extracomunitari regolarmente soggiornanti), poiché ricorda che il 14 giugno 2009 è entrata in vigore per l'Italia la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, siglata a New York il 13 dicembre 2006 e ratificata con la legge 3 marzo 2009, n. 18. La Corte afferma infatti che la pregnanza e specificità dei principî e delle disposizioni introdotti da tale Convenzione, indubbiamente si riflettono, quanto meno sul piano ermeneutico e di sistema, sulla specifica disciplina dettata in tema di indennità di frequenza, trattandosi di istituto coinvolgente i diritti di minori che, presentando - come nel caso di specie - «difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della [loro] età», risultano perciò stesso annoverabili tra i soggetti cui la Convenzione richiamata ha inteso assicurare una normativa di favore.

4) anche la sentenza n. 187/2010 dichiara incostituzionale l'art. 80, comma 19 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Legge finanziaria 2001), nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno (oggi permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo) il riconoscimento, agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, dell'assegno mensile di invalidità, previsto dall'articolo 13 della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili). La Corte anzitutto ritiene che si debba accertare se, alla luce della configurazione normativa e della funzione sociale che è chiamato a svolgere nel sistema, l'assegno di invalidità costituisca o meno un rimedio destinato a consentire il concreto soddisfacimento dei "bisogni primari" inerenti alla stessa sfera di tutela della persona umana, che è compito della Repubblica promuovere e salvaguardare; rimedio costituente un diritto fondamentale perché garanzia per la stessa sopravvivenza della persona. In proposito la sentenza ricorda la giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell'uomo che ha affermato come, «in uno Stato democratico moderno, molti individui, per tutta o parte della loro vita, non possono assicurare il loro sostentamento che grazie a delle prestazioni di sicurezza o di previdenza sociale». Sicché, «da parte di numerosi ordinamenti giuridici nazionali viene riconosciuto che tali individui sono bisognosi di una certa sicurezza e prevedono, dunque, il versamento automatico di prestazioni, a condizione che siano soddisfatti i presupposti stabiliti per il riconoscimento dei diritti in questione» (decisione sulla ricevibilità 6.7.2005, Staic ed altri contro Regno Unito). Pertanto qualora si tratti di provvidenza destinata a far fronte al "sostentamento" della persona, qualsiasi distinzione tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato, fondato su requisiti diversi dalle condizioni soggettive, finirebbe per risultare in contrasto con il principio sancito dall'art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, avuto riguardo all'interpretazione datane dalla Corte europea.

La Corte costituzionale giunge alla dichiarazione di illegittimità costituzionale dopo aver fatto anche una dettagliata ricostruzione della natura giuridica dell'assegno di invalidità, da cui si evince che l'assegno può essere riconosciuto soltanto in favore di soggetti invalidi civili, nei confronti dei quali sia riconosciuta una riduzione della capacità lavorativa di misura elevata; che la provvidenza stessa, in tanto può essere erogata, in quanto il soggetto invalido non presti alcuna attività lavorativa; che l'interessato versi, infine, nelle disagiate condizioni reddituali stabilite dall'art. 12 della legge n. 118/1971, per il riconoscimento della pensione di inabilità. Si tratta, dunque, all'evidenza, di una erogazione destinata non già ad integrare il minor reddito dipendente dalle condizioni soggettive, ma a fornire alla persona un minimo di "sostentamento", atto ad assicurarne la sopravvivenza; un istituto, dunque, che si iscrive nei limiti e per le finalità essenziali che la stessa Corte costituzionale - anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo - ha additato come parametro di ineludibile uguaglianza di trattamento tra cittadini e stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato.

V.4. L'accesso all'abitazione

L'attribuzione allo straniero del diritto sociale all'abitazione era già indirettamente ricavabile dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che aveva affermato che è "doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione" e che perciò qualificò come fondamentale tale diritto che costituisce un "connotato della forma costituzionale di Stato sociale voluto dalla Costituzione", il quale deve "contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l'immagine universale della dignità umana", tanto che questi sono "compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso" (sent. n. 404/1988).

Perciò proprio perché il diritto all'abitazione attiene alla dignità e alla vita di ogni persona l'esigenza di disporre di una casa per sé e per la propria famiglia riceve tutela dall'ordinamento giuridico anche allorché di essa sia titolare uno straniero od un apolide presente sul territorio dello Stato.

Tuttavia poiché lo straniero non ha un diritto soggettivo perfetto all'ingresso e al soggiorno sul territorio nazionale, salvo che si tratti dello straniero a cui l'art. 10, comma 3 Cost. riconosce il diritto d'asilo, costui è titolare di un diritto all'abitazione nel territorio della Repubblica soltanto nei casi e nei modi consentitigli dalla legge, il cui contenuto deve essere conforme alle norme e ai trattati internazionali (art. 10, comma 2 Cost.).

In proposito occorre ricordare i vincoli derivanti da alcune norme internazionali: anzitutto l'art. 11, comma 1 Patto int. dir. economici, sociali e culturali include l'alloggio adeguato tra gli elementi che compongono il diritto di ogni individuo ad un livello di vita adeguato per sé e per la propria famiglia, poi l'art. 6, lett. a) conv. O.I.L. n. 97 impone agli Stati di riconoscere ai lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti un trattamento non meno favorevole dei cittadini nell'accesso all'alloggio.

Inoltre la disponibilità di un alloggio adeguato riguarda non soltanto i diritti fondamentali del lavoratore regolarmente soggiornante, ma anche quelli dei suoi familiari conviventi o a carico e dunque indirettamente influisce sul diritto a vivere in famiglia degli stranieri garantito anche ai sensi dell'art. 8 Conv. eur. dir. uomo.

Perciò la disponibilità di un alloggio adeguato per sé e per la propria famiglia rientra non soltanto in quell'esistenza libera e dignitosa che in base all'art. 36 Cost. deve essere assicurata dalla retribuzione ai lavoratori e alle loro famiglie, ma rientra tra le condizioni che consentono alla famiglia di adempiere ai propri compiti e che dunque in base all'art. 31 Cost. deve essere agevolata dai pubblici poteri con misure economiche ed altre provvidenze.

In proposito circa l'accesso all'alloggio degli stranieri extracomunitari è cruciale la norma dell'art. 40, comma 6 del testo unico delle leggi sull'immigrazione emanato con d.lgs. n. 286/1998, come modificato dalla legge n. 189/2002, che consente l'accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica e alle forme di sostegno alle locazioni e all'accesso alla proprietà della prima casa di abitazione ai soli stranieri extracomunitari titolari di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo e di permesso di soggiorno della durata di almeno due anni che svolgano un'attività di lavoro subordinato o autonomo.

In ogni caso occorre ricordare che la legittimità costituzionale o meno della restrizione prevista dalla legge per l'accesso degli extracomunitari agli alloggi di edilizia residenziale pubblica incide sulla legislazione regionale.

Infatti, mentre in generale la disciplina della gestione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica e la individuazione dei criteri di assegnazione degli alloggi dei ceti meno abbienti rientrano nella potestà legislativa esclusiva delle Regioni (così ricorda da ultimo Corte cost. sent. n. 94/2007), la potestà legislativa cambia a proposito della disciplina degli alloggi che debbano essere assegnati a cittadini extracomunitari poiché lo Stato ha potestà legislativa esclusiva in materia di condizione giuridica del cittadino extracomunitario e di immigrazione (art. 117, comma 2, lett. a), b), Cost.), sicché le norme dell'art. 40, comma 6, T.U. fissano una sorta di standard minimo vincolante anche la legislazione regionale.

Restano comunque i limiti all'esercizio della potestà legislativa regionale derivanti dal principio di parità di trattamento nell'accesso agli alloggi pubblici previsti dalla Convenzione OIL n. 97/1952.

Al fine di aggirare il principio di parità di trattamento con i cittadini nazionali nell'accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica, previsto dal diritto pattizio internazionale e dal diritto comunitario, si sono progressivamente affermate negli ultimi anni normative regionali e delibere di enti locali miranti a posporre nelle graduatorie gli stranieri, facendo leva sul requisito del radicamento sul territorio locale anziché sul possesso della cittadinanza.

Così, ad esempio la Legge regionale della Regione Lombardia 8 febbraio 2005, n. 7 prevede che per la presentazione della richiesta per l'assegnazione di alloggi di e.r.p., i richiedenti devono avere la residenza o svolgere attività lavorativa in Regione Lombardia da almeno 5 anni per il periodo immediatamente precedente alla data di presentazione della domanda.

Tali normative suscitano perplessità sotto il profilo della loro compatibilità con il diritto comunitario, in cui il principio di parità di trattamento va inteso non solo come divieto di discriminazioni dirette, quando una persona protetta dal diritto comunitario è trattata meno favorevolmente di un'altra a causa della nazionalità (condizione di straniero), ma anche come divieto di discriminazioni indirette, quando cioè una disposizione, un criterio, una prassi apparentemente neutri possono mettere le persone di diversa nazionalità, protette dalle norme comunitarie, in una posizione di particolare e sproporzionato svantaggio rispetto ai cittadini dello Stato membro. Tale nozione di discriminazione indiretta è ricavabile tanto dalle due direttive anti-discriminazione (direttiva n. 2000/43/CE e direttiva n. 2000/78/CE) quanto dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e della Corte di giustizia.

In particolare nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea è consolidato il principio secondo il quale il criterio della residenza può fondare una discriminazione indiretta o dissimulata vietata dall'ordinamento europeo (norme del trattato europeo, direttive anti-discriminazione, Convenzione europea sui diritti dell'uomo e libertà fondamentali).

La Corte di giustizia ha infatti chiarito, con riferimento al principio di non-discriminazione tra cittadini comunitari previsto nel Trattato CE, che il requisito della residenza ai fini dell'accesso ad un beneficio può integrare una forma di illecita discriminazione "dissimulata" in quanto può essere più facilmente soddisfatto dai cittadini piuttosto che dai lavoratori comunitari, finendo dunque per privilegiare in misura sproporzionata i primi a danno dei secondi (ad es. Corte di giustizia delle Comunità europee sentenze Meints, 27.11.1997; Meussen, 8.06.1999; Commissione c. Lussemburgo, 20.06.2002).

Occorre ricordare una sentenza che ha condannato l'Italia per la disciplina delle agevolazioni tariffarie a vantaggio delle persone residenti per l'accesso ai Musei Comunali (Corte di giustizia dell'Unione europea sentenza 16 gennaio 2003 n. C-388/01, parr. 13 e 14): "...il principio di parità di trattamento..... vieta non soltanto le discriminazioni palesi basate sulla cittadinanza, ma anche qualsiasi forma di discriminazione dissimulata che, mediante il ricorso ad altri criteri distintivi, produca, in pratica, lo stesso risultato. Ciò avviene, in particolare, nel caso di una misura che preveda una distinzione basata sul criterio della residenza, in quanto quest'ultimo rischia di operare principalmente a danno dei cittadini di altri Stati membri, considerato che il più delle volte i non residenti sono cittadini di altri Stati membri". Inoltre, è pacificamente consolidato il principio che forme di discriminazione indiretta possono essere consentite dal diritto comunitario solo se giustificate da considerazioni oggettive indipendenti dalla nazionalità della persona in questione e qualora proporzionate agli obiettivi legittimamente perseguiti. Di conseguenza, prevedere una certa anzianità di soggiorno o di svolgimento di attività lavorativa sul territorio locale ai fini dell'accesso agli alloggi pubblici potrebbe avere la ragionevole e logica finalità di evitare che i medesimi vengano assegnati a soggetti che, non avendo ancora un legame sufficientemente stabile con il territorio, possano poi rinunciare alla loro utilizzazione, rendendoli inutilizzabili per altri soggetti aventi diritto e frustrandone quindi la funzione socio-assistenziale. D'altro canto estendere tale periodo di residenza o di attività lavorativa fino ad una durata addirittura quinquennale o decennale finisce per avere conseguenze sproporzionate vanificando l'accesso all'edilizia residenziale pubblica e quindi il godimento di un diritto all'alloggio proprio a coloro che, siano essi cittadini italiani o stranieri, trasferendosi per motivi di lavoro in un luogo diverso da quello di origine, si trovano in condizioni di maggiore difficoltà e disagio abitativo.

Perciò le norme regionali vincolanti l'accesso agli alloggi di e.r.p. ad un requisito di residenza o svolgimento di attività lavorativa a livello locale per un periodo pluriannuale, soprattutto se approvate con l'esplicito intento di ridurre il più possibile il numero dei beneficiari stranieri, potrebbero essere censurate dalla Corte di Giustizia europea, eventualmente adita a seguito di un ricorso nelle sedi giurisdizionali attraverso l'apposita procedura di rinvio pregiudiziale, con riferimento a quelle situazioni ove il principio di parità di trattamento ed il divieto di discriminazione sono protetti dal diritto comunitario (cittadini comunitari e loro famigliari, cittadini di paesi terzi titolari del permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti di cui alla Direttiva 2003/109/CE).

Invece la Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi sui rilievi di incostituzionalità della citata legislazione regionale della Lombardia, non ha ravvisato profili di discriminazione indiretta o dissimulata. Con l'ordinanza 21 febbraio 2008, n. 32 infatti, la Corte ha ritenuto manifestamente infondata la lamentata violazione dell'art. 3 Cost. Il requisito di residenza continuativa di cinque anni nel territorio regionale, ai fini dell'assegnazione degli alloggi pubblici, non è apparso irragionevole alla Corte, ponendosi a suo avviso in coerenza con le finalità che il legislatore intendeva perseguire, realizzando un equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco.

A tal fine la Corte richiama la sua precedente giurisprudenza secondo la quale il requisito della residenza continuativa, ai fini dell'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica risulta non irragionevole (Corte cost. sent. n. 432/2005) quando si pone in coerenza con le finalità che il legislatore intende perseguire (Corte cost. sent. n. 493/1990), soprattutto se tali finalità realizzino un equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco (Corte cost. ord. n. 393/2007).

L'ord. n. 32/2008 ha suscitato diverse critiche in dottrina [Corsi 2008; Corvaja 2008 e 2009; Biondi Dal Monte 2010].

Occorre infine ricordare che l'attuale formulazione dell'art. 40 comma 6 del T.U. appare incompatibile con la citata Convenzione OIL n. 97/1949 sui lavoratori migranti, che garantisce alla generalità dei lavoratori migranti, che si trovano legalmente sul territorio di uno Stato membro, senza discriminazioni di reddito, o basate sull'anzianità, o sul consolidamento del loro soggiorno, o altri requisiti, il principio di parità di opportunità e trattamento rispetto ai cittadini nazionali anche in materia di accesso agli alloggi pubblici.

La questione della legittimità costituzionale dell'art. 40 comma 6 del T.U. è stato posta dal TAR Lombardia, con l'ordinanza n. 23/2009 del 23 febbraio 2009 che ha ritenuto non manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalità concernente il requisito del possesso del permesso di soggiorno biennale previsto ai fini della fruizione da parte degli stranieri dei contributi per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione, di cui all'art. 11 della legge n. 431/1998, in quanto introdurrebbe un criterio irragionevole che si presta ad ingiuste disparità di trattamento contrarie al principio costituzionale di uguaglianza.

Il Tribunale amministrativo lombardo si ricollega, infatti, alla recente giurisprudenza costituzionale che ha stabilito che un requisito di stabile residenza può essere ragionevolmente richiesto al cittadino straniero per godere dei diritti sociali, ma solo con la finalità di dimostrare l'esistenza di un collegamento significativo con la comunità nazionale. Il criterio della durata almeno biennale del permesso di soggiorno non soddisferebbe in modo razionale e logico tale requisito, in quanto non tiene conto del periodo complessivo di permanenza dello straniero nel nostro paese e delle ragioni, spesso contingenti, che possono indurre gli uffici di polizia al rilascio dei permessi di soggiorno di durata annuale, anziché biennali. Il TAR ricorda che la durata del permesso di soggiorno è, di norma, collegata al tipo di contratto di lavoro: due anni in relazione ad un contratto di lavoro a tempo indeterminato, un anno se a tempo determinato. Potrebbe, quindi, ben succedere che uno straniero che abbia appena fatto ingresso in Italia, ottenendo un contratto di lavoro a tempo indeterminato, goda del permesso biennale, e quindi possa avere accesso al beneficio, mentre un altro, magari già residente in Italia da molti anni, e quindi con un più elevato grado di radicamento sociale e di collegamento con la comunità nazionale, non possa invece accedervi perché in possesso in quel periodo contingente di un contratto di lavoro a tempo determinato.

Tuttavia la Corte costituzionale con l'ord. n. 76/2010 dichiara inammissibile la questione perché non indica se vi siano soluzioni costituzionalmente obbligate e soprattutto perché omette di considerare, ai fini della rilevanza della questione, che prima dell'ordinanza di rimessione, era già entrato in vigore l'art. 11, comma 13, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, il quale stabilisce che ai fini del riparto del Fondo nazionale per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione, di cui all'articolo 11 della legge 9 dicembre 1998, n. 431, i requisiti minimi necessari per beneficiare dei contributi integrativi come definiti ai sensi del comma 4 del medesimo articolo devono prevedere per gli immigrati il possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione.

Il richiamo fatto dalla Corte a sopraggiunte nuove norme peraltro sembra aggravare l'illegittimità costituzionale.

Occorre infatti ricordare che con l'art. 11 della legge 9 dicembre 1998, n. 431, è stato istituito un Fondo nazionale per il sostegno alle abitazioni in locazione, costituito presso il Ministero dei Lavori Pubblici (oggi Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti), la cui dotazione è determinata annualmente dalla legge finanziaria e la cui finalità è la sua ripartizione ai Comuni al fine della successiva emanazione da parte di quest'ultimi di appositi bandi per la concessione ai conduttori di alloggi di prestazioni sociali a titolo di contribuiti integrativi per il pagamento dei canoni di locazione.

Condizioni per l'accesso a tali contributi sono la registrazione del contratto di locazione, il possesso di requisiti minimi di reddito annuo imponibile del nucleo familiare del richiedente pari ad un importo non superiore a due pensioni minime INPS rispetto al quale l'incidenza del canone di locazione risulti non inferiore al 14 per cento nelle regioni a statuto ordinario, ovvero non superiore a quello determinato dalle regioni e province autonome per l'assegnazione degli alloggi di e.r.p., rispetto al quale l'incidenza del canone di locazione risulti non inferiore al 24 per cento (D.M. 07.06.1999). La graduatoria da parte dei Comuni viene inoltre stilata sulla base della valutazione della situazione economica e patrimoniale del nucleo familiare attestata dalla certificazione della situazione economica equivalente (ISEE) prevista dal d.lgs. n. 109/1998.

A tali prestazioni sociali per il sostegno all'accesso alle abitazioni in locazione hanno avuto accesso anche i cittadini extracomunitari regolarmente soggiornanti, purché in possesso dei requisiti fissati dall'art. 40 comma 6 del T.U. delle leggi sull'immigrazione (titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo o di un permesso di soggiorno di durata almeno biennale e che esercitano attività lavorativa dopo la riforma prevista dalla legge n. 189/2002).

Il comma 13 dell'art. 11 della legge n. 133/2008, che ha convertito, con modificazioni, il decreto-legge n. 112/2008 (misure economico-finanziarie di stabilizzazione) prevede ora una discriminazione "diretta" nei confronti degli immigrati stranieri, disponendo che ai fini dell'accesso ai finanziamenti del Fondo nazionale per il sostegno alle abitazioni in locazione sia previsto per i soli stranieri extracomunitari il requisito del possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima regione. Tale discriminazione "diretta", con l'introduzione di un requisito di anzianità di residenza che è richiesto ai soli stranieri extracomunitari, appare palesemente in contrasto con il principio di parità di trattamento in materia di accesso all'alloggio di cui alle normative internazionali ed europee già precedentemente richiamate al par. 1, oltre che appare in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza e ragionevolezza richiamati anche dalla giurisprudenza costituzionale. Trattandosi di una prestazione di natura sociale o assistenziale avente natura di diritto soggettivo, la sua erogazione non soggiacente ad una valutazione individualizzata e discrezionale da parte dei comuni, l'introduzione della residenza di lunga durata quale criterio difforme di trattamento valevole solo per i cittadini di paesi terzi non appartenenti all'Unione europea, crea una palese violazione del principio di diritto comunitario di parità di trattamento in materia di prestazioni di assistenza sociale con riferimento a tutte quelle situazioni e categorie "protette" dal medesimo.

Anche la norma legislativa sopraggiunta richiamata da ultimo dalla Corte, cioè l'art. 13, comma 11 della legge n. 133/2008, è di dubbia legittimità costituzionale.

Preliminarmente quelle nuove norme dovrebbero essere interpretate e applicate in conformità alle norme comunitarie che invece espressamente prevedono la parità di trattamento di alcuni cittadini extracomunitari: a) familiari di cittadini dell'Unione Europea regolarmente soggiornanti (art. 24 direttiva 2004/38/CE, recepita in Italia con d.lgs. n. 30/2007; b) titolari di permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti (art. 11 direttiva 2003/109/CE, recepita in Italia con d.lgs. n. 3/2007); c) rifugiati e titolari della protezione sussidiaria (art. 28 direttiva 2004/83/CE, recepita in Italia con d.lgs. n. 251/2007); d) cittadini di paesi terzi provenienti da altro Stato membro dell'Unione europea (Regolamento CE n. 859/2003); e) lavoratori marocchini, algerini, tunisini e turchi e loro famigliari regolarmente soggiornanti in Italia (principio di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale contenuto negli Accordi di Associazione euro-mediterranei, e nelle regole applicative dell'Accordo di Associazione Ce- Turchia, applicabile in base alla giurisprudenza della CGE anche alle prestazioni sociali non contributive).

In ogni caso la normativa sull'accesso degli immigrati extracomunitaria al Fondo per il sostegno alle locazioni sembra contrastare anche con i principi di uguaglianza e ragionevolezza, poiché la giurisprudenza costituzionale (soprattutto la sent. n. 306/2008 in materia di assistenza sociale) ha stabilito infatti che un requisito di stabile residenza può essere ragionevolmente richiesto al cittadino straniero per godere dei diritti sociali, ma solo con la finalità di dimostrare l'esistenza di un collegamento significativo con la comunità nazionale.

Alla luce dell'orientamento della Corte Costituzionale il requisito del legame stabile e significativo dello straniero con la comunità nazionale potrebbe già ritenersi soddisfatto dal possesso di uno dei permessi di soggiorno che ne assicurano il carattere di "multifunzionalità" previsti nell'art. 6 comma 5 del T.U. sull'immigrazione emanato con d.lgs. n. 286/1998, eventualmente associato ad un ragionevole periodo minimo di permanenza sul territorio. In ogni caso la previsione per gli immigrati stranieri dell'ulteriore requisito della residenza storica decennale sul territorio nazionale ovvero quinquennale nella regione non è volta a garantire la legittima esigenza di evitare che tali prestazioni sociali siano disperse in quanto assegnate a persone senza un sufficiente legame con il territorio, ma appare una misura palesemente discriminatoria che vanifica la logica stessa dell'intervento assistenziale, quella cioè di agevolare l'integrazione sociale e l'accesso all'abitazione a condizioni inferiori a quelle di mercato alle categorie sociale meno abbienti e più bisognose.

VI. Il diritto d'asilo

VI.1. Oggetto e natura giuridica del diritto d'asilo

La Costituzione italiana tutela l'asilo territoriale (1): l'art. 10, comma 3Cost., prevede che "lo straniero al quale sia impedito l'effettivo esercizio delle libertà democrati­che garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge".

La dottrina e la recente giurisprudenza interpretano il diritto d'asilo previsto dall'art. 10, comma 3, Cost., quale diritto soggettivo perfetto dello straniero (e anche dell'apolide (2)), al quale nel suo Paese sia effettivamente impedito l'esercizio anche di una sola delle libertà garantite dalla Costituzione italiana, all'ingresso e al soggiorno nel territorio dello Stato, almeno al fine della presentazione della domanda di asilo alle autorità italiane, diritto immediatamente azionabile anche in mancanza delle leggi ordinarie che fissino alcune condizioni per il suo esercizio (3). Si tratta di un diritto soggettivo perfetto all'ingresso ed al soggiorno sul territorio della Repubblica, che costituisce il contenuto necessario del diritto di asilo (4).

Come ha chiaramente affermato la Corte di Cassazione: "il carattere precettivo e la conseguente immediata operatività della disposizione costituzionale sono da ricondurre al fatto che essa, seppure in una parte necessita di disposizioni legislative di attuazione, delinea con sufficiente chiarezza e precisione la fattispecie che fa sorgere in capo allo straniero il diritto di asilo, individuando nell'impedimento all'esercizio delle libertà democratiche la causa di giustificazione del diritto ed indicando l'effettività quale criterio di accertamento della situazione ipotizzata" (5). Perciò l'insieme degli stranieri titolari del diritto d'asilo previsto dalla Costituzione comprende non soltanto le persone perseguitate individualmente, cioè i rifugiati ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato (6), ma anche gli stranieri che fuggono dal proprio Paese per la necessità di salvare la propria vita, sicurezza o incolumità dal pericolo grave ed attuale derivante da situazioni di guerra, guerra civile, disordini gravi e generalizzati, ferma restando la facoltà per lo Stato di adottare nei casi di esodo di massa provvedimenti che fissino limiti all'ammissione degli stranieri nel territorio nazionale (7), in particolare un limite numerico complessivo degli stranieri ammissibili al fine di salvaguardare quegli interessi generali che trovano diretta protezione in principi previsti dalla stessa Costituzione (8).

La condizione giuridica dello straniero titolare del diritto d'asilo si configura come una deroga, più favorevole allo straniero, rispetto alla condizione giuridica ordinaria degli stranieri. Infatti lo straniero in generale è titolare di un mero interesse legittimo all'ingresso ed al soggiorno sul territorio dello Stato, salvo che nei casi in cui vi siano particolari accordi internazionali che prevedevano un diritto all'ingresso e al soggiorno (p.es. i Trattati dell'Unione europea), sicché la Corte Costituzionale ricorda che "lo straniero non ha di regola un diritto acquisito di ingresso e di soggiorno nello Stato e pertanto le relative libertà ben possono essere limitate a tutela di particolari interessi pubblici, quale quello attinente alla sicurezza intesa come ordinato vivere civile" (9). Invece lo straniero al quale nel suo Paese, al di là di ciò che dichiarano le norme scritte nelle rispettive leggi e Costituzioni, non sia effettivamente consentito di esercitare anche una sola delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione è titolare di un diritto soggettivo all'ingresso e al soggiorno nel territorio dello Stato (10).

VI.2. I presupposti oggettivi del diritto d'asilo: l'impedimento all'effettivo esercizio delle libertà democratiche

I presupposti oggettivi del diritto d'asilo consistono in una situazione oggettiva e soggettiva, consistente nel fatto che nel Paese dello straniero non gli sia garantito l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana.

E' comunque implicita in tale presupposto anche una valutazione soggettiva dello straniero della propria situazione personale, che lo porta a concludere che l'impedimento ad esercitare anche una sola delle libertà fondamentali garantite dalla Costituzione italiana sia così grave per la sua personale dimensione di vita da fargli decidere di lasciare il Paese in cui vive per tentare di esercitare quella libertà altrove ed in particolare nel territorio italiano (11).

L'impedimento è in sé una situazione oggettiva, che può essere l'effetto di fatti o atti aventi una natura assai diversa: può derivare da un'altra situazione oggettiva che di fatto incida sulla sfera esistenziale del richiedente asilo, anche senza che vi siano provvedimenti individualmente e concretamente persecutori (12), il che si verifica, ad esempio, in una situazione di disordini generalizzati o di conflitto o di guerra civile o di sospensione o di deroga dei diritti costituzionali disposta a seguito di provvedimenti generali che instaurino uno di quegli "stati di eccezione" previsti anche in talune costituzioni democratiche in periodi di emergenza, ovvero in una situazione di violazione grave e persistente di uno dei principi di libertà, democrazia, rispetto delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto (incluse discriminazioni o prassi o norme discriminatorie fondate sull'appartenenza della persona ad una determinata razza, etnia, religione, sesso, orientamento sessuale, e altre condizioni personali e sociali), e/o può derivare da atti omissivi o commissivi compiuti, in generale o nella sfera individuale del richiedente asilo, da parte dei pubblici poteri dello Stato o da parte di altri soggetti individuali o collettivi (bande armate, gruppi, organizzazioni, partiti) che operano nel territorio dello stesso Paese, in un contesto in cui i pubblici poteri abbiano perso il monopolio della minaccia e dell'uso della forza e di fatto non siano in grado di opporsi alle lesioni e ai diritti dei suoi cittadini.

Il riferimento all'"effettivo esercizio" comporta che per valutare l'impedimento che legittima l'accesso al diritto d'asilo conta la prassi che è stata in concreto applicata in modo individuale al richiedente asilo e non certo la disciplina normativa formale che nel Paese di provenienza sembra tutelare certi diritti (13). Ciò comporta l'esigenza che si faccia sempre una valutazione individuale del singolo caso, senza che ciò significhi una valutazione complessiva della situazione politica e normativa in atto nel Paese di origine.

Circa la nozione di "libertà democratiche" occorre ricordare che l'Assemblea costituente intendeva alludere a tutte le libertà fondamentali garantite nell'ordinamento costituzionale italiano, tra le quali sono da ritenersi incluse non soltanto la libertà personale (compresi il divieto di subire provvedimenti restrittivi della stessa al di fuori dei casi previsti dalla legge e di un controllo di un giudice imparziale in tempi brevissimi e i divieti di subire violenze fisiche o morali durante eventuali provvedimenti restrittivi legali e di essere sottoposti a periodi illimitati di carcerazione preventiva: art. 13 Cost.), la libertà di domicilio (inclusi il divieto di subire provvedimenti restrittivi della stessa al di fuori dei casi previsti dalla legge e di un controllo di un giudice imparziale in tempi brevissimi, art. 14 Cost.), la libertà e segretezza della corrispondenza (inclusi il divieto di subire provvedimenti restrittivi della stessa che non siano stati disposti da un giudice imparziale nei casi previsti dalla legge, art. 15 Cost.), la libertà di circolazione e soggiorno, di uscita e di ritorno nel proprio paese, senza alcuna restrizione illegale o per ragioni politiche (art. 16 Cost.), la libertà di riunione pacifica e senz'armi (art. 17 Cost.), la libertà di partecipare o costituire ad associazioni non segrete e che perseguano scopi non vietati ai singoli dalla legge penale (art. 18 Cost.), la libertà di religione, inclusa la libertà di propaganda religiosa, di cambiare confessione religiosa o di non professarne alcuna e di esercitare il culto in privato ed in pubblico (art. 19 Cost.), la libertà di manifestazione del pensiero con ogni mezzo di diffusione e la libertà di stampa (art. 21 Cost.), il diritto di non essere privato per ragioni politiche della capacità giuridica, della cittadinanza e del nome (art. 22), il diritto ad agire in giudizio per tutelare i propri diritti ed interessi e a difendersi in ogni stato e grado di giudizio (art. 24), i diritti di avere un giudice naturale precostituito per legge e di essere punito soltanto in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso (art. 25), il diritto alla difesa di fronte ad ogni grado di giudizio (artt. 24 e 111 Cost.), la libertà e segretezza del voto (art. 48 Cost.), il diritto a costituire e a partecipare a partiti politici che partecipino con metodo democratico a determinare la politica nazionale (art. 49 Cost.), il diritto di accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza con gli altri (art. 51 Cost.), ma anche il diritto alla vita, presupposto per l'esercizio di tutti gli altri diritti, tra cui vi è anche il divieto di subire pene che consistano in trattamenti inumani o la pena di morte (art. 27) e il diritto a ricevere cure gratuite in caso di indigenza e a non essere sottoposto a trattamenti sanitari obbligatori illegali o contrari al senso di umanità (art. 32), nonché i diritti della famiglia, inclusi i diritti dei coniugi ad un trattamento uguale prima, durante e dopo il matrimonio (art. 29) i diritti dei genitori, che ne siano capaci, a mantenere istruire ed educare i propri figli anche se nati fuori del matrimonio (art. 30), nonché le libertà economiche, tra le quali vi sono senz'altro la libertà di organizzazione sindacale (art. 39 Cost.), il diritto di sciopero (art. 40 Cost.) (14), ma anche la libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), il diritto alla proprietà privata e a non esserne espropriato se non nei modi legali, per motivi di pubblica utilità e previo equo indennizzo (art. 42), il diritto del lavoratore a ricevere una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del proprio lavoro e in ogni caso sufficiente a garantire a sé ed alla propria famiglia un'esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.), il diritto di essere ammesso alle scuole e di continuare a ricevere una istruzione (artt. 33 e 34).

Non sono invece configurabili quali impedimenti che legittimano l'asilo quelli che derivino dal semplice stato di disoccupazione nel Paese di provenienza (15), anche perché il diritto al lavoro previsto dall'art. 4 Cost. non soltanto non comporta il diritto al conseguimento di un'occupazione, ma è comunque ritenuto riservato al cittadino (16) o dal mancato godimento di quei diritti costituzionali di prestazione in materia sociale, la cui realizzazione è lasciata alla discrezionalità del legislatore che può implementarli in modo graduale anche sulla base delle disponibilità organizzative e finanziarie del momento (17).

Occorre poi ricordare che l'art. 54 Cost. prevede il dovere per i cittadini di rispettare la Costituzione e le leggi, sicché il diritto d'asilo può essere riconosciuto a coloro che abbiano compiuto atti contrari alla costituzione del proprio Paese e siano perseguiti nelle forme legali per aver violato norme fondamentali dell'ordinamento costituzionale soltanto se si tratti di un ordinamento non sostanzialmente democratico o comunque di un ordinamento che di fatto non rispetta i principi fondamentali di legalità, di irretroattività ed umanità delle pene, previsti dagli artt. 25 e 27 Cost. (18). Perciò l'asilo dovrebbe essere negato sia a coloro che siano perseguiti nelle forme legali per aver contribuito a sovvertire l'ordinamento costituzionale di uno Stato (19), a condizione che però si tratti di un ordinamento costituzionale nel quale risultano essere effettivamente tutelate le libertà democratiche (20), sia a coloro che, pur provenendo da Paesi in cui tali libertà non siano effettivamente garantite, vogliano godere dell'ospitalità non per il fatto di non aver potuto usufruire di tali libertà, ma per potersi sottrarre alle autorità che in modo legittimo li perseguono (con trattamenti umani e nel pieno rispetto del loro diritto di difendersi e di essere giudicati da un giudice imparziale) per aver compiuto delitti di criminalità comune (21).

Occorre infatti ricordare che l'art. 10, comma 4, Cost., vieta l'estradizione dello straniero per reati politici, esclusi comunque i delitti di genocidio (L. cost. 21 giugno 1967, n. 1).

Del resto lo stesso art. 14, comma 2 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo prevede che il diritto d'asilo non può essere invocato qualora l'individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.

VI.3. Le "condizioni" del diritto d'asilo stabilite dalla legge

La Costituzione prevede che la legge stabilisca le condizioni secondo le quali si esercita il diritto d'asilo e, trattandosi di norme in materia di condizione giuridica dello straniero, il contenuto di tale legge deve essere conforme alle norme ed ai trattati internazionali ai sensi dell'art. 10, comma 2, Cost.

Inoltre la Cassazione ha affermato che, il precetto costituzionale sul diritto d'asilo "e la normativa sui rifugiati politici non coincidono dal punto di vista soggettivo, perché la categoria dei rifugiati politici è meno ampia di quelli aventi diritto all'asilo, in quanto la citata Convenzione di Ginevra prevede quale fattore determinante per la individuazione del rifugiato, se non la persecuzione in concreto, un fondato timore di essere perseguitato, cioè un requisito che non è considerato necessario dall'art. 10, terzo comma, Cost. In secondo luogo tale Convenzione non prevede un vero e proprio diritto di asilo in favore dei rifugiati" (22). Peraltro la stessa Cassazione ricorda che "in mancanza di una legge di attuazione del precetto di cui all'art. 10, terzo comma, Cost. allo straniero il quale chiede il diritto di asilo null'altro viene garantito se non l'ingresso nello Stato, mentre il rifugiato politico, ove riconosciuto tale, viene a godere, in base alla Convenzione di Ginevra, di uno status di particolare favore".

La dottrina è oggi concorde nell'affermare che il rinvio alla legge non conferisce al legislatore la facoltà di circoscrivere o di limitare il diritto di asilo, bensì soltanto il potere di precisare le modalità procedimentali o i requisiti soggettivi del richiedente (23), nonché di stabilire le condizioni, i diritti e gli obblighi concernenti il soggiorno dell'asilante (24).

Come si è ricordato, dai lavori dell'Assemblea costituente (in particolare dall'intervento dell'on. Nobile) si ricava comunque che le "condizioni" a cui potrebbe essere sottoposto il diritto d'asilo potrebbero essere soltanto quantitative e non qualitative, sicché il legislatore potrebbe soltanto introdurre un limite numerico massimo di ingressi di stranieri che possano complessivamente godere dell'asilo (25), al fine di salvaguardare quegli interessi generali direttamente protetti dalla Costituzione (26).

In tale contesto appaiono costituzionalmente conformi quegli obblighi comunitari che impongono agli Stati membri la ripartizione dei carichi di domande di asilo tra i diversi Paesi in caso di esodi di massa o criteri per la determinazione del Paese competente ad esaminare le domande di asilo: lo Stato così limita la sua sovranità, ma ai sensi dell'art. 11 Cost. lo fa in condizioni di reciprocità con altri Stati democratici che assicurano sul loro territorio analoghe forme di asilo temporaneo o definitivo ai richiedenti asilo.

Sarebbe invece costituzionalmente illegittima qualsiasi legge che, anche in attuazione di norme internazionali o comunitarie, limitasse il diritto d'asilo soltanto agli stranieri cittadini di determinati Stati o indicasse un elenco di Stati "sicuri" in base al quale predeterminare che agli stranieri provenienti da quei Paesi sia precluso il riconoscimento del diritto d'asilo (27). Infatti una simile norma introdurrebbe un requisito rigido ed ancorato a parametri spaziali che violano requisiti essenziali del diritto d'asilo, cioè l'individualità dell'impedimento alle libertà democratiche, l'effettività dell'esercizio delle libertà democratiche, il parametro dell'effettivo impedimento fondato sulle limitazioni alle libertà garantite dalla Costituzione italiana.

Nel concetto di "condizioni stabilite dalla legge" rientra infine anche la disciplina delle cause di cessazione del diritto di asilo, configurabile ogniqualvolta venga meno - in riferimento al caso individuale considerato - il concreto ed attuale impedimento all'esercizio effettivo delle libertà democratiche costituzionalmente garantite, che aveva originariamente giustificato la concessione del beneficio (28).

In ogni caso la riserva di legge in materia di diritto d'asilo ha ulteriori significati analoghi a quelli delle altre riserve di legge.

In primo luogo essa, analogamente alla riserva di legge in materia di condizione giuridica degli stranieri prevista dall'art. 10, comma 2 Cost., comporta una garanzia posta a tutela dei diritti degli stranieri, nel senso che sottrae la materia alla regolamentazione dell'autorità amministrativa e la attribuisce al legislatore, a sua volta vincolato al rispetto delle norme internazionali e comunitarie; così la disciplina del diritto di ingresso e soggiorno in Italia di questi "stranieri che vivano in uno Stato estero autoritario" (29) è sottratta ad una decisione discrezionale del Governo e alle sue contingenti valutazioni connesse con eventuali interessi nazionali o con altre ragioni occasionali convenienze di carattere diplomatico, politico od economico concernenti le relazioni col Paese da cui lo straniero proviene.

In secondo luogo la riserva di legge riguarda un diritto di libertà, sottratto - come tutti i diritti fondamentali costituzionalmente garantiti, disciplinati appunto o da norme costituzionali o da leggi ordinarie - al potere discrezionale della pubblica amministrazione.

La riserva di legge contenuta nell'art. 10, comma 3 Cost. comporta che i modi di accertamento della sussistenza delle condizioni obiettive, cui è subordinato il godimento del diritto d'asilo nonché di tutti gli altri elementi (procedurali e non) suscettibili di ulteriore specificazione, incluse le condizioni di accoglienza, devono essere previsti da norme di rango legislativo, mentre eventuali norme regolamentari dovrebbero limitarsi a dare esecuzione a quanto previsto nella legge di attuazione. In tal senso però non può affermarsi che si tratti di riserva di legge assoluta, bensì di riserva di legge relativa.

VI.4. Asilo provvisorio e asilo definitivo

Occorre da ultimo precisare che, in base all'art. 10 c.3 Cost. presupposto perché sorga il diritto d'asilo in capo al richiedente è la sussistenza della situazione di effettivo impedimento all'esercizio delle libertà democratiche in cui si trova lo straniero nel Paese al quale appartiene o comunque risiede (30), e che invece non è necessario che tale situazione sia stata già accertata.

Dunque allo straniero che richiede l'asilo deve essere anzitutto consentito l'ingresso ed il soggiorno temporaneo nel territorio dello Stato (asilo provvisorio), ma dopo l'ingresso i pubblici poteri potranno verificare la sussistenza di tale situazione per garantire allo straniero un asilo a tempo indeterminato (31), nei modi previsti dalla legge.

Il diritto d'asilo deve cioè intendersi non soltanto come un diritto all'ingresso nel territorio dello Stato, ma anche e soprattutto come diritto di accedere all'eventuale procedura di esame della domanda di asilo (32), come conferma anche la recente giurisprudenza (33).

E' infatti intuitivo che è proprio la possibilità materiale di presentare e di far esaminare la propria domanda di asilo il cuore e il presupposto procedurale indispensabile per fruire del diritto d'asilo e non è un caso che sia proprio su tale aspetto che vi siano le più frequenti dispute e che si susseguano episodi in cui la previsione e l'applicazione delle norme che mirano a prevenire e a contrastare l'immigrazione irregolare degli stranieri finiscono per impedire l'accesso degli stranieri in situazione irregolare anche proprio alla domanda di asilo e alla procedura, cioè alla fine al diritto d'asilo.

Peraltro di per sé affinché una domanda di asilo possa essere presentata, esaminata e decisa non si esige una disciplina da parte della legge circa i tempi e i modi per la presentazione della domanda di asilo e per il riconoscimento del diritto d'asilo, anche perché occorre sempre ricordare che "la domanda di asilo ed il suo accoglimento sono, per la ratio stessa dell'istituto, atti compiuti in situazione di necessità e di urgenza, al fine di preservare altri beni giuridici, pur internazionalmente tutelati e posti, nella specie, in pericolo (quali la libertà personale e lo stesso diritto alla vita)" (34).

In tal senso il contenuto necessario del diritto d'asilo consiste anzitutto nel diritto di ingresso nel territorio della Repubblica, cioè nell'obbligo per le autorità preposte ai controlli preliminari all'ingresso degli stranieri, ma anche ai controlli delle frontiere di non respingere alla frontiera e di ammettere nel territorio nazionale lo straniero che chiede asilo, ancorché si tratti di persona che si trovi nelle vicinanze dei valichi di frontiera o nelle zone internazionali degli aeroporti, poiché - come ribadisce l'art. 2 del testo unico delle leggi sull'immigrazione (D. Lgs. n. 286/1998) - i diritti fondamentali sono assicurati anche allo straniero che si trovi in zona di frontiera.

Peraltro la presentazione della domanda di asilo potrebbe essere presentata alle autorità italiane sia fuori dal territorio della Repubblica, sia dentro il territorio italiano. Infatti il diritto di asilo nel territorio della Repubblica di per sé prescinde dalla preventiva presenza di chi lo richiede nel medesimo territorio, in quanto il riferimento a questo luogo, contenuto all'art. 10, co. 3, Cost., indica soltanto che nel territorio della Repubblica lo straniero potrà godere il (contenuto del) diritto di asilo, una volta che sia stato accertato che ne sia titolare, mentre la presenza sul territorio italiano del richiedente asilo non è un requisito ulteriore per l'accesso all'accertamento della sussistenza del diritto d'asilo, il cui presupposto è soltanto l'impedimento nel suo paese dell'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana (35).

Anche la giurisprudenza ordinaria ha riconosciuto in modo diretto ed immediato, anche in ragione del suo forte valore di precedente, il diritto di asilo costituzionale in capo a un individuo che non si trovava più nel territorio della Repubblica. Si tratta del noto caso Öcalan, in cui al leader curdo, allora già recluso in un carcere turco, è stato applicato l'art. 10, co. 3, Cost. sul presupposto fondamentale che "la presenza del richiedente il diritto di asilo non è condizione necessaria per il conseguimento del diritto stesso", in quanto "non è... richiesta nella previsione costituzionale che [lo] prevede e regolamenta nei suoi aspetti essenziali" (36). Tale affermazione ribadisce che non vi sono ostacoli giuridici alla possibilità di richiedere il diritto di asilo per via giudiziaria per quegli stranieri impediti nel loro paese dell'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ed in qualsiasi modo rientranti nella giurisdizione dell'Italia.

Peraltro la presentazione di una domanda di asilo presentata da chi si trovi fuori dal territorio italiano non potrebbe condurre al riconoscimento di una qualche forma di diritto d'asilo nei casi in cui lo Stato ai sensi dell'art. 11 Cost. abbia limitato la propria sovranità e perciò vi siano norme internazionali o comunitarie che prevedano criteri per la determinazione dello Stato competente ad esaminare le domande di protezione internazionale.

Il diritto di soggiorno si sostanzia poi in altri diritti fondamentali del richiedente asilo non appena arrivato sul territorio nazionale, ai quali devono inevitabilmente provvedere i pubblici poteri italiani:

1) soddisfare le primarie esigenze di accoglienza, trasporto, alloggio, vestiario, comunicazione telefonica, assistenza igienico-sanitaria dello straniero;

2) proteggere lo straniero da eventuali atti ostili provenienti da soggetti pubblici o privati del Paese di provenienza;

3) tutelare in modo specifico i minori non accompagnati (divieto di espulsione e di ogni forma di trattenimento);

4) garantire il mantenimento o il riacquisto dell'unità familiare dello straniero asilante mediante condizioni e forme semplificate ed agevolate rispetto a quelle previste per gli altri stranieri, al fine di proteggere in modo pieno il diritto d'asilo ed evitare ai familiari di provare eventuali disagi o di subire rappresaglie a causa della domanda di asilo presentata in Italia dal loro congiunto; prevedere misure specifiche di assistenza sociale e di integrazione, anche con riferimento al diritto-dovere all'istruzione, alla formazione professionale e all'accesso la lavoro (37).

In relazione all'esame della domanda di asilo sono meritevoli di protezione altre situazioni giuridiche in cui si trova lo straniero:

a) il diritto di essere informato di ogni adempimento previsto dalla legge ai fini dell'esame della sua domanda;

b) il diritto di ricevere informazioni utili ad una corretta e completa presentazione della domanda e alla esaustiva esposizione dei motivi a base della domanda stessa;

c) il diritto ad essere assistito da un interprete in ogni fase del procedimento e di ricevere gli atti in lingua comprensibile;

d) il diritto ad essere assistito da un difensore, da rappresentanti di organismi internazionali e di enti privati che tutelino i diritti dei rifugiati e i diritti fondamentali (38).

Poiché la condizione giuridica dell'asilante comporta un diritto soggettivo all'ingresso e al soggiorno, a tale straniero sono inapplicabili le norme che sanzionano l'ingresso o il soggiorno illegali dello straniero sul territorio dello Stato. In tal senso l'ingresso o il soggiorno irregolare sul territorio dello Stato dello straniero spesso è funzionale proprio all'esigenza di fruire del diritto d'asilo (si pensi a chi sia perseguitato o si trovi in un Paese sconvolto da un conflitto, il quale non possa munirsi di un valido documento di viaggio o di identificazione o di un visto di ingresso, magari perché i pubblici poteri glielo negano o non glielo rinnovano o gliel'hanno ritirato per impedirgli di espatriare o perché sia materialmente impedito di trovare dati nei registri o perché sia impedito di accedere a rappresentanze straniere). Così anche eventuali reati che sanzionino l'ingresso o il reingresso irregolare di straniero sul territorio nazionale devono comunque essere interpretati in modo conforme al diritto d'asilo costituzionalmente garantito. (39)

Tuttavia la legge dello Stato, che deve comunque vigilare sulle proprie frontiere e sul rispetto delle norme che regolano l'immigrazione straniera, potrebbe prevedere misure restrittive della libertà personale o della libertà di circolazione e soggiorno nei confronti dello straniero che abbia presentato domanda di asilo nella fase dell'esame della domanda al fine di prevenire elusioni delle norme sull'ingresso o di assicurare l'eventuale allontanamento dal territorio dello Stato dopo il rigetto della domanda, una volta siano stati esauriti tutti i ricorsi giurisdizionali consentiti.

E' pertanto ragionevole, ancorché non obbligatoria, l'eventuale previsione di ipotesi in cui il richiedente asilo abbia l'obbligo di essere accolto o trattenuto in appositi centri al fine di essere identificato o di attendere la decisione sulla domanda o sui ricorsi giurisdizionali eventualmente presentati contro decisioni di diniego.

VI.5. Il contenuto necessario del diritto d'asilo e le diverse "condizioni" stabilite dalla legge che disciplina il diritto d'asilo, anche in riferimento ai diversi tipi di impedimenti

Nel sistema costituzionale italiano il diritto d'asilo ha un contenuto necessario, cioè

1) il diritto dello straniero di chiedere asilo nel territorio italiano;

2) il diritto dello straniero di essere ammesso o di permanere sul territorio italiano, almeno anzitutto al fine di presentare e far esaminare la domanda di asilo e, in caso di diniego, fino all'esaurimento di ogni rimedio giurisdizionale contro di esso, anche se si tratti di straniero che non abbia o non abbia più i requisiti previsti in generale dalla legge per l'ingresso o per il soggiorno degli stranieri;

3) il diritto di soggiornare nel territorio della Repubblica esercitandovi quelle fondamentali libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana non strettamente inerenti allo status civitatis che invece erano impedite nel paese di origine (40);

4) il diritto di essere protetto dal rischio di subire eventuali atti ostili provenienti da soggetti pubblici o privati del paese di origine, il che comporta anche il divieto di essere in qualsiasi modo respinto o allontanato dal territorio italiano, incluso il divieto di estradizione per reati politici (art. 10, comma 4 Cost.);

5) il diritto dello straniero di soggiornare nel territorio della Repubblica fino a quando nello Stato di appartenenza perduri una qualche forma di impedimento ad esercitare anche una sola delle libertà democratiche garantite nella Costituzione italiana (essendo evidente che dall'art. 10, commi 3 e 4 Cost. si ricava che lo straniero ha o mantiene il suo diritto d'asilo anche se rispetto al momento in cui aveva chiesto o ottenuto asilo in Italia l'impedimento che lo riguarda nel suo Paese di origine cambia di modalità o di intensità ovvero se cambia il tipo di libertà democratica che gli è effettivamente impedita ovvero se nei suoi confronti è avanzata richiesta di estradizione per altro tipo di reato politico); di per sé dunque non può trattarsi di un soggiorno a tempo indeterminato, bensì di un soggiorno per un tempo massimo non preliminarmente definibile, perché è collegato con eventi futuri ed incerti che non dipendono né dallo straniero ospitato, né dallo Stato ospitante.

La Costituzione non esige però che il diritto d'asilo sia attuato secondo un unico modello di protezione dello straniero, né che per fruire di tale diritto lo straniero abbia sempre l'onere di presentare un'apposita domanda alle autorità italiane, le quali perciò ben potrebbero riconoscerglielo anche d'ufficio, né che vi debba essere un'unica legge che disciplina le condizioni del diritto d'asilo.

Anzi, poiché ogni norma legislativa deve essere sempre conforme alle norme internazionali e dell'Unione europea (artt. 10, comma 2, e 117, comma 1, Cost.), le leggi e gli atti aventi forza di legge che stabiliscono le condizioni del diritto d'asilo possono prevedere che il suo contenuto necessario sia assicurato in forme diverse, cioè mediante diversi tipi di status, ciascuno avente contenuti anche in parte diversi, e/o aggiuntivi rispetto a quel contenuto minimo necessario, e ciascuno riconosciuto in base a presupposti diversi, a seconda del tipo di impedimento all'effettivo esercizio delle libertà democratiche subìto dallo straniero nel suo paese, a seconda del tipo di libertà impedita, a seconda del tipo di obblighi internazionali e dell'Unione europea che da un determinato tipo di impedimento derivano allo Stato e a seconda delle diverse modalità di riconoscimento del diritto (disposto d'ufficio dalle autorità o previo accoglimento da parte loro di un'apposita richiesta da presentarsi da parte dell'interessato).

L'impedimento, infatti, è l'effetto di fatti o atti che possono essere assai diversi tra loro, tra i quali vi possono essere

a) persecuzioni individuali o timori fondati di persecuzioni per motivi politici, religiosi, etnici o sociali, il che può legittimare il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951;

b) i danni derivanti da procedimenti penali o condanne definitive per reati puniti con la pena di morte (vietate dall'art. 27 Cost. e dal Prot. n. 13 della CEDU) o per reati politici (per i quali comunque l'estradizione dello straniero è vietata dall'art. 10, comma 4 Cost.) o da torture o da pene o trattamenti inumani o degradanti (vietati dagli artt. 13, 25 e 27 Cost. e dall'art. 3 CEDU) o dai conflitti interni o internazionali (danni che possono legittimare il riconoscimento dello status di protezione sussidiaria nei casi previsti da norme UE);

c) altre situazioni di grave turbamento della vita collettiva, come quegli eventi bellici, politici o naturali che causano esodi di massa (situazioni che possono legittimare forme di protezione temporanea nei casi previsti da norme comunitarie e nazionali)

d) il pericolo di subire la pena di morte o di essere comunque processato o condannato per reati politici per i quali l'estradizione dello straniero è vietata dall'art. 10, comma 4 Cost., salvo che si tratti di delitti di genocidio.

V.6. Le tre forme di asilo: status di rifugiato, status di protezione sussidiaria, permesso di soggiorno per motivi umanitari. L'eventuale ed eccezionale protezione temporanea

Fino al 2008 il diritto d'asilo costituzionalmente garantito non è stato attuato in modo completo dal legislatore italiano. Infatti fino al 2008 era in vigore una normativa legislativa che con difficoltà consentiva allo straniero di ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951, che ha come fondamento la accertata persecuzione o il fondato timore di persecuzione individuale. Dall'altro lato la legislazione vigente in materia di stranieri consentiva soltanto in via residuale il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, derivante da situazioni diverse dalla persecuzione individuale che non consentono il ritorno in patria dello straniero.

In altre parole fino al 2008 è mancata un'efficace protezione per coloro che, pur non essendo perseguitati individualmente, provenissero da un paese nel quale fosse impedito in modo effettivo l'esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana. Ed infatti l'accoglienza di persone nei casi di fuga da guerre, guerre civili o altri eventi drammatici, è stata fino al 2008 regolata in modo assolutamente disorganico.

L'occasione per adottare una normativa in materia di asilo che fungesse anche da attuazione del diritto di asilo costituzionalmente garantito, è stata offerta dall'obbligo di attuare le direttive adottate in questa materia dall'Unione europea.

Grazie a tale attuazione oggi possiamo configurare il diritto di asilo come un grande insieme, nel quale vi è un sottoinsieme che è la protezione internazionale, a sua volta suddiviso in due ulteriori sottoinsiemi, cioè lo status di rifugiato e lo status di protezione sussidiaria, mentre nella "corona" al di fuori di tale sottoinsieme si possono collocare il grande sottoinsieme intersecante consistente nel permesso di soggiorno per motivi umanitari (rilasciabile sia a chi non possa ottenere la protezione internazionale, sia ad altri soggetti) e il sotto insieme della protezione temporanea (istituto peraltro eccezionale in caso di esodi di massa e lasciato alla discrezionalità dei Governi).

Perciò alla luce del d.lgs. n. 251/2007 e di talune norme del d.lgs. n. 25/2008 e del Testo unico d.lgs. n. 286/1998, si può quindi affermare il diritto d'asilo costituzionalmente garantito riceve piena attuazione secondo tre forme diverse e alternative: due di esse coincidono con i due status di protezione internazionale riconosciuti in tutti gli Stati membri della Unione europea (status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 e status di protezione sussidiaria) agli stranieri e agli apolidi che abbiano presentato un'apposita domanda di protezione internazionale, e la terza (il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari) è riconosciuta soltanto in Italia a chi non abbia tutti i requisiti positivi e negativi previsti per la protezione internazionale e anche a chi non abbia presentato una domanda di protezione. A tali forme se ne aggiunge una quarta, la protezione temporanea, che però è soltanto eventuale ed adottata con provvedimento generale emanato in via eccezionale dal Governo.

In tutte e quattro le ipotesi il diritto d'asilo comporta che l'asilante, a differenza degli altri stranieri extracomunitari, ha un diritto soggettivo all'ingresso sul territorio italiano quantomeno al fine di far esaminare la sua situazione dalle competenti autorità, come conferma anche l'art. 10, comma 4, del citato T.U. immigrazione che prevede l'inapplicabilità delle norme sul respingimento «nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l'asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato ovvero l'adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari».

Si può dunque così sintetizzare l'odierno scenario di attuazione del diritto d'asilo (41):

A) lo status di rifugiato è riconosciuto - dalla competente Commissione territoriale per la protezione internazionale o dalla sentenza del giudice ordinario che accoglie il ricorso contro la decisione negativa della stessa Commissione, - a stranieri extracomunitari o apolidi che abbiano presentato domanda di protezione internazionale e abbiano il ragionevole timore di essere perseguitati individualmente per uno dei motivi previsti dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati, accertato con i criteri previsti dal d.lgs. n. 251/2007 e sempre che non sussista una delle cause di cessazione o di revoca o di diniego o di esclusione ivi previste; lo status di rifugiato comporta il rilascio di un permesso di soggiorno per asilo della durata di 5 anni rinnovabile, dà accesso ad ogni forma di lavoro alle medesime condizioni dei cittadini italiani (anche nel pubblico impiego alle medesime condizioni previste per i cittadini dell'Unione europea), allo studio, ai servizi socio-assistenziali, consente il rilascio di un documento di viaggio di durata quinquennale e consente il ricongiungimento familiare a condizioni molto agevolate e senza che sia richiesto alcun requisito di reddito e di alloggio;

B) lo status di protezione sussidiaria è riconosciuto - dalla competente Commissione territoriale per la protezione internazionale o dalla sentenza del giudice ordinario che accoglie il ricorso contro la decisione negativa della stessa Commissione, - a stranieri extracomunitari o apolidi che abbiano presentato domanda di protezione internazionale e, pur non avendo i requisiti previsti per ottenere lo status di rifugiato, rischino di subire un danno grave in caso di rientro nel paese di origine a causa di condanne a morte, torture, pene o trattamenti inumani o degradanti ovvero delle conseguenze derivanti ai civili da un conflitto armato internazionale o interno, accertato con i criteri previsti dal d. lgs. n. 251/2007 e sempre che non sussista una delle cause di esclusione o di cessazione ivi previste; lo status di protezione sussidiaria comporta il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione sussidiaria, di durata triennale e rinnovabile previa verifica della persistenza della situazione nel paese di origine o provenienza, consente l'accesso ad ogni tipo di lavoro nel settore privato, allo studio e ai servizi socio-assistenziali, il ricongiungimento familiare con semplificazioni per la documentazione della parentela e il rilascio di un titolo di viaggio per stranieri, se il passaporto non può essere richiesto al Consolato del paese di origine;

C) il permesso di soggiorno per motivi umanitari è rilasciato dal questore allo straniero che non ha i requisiti previsti dalle norme internazionali e comunitarie per l'ingresso e il soggiorno in uno degli Stati contraenti, ma nei cui confronti un permesso di soggiorno non può comunque essere rifiutato o revocato perché ricorrono «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» (art. 5, comma 6 del Testo unico delle leggi sull'immigrazione approvato con d.lgs. n. 286/1998), il che costituisce un evidente richiamo agli obblighi costituzionali derivanti dal diritto d'asilo e dal divieto di estradizione per reati politici (art. 10, comma 3 e 4, Cost.) e agli obblighi internazionali derivanti dalle Convenzioni internazionali di tutela dei diritti fondamentali; perciò tale permesso è utilizzabile nei casi in cui l'art. 19, comma 1, dello stesso T.U. vieta provvedimenti di respingimento o di espulsione verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione (tale divieto è diretta attuazione del divieto di refoulement previsto dall'art. 33, comma 1 della Conv. di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati) o nei casi in cui lo straniero espellendo possa essere oggetto in quel paese di torture o pene o trattamenti inumani o degradanti vietati dall'art. 3 CEDU o nei casi in cui lo straniero abbia commesso un reato politico per il quale la richiesta di estradizione verso un altro Stato vietata dall'art. 10, comma 4, Cost. sia stata perciò negata dalla Corte d'appello.

Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è rilasciabile anche in mancanza di alcuni presupposti tipici di ogni altro titolo di soggiorno, il che conferma la sua evidente utilizzabilità per situazioni diversificate, come è quella dell'asilante che ha un diritto soggettivo alla permanenza nel territorio dello Stato, fermo restando che esso è rilasciabile anche in altre diverse ipotesi di tipo umanitario come quelle dei programmi di protezione sociale in favore delle vittime di sfruttamento o detenuti condannati per reati quando erano minori di età disposti ai sensi dell'art. 18 del citato T.U. Infatti in base all'art. 9, comma 6, del regolamento di attuazione dello stesso T.U., approvato con d.p.r. n. 394/1999, il permesso di soggiorno per motivi umanitari è rilasciabile in mancanza di un passaporto o di altro documento di identificazione e di documentazione che dimostri la disponibilità di fonti di sostentamento, di un alloggio e di mezzi per il rientro nel paese di origine, allo straniero che aveva in precedenza presentato una richiesta di asilo e a quello che è destinatario di misure di protezione temporanea disposte dal Presidente del Consiglio dei Ministri ai sensi dell'art. 20 T.U. (oltre che al destinatario di misure di protezione sociale disposte ai sensi del citato art. 18 T.U.).

Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è rilasciato per una durata non superiore alle necessità specificamente documentate per le quali è stato rilasciato (42) e consente di esercitare il lavoro subordinato per il periodo di validità dello stesso, previo inserimento nell'elenco anagrafico o, se il rapporto di lavoro è in corso, previa comunicazione del datore di lavoro alla Direzione provinciale del lavoro; consente anche l'esercizio di lavoro autonomo, previa acquisizione del titolo abilitativo o autorizzatorio eventualmente prescritto e sempre che sussistano gli altri requisiti o condizioni previste dalla normativa vigente per l'esercizio dell'attività lavorativa in forma autonoma, nonché l'esercizio di attività lavorativa in qualità di socio lavoratore di cooperative (artt. 11, comma 1, lett c ter), e 14, comma 1, lett. c) del citato regolamento di attuazione dello stesso T.U., come modificato dal regolamento approvato con d.p.r. n. 334/2004), è titolo per l'iscrizione obbligatoria al servizio sanitario nazionale (art. 34, comma 1, lett. b) del citato T.U.), consente l'accesso ai Centri di accoglienza e, se ha durata di almeno un anno, alle misure di assistenza sociale (artt. 40 e 41 T.U.), consente l'accesso ad ogni corso di formazione o di riqualificazione per lavoratori (art. 22, comma 15, T.U.) e ad ogni tipo di corso scolastico o di alfabetizzazione, e ai corsi universitari in condizioni di parità con gli studenti italiani (artt. 38 e 39, comma 5, T.U.). Tale permesso è rinnovabile finché dura la situazione di crisi nel paese di origine e non consente il ricongiungimento familiare, sicché la condizione dello straniero che ne è titolare può apparire più precaria rispetto al beneficiario di status di rifugiato o di protezione sussidiaria. Tuttavia occorre ricordare che la normativa vigente consente il consolidamento del soggiorno, perché se al momento del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari lo straniero che ne era titolare ha in corso un regolare rapporto di lavoro o una regolare attività di lavoro autonomo o ha i presupposti per ricongiungersi con altro familiare legalmente residente in Italia, il permesso stesso è convertibile rispettivamente in un permesso di soggiorno per lavoro subordinato, per lavoro autonomo o per motivi familiari (art. 14, comma 3 del citato regolamento di attuazione dello stesso T.U.), anche se in tal caso il rilascio di quei permessi potrà avvenire soltanto se lo straniero sia in grado di esibire un passaporto o un documento di identificazione.

Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è oggi rilasciabile in quattro distinte ipotesi:

a) allo straniero che abbia presentato domanda di protezione internazionale qualora la competente Commissione territoriale rigetti la domanda (non riconoscendogli perciò né lo status di rifugiato, né la lo status di protezione sussidiaria), ma trasmetta gli atti al questore perché ritiene che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario (art. 32, comma 3, d.lgs. n. 25/2008), il che può verificarsi anche allorché sussista una delle cause di cessazione o di diniego o di esclusione previste dal d.lgs. n. 251/2007, qualora a proposito del medesimo straniero sia tuttora in corso l'esame della domanda di estradizione verso un altro Stato (esclusi i casi di consegna a Corti penali internazionali per crimini internazionali) o vi sia una pronuncia della Corte d'appello che rigetta l'estradizione per reati politici o per violazione dei diritti della difesa o per rischi di torture o maltrattamenti o che nega l'esecuzione del mandato di arresto europeo per analoghi motivi oppure qualora lo straniero non possa comunque essere espulso o respinto perché nello Stato di eventuale invio sia in corso un conflitto interno o internazionale o possa subire una condanna a morte o la tortura o pene o trattamenti inumani o degradanti;

b) allo straniero nei cui confronti la Commissione nazionale per il diritto di asilo decide la revoca o la cessazione dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria, ma trasmette gli atti al questore perché ritiene che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario (art. 33, comma 3, d.lgs. n. 25/2008), il che fa alludere a circostanze analoghe a quelle indicate sub a);

c) allo straniero sprovvisto di titolo di soggiorno, ma che non possa essere comunque respinto od espulso in virtù del divieto previsto dall'art. 19, comma 1, del citato Testo unico; in tale ipotesi il rilascio del permesso avviene sempre previo parere della competente Commissione territoriale (art. 11, comma 1, lett. c ter) del regolamento di attuazione del medesimo T.U.) e salvo che possa disporsi l'allontanamento verso uno Stato che provvede ad accordare una protezione analoga contro le persecuzioni indicate nell'art. 19, comma 1 del citato T.U.(art. 28, comma 1, lett. d) del citato regolamento di attuazione);

d) allo straniero, anche sprovvisto di altro titolo di soggiorno, che produca al questore «documentazione riguardante i motivi della richiesta relativi ad oggettive e gravi situazioni personali che non consentono l'allontanamento dello straniero dal territorio nazionale» (art. 11, comma 1, lett. c ter) del citato regolamento di attuazione); tra quest'ultima documentazione si devono annoverare quali atti probanti ed esaustivi (senza ulteriori spazi di discrezionalità) - in virtù del riferimento previsto dal citato art. 5, comma 6, T.U. delle leggi sull'immigrazione agli obblighi derivanti alle norme costituzionali ed internazionali - le seguenti pronunce giudiziarie: (1) la pronuncia della Corte d'appello che rigetta una richiesta di estradizione per reati politici o per violazione dei diritti della difesa o per rischi di torture o maltrattamenti o (2) che per analoghi motivi rigetta la richiesta di esecuzione di un mandato di arresto europeo o (3) una pronuncia della Corte europea dei diritti umani che dichiari che l'eventuale allontanamento viola uno dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU o (4) una sentenza di un giudice che accolga il ricorso contro una decisione di una Commissione territoriale per la protezione internazionale o contro una decisione della Commissione nazionale per il diritto d'asilo perché nel disporre rispettivamente il rigetto della domanda di protezione internazionale o la revoca o la cessazione dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria abbia omesso in modo immotivato o irrazionale di trasmettere al questore gli atti pur sussistendo nel caso concreto gravi motivi umanitari o (5) una sentenza di un giudice che annulli il provvedimento del questore di rifiuto, di rilascio o di revoca di un permesso di soggiorno di uno straniero perché nella sua situazione ricorrono quei gravi motivi di carattere umanitario derivanti anche dagli obblighi internazionali o costituzionali dello Stato o (6) - seppur appaia oggi un rimedio residuale - una sentenza del giudice civile che sulla base di un'apposita azione civile promossa dall'interessato riconosca la sussistenza del generico diritto d'asilo costituzionalmente garantito.

Si noti che anche se l'art. 32, comma 3, D. Lgs. n. 25/2008 preveda una mera trasmissione degli atti dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale al questore e la qualificazione del successivo rilascio del permesso di soggiorno come "eventuale", la Corte di cassazione ha stabilito che la nuova disciplina "fa venir meno ogni margine di apprezzamento politico delle condizioni del paese di provenienza e lascia residuare al Questore nulla più che un compito di mera attuazione dei deliberati assunti sulla posizione dello straniero dalla Commissione stessa" (43). Infine, in un'altra ancor più recente decisione, il giudice di legittimità si è spinto ancora più avanti, escludendo espressamente, sulla base della comune riferibilità delle diverse forme di protezione politico-umanitaria all'art. 2 Cost., "che dette situazioni possano essere degradate a interessi legittimi per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, al quale può essere affidato solo l'accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione umanitaria, nell'esercizio di una mera discrezionalità tecnica, essendo il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate riservate al legislatore"; tale decisione specifica anche che i "seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano" menzionati dall'art. 5, comma 6, T.U. delle leggi sull'immigrazione, "de[vo]no essere identificati facendo riferimento alle fattispecie previste dalle convenzioni universali o regionali che autorizzano o impongono al nostro Paese di adottare misure di protezione a garanzia dei diritti umani fondamentali e che trovano espressione e garanzia anche nella Costituzione, non solo per il valore del riconoscimento dei diritti involabili dell'uomo in forza dell'art. 2 Cost., ma anche perché, al di là della coincidenza dei cataloghi di tali diritti, le diverse formule che li esprimono si integrano, completandosi reciprocamente nell'interpretazione" (44).

Come si è sopra accennato, oltre agli status di rifugiato di protezione sussidiaria e al permesso di soggiorno per motivi umanitari, l'istituto della protezione temporanea si configura quale quarto diverso tipo di attuazione del diritto d'asilo, anche se si tratta di misure previste in via residuale, eventuale ed eccezionale mediante un provvedimento generale da adottarsi secondo le decisioni discrezionali del Governo nell'ambito delle decisioni adottate dal Consiglio europeo. Infatti il Presidente del Consiglio dei Ministri ha la facoltà di emanare un proprio decreto che disponga misure di protezione temporanea per rilevanti esigenze umanitarie, in occasione di conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità verificatisi in Stati extracomunitari, ai sensi dell'art. 20 del T.U. delle leggi sull'immigrazione e secondo le procedure e le condizioni di soggiorno stabilite dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri nei limiti previsti dal d.lgs. 7 aprile 2003, n. 85 che attua la direttiva 2001/55/CE relativa alla concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati, dopo che sia stata adottata una decisione del Consiglio europeo presa ai sensi degli artt. 5 e 6 della stessa Direttiva che accerta l'esistenza di un afflusso massiccio di sfollati. Nella presente sede ci si deve limitare a ricordare alcune significative disposizioni previste dall'art. 2 d.lgs. n. 85/2003 secondo le quali la protezione temporanea è quella «procedura di carattere eccezionale che garantisce, nei casi di afflusso massiccio o di imminente afflusso massiccio di sfollati provenienti da paesi non appartenenti all'Unione europea che non possono rientrare nel loro paese d'origine, una tutela immediata e temporanea alle persone sfollate, in particolare qualora sussista il rischio che il sistema d'asilo non possa far fronte a tale afflusso» e sono destinatari di tale procedura gli sfollati, cioè gli stranieri non appartenenti all'Unione europea o gli apolidi «che hanno forzatamente abbandonato il loro paese o regione d'origine o che sono stati evacuati, in particolare in risposta all'appello di organizzazioni internazionali, ed il cui rimpatrio in condizioni sicure e stabili risulta momentaneamente impossibile in dipendenza della situazione nel paese stesso, anche nell'ambito d'applicazione dell'art. 1A della Convenzione di Ginevra, ed in particolare le persone fuggite da zone di conflitto armato o di violenza endemica ovvero le persone che siano soggette a rischio grave di violazioni sistematiche o generalizzate dei diritti umani o siano state vittime di siffatte violazioni».

Si ricordi infine che in base all'art. 7 d.lgs. n. 85/2003 l'ammissione alle misure di protezione temporanea non preclude la presentazione dell'istanza per il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra, anche se il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che dispone tali misure deve stabilire i tempi dell'esame delle domande per il riconoscimento dello status di rifugiato presentate da persone che beneficiano della protezione temporanea e può anche prevedere l'eventuale rinvio dell'esame e della decisione sull'istanza al termine della protezione temporanea.

VII - I diritti politici degli stranieri

I diritti politici degli stranieri presenti sul territorio dello Stato sono riconosciuti con maggiore difficoltà, perché si ritiene che i diritti politici siano strettamente connessi con la cittadinanza.

Così la stessa convenzione europea dei diritti dell'uomo prevede all'art. 16 che i diritti alla libertà di espressione, alla libertà di riunione, alla libertà di associazione e alla libertà sindacale non vietano allo Stato di imporre limiti all'attività politica degli stranieri.

In realtà gli artt. 3, 4, 5 della convenzione europea per la partecipazione dello straniero alla vita pubblica a livello locale, fatta a Strasburgo il 5 febbraio 1992 e ratificata e resa esecutiva dall'Italia (limitatamente ai capitoli A e B) con legge 8 marzo 1994, n. 203, garantiscono agli stranieri regolarmente soggiornanti la libertà di espressione, la libertà di riunione pacifica, la libertà di associazione (intesa sia come diritto a creare proprie associazioni, sia come diritto ad aderire alle associazioni già costituite), il diritto di partecipazione ad organi consultivi volti a rappresentare i residenti stranieri a livello locale e impongono ai pubblici poteri l'obbligo di adottare dispositivi per consentire agli stranieri residenti di esprimere pareri sui temi della vita politica che li riguardano.

Così leggi statali e regionali istituiscono numerose Consulte, in cui gli stranieri regolarmente soggiornanti partecipano a titolo consultivo alla vita politica a livello locale, e affidano agli statuti dei Comuni di prevedere forme di consultazione della popolazione (tra cui vi sono anche gli stranieri) e referendum consultivi (cfr. art. 8 del testo unico delle leggi sugli enti locali approvato con D. Lgs. 18 agosto 2000, n. 267).

L'elettorato attivo e passivo è consentito soltanto a livello comunale ai cittadini degli altri Stati membri dell'Unione europea legalmente residenti in Italia, mentre non spetta ai cittadini extracomunitari.

Il cittadino dell'Unione europea che risiede legalmente in Italia ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo e alle elezioni amministrative nello Stato membro in cui si risiede (art. 19 TCE). In attuazione di tale norma sono state emanate due direttive - la n. 93/109 del 6 dicembre 1993 per il Parlamento Europeo e la n. 94/80 del 19 dicembre 1994 per le elezioni comunali - che sono state attuate nell'ordinamento italiano, rispettivamente, con il D.L. n. 408/1994, convertito in L. n. 483/1994 e con il D. Lgs. n. 197/1996 che riconosce ai cittadini dell'UE residenti in Italia il diritto di esercitare il voto soltanto per l'elezione del Sindaco e del Consiglio Comunale e di essere eleggibili alla carica di consigliere comunale (restando esclusa la possibilità di candidarsi alla carica di Sindaco). Il D.L. n. 408/1994, come modificato dalla Legge n. 128/1998, prevede all'art. 2 la facoltà per i cittadini di uno Stato membro dell'Unione Europea, residenti in Italia, che intendano esercitare il diritto di voto alle elezioni del Parlamento Europeo, di presentare al Sindaco del Comune di residenza, entro il 90º giorno anteriore alla data fissata per la consultazione elettorale, domanda di iscrizione nell'apposita lista aggiunta istituita presso il Comune. L'iscrizione alla lista elettorale aggiunta per le elezioni europee consente di esercitare il diritto di voto per i rappresentanti dell'Italia all'elezione del Parlamento Europeo (in alternativa il cittadino comunitario ha diritto di chiedere al Consolato del proprio Paese di votare per i rappresentanti dello Stato di appartenenza). L'iscrizione alla lista aggiunta per le elezioni comunali consente di esercitare il diritto di voto per il Sindaco e per il membri del Consiglio Comunale. Nella domanda devono essere espressamente dichiarati la volontà di esercitare esclusivamente in Italia il diritto di voto, la cittadinanza, l'indirizzo nel Comune di residenza e nello Stato di origine, il possesso della capacità elettorale nello Stato di origine, l'assenza di un provvedimento giudiziario, penale o civile, a carico, che comporti per lo Stato di origine la perdita dell'elettorato attivo. I comunitari inclusi nell'apposita lista aggiunta, vi restano iscritti fino a quando non chiedano di essere cancellati o fino a che non siano cancellati d'ufficio. Disposizioni analoghe sono previste dal D. Lgs. n. 197/1996, per l'esercizio del diritto di voto alle elezioni comunali e circoscrizionali:anche in questo caso, infatti, il cittadino di uno Stato membro dell'Unione Europea deve presentare al Sindaco domanda di iscrizione nella lista elettorale aggiunta istituita presso il Comune.

Il cittadino extracomunitario regolarmente soggiornante in Italia non ha invece alcun diritto di voto, neppure a livello comunale (nulla impedisce al legislatore di introdurlo nell'ordinamento italiano, senza necessità di revisione costituzionale, essendo sufficiente che l'Italia decida con una legge di togliere la riserva che era stata posta dal Governo italiano al capitolo C della citata convenzione di Strasburgo del 1994, fermo restando che esso consente allo Stato di differire l'ammissione al voto fino ad un termine di soggiorno regolare ininterrotto non superiore a 5 anni).

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  • B. Nascimbene (a cura di), Diritto degli stranieri, CEDAM, Padova 2004.

Note

*. Professore associato di diritto costituzionale nell'Università degli studi di Milano-Bicocca.

1. Esposito, voce Asilo (diritto cost.), in Enc. dir., vol. III, Milano 1958, p. 222 ritiene che il diritto d'asilo previsto dall'art. 10 comma 3 Cost. si configuri propriamente come diritto di asilo interno o territoriale e afferma che l'asilo esterno o extraterritoriale potrebbe trovare fondamento nell'art. 2 Cost.

2. Circa l'accesso degli apolidi al diritto d'asilo, soprattutto nel caso di apolidia a seguito della perdita della cittadinanza per motivi politici vietata dall'art. 22 Cost. cfr., da ultimo, per tutti, Benvenuti, Il diritto d'asilo nell'ordinamento costituzionale italiano. Un'introduzione, cit., pp. 50-52.

3. Cfr. Esposito, voce Asilo (diritto cost.), cit., p. 222 e 224; Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1975-1976, II, pp. 1049 e 1156; Cassese, commento all'art. 10, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna- Roma, I, pp. 526, 531 ss., 534; Ziotti, Il diritto d'asilo nell'ordinamento italiano, Padova, 1988, pp. 168 e 173 ss.; Nascimbene, Lo straniero nel diritto italiano, Milano 1988, pp. 111 ss.; Bonetti, La condizione giuridica del cittadino extracomunitario, Rimini, 2^ ed. 1993, p. 377 ss.

4. Cfr. Ziotti, Il diritto d'asilo nell'ordinamento italiano, cit., p. 95 e Benvenuti, Il diritto d'asilo nell'ordinamento costituzionale italiano. Un'introduzione, cit., pp. 127 ss.

5. Così Cass. sez. un. civ. 12 dicembre 1996, n. 04674/97.

6. Così in dottrina Cassese, op. cit., p. 531 ss.; Conetti, voce Rifugiati, in Noviss. Dig. it., App., vol. VI, Torino 1986, p. 821 ss; Ziotti, op. cit., pp. 168 e 173 ss. In giurisprudenza cfr. Cass. sez. un. civ., sent. 12 dicembre 1996, n. 04674/97.

7. In tal senso si pronunciano Esposito, op. cit., p. 225; Barile, Diritti dell'uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1985, p. 35; Bernardi, voce Asilo politico, in Dig. disc. pubbl., vol. I, Torino 1987, p. 427 e Luciani, Cittadini e stranieri come titolari di diritti fondamentali: l'esperienza italiana, in Riv. critica dir. priv., 1992, p. 230.

8. Così D'Orazio, Condizione dello straniero e "società democratica" (sulle "ragioni" dello Stato), Padova 1994, p. 102 ss.

9. Così Corte cost. ord. 25 novembre - 10 dicembre 1987, n. 503.

10. Contra, ma con specifico riferimento ai soli rifugiati, Biscottini, voce Rifugiati, in Enc. dir., Milano 1989, vol. XL, p. 900, secondo il quale l'art. 10 c. 3 Cost. fonda solo un interesse legittimo, nel senso che "il rifugiato ha soltanto il diritto soggettivo di chiedere asilo, ma (...) questo è concesso dopo una valutazione discrezionale che ha per oggetto di stabilire se egli non possa costituire un pericolo per la sicurezza e l'opinione pubblica".

11. Cfr. Barile, Diritti dell'uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, p. 34.

12. Cfr. D'Orazio, Condizione dello straniero e "società democratica", Padova, 1994, p. 94.

13. "Quello che a noi preme di stabilire è se lo straniero può avere l'effettivo esercizio di questi diritti e non che questi diritti siano astrattamente incorporati nella Carta costituzionale del paese cui lo straniero appartiene" affermò l'on. P. Treves nella seduta antimeridiana dell'11 aprile 1947 dell'Assemblea costituente (in La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell'Assemblea costituente, Roma, 1976, vol. I, p. 794.

14. Il presidente della 1ª Sottocommissione dell'Assemblea costituente, on. Tupini, affermò che "nella dizione libertà garantite dalla Costituzione italiana sono comprese tutte le libertà da noi garantite, e quindi anche i diritti del lavoro e di libertà sindacale" (in Atti Ass. cost., p. 2724).

15. Così D'Orazio, Condizione dello straniero e "società democratica", cit., p. 108-109. Sul punto cfr. altresì, da ultimo, per tutti, Benvenuti, Il diritto d'asilo, cit., pp. 100-101.

16. Poiché il diritto costituzionale al lavoro consiste soprattutto in un obbligo di condotta posto a carico dei pubblici poteri che sono tenuti a perseguire una politica di pieno impiego (Così, per tutti, Daubler, I diritti dell'uomo e il mondo del lavoro, in Riv. giur. lav. 1989, I, p. 289) la non eguaglianza rispetto al diritto al lavoro è legittima in quanto tale discriminazione abbia come fine soltanto quello di proteggere o assicurare il diritto al lavoro garantito dalla Costituzione al cittadino (così Viscomi, Immigrati extracomunitari e lavoro subordinato. Tutele costituzionali, garanzie legali e regime contrattuale, Napoli 1991, p. 65. e Cannizzaro, L'assunzione di lavoratori stranieri: aspetti costituzionali, in I lavoratori stranieri in Italia. Problemi giuridici dell'assunzione, a cura di Gaja, Bologna 1984, p. 71-72). Su tale presupposto Corte cost. sent. 16 luglio 1970, n. 144, in Giur. cost, 1970, p. 1664-1665 (con nota critica di Cassese) ha affermato che lo straniero entra nel sistema di avviamento al lavoro predisposto, in conformità dell'art. 4 Cost., dalle leggi che prescrivono l'iscrizione nelle liste di collocamento e regolano l'assorbimento delle forze-lavoro non occupate soltanto "quando, avendo chiesto il visto consolare per l'ingresso nel nostro paese al fine di lavoro, ha ottenuto il relativo consenso, che può essergli concesso solo se non vi siano lavoratori nazionali idonei per il posto che chiede (condizione, quest'ultima, però, non richiesta per i cittadini degli Stati con cui esistano appositi accordi e trattati, come ad es. quello della CEE)".

17. Cfr. Benvenuti, Il diritto d'asilo, cit., p. 102.

18. Cfr. Esposito, op. cit., p. 223.

19. Così Esposito, op. cit., p. 226.

20. Cfr. Cassese, op. cit., p. 536.

21. In La Costituzione della Repubblica italiana, a cura di Falzone, Palermo, Cosentino, cit., p. 62 si ricorda che con l'aggettivo "democratiche", "più che una limitazione, si è voluto segnare una direttiva al legislatore, il quale dovrà riguardare il diritto d'asilo sub specie politica, non sub specie criminali", e che a parere dell'on. Tupini, presidente della 1^ sottocommissione dell'Assemblea Costituente l'aggiunta dell'aggettivo democratiche intendeva fugare la preoccupazione espressa con un emendamento dall'on. Patricolo che intendeva "escludere che i delinquenti comuni possano essere ricevuti in Italia e soggetti al diritto d'asilo".

22. Cass. sez. un. civ. sent. 12 dicembre 1996, n. 04674/97.

23. Così D'Orazio, Condizione dello straniero e "società democratica", cit., p. 102.

24. Barile, Diritti dell'uomo e libertà fondamentali, cit., p. 35.

25. Esposito, op. cit., p. 225 afferma che in caso di asilo collettivo o di massa il legislatore ben potrebbe fissare un numero massimo di stranieri che trovandosi nelle condizioni "previste dalla Costituzione possano materialmente trovarsi in Italia". Ammettono limiti all'asilo in massa Bernardi, op. cit., p. 427; Luciani, Cittadini e stranieri come titolari di diritti fondamentali: l'esperienza italiana, in Riv. critica dir. priv., 1992, p. 230; Bisi, Brevi note sul rapporto tra stato di necessità e diritti fondamentali dello straniero, in Jus, 1992, n. 1, p. 82.

26. Così D'Orazio, op. ult. cit., p. 103, che ritiene ragionevole invocare in tal caso la giurisprudenza costituzionale sul diritto di sciopero, tra cui Corte cost. sent. n. 123/1962.

27. Cfr. D'Orazio, Effettività dei diritti e condizione dello straniero, in Dir. e soc., 1973, p. 938; Rescigno, Il diritto d'asilo tra previsione costituzionale, spinta europea e "vuoto" normativo, in Pol. dir., 2004, p. 158.

28. In questo senso, D'Orazio, Lo straniero nella Costituzione italiana, op. cit., p. 72; Cassese, Commento all'art. 10, cit., p. 538; Esposito, cit., p. 225.

29. Cassese, op. cit., p. 533.

30. Così Esposito, p. 226; Cassese, op. cit., p. 536.

31. Cfr. Esposito, op. cit., p. 222; Cassese, op. cit., p. 537.

32. Così D'Orazio, op. ult. cit., p. 92.

33. Cass., sez. I, sent. n. 25028/2005 (in Dir. imm. citt., n. 1/2006, p. 101) afferma che il diritto d'asilo "deve intendersi non tanto come un diritto all'ingresso nel territorio dello Stato, quanto piuttosto, e anzitutto, come il diritto dello straniero di accedervi al fine di essere ammesso alla procedura di esame della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato politico. Il diritto di asilo non ha, cioè, contenuto legale diverso e più ampio del diritto a ottenere il rilascio di un permesso di soggiorno per la durata dell'istruttoria della pratica attinente il riconoscimento dello status di rifugiato. Trattasi, dunque, di un diritto finalizzato a consentire accertamenti successivi per un giudizio definitivo sull'identità dello status o qualifica di rifugiato".

34. Così D'Orazio, voce Asilo (diritto di) - II) Diritto costituzionale, in Enc. Giur., Roma, 1991, vol. III, p. 3.

35. Così, in particolare, Bettinelli, I diritti "essenziali" (inviolabili e universali) dell'uomo e le frontiere dell'ordinamento, in Libertà e giurisprudenza costituzionale, a cura di V. Angiolini, Torino, 1992, p. 38; Benvenuti, Il diritto di asilo nell'ordinamento costituzionale italiano, cit., pp. 127 ss.; in senso contrario, però, Esposito, Asilo (diritto di) - Diritto costituzionale, cit., p. 223; D'Orazio, Asilo (diritto di), cit., p. 2; Rescigno, Il diritto d'asilo tra previsione costituzionale, spinta europea e "vuoto" normativo, cit., p. 155.

36. Tribunale di Roma, sent. 1º ottobre 1999 (in Dir., imm. citt., 1999, fasc. III, pp. 101 ss., con Scheda della Redazione).

37. Così, per tutti, Benvenuti, Il diritto d'asilo nell'ordinamento costituzionale italiano. Un'introduzione, cit., pp. 197-199.

38. Cfr. Benvenuti, Il diritto d'asilo nell'ordinamento costituzionale italiano. Un'introduzione, cit., pp. 206-208.

39. Sull'interpretazione conforme al diritto d'asilo del reato di ingresso o permanenza irregolare dello straniero, previsto dall'art. 10-bis del testo unico delle leggi sull'immigrazione, emanato con d. lgs. n. 286/1998, introdotto dalla legge n. 94/2009 si rinvia a Bonetti, La proroga del trattenimento e i reati di ingresso o permanenza irregolare nel sistema del diritto degli stranieri: profili costituzionali e rapporti con la Direttiva comunitaria sui rimpatri, in Dir. imm. citt., n. 4/2009, pp. 100-104.

40. Cfr. Corte cost. sent. 21.3.1968, n. 11.

41. Per ulteriori approfondimenti si rinvia a Bonetti, Il diritto d'asilo in Italia dopo l'attuazione della direttiva comunitaria sul riconoscimento delle qualifiche e sugli status di rifugiato e di protezione sussidiaria, in Dir. imm. citt., n. 1/2008, pp. 13-53.

42. Così prescrive in generale l'art. 5, co. 3, lett. e) del citato T.U., ma nella prassi amministrativa si va dai 6 mesi ai due anni.

43. Cass., sez. un., ord. n. 11535/2009, in Dir. imm. Citt., n. 3/2009, p. 143; sul punto, si rinvia, per ulteriori osservazioni, anche a Consoli, La giurisdizione per accertare sussistenza e rilevanza dei motivi umanitari per il rilascio del titolo di soggiorno, in Dir. imm. Citt., n. 3/2009, pp. 115 ss.; Raiola, Al giudice ordinario il diniego del permesso di soggiorno per motivi umanitari, in Il corriere del merito, 2009, pp. 930-931.

44. Cass., sez. un., ord. n. 19393/2009; in tale decisione, inoltre, si specifica utilmente che i "seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano" di cui parla l'art. 5, co. 6, del t.u. imm. cond. stran., "de[vo]no essere identificati facendo riferimento alle fattispecie previste dalle convenzioni universali o regionali che autorizzano o impongono al nostro Paese di adottare misure di protezione a garanzia dei diritti umani fondamentali e che trovano espressione e garanzia anche nella Costituzione, non solo per il valore del riconoscimento dei diritti involabili dell'uomo in forza dell'art. 2 Cost., ma anche perché, al di à della coincidenza dei cataloghi di tali diritti, le diverse formule che li esprimono si integrano, completandosi reciprocamente nell'interpretazione".